Il bel paese (1876)/Serata III. - Da Agordo ad Udine

Serata III. - Da Agordo ad Udine

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Serata III. - Da Agordo ad Udine
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SERATA III


Da Agordo ad Udine.

L’alto Cordévole, 1. — Il lago d’Àlleghe, 2. — Scoscendimento del Monte Spitz, 3. — Un naufragio imminente, 4. — La scienza a tempo, 5. — Caprile e i suoi ospiti, 6. — Valle Fiorentina, 7. — I melafiri globulari, 8. - Dall’Agordino al Cadore, 9. — Dal Cadore alla Carnia, 10.


1. Eccomi il giovedì seguente al solito convegno. Il tema era obbligato, e l’uditorio che se ne era invaghito nella precedente conversazione più di quanto mi sarei aspettato, non mi lasciò tempo di perdermi in esordî, sicchè potei ripigliare la narrazione, come l’intera settimana non avesse acquistato che il valore d’un punto fermo.

«Gli alpinisti sono radunati di buon mattino sulla gran piazza di Agordo. Una gran fila di calessi e di carri li attende, per condurli sino al fondo della valle del Cordévole. Un carro più capace è destinato ad accogliere la banda paesana che fa echeggiare i dirupi di liete armonie. Tutti del resto trovano un posto, e prendo io pure il mio, a fianco del mio giovane amico professor Taramelli che, già famigliare a quelle Alpi, mi servirà di scorta a rilevare le interessanti specialità geologiche, che si offrono lungo il cammino. Il corno squilla a raccolta per l’ultima volta; schioccan le fruste; i cavalli contraggono le cosce muscolose, e pontano co’ piè di dietro; rumoreggia il suolo sotto le pesanti ruote, ed ecco la carovana in marcia.

» Tutto prometteva una bella giornata, e certe nubi che ci avevano pur regalato un po’ di pioggia la sera precedente, si erano quasi dissipate del tutto. La corona delle montagne si projettava sul puro zaffiro del cielo. Che incanto! che benessere! Come si [p. 39 modifica]sentono piacevolmente gonfiarsi i polmoni da quell’aria fresca, tutta pura! Una giornata nelle Alpi.... quante ne vale delle giornate che passano, senza lasciare una impressione, una rimembranza, in mezzo all’uggia, alla monotonia della città!... Ma via; non vo’ poi stancarvi con ripetere il panegirico e la descrizione delle bellezze alpine. Contemplate nella loro realtà, non saziano mai; ma descritte.... è un’altra cosa.

» Non potemmo tuttavia oltrepassare Listolade senza arrestarci un minuto, per gettare un’occhiata entro la valle della Comparsa, che si apre sulla sinistra del Cordévole. Quasi una tela di ignude rupi chiude lo sfondo della valle. Vedeste mai una montagna più bella e più orrida? È la Civita1 vista da mezzodì più simile a un’immensa muraglia diroccata che ad una montagna.

» Avanti, avanti!... Il Cordévole, di cui rimontiamo la valle, tenendoci sempre sulla proda del fiume ed elevandoci lentamente da mezzodì a settentrione o piuttosto a nord-ovest, d’un tratto, quasi respinto dal suo confluente, il Biois, si ripiega verso nord-est. La gola si fa sempre più stretta; l’occhio cerca, in fondo, il lago di Álleghe, meta sospirata del nostro viaggio. Lo sospirano gli occhi, lo sospirano le gambe; poichè eravamo a piedi. Su quella via ripida e sassosa, ma per compenso ricca di rocce e di fossili meritevoli di studio, dopo un po’ di corsa a sbalzi in carrozza, interrotta ogni momento da fermate e fermatelle, potete imaginarvi se non ci tornasse conto di lasciare il calesse, ove ci pareva di seder sui chiodi, e di andarcene colle gambe. Ma il sole si è fatto alto, il petto è ansante; il viso molle di sudore.... e il lago non compare. Anzi la valle, in luogo di aprirsi, si chiude, e l’occhio si arresta attonito sopra una barriera di rupi, che, a guisa di argine ciclopico, sbarra la valle riunendo le due opposte montagne. Che orribile caos! Direbbesi un torrente di rupi, che, precipitando vorticoso dalle ignude pendici che fiancheggiano il Cordévole a destra, incrociata furiosamente la valle, rimonti, spumeggiando, i pendii, ugualmente ignudi, che si rizzano sulla sinistra. Se la similitudine vi pare troppo ardita, scartatela, che non l’avrò a male. Ma vi protesto che la mi si presentò da sè, quando fui dinanzi a quella spaventosa rovina. Rupi sopra rupi, non altro che rupi accatastate con incredibile disordine, fuori d’ogni apparenza d’equilibrio possibile, come se l’intero edificio di una montagna rovinasse in [p. 40 modifica]quell’istante, furiosamente capovolto da un terremoto. Vi ricordate quei versi di Dante?... che gusto a prenderne un momento a prestanza la penna divina, proprio quando la nostra ci si arresta sospesa fra le dita, come la lingua tra le fauci di un muto:

Qual è quella ruina, che nel fianco
     Di quà da Trento l’Adice percosse,
     O per tremoto, o per sostegno manco;
Che da cima del monte, onde si mosse
     Al piano, è si la roccia discoscesa,
     Ch’alcuna via darebbe a chi su fosse;
Cotal di quel burrato era la scesa2.

