Il bel paese (1876)/Serata II. - Gli alpinisti ed i viaggi alpini

Serata II. - Gli alpinisti ed i viaggi alpini

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Serata II. - Gli alpinisti ed i viaggi alpini
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SERATA II


Gli Alpinisti ed i viaggi alpini.

Alpiner club, 1. — Il Club alpino italiano, 2. — L’apostolo Budden e il suo vangelo, 3. — Che cosa sia temerità, 4. — L’arte di arrampicarsi, 5. — Il Monte Cervino e la catastrofe del 1865, 6. — L’alpinismo come elemento educativo, 7.


1. Ritornando il giovedì seguente a quel convegno così variegato col mio album sotto l’ascella, come aveva promesso, pensava tra me: certamente quei ragazzi stettero cheti la prima sera, perchè era la prima sera; ma debbono essersi mortalmente annojati. Ci scommetto che nessuno si arrischia di metter sul tappeto la proposta che lo zio continui la sua narrazione, se pur ce n’ha uno che si ricordi ch’io ho promesso di continuarla. Ma che volete? contro la mia aspettazione, appena mi videro apparire sull’uscio della sala, tutti mi furono adosso, piccoli e grandi, ricordandomi la fatta promessa. — Manco male! dissi tra me e’ pare ch’abbiano abboccato l’esca.

Presi dunque una scranna e cominciai.

«Voi volete dunque sapere che cosa sia il Club alpino....».

«E l’apostolo?» gridò Giorgino.

«Zitto: si può parlar d’apostoli, prima di spiegarne il vangelo?... Il nome stesso di Club alpino già vi dice che c’entra qualcosa d’inglese. È impossibile che non abbiate letto o sentito parlar quanto basta per sapere che ci sono degli uomini di pasta così ferrigna che mettono ogni lor gusto nell’inerpicarsi su pei dirupi, come gli orsi e i camosci, e credono d’aver raggiunto lo scopo della loro vita quando possano mettersi sotto i piedi una cima, tenuta per inaccessibile prima di loro. Questa fatta di [p. 22 modifica]uomini, che ricorda in qualche modo gli antichi Ciclopi1, s’è tanto moltiplicata in questi ultimi anni, che ormai non v’è forse una cima nelle Alpi che possa dirsi intatta; se andiamo innanzi di questo passo, l’epiteto d’inaccessibile andrà cancellato, quanto ai monti, dal dizionario.

» Se mi domandate a qual nazione appartengano questi Nembrotti2, vi dirò che non v’ha forse nazione, la quale non ne vanti alcuno; ma credo che vadano distinti sopra tutti, per numero e per valore, gli Svizzeri e gl’Inglesi. Gl’Inglesi hanno sopra gli Svizzeri il vanto dell’entusiasmo, di quell’entusiasmo che s’accende al pensiero della difficoltà e del pericolo. Vedete quell’uomo dai capelli biondi, dal mento raso e liscio come fosse di marmo, dalla pelle bianchissima, silenzioso, serio, stecchito, che interrogato vi risponde con certi monosillabi fra il sibilo ed il rantolo? Quello è un Inglese. Voi lo direste la negazione dell’entusiasmo, della poesia, dell’ardimento. Non è così. Tra noi e lui, tra la nostra poesia e la sua, c’è questa differenza: che noi ci mettiamo in orgasmo per nulla, mentr’egli, per commuoversi ha bisogno di forti stimoli; la nostra poesia è un pochino arcadica, la sua procellosa. Pendere dallo spigolo ghiacciato d’una rupe, sopra un abisso di mille metri, trovarsi a tu per tu colla tempesta, in mezzo all’oceano, le mille miglia lontano da ogni terra; sentirsi preso come una paglia tra montagne di ghiaccio danzanti nell’immensa notte dei poli; ecco le impressioni a cui agogna, come noi desideriamo di assiderci sopra un tappeto d’erbe e di fiori, di cullarci in barchetta sul placido lago, di starci sdrajati al rezzo d’una pianta quando fiammeggia il sole di luglio.

» Perciò appunto gl’Inglesi s’invaghirono tanto delle Alpi e delle salite alpine, che, essendo abituati ad associarsi per ogni menomo intento, istituirono un’apposita società anche per le salite sull’Alpi. Questa società si chiamò Alpiner-club, o Club alpino, che vuol dire associazione per le Alpi. I socî si chiamarono alpinisti, e in mezzo a loro avrebbe dovuto arrossire chiunque [p. 23 modifica]non potesse raccontare pericolose avventure, nè avrebbe potuto aspirare al grado di presidente (se mi fu detto il vero) chi non avesse piantato la bandiera del Club sopra una vetta non ancor tocca».