» Ma su quel cumulo di massi avevano trovato modo di abbarbicarsi gli abeti, che uscivano, quasi di straforo, tra rupe e rupe, e, radi dapprima, si facevano più fitti verso il fondo della valle finchè una vera foresta copriva l’immensa lavina di cupe ombre, da cui spiccava qualche bianca casina, posta come in bilico sui massi neri e minacciosi. Il torrente, spinto contro l’opposta montagna, usciva dal labirinto di quella secca quasi studiando il passo tra rupe e rupe.

2. » In quella che, rasentata la frana, valichiamo il torrente, portandoci dalla destra sulla sinistra, ecco un vasto bacino, ecco il lago d’Àlleghe, disteso a modo di limpido specchio, entro una cornice di ridente verzura, da cui spicca una fantastica corona di ignude montagne, che sostengono una vôlta di purissimo azzurro. Che delizioso passaggio! come sorride, di lontano, specchiandosi nel limpido lago, il vago paesello d’Àlleghe, colle sue pittoresche casipole, col suo campanile, acuto come il ferro d’una lancia! Vedeste voi mai uno di quei tanti laghetti, che si scoprono d’improvviso negli alpini recessi! qualcuna di quelle gemme, incastonate nel verde degli abeti, fra le rupi silenziose e severe? Che senso di calma, di soave mestizia, spirava da quelle acque così tranquille, così limpide, così trasparenti, benchè imbrunite dal riflesso di un cielo dell’azzurro più carico? Ma il lago di Àlleghe non era in quel momento atteggiato a mestizia, e sembrava rispondere con lieto sorriso alle voci di esultanza di ospiti attesi da lungo tempo.

» Io giunsi forse l’ultimo alla sua riva, e vi trovai già raccolti gli alpinisti, che s’erano prima sbrancati, a larghi intervalli, [p. 41 modifica]lungo la via. Ci attendeva una flottiglia di sei barchette, allestita e pavesata a festa, con gentile pensiero, da quei di Caprile. Que’ rozzi schifi non erano tali davvero da fare a fidanza colla tempesta; ma su quello stagno così tranquillo, e’ sarebbe parso di poter navigare in grembo ad una foglia. Gli alpinisti vi si distribuirono alla meglio; ma siccome non erano punto da paragonarsi alle foglie che si levan d’autunno, come le anime che Dante vedeva gittarsi dal lido nella barca di Caronte3, così vi so dir io se le sponde di quelle barche si facessero basse sotto l’insolito pondo. Ma ormai, tutti hanno trovato il loro posto; i rematori pontano coi remi contra la riva; le barche si staccano, ed ecco il Club alpino galleggiante sulle onde. La flotta è preceduta da una barca, in cui la banda, dando fiato ai clarini, alle trombe, ai tromboni, fa risonare il caro concerto della fanfara reale in quell’estremo recesso delle Alpi, là, sui confini una volta così gelosi dell’Austriaco. Gli echi ridesti si ripetono l’un l’altro le festose note; tutto risuona, tutto ride, tutto tripudia.... Cent’anni or sono non era così.

» Cent’anni or sono ben altro suono ridestava gli echi atterriti delle montagne. Gridi di spavento, urli di disperazione, gemiti di morenti, squallore di morte, desolazione e rovina, ecco lo spettacolo che presentava, cent’anni or sono, quella pacifica valle! Seduto nella mia barchetta, colle braccia conserte, in mezzo ai suoni festosi, ai lieti cicalecci, fui assalito un momento da cupa tristezza. Era una pura, fortuita coincidenza; ma mi sembrava un delitto celebrare in tal modo il centenario di quell’orrenda catastrofe.

3. » Cent’anni or sono il lago d’Àlleghe non esisteva. Sul piano, che or si distende a quasi cinquanta metri di profondità sotto il pelo delle acque, errava serpeggiando il Cordévole, sorgevano abituri e villaggi, si distendeva un tappeto di erbe smaltato di fiori, e il montanaro, seduto al rezzo di una pianta, si vedeva d’intorno pascolar tranquillo il bestiame....

» Era la notte dell’11 febbrajo 1771. D’un tratto un rombo, crescente a guisa di tuono prolungato, rimbomba nella valle. Gli abitanti di Àlleghe e di Caprile si precipitano atterriti dai loro [p. 42 modifica]abituri; guardano, ascoltano.... urli di terrore, di disperazione risuonano giù in fondo alla valle; ma tutto ricopre il bujo della notte. Che notte fu quella! Quale orrenda vista rivelarono ai loro sguardi i primi albori! Là in fondo, a occidente, la montagna, alle cui falde erano quà e là diversi villaggi, appariva orribilmente lacerata; una valanga di rupi, buttandosi giù dal fianco dello Spitz, si era gettata, quasi diga colossale sorta per incanto, attraverso alla valle, e come sitibonda di maggior rovina, rimontava il fianco dell’opposta montagna. Il Cordévole, arrestato nel suo cammino da quell’argine improvviso, lo urtava spumeggiando, rifluiva su per la valle e gonfiava, gonfiava, minacciando di tutto inghiottire.... Che cuore, poveri montanari! che cuore fu il loro, quando videro tanto sterminio! che ansia, che angoscia, che disperazione quando là, dove sorgevano quei gruppi di case, più non videro che una catasta di rupi! Ahi! forse i loro occhi s’affissavano là, cercando il padre, la madre, il fratello, la sorella, l’amico!

» Lo scoscendimento di Àlleghe è al certo uno dei più spaventevoli fra i mille, di cui trovate le traccie paurose nella regione delle Alpi. Forse quello a cui Dante allude ne’ versi che abbiamo citati, e che sembra accaduto a suoi tempi, fu assai più considerevole, a giudicarne da quanto ne rimane ancora, dopo parecchi secoli4. Questo ebbe forse le più deplorevoli conseguenze, per causa della formazione del lago. Guardandomi indietro dalla mia barca, vedeva di fronte il monte Spitz5, bagnato al piede dalla estremità occidentale del lago di Àlleghe. Una vasta porzione più lumeggiata, che fa una sella sul dorso della montagna, mostra colla sua tinta più chiara una superficie di spezzatura più fresca, lasciata dalla massa enorme di roccia che se ne staccò. Il monte, è composto di strati, sovrapposti l’uno all’altro, a piano fortemente inclinato. La roccia è schistosa, cioè di tessitura fogliacea. Sotto l’azione dell’atmosfera, specialmente del gelo e disgelo, facilmente si screpola, e si sfalda in massi di varia grandezza. Le acque, filtrando, tolgono ai pezzi staccati ogni aderenza colla roccia sottoposta, e preparano, con lento, occulto lavorio, quelle catastrofi, [p. 43 modifica]che funestano pur troppo sovente i paesi delle Alpi. Si vede chiaro come un gran pezzo di montagna, diviso in una moltitudine di massi, sdrucciolò sul piano inclinato degli strati sottoposti, e, trasformato in frana smisurata, venne a fermarsi sul fondo della valle, riempiendo colla sua lavina tutto lo spazio tra le montagne che sorgono sulla destra, e quelle che si elevano sulla sinistra del Cordévole. È questa lavina che io vi descrissi come una catasta di rupi che si presenta a valle, prima di giungere al lago. Quivi è difatto ancora così; ma a monte, cioè verso il lago, essa è coperta d’una folta foresta di abeti, che ha un secolo di cresciuta. Guardando dal lago la si vede scendere dal fianco della montagna, sotto la plaga denudata dallo scoscendimento, e sorgere, a guisa di verde barriera, tra il lago che vi comincia, e la valle che si perde all’ingiù.

» Non ho potuto raccogliere che scarsi particolari di quel disastro; ma quei pochi li credo precisi. Un primo scoscendimento avvenne, come dissi, la notte dell’11 febbrajo. Un piccolo gruppo di case, esistente al piede del monte Spitz, fu sepolto dalla frana. Questa, sbarrando la valle, cagionò la formazione del lago. Nel maggio, quando quei poveri montanari aveano appena cominciato a riaversi dal terrore e dalle angosce, staccossi dal monte una seconda frana. Il lago, da essa percosso, levossi in così formidabile ondata, che sorpassò il paese di Àlleghe, il quale sorge sopra un erboso pendio, elevato, su per giù, venti o trenta metri sul livello del lago stesso. Il legname raccolto in cataste sul pendio accennato, levato di peso da quell’onda mostruosa, poi ricondotto dalla stessa onda che ricadeva, investì la chiesa e la distrusse. Tre villaggi, Costa, Sommariva e Ariete, furono seppelliti, non so bene, se sotto la prima o la seconda frana. Nel solo Ariete si contarono 48 vittime umane. Quattro altri villaggi dovettero sgombrarsi, man mano che il lago andava crescendo. Mi si assicura che si veggono ancora trasparire di sotto l’acque. Il lago ha ora una lunghezza di circa 2 chilometri sopra una larghezza media di circa 400 metri. In origine era molto più vasto, e probabilmente anche assai più profondo. Il Mazaré (un luogo a mezzo chilometro da Caprile) si trovava precisamente in riva all’estremità settentrionale del lago. Ora ne dista forse 2200 metri. Il lago d’Àlleghe ebbe dunque in origine una lunghezza di 4 a 5 chilometri. Quanto alla sua profondità primitiva, la trovai portata da un autore (da Lyell, se non erro, ne’ suoi Principî di geologia) a 90 metri. Quella frana aveva dunque arrestato in seno [p. 44 modifica]a que’ monti un corpo d’acque di quasi 150 milioni di metri cubici. L’impiccolimento del lago è un fenomeno semplicissimo d’interrimento. Il Cordévole, come ogni fiume che metta foce in un lago, vi abbandona le sue torbide, e crea un delta, ossia una terra alluvionale, che si dilata a scapito della superficie coperta dalle acque. Il piano, che si distende tra il Mazaré e il lago, è il delta lacustre del Cordévole, naturalmente in continuo progresso. Cent’anni ancora, e del lago di Àlleghe non rimarrà che il nome.

» Eccovi, o miei giovani amici, i particolari di uno fra quegli spaventosi disastri, che pur troppo spesso accadono nell’Alpi. Comprenderete come, in mezzo alla gazzarra che ravvivava cento anni dopo quell’erma contrada, il pensiero di tanta desolazione non mi potesse passar per la mente senza lasciarvi, almeno per poco, una nube di tristezza. — Ecco — diceva io, ascoltando quella lieta musica, che aveva cessato di armonizzare co’ miei tristi pensieri; — ecco, così vanno le cose del mondo! Nella stanza dove jeri si udiva il gemito del morente, oggi risuona un’allegra canzone d’amore; sulle tombe dei morti danzano i vivi; sul nero terriccio ove si confondono in una sola polvere le spoglie di mille fiori, spunta e sboccia, ridente e rugiadoso, il fiore novello: dalla morte rinasce la vita; il mondo si rinnovella coi frusti di mille mondi che si spensero. Come là in fondo quella verde foresta copre quasi d’un manto festivo, l’orribile tumulo, sotto il quale tanti esseri umani soffersero le disperate agonie di una morte spaventosa, così le gioje del presente coprono d’oblio i dolori del passato.