«Ma a che pro?...» interruppe una delle mamme, già paurosa che i figli si invaghissero di tali spedizioni.

«Per ora la storia; le riflessioni, se vi piace, le faremo poi. Il costituirsi in società, ossia il riunire ad un solo intento i lumi, le esperienze, i mezzi di molti, per ripartirli di nuovo, più completi ed efficaci, sopra ciascuno, agevola a tutti la via di raggiungere lo scopo comune. Infatti dopo l’istituzione del Club alpino inglese, le corse sulle Alpi si fecero così frequenti e con esiti così felici, che in breve nessuna valle rimase inesplorata, nessuna cima inaccessa. Il Monte Bianco, che fino a’ dì nostri serbò non disputato il vanto di segnare il punto più culminante d’Europa3, è ormai ridotto così domestico che il salirlo è per gli alpinisti una partita di piacere. La fierissima Jungfrau4 non è più da lungo tempo la vergine intemerata come suona il suo nome. Il Monte Rosa, che s’imporpora al primo raggio d’oriente, vide improntato di orme umane il suo candido cappuccio; e non potè, alla lunga, sottrarsi all’ardimento degli alpinisti nemmeno il Cervino, che rizza ignudo il suo corno dai campi delle nevi eterne, come le piramidi dalle sconfinate arene del deserto.

2. » È singolare davvero che dalle isole dell’Oceano dovessero le Alpi attendersi i più caldi innamorati; ma è più singolare ancora che gli ultimi e i più pigri ad unirsi a quegli alpinisti fossimo noi, fortunati abitatori del bel paese che

...... il mar circonda e l’Alpe.


Era una vergogna, n’è vero? e la sentirono profondamente i pochi fra noi che s’invogliarono delle Alpi. Quintino Sella fu il primo a levare il grido della riscossa, e riuscì a fondare il Club alpino italiano, che gli valse l’onore degli scarponi ferrati di cui lo vedete calzato sempre nei nostri giornali di caricature. Il Club [p. 24 modifica]alpino italiano ha la sua sede principale in Torino, e le secondarie in Aosta, Varallo, Domodossola, Agordo e, stupite! in Firenze ed in Napoli. Vanta a quest’ora valorosi proseliti, emuli dei più arditi Inglesi, e fra essi quell’ingegnere Giordano che fu ad un pelo di rapire agli Inglesi la palma della prima ascensione al Cervino.

3. » Se il Club alpino italiano ha degli adepti5 ha pure un apostolo, quello di cui ho promesso parlarvi. Ma.... non posso tacerlo; inarcate pure le ciglia, spalancate pure la bocca; la cosa è così: l’apostolo del Club alpino italiano è un Inglese. Scommetto che appunto per questo vi pizzica ancor più forte la curiosità di conoscerlo e di ascoltare un pochino del suo vangelo. Egli non voleva certo venir meno alla sua missione mancando al congresso di Agordo, a cui vi ricordate ch’ero presente anch’io.

» Vedete là quell’ometto, dall’occhio vivo, pieno d’intelligenza e di bontà, con un visetto paffuto, tinto d’un vermiglio carico sopra un fondo morbido e bianco, tra due pizzi candidi come la neve? Quello è Mister Budden in persona. Per me, credevo d’aver fatto onorevolmente la parte mia, attraversando a vapore mezza la Lombardia e la Venezia per non mancare al convegno; ma Mister Budden c’era venuto difilato da Londra, e ci sarebbe venuto, io credo, s’anco avesse dovuto fare il giro del mondo. Noi Italiani ci sforziamo spesso d’invaghirci di tutto; l’Inglese invece s’innamora d’una sola cosa che pone in cima a’ suoi pensieri, e le consacra le sostanze, gli affetti, la vita, finchè (vivo o morto non monta) giunga alla meta.