4. » Un certo improvviso scompiglio, il cessar della musica a mezza battuta mi svegliarono d’un tratto dalle mie poco tempestive meditazioni. La flottiglia si arresta oscillante in mezzo al lago.... — Che c’è?... — Che si fa?... — Avanti!... — No!... — Fermi!... — Si trattava nientemeno che di un naufragio. La povera barca che portava la banda, avvezza a sorvolare le onde spinta dal remo di qualche magro Caronte6, non s’era mai provata ad immergersi tanto, sotto un peso così indiscreto. Parve dapprincipio che si traesse lodevolmente d’impaccio quanto alla capacità di contenere tutte quelle persone. Ma nessuno aveva [p. 45 modifica]calcolato che la parte superiore de’ suoi fianchi di solito non andava sott’acqua, e quivi le commessure delle tavole lasciavano degli spiragli che l’acqua avrebbe presto scoperti. La barca insomma faceva acqua. I poveri sonatori avevano studiato ogni posizione per evitare un pediluvio forzato; ma infine si trovavano inesorabilmente in molle. Un bagno alle gambe, pazienza! ma a dirla schietta c’era pericolo che la barca si sommergesse davvero, poichè l’acqua non cessava d’entrare, nè avrebbe cessato finchè la barca non fosse ridotta al punto di non reggersi più a galla.

» Che si fa dunque? Una parte della banda passi sopra un’altra barca. Non si pensava certamente che i musici sarebbero tanto indiscreti da recar seco il proprio peso e quello de’ loro strumenti, dopo una lezione così evidente. Ad ogni modo si trovò che precisamente la barca dov’era io, era anche (non fo allusioni vedete) la più scarica. Sulla mia barca dunque passò una buona porzione del corpo di musica, il quale si trovò così diviso in due. Che importa? Le due canore navicelle si tengano a fianco l’una dell’altra, e la musica ricominci. Ricominciò, se ben mi sovviene, un’allegra polka che avrebbe invitato a danzare non che i pesci disotto, anche le rupi d’intorno. Ma che? dai barcajoli delle venete Alpi si può egli attendere che sappiano battere la solfa co’ remi come farebbero i gondolieri della laguna?... Le due barche non sanno andar di pari; e se l’una tende a sinistra, l’altra non lascia per questo di piegare a destra. Una metà del corpo di musica non sente l’altra, e colla distanza delle barche, cresce la distanza delle crome e delle battute, finchè i clarini fanno da sè, e da sè fanno i tromboni; e se gli uni suonano il motivo per proprio conto, suonano gli altri per proprio conto l’accompagnamento.

5. » Intanto l’acqua del lago aveva avuto tutto il tempo di esplorare, punto per punto, quella parte della mia barca, che prima pel minor peso le sovrastava. Scopertevi certe fessure, la vi si insinuava mogia mogia, formando tra le gambe de’ naviganti certi zampilli che non tardarono molto a tradire l’intrusa, mutando il fondo del naviglio in un laghetto. I naviganti cominciavano ad armeggiare di gambe per salvarsi dal molle. Io adocchiavo le fessure, adocchiavo il lido, per misurare, così a lume di naso le probabilità di una sommersione, a cui non mi sentiva disposto punto nè poco. In quella che guardavo il lido, fui colpito dall’aspetto di certe rupi che fiancheggiavano il lago, e mi [p. 46 modifica]avevano l’aria dei pòrfidi e dei melafiri7. Bisogna sapere che l’alta valle del Cordévole è già celebrata appunto pe’ suoi pòrfidi, e specialmente pe’ suoi melafiri, che offrirono ai geologi argomenti d’importanti osservazioni. Io avevo una gran bramosia di vedere i melafiri, che non mi si erano mai presentati altrove, e di ripetere le osservazioni dei geologi. Espressi dunque ai compagni il desiderio di essere sbarcato sul lido, e di proseguire a piedi quel piccol resto di viaggio che si sarebbe potuto ancora continuare in barca.... Ma che? voi ridete.... To’ là Giovannino, che maliziosamente mi strizza l’occhio quasi per domandarmi se il motivo di chiedere lo sbarco fosse proprio il desiderio di osservare dappresso quei cari melafiri. Posso assicurarvi che il motivo era quello; ma non metterei la mano sul petto per dirvi che fosse il solo. Via, che bel gusto a viaggiare in una barca che fa acqua?... Fatto sta che i miei compagni vennero anch’essi nel mio parere per proprio conto, e in breve ci trovammo tutti sulla via; loro a riprendere i calessini, per continuare il viaggio fino a Caprile; io a battere a piedi la stessa via per osservare i miei melafiri. Ed eran quelli veramente i pòrfidi, i melafiri sospirati, che, associati ad altre rocce in parte d’origine sottomarina, in parte d’origine vulcanica, mi facevan vivo a’ quei tempi lontanissimi, in cui un mare, sparso di vulcani, come quello che bagna l’arcipelago indiano, si distendeva senza confini, là ove or sorgono maestose le Alpi. Come grandeggia questo concetto, quando si è davvero in seno alle Alpi! qui, al piede di quella Civita, che or dispiega in tutta la sua maestà il lato opposto a quello che ci presentava quando eravamo stamani a Listolade!