» Badate un poco alle mosse di questo signor Budden. Egli si accosta a quel giovinotto, di cui non conosce nè il nome, nè la patria, nè la condizione; ma gli avrà letto in viso i segni della vocazione all’alpinismo. Lo piglia per un bottone, per un occhiello, per la falda dell’abito.... non saprei bene; ad ogni costo, eccolo nelle sue mani, e non può più scapparne finchè non abbia digerita intiera la predica. State sicuri che l’apostolo gli va sfoderando tutti gli argomenti possibili per indurlo ad inscriversi fra gli alpinisti. Gli dirà dei diletti del viaggiare sull’Alpi, della robustezza e della salute che si avvantaggiano di questo [p. 25 modifica]laborioso esercizio; gli dirà che il Club alpino giova a farci conoscere e sviluppare tutte le riprese della grande regione dell’Alpi, così ricca di minerali e di piante, così fornita di popolazioni gagliarde e intelligenti; gli dirà.... Ma osservate; il suo volto si anima, i suoi gesti si fanno più espressivi, la voce così alta che possiamo intenderne le parole. Uditelo»:

«L’uomo che sfida la fatica e i pericoli, è un uomo che si fa conoscere. Un giovine Italiano che compisse un’ascensione difficile si guadagnerebbe la stima di tutta l’Inghilterra. L’istituzione del Club alpino, è forse quella che darà perfezione alle altre istituzioni italiane. L’Italia crescerà col crescere del Club alpino; da questo dipende ch’ella sia gloriosa anzichè dimenticata, che prosperi anzichè deperire. Gl’Italiani, educati alla scuola del Club alpino, diverranno forti, e l’Italia diverrà quindi un popolo di forti»6.

«Siamo, per esempio, in viaggio (e io posso dirlo perchè mi ci son trovato): s’incontra un passeggero che non ha mai sognato in vita sua nè Alpi, nè Club alpino. Mister Budden gli si affaccia, lo ferma e gli predica lì su due piedi, in mezzo alla strada, il suo piccolo vangelo. — Chi sa mai? forse quel passeggero è già un neòfito....7 diverrà fors’anco un apostolo.... Ciò lo conforta e: avanti!

» Dov’è Mister Budden? — Mah! gli è entrato in quell’alberghetto là in fondo. — A far che? — Bella! l’apostolo. Ha preso in disparte l’oste e l’ostessa, e sta predicando il vangelo del Club alpino, che assegna agli osti una parte principalissima nel ministero del nuovo culto dell’Alpi». «Signori,» dice Mister Budden all’oste e all’ostessa attoniti: «codesto dell’albergatore non è un mestiere; è una nobile professione, è una missione. La classe degli osti sta di pari a qualunque più nobile classe della società. L’oste è l’amico dei viaggiatori: a suo tempo il fratello, il padre, la madre. Il nome di un bravo oste si stamperà sulle nostre guide e diventerà una celebrità per tutto il mondo». Non so se gli osti italiani vorranno intenderla; e sarebbe pur bene che la intendessero così; ma posso assicurarvi d’aver trovato in [p. 26 modifica]Germania ed in Iscozia degli osti alla Budden. Questi frattanto ha rovistato l’albergo da cima a fondo, ha fatto ad occhio l’inventario di ciò che vi è o che vi manca, e conchiude colla raccomandazione: «Bisogna far questo, provveder quello».

«Nè questo modo di raccomandare è un’insolenza, come può parere alla prima: un po’ pareri, un po’ danari, dice il proverbio: e se l’oste si mette ai servigi del Club alpino, troverà chi gli fornisce i mezzi necessari per introdurre nel proprio albergo un po’ di quell’insieme di comodità e di agi che rendono modestamente gradita e salubre la vita, e che gl’Inglesi chiamano comfort. Così se voi, quando sarete grandi, darete il vostro nome al Club alpino, dovrete pagare una piccola contribuzione annuale; ma ne avrete largo compenso dal gusto d’incontrare in ogni angolo delle Alpi colleghi ed amici che vi accoglieranno come fratelli, e d’essere invitati alla festosa adunanza che si tiene ogni anno dai socî in questo o in quel paese dell’Alpi.

4. » Ora che conoscete l’apostolo, ditemi che giudizio fate del suo vangelo? O volete piuttosto che vi dica il mio? Ecco; secondo me, la prosperità d’Italia, presa in tutti i sensi veri possibili, dipende dal prosperare d’ogni buona istituzione». — Bella pensata! proprio nuova! — «Bene; che il Club alpino sia una buona istituzione, credo che nessuno....».

«Alto là!» interruppe di nuovo la mamma che mi aveva interrotto testè: «È una buona istituzione quella che ha per scopo di spingere i galantuomini ad arrischiarsi a rompicollo colà, dove se sdrucciola un piede.... per amor di Dio!... Come non si sapesse di tanti che in questi ultimi anni andarono a sfracellarsi a’ piè dei dirupi, o a sprofondarsi nei cupi crepacci dei ghiacciai? È lecito arrischiare la vita per poter dire: — Io fui lassù, dove nessuno aveva potuto andare finora? — ».

«Non mi farete il torto di credere ch’io possa dire di sì. Per arrischiare la vita, ci vuole uno scopo che valga il prezzo della vita; il prezzo del primo bene, della condizione d’ogni bene quaggiù.... ed anche lassù. Noi ammiriamo e santifichiamo chi sacrifica la vita per i fratelli, per la patria, per Dio; ma chi l’arrischia per una cosa qualunque che valga meno della vita, è temerario, fors’anche suicida».

«Ma», continuò, senza lasciarmi tregua, la mia formidabile avversaria; «codesti signori del Club alpino, che mettono a repentaglio la vita per la soddisfazione di superare una cima inaccessibile, non sono adunque temerari?». [p. 27 modifica]

«Potrebbero esserlo senza dubbio. Per me è temerario colui che si accinge ad un’impresa con mezzi sproporzionati allo scopo. La temerità è quindi affatto relativa alle forze nostre ed ai sussidî con cui ci avventuriamo al cimento. Se io, per esempio, pacifico cultore del mio scrittojo, m’avventurassi un tratto a fare una passeggiata sulla gronda, sarei pazzo o temerario; ma nessuno dice nè temerario, nè pazzo il muratore o il pompiere.

» Ma intanto, voi dite, anche in questi ultimi anni si contarono parecchie vittime dell’alpinismo. È vero pur troppo; ma trovatemi una professione dalla più facile alla più difficile, dalla più pacifica alla più bellicosa, dalla più sicura alla più arrischiata, che non conti le sue vittime; eppure chi pensa ad abolirle o a riprovare chi vi si dedica? Son forse pochi i naviganti inghiottiti ogni anno dal mare? Secondo i calcoli del capitano W. K. Smith, la sola marina inglese, dal 1793 al 1829, perdette in media un vascello e mezzo al giorno; la bagattella cioè di quasi 20,000 vascelli in 36 anni; e chi sa quante persone perite? Vorreste perciò distorre gli uomini dal navigare? Allora non andate più a cavallo, perchè molti cadendo si spezzano il cranio; e nemmeno in carrozza perchè la può ribaltare. In vapore? peggio! Dunque a piedi; e a piedi chi v’assicura dalle cadute o dai ladri? Finirete col cacciarvi a letto; e se tutti si stesse a letto, si morrebbe tutti d’inedia. In conclusione, voi vedete che l’alpinismo, per rapporto alla temerità, è questione da studiarsi bene, e spero che voi non vorrete esser di quelli che giudicano di prima impressione.

» Fra costoro può ben esservi anche qualche uomo illustre, come, ad esempio, l’Arago8; per il quale chi dà la scalata ai monti non ha altro scopo che di levarsi ad altezze poco accessibili all’uomo, restarci qualche minuto, poi discendere dopo aver superato grandi pericoli, riportandone oftalmie funeste, risipole al viso, geloni ai piedi. Parrebbe ancora che fosse dell’Arago un epigramma che ho durato una gran fatica a tradurre, per timore di lasciarvi cascare per caso un granello di sale. Eccovi questo giojello:

     — Paol, guide pagando,
In cima al monte Bianco s’è portato. —
     — Bravo! bene! Ma quando
Ei fu lassù, che fece? — È ritornato.

» Per quanto illustre sia l’autore di questi versi, non mi [p. 28 modifica]perito a dire ch’egli giudica di prima impressione e con molta leggerezza le ascensioni sull’Alpi. Noi sentiamo invece di non poter mai negare una certa ammirazione a chiunque affronti pericoli, si esponga a disagi inauditi, sostenga diuturni patimenti; noi ammireremo sempre la forza dell’animo, l’energia della volontà, così scarse nel genere umano, e, più che in altri, nei popoli meglio inciviliti. Diffideremo sempre del gracchiare che fa dall’immondo stagno la rana all’aquila che si libra nelle regioni luminose del cielo. Ma la nostra ammirazione istintiva si cambierà in lode ragionata per chi si arrampica sulle più ardue vette, non già per mero diletto o, se volete, per meschina vanagloria, ma per amor del sapere, come fa il nostro ingegnere Giordano, la cui salita al monte Cervino fruttò alla scienza, oltre le osservazioni barometriche, nientemeno che l’intera geologia di quel colosso dell’Alpi».