» La Civita è una delle più stupende montagne che io vedessi mai. Se vista dal lato di sud-est si assomigliava a una gran muraglia diroccata, ora, guardata dal lato di nord-ovest, diviene un immenso castello, turrito e merlato. Ma i merli son rupi, le torri montagne.

6. » Siamo a Caprile. Una vecchia colonna, sormontata dal leone [p. 47 modifica]di San Marco, ci ricorda i fasti di quella terra così umile e così gloriosa. Quel leone è un dono della Serenissima Repubblica, che il Cantone di Caprile seppe più volte difendere valorosamente dai limitrofi Austriaci. I Caprilesi se ne vantano a ragione, e conservano gelosamente due bandiere, ove spicca il leone alato in campo azzurro. Quelle due bandiere erano esposte nella sala, ove una buona colazione, o piuttosto un buon pranzo, attendeva gli alpinisti, che vi so dir io se dovessero far buon viso alla mensa, digiuni o quasi digiuni, a mezzogiorno, e forse più in là. C’è un Monte Civita visto da Caprile. vecchio proverbio che dice: — tutti i salmi finiscono in gloria. — Si potrebbe anche sostituirgli questo, che tutte le feste, profane o sacre, civili e religiose, letterarie o scientifiche, vanno a finire in un pranzo. Oh bella! sta a vedere che ci si trova a ridire sopra una costumanza, che è propria di tutti i tempi, di tutti i luoghi, di tutte le nazioni. Gli è, lo sapete, per la ragione che Dio non ci ha fatti puri spiriti e che lo spirito stesso trae, da un conveniente vigore del corpo, lena a pensare, a volere, a fare quanto si può pensare, si può volere, si può fare di bene. [p. 48 modifica]

» Se il pranzo di Caprile sia riuscito allegro, condito com’era da quanto sapore possano aggiungere alle vivande l’appetito e la Caprile. più schietta cordialità, ve lo potete imaginare. Non vi parlerò nè dei cibi, nè de’ vini, e mi permetto soltanto, per accrescere il corredo delle vostre cognizioni di geografia economica e zoologica, di nominare le trote e le anguille meritamente famose del lago di Àlleghe. La sala da pranzo apparteneva a un buono e pulito alberghetto, la cui esistenza non si sarebbe nemmeno sospettata in quell’alpino recesso. Il segreto della sua esistenza sta in ciò che l’albergo è tenuto da una delle prime e più ferventi neòfite dell’apostolo Budden, «dalla signora Giovanna Perzè, conosciuta per la sua onestà e bontà d’animo, da tutti i viaggiatori. Il suo nome è su tutte le Guide, e tradotto in tutte le lingue, caro agli Inglesi, come quello di una sincera amica8». L’apostolo Budden si trovava nel suo elemento. Era un giorno di trionfo per lui; i suoi occhietti sfavillavano, e il vermiglio del suo viso era acceso oltre l’usato. Egli raccoglieva in Caprile, uno dei frutti più squisiti del suo apostolato; gustava le primizie di quella metamorfosi delle regioni alpine in regioni di civiltà e di benessere, che è il sogno della sua vita. Fatto entrare nella sala il piccolo corpo delle guide alpine, che si è già costituito in Caprile, lo arringò coll’accento dell’amore e dell’entusiasmo. A vedere quei poveri alpigiani, dapprima curvi e piccini davanti all’illustre consesso, [p. 49 modifica]a poco a poco rizzarsi e impettirsi mano mano che dalla bocca del signor Budden sonavano gli elogi della loro bravura, e l’incoraggiamento a perseverare, la era proprio una cosa graziosa e commovente. Poi venne la volta della signora Giovanna, che ascoltò il suo panegirico con la modesta gravità di chi è lieto di meritarlo, ma senza insuperbirne; nè il signor Budden cessò finchè non fosse toccata a ciascuno la parte sua; e allora tutti ospiti ed ospitati, guide e viaggiatori, confusero le loro voci in un turbinio di brindisi e di evviva.

» Venuta l’ora della partenza, gli alpinisti si rimisero in via per tornare ad Agordo, ed io rimasi a Caprile con l’apostolo Budden e un piccolo gruppo d’amici, per andar più oltre il giorno seguente. — Ma voi siete stanchi, n’è vero?».

«Tu piuttosto sarai stanco», osservò gentilmente la Marietta; «noi no, chè ad udire tante belle cose non ci si stanca davvero».

«Ebbene tiriamo innanzi un altro quarticello, tanto da uscire una volta da queste Alpi Carniche, chè, se vi giova, intraprenderemo giovedì un altro viaggio.... di quelli che si fanno senza incomodo e senza spesa».

«Ma anche senza il vantaggio di viaggiare davvero» volle dire il Luigino.

«Non però senza quello d’imparare come si viaggiasse», volle aggiungere la Marietta.

«Suvvia, verrà il tempo dei viaggi anche per voi. Ora accontentatevi di udire e di apprendere, come dice la Marietta.

7. » Eccoci in piedi all’alba. Eravamo in sei; cioè i quattro personaggi di vostra conoscenza, che prestarono chi la penna, chi la matita, chi la materia a questi articoli, e sono l’Apostolo, il pittore Allegri, il professore Taramelli e il vostro umilissimo servitore: poi erano rimasti a Caprile l’ingegnere Carati, segretario del Club alpino di Torino, e il capitano Crolla, uno dei più ardenti predicatori della crociata alpinista9. Presa con noi una delle guide di Caprile, salutati gli ospiti, ci avviammo al nostro destino».