«La scienza è dunque un motivo sufficiente d’arrischiare la vita?» insistè la terribile interlocutrice.

«Quando dico scienza, non intendo nè vanagloria di sapere, nè brama di far parlare di sè, nè altre debolezze, che non valgono la pena d’arrischiarci nemmeno un capello. Scienza mi dice amore del vero, bene dell’umanità, in tanti casi dovere; insomma tante cose che possono meritare ed anche imporre il sacrificio della vita. Ma si potrebbe egli arrischiare la vita per qualunque ragione scientifica, per sapere, per esempio, se quella cima di monte è di granito, piuttosto che di serpentino, o se il barometro vi segna tre mila metri piuttosto che tremila e dieci? Voi mi proponete un quesito di morale molto complicato che mi sciuperebbe una selva di se e di ma; ed io non mi sento in lena di farvi un lago di teologia. Parmi anzi che in questo caso giovi meglio troncare che sciogliere il nodo della questione.

5. » Chi vi dice che a salire in groppa a una montagna, a toccare una cima non mai segnata da piede umano, si arrischi, assolutamente parlando, la vita, quasichè bisognasse inerpicarvisi come i gatti, come le mosche? Diamine, sarebbero pazzi, più che temerari, coloro! Tentare una difficile ascensione, vuol dire accingersi ad un’impresa difficile con tutti i mezzi che l’intelligenza può suggerire all’uomo. L’alpinista deve possedere in grado eminente due belle virtù: la prudenza e il coraggio. Da queste, non dalla temerità nè dalla paura, deve ogni uomo prendere la misura del suo ardimento. Ormai del salire sull’Alpi s’è fatta un’arte vera, una vera scienza se volete, nello stessissimo senso [p. 29 modifica]con cui chiamate arte e scienza il mestiero pericolosissimo della guerra. Chi vuol avere un saggio della severa ponderatezza colla quale si tratta quest’arte o scienza nuova, legga i brillanti capitoli di Eugenio Rambert, uno degli scrittori più geniali, come de’ più originali che vanti la Svizzera. Poeta sempre, anche nella prosa, e forse più nella prosa che nei versi, egli ci diede, nei quattro volumi intitolati Les Alpes Suisses, un’opera delle più singolari, dilettevoli ed istruttive che si possano leggere. Non è già una guida delle Alpi, ma una viva dipintura degli affetti che le Alpi gli destarono nell’animo, dipintura in cui la scienza più austera diventa anch’essa poesia9. Leggendola, voi ci sentite le Alpi colle loro naturali bellezze, colla loro storia che si perde nel bujo de’ secoli e si confonde alla creazione del mondo, con le avventure o piacevoli, o paurose, o patetiche, con le canzoni che vi risuonano, con le figure dei grandi uomini che vi si affacciano piene di vita, e colle quali, per così dire, le Alpi stesse parlano, cospirano, fremono, adorano. L’autore vi si trasforma ogni tratto; quà storico, là botanico oppure geologo; quà patetico novelliero, là rigido maestro e critico; altrove, arrischiato salitore delle più ardue cime, ragiona con logica rigorosa e matematica dei pericoli e delle riprese di tali ascensioni. Non mi meraviglierei di veder presto la letteratura didascalica arricchita di un trattato sull’arte di arrampicarsi. Il Rambert, a proposito della catastrofe del Cervino, rimprovera quegl’Inglesi che, non contenti di sprezzare il pericolo, si fanno un vanto di sprezzare le precauzioni. Anche senza le ali dell’aquila e i corni ad uncino del camoscio noi possiam fare assai più di questo e di quella, purchè usiamo dei mezzi che può additar l’umana ragione, inesauribile nelle sue invenzioni, illimitata ne’ suoi progressi. In che consiste la prudenza? Nel far uso della ragione nelle circostanze difficili. — «Il numero dei disastri», dice il Rambert, «non ci dà che la misura della storditaggine di molti viaggiatori, talvolta ancora delle guide e dei portatori. Dicendo che, su dieci sventure, nove almeno furono provocate dalle vittime stesse, direi certamente meno del vero»10 — . La prudenza creò ed istrusse le guide; armò di chiodi le scarpe e di punta ferrata il bastone; temprò i beccastrini e i pali di ferro con cui si tagliano gli scalini nella roccia e nel ghiaccio; torse le corde con [p. 30 modifica]che si legano fra loro i viaggiatori e le guide, affinchè chi si regge sostenga quello che cade; giunse financo a fabbricare dei recessi assai più alti del limite delle nevi perpetue, nei quali il viaggiatore si riparasse la notte, e sicuro attendesse il sereno per raggiungere la sospirata meta. Insomma l’ascensione di una montagna difficile è una battaglia, ove il coraggio fa avanzare le file in faccia al nemico, ove la prudenza impone a suo tempo la ritirata. Mercè della nuova tattica, la salita del Monte Bianco, una volta sì ardua ed eroica, è ormai ridotta ad una generosa Il Monte Cervino o Matterhorn. gita di piacere. L’inesorabile Cervino non fu ormai salito da buon numero di alpinisti? E se i primi che gli diedero la scalata pagarono così orribilmente il fio del loro ardimento, non si dev’egli attribuire almeno in parte alla loro imprudenza? Questo severo giudizio non è mio, vedete, è di Rambert, il quale, alpinista anch’egli di primo rango, può parlare col cappello fuori degli occhi».