«Per dove?» domandarono i nipoti.

«Per quel dì s’era fissato di passare dall’Agordino nel Cadore per il calle così detto della Forcella forada sotto il monte Pelmo. Se volete seguirmi, sarò assai parco nel descrivervi i luoghi e le [p. 50 modifica]mie impressioni, per la ragione accennata l’ultima volta, e ci contenteremo di fare insieme un pochino di geografia d’Italia.

» Uscendo da Caprile, e continuando per breve tratto la via verso settentrione, si incontra il torrente di Valle Fiorentina, che, disceso da oriente, viene a buttarsi nel Cordévole. È la Valle Fiorentina appunto che noi dobbiamo rimontare, per giungere al passo che deve metterci nel Cadore. Passati sulla destra del torrente, ci leviamo fino ad una certa altezza su per un’erta penosa quindi, volgendoci ad oriente, si continua a salire, a salire, sempre a ritroso dell’acqua che discende profondamente incassata nella valle. Qui un comodo sentiero ci guida attraverso una magnifica foresta d’abeti, che ricopre il fianco della montagna, reso fertile dal terriccio depostovi dagli antichi ghiacciai, come vi spiegherò altra volta. Intanto.... sapete? siamo usciti d’Italia.... almeno dai suoi confini politici. Il confine tirolese-austriaco, con poco ragionevole curva, s’incunea nel confine italiano, e noi stiamo tagliando il vertice del cuneo.... capite?... il che vuol dire che rientreremo fra mezz’ora, o poco più, in Italia. L’Italia infatti si ritrova nella metà orientale del villaggio di Santa Lucia; diviso per mezzo dal torrentello, che segna, se ben mi ricorda, il confine tra i due Stati.

8. » Avrei voluto intrattenervi qualche po’ entro quella selva, per mostrarvi i melafiri globulari di cui essa presenta de’ saggi meravigliosi».

«Che affare è codesto?» domandò l’uditorio.

«Ecco; imaginatevi le mura annerite di una fortezza, che un dì per avventura fossero battute in breccia da cannoni d’ogni calibro. Supponete per giunta, che le palle lanciate s’infiggessero nella muraglia, come fosse di argilla, e vi rimanessero incastonate alla superficie. Così son fatte queste pareti di melafiro o di basalte (altra roccia vulcanica) che in più luoghi, specialmente in Italia, presentano la struttura globulare. In siti più opportuni, per esempio nell’isola di Ponza fra Terracina e Gaeta, vedreste la parete rocciosa sfasciarsi, e le palle basaltiche giacere ammonticchiate a pie’ della rupe, come le palle di cannone nel cortile di un arsenale. Prendete una di quelle palle, e la troverete composta di strati concentrici, proprio come una cipolla».

«E la ragione di tale struttura?» vuol sapere Giovannino.

«Così sui due piedi?... bisognerebbe che ci sedessimo almeno un’oretta a ragionare. Ma via, spicciamoci in poche parole, e se desiderate ch’io venga poi qualche giorno a parlarvi più [p. 51 modifica]distesamente di un fenomeno, a cui si devono la Grotta di Fingal, il Pavimento de’ giganti, la Grotta de’ formaggi e tante altre meraviglie della natura, fatemelo sapere, e sarete serviti10. Le rocce esposte all’azione atmosferica, all’umido, al caldo, al gelo, quali più, quali meno facilmente, si screpolano, cioè si dividono in pezzi che si formano per clivaggio naturale, ossia per quella facoltà che hanno le rocce di fendersi in certe direzioni. Quei pezzi presentano una certa regolarità, prendono cioè la forma di un prisma di tre, di quattro, di cinque e più facce, sicchè vengono facilmente ad assomigliarsi a dadi, o a monconi di colonne prismatiche. Il dado, il moncone, così formato, è investito tutt’in giro dall’azione atmosferica, che lavora a guastarlo. Avete osservato come si guastano gli spigoli degli stipiti, dei capitelli, dei basamenti, esposti alle intemperie? Avrete visto come quegli spigoli, tagliati così vivi dall’artista, divengono ottusi, poi tondeggianti. Perchè? perchè l’atmosfera s’è portato via una parte dello stipite, del capitello; ne ha levato la crosta, e continua a scrostarlo sempre più, e col tempo finirà col distruggerlo. Supponete ora di aver un dado di pietra esposto così all’atmosfera per anni, per secoli. Quel dado perderà i suoi angoli; gli spigoli andranno sempre più ingrossando e arrotondandosi; e verrà un punto che invece di un dado avrete una palla».

«Perchè una palla?» domandò di nuovo Giovannino.

«Perchè l’atmosfera avrà decomposto, cioè fatto marcire, e quindi cadere in polvere, oggi lo strato più superficiale, domani il secondo rimasto scoperto, poi il terzo, il quarto, e così via via, sempre guastando a preferenza gli spigoli, finchè del vostro dado non rimarrà che il nocciolo senza spigoli, senza angoli. Un nocciolo senza spigoli, senza angoli che cos’è? una palla. Supponete ora che quegli strati si fossero decomposti successivamente, per effetto speciale dell’umidità che penetra anche l’interno, ma non fossero caduti. Quegli strati sarebbero rimasti come altrettante scatole, l’una dentro dell’altra; dalla prima che ha la forma del dado, all’ultima che ha già la forma di una palla, contenente appunto il nocciolo, ossia la palla di roccia non decomposta. Il supposto si verifica appunto nei melafiri e nei basalti. Le palle di melafiro, che si vedevano in quella [p. 52 modifica]foresta, erano i noccioli che facevan capolino dalle loro teche11 di roccia decomposta, come palle di cannone da uno spalto di terra; pronte a svolgersi dalla buccia, e a cadere, appena la decomposizione della roccia sia più inoltrata.