6. «Ma», interruppe Giovannino, «hai già accennato più volte [p. 31 modifica]a questa catastrofe del Cervino, e noi non ne sappiamo ancor nulla.... almeno credo....». Il silenzio del piccolo uditorio confermò quanto diceva il Giovannino a nome di tutti.

«Ebbene, farò questa digressione, appunto per mostrarvi quanta parte ebbe l’imprudenza in quella luttuosa catastrofe.

» Il Monte Cervino, detto anche Matterhorn, quasi a 2 chilom. dalla cima più elevata del Monte Rosa verso ponente, sorge fino all’altezza di 4505 metri (secondo la misura che ne fece recentemente l’ingegnere Giordano), guardando con una faccia l’Italia, dall’altra la Svizzera. Sottostà dunque di 305 metri al Monte Bianco che arriva fino ai 4810 metri, e di 135 al Monte Rosa, suo vicino, che tocca i 4640.

» Ma se il Cervino fu scalato più tardi assai del Monte Bianco e del Monte Rosa, lo si deve soltanto alla forma del suo picco terribile, che dai campi dei ghiacci e delle nevi eterne si rizza di tratto e si slancia in forma di acuta piramide fino a più di 1000 metri. I pendii di questo corno, somiglianti a muraglie verticali, son così ripidi, che le nevi non vi si arrestano, o almeno non vi si possono accumulare; onde la montagna par bruna al confronto con gli altri monti nevosi, e specialmente col Monte Rosa che attrae così piacevolmente il nostro sguardo per la sua maravigliosa bianchezza.

» Il disegno che qui vedete, fedelissimo perchè tratto da una fotografia, basta a mettere i brividi a chi si figuri d’esser sospeso lassù, avviticchiato a qualche ronchione, con lo sguardo che gli piombi per più di mille metri nell’abisso. Per questo il Cervino deluse ostinatamente, come ho detto, gli sforzi degli alpinisti più intrepidi; e se finalmente fu costretto a ricevere sulla neve ancor vergine l’orma del sovrano della terra, si fece per altro pagare assai caro la sua sconfitta.

» Nel 1865, l’inglese signor Whymper, una vera celebrità fra gli alpinisti, risoluto di farla finita una volta con questo nemico del suo genere, si associò nell’impresa tre altri suoi paesani, i signori Hadow e Hudson e il giovine lord Douglas. Con tre delle guide più famose dell’Alpi, Michele Croz, guida di Chamouny, e due Taugwalder padre e figlio, dopo sforzi inauditi, riuscirono a piantare in vetta al Cervino il vessillo della vittoria. Questo avveniva il 14 luglio. Nel giorno, nell’ora stessa, le guide italiane, capitanate dall’ingegnere Giordano, uno dei più arditi precursori dell’alpinismo in Italia, si erano spinte ad esplorare gli ultimi accessi della terribile cima, arrampicandosi pel declivio italiano, e [p. 32 modifica]già stavano per rapire agl’Inglesi il vanto della prima salita lassù; ma, visto