9. » Avete capito? — Sì. — Dunque tiro avanti. Siamo a santa Lucia, quindi alla Selva, grosso villaggio nel cuore della valle, e però circa a mezza via tra Caprile e la Forcella forada. Qui è il luogo di far sosta un istante, per ammirare uno dei siti più belli che s’incontrino nel cuore delle Alpi. Una vallata tutta verde, tutta coperta di boschi, di praterie, sparsa di villaggi; Il monte Pelmo visto da Selva. chiusa in giro da gigantesche montagne dolomitiche, nude nude, colle forme più ardite e fantastiche ricavate, direbbesi, in marmo bianco. È veramente un incanto. Lo sguardo, avido di volgersi dappertutto, di tutto abbracciare, si arresta meravigliato, quasi estatico, principalmente davanti a tre di quei bianchi giganti. Là in fondo in fondo, seguendo la scesa della valle verso occidente, come attraverso ad un gran cannocchiale, vedesi la Marmolade, che si alza, a guisa di un gran cappello napoleonico12, [p. 53 modifica]coperto di nevi eterne, sul Migion, sulla Pezza e su altri colossi, che la fiancheggiano. La Marmolade è, se non erro, la cima più alta delle così dette Alpi dolomitiche, levandosi a 10233 piedi13 sul livello del mare. Da qualche anno è fatto segno agli assalti degli alpinisti, che già più volte ne calcarono la vetta. A settentrione immediatamente dal piano della valle, spicca il gruppo indescrivibile del Piz-del-Corvo, del monte Carrera, del monte Gusella; è un gruppo strano, vedete; un fascio di torri sterminate, un castello di monti. A oriente in fondo alla valle, eccovi la Forcella forada, e là, ritto sul mostruoso fianco, il monte Pelmo, che si leva, aereo, solo, quasi dicesse: Basto a me stesso. Egli c’invita a proseguire il viaggio, che ci porta alla sua volta; e noi cesseremo di salire quand’egli comincia ad ascendere. Eccoci infatti al suo piede da cui si stacca la montagnosa cortina, che chiude la valle a levante. Una intaccatura, quasi una breccia, che si apre in quella cortina, ci permette di passare dall’altra parte; è la sospirata Forcella forada. L’un piede è ancora nella valle Fiorentina, che già l’altro è nell’Orsolina. Abbiamo volte le spalle all’Agordino, e guardiamo il Cadore. Da quell’altezza noi vediamo la valle Orsolina, che va a gettarsi nel fiume Boite, il quale, disceso dalle più alte cime del Tirolo, ci passa davanti, giù in fondo e va a cercare la Piave. Sulla sinistra del Boite, quindi a noi di fronte, si leva il monte Antelao, un altro colosso dolomitico, tutto nudo, tutto bianco, emulo della Marmolade, come quello che raggiunge 9954 piedi14, sul livello del mare.

» Dalla Forcella forada scendiamo di corsa, secondati dalla china, che pare così dolce dopo l’ascesa, benchè riesca assai meglio di questa a disossarvi. La via corre sassosa tra l’incomposto sfasciume del Pelmo, che sta a cavaliere delle due valli. Quanto volontieri mi sarei intrattenuto fra quello sfasciume! Immaginatevi: il Pelmo è un monte di conchiglie marine.... dico da senno.... e quanti monti lo sono del pari! Quanti tesori per la scienza, [p. 54 modifica]ancora inesplorati, in seno alle nostre mantagne! Ma sì.... ora è la fame che ci spinge più della scienza, e ormai non adocchiamo che Borca, il primo paese laggiù sulle sponde del Boite, dove possiamo sperare di placare alquanto quello stimolo, cresciuto a tal segno da farci comprendere come per la fame si possa perdere la ragione. Fo per dire; non credeste mai che noi volessimo mangiare nessuno. Ci contentammo di sfamarci in qualche modo in una bettola di cattivo genere, tanto che ci bastasse la lena di condurci in calessino a Tai, presso Pieve di Cadore, dov’è un buon alberghetto, noto al Budden, e già nelle grazie degli Inglesi. Vi si giunse che era già notte fatta, e fu ben dolce il riposarci in un comodo letto. La mattina proseguimmo fino a Pieve di Cadore, patria di Tiziano, o piuttosto dei Tiziani. Ammirate le belle tele di quegli illustri pittori che si conservano nella chiesa, il signor Budden ci condusse religiosamente a visitare la casa del grande Vecellio. Figuratevi una casipola, una vera topaja, ora convertita in beccheria. Che scandalo, che disperazione pel povero Budden!... Una iscrizione di pessimo gusto ricorda che nacque in quella casa una delle maggiori glorie dell’arte italiana15.

10. » Pieve di Cadore era il luogo fissato alla dolorosa separazione. Sono così dolci le ore di una bella gita fra buoni amici in montagna! L’amicizia cresce così schietta, così soda in sì breve tempo fra la libertà de’ monti!... Pure bisognò che ci separassimo. Il signor Budden cogli altri tre ritornavamo a Caprile per il passo della Cortina; il Taramelli ed io proseguivamo il viaggio per le Alpi fino a Udine. Noleggiammo un calessino che ci condusse a Lorenzi a’ piedi della Mauria, passo che mette dalla Piave nella valle del Tagliamento.

» Il passo della Mauria non è molto alto, è bellissimo, tutto verde e boscoso. Ma ormai sono stanco di descrivere. Con una camminata di circa tre ore, passati dal Cadore nella Carnia, ci fermammo per pranzare a Forni-di-sopra, il primo paese che si incontra nella valle del Tagliamento. L’oste cortese ci sta ritto dinnanzi». [p. 55 modifica]

«— Comandano, signori? —

«— Sissignore; da pranzo. —

«— Che cosa desiderano da pranzo? —

«— Quello che avete. —

«— Non ho niente, signori. —

«— Allora è proprio inutile il dirvi che cosa desideriamo. —

«Si rise naturalmente, e l’oste rise anche lui. Tuttavia bolliva un certo pentolone, con entro non so che cosa. L’oste ci disse che era dell’armenta, cioè, con rispetto, carne di vacca, secca ed affumicata. Detestabile, vedete! un odore!... un sapore!... Via; si mangiò, poi un gran carro a due cavalli ci trasportò la sera a Tolmezzo, e la prosastica vettura, sotto un cielo oscuro e piovoso, a Udine il giorno seguente».


Note

  1. Civita o ciutia nel dialetto di que’ paesani vuol dire civetta.
  2. Inf., XIIChe alcuna via darebbe a chi su fosse — vuol dire che non presenterebbe alcuna via per discendere a chi fosse sull’alto della rovina.
  3. Come d’autunno si levan le foglie,
         L’una appresso dell’altra, in fin che ’l ramo
         Rende alla terra tutte le sue spoglie;
    Similemente il mal seme d’Adamo
         Gittansi di quel lito ad una ad una. Inf., III.

  4. Lo scoscendimento che percosse l’Adice di fianco, come dice Dante, è ancora uno spettacolo meraviglioso a chi sale da Verona al Brenner per la ferrovia. Per qualche chilometro la valle, sulla sinistra del fiume, non è che un caos di rupi d’ogni dimensione, in forma per lo più di grandi tavole prismatiche.
  5. Lo Spitz è uno sperone del monte Forca; soltanto di questo trovo indicato il nome nella carta dell’Istituto militare austriaco.
  6. Caronte, nominato poc’anzi, chiamavano i Greci il nocchiero che tragittava le anime sul fiume Acheronte nell’inferno.
  7. Nel linguaggio comune il nome di pòrfido indica quella roccia composta di una pasta rossigna, o color cioccolata, durissima, sparsa di macchie bianche, talora rettangolari, che sono cristalli di feldspato, di cui, ai tempi dei Romani, si fabbricavano bacini, e colonne, e statue e altri oggetti di scoltura tenuti in gran pregio. Quella roccia è una semplice varietà di pòrfido, proveniente dall’Egitto, ove venne pure impiegata abbondantemente nella scoltura, e si specifica dai mineralogisti col nome di pòrfido rosso antico. Molti pòrfidi però si trovano nelle diverse regioni del globo, nominatamente nelle nostre Prealpi. Sono rocce rosse, o verdi, o grigie, composte di feldspato, associato a minerali diversi. Il melafiro è una specie di porfido nero composto di un feldspato particolare, che i mineralogisti chiamano labradorite. I pòrfidi e i melafiri sono lave di antichi vulcani.
  8. Giornale di Udine, 26 settembre, 1871.
  9. Il capitano Enrico Crolla rimase morto nel giugno 1874, durante l’escursione della Sezione di Biella al Monbarrone, cadendo da una rupe, colto da un accesso d’epilessia.
  10. Il fenomeno della struttura colonnare o basaltica e della struttura globulare delle rocce è diffusamente descritto e ragionato nel 3.° volume delle mie Note ad un Corso di Geologia, e nel 3.° volume del mio Corso di Geologia.
  11. Teca, voce di origine greca (théké), significa insieme ripostiglio e custodia; onde biblioteca — luogo ove si conservano i libri; pinacoteca = luogo ove si conservano le tavole dipinte, cioè le pitture, ecc.
  12. Era famosa nella memoria de’ nostri padri la forma singolare del cappello appuntato che usava Napoleone I in divisa da generale. Se andrete a Ginevra, solo che la fantasia vi giovi un tantino, vedrete, come videro nel loro entusiasmo i padri nostri, disegnarsi nella cima del monte Bianco il profilo di Napoleone dormente. Una rupe, che sporge da un lato, ne delinea il naso aquilino, sporgente da un lenzuolo di candide nevi, e la vetta del monte il cappello semilunare, che copre l’augusto capo abbandonato sull’immenso guanciale. Quante belle cose si vedono a questo mondo coll’ajuto della fantasia!
  13. Circa 3323 metri.
  14. Circa 3233 metri.
  15. Tiziano Vecellio visse 99 anni, dal 1477 al 1576. Le opere di lui che non perirono, sono ritratte in 900 incisioni. Nessuno lo pareggiò nell’arte del colorire; Raffaello solo lo superò nella castigatezza del disegno; nella composizione e nell’espressione e dei pochi sommi. E, miracolo di fortuna, non men che d’ingegno, visse da principe, onorato con tanto ossequio da tutti, che Carlo V, nel raccattargli da terra un pennello gli disse: «Voi meritate d’essere servito da un imperatore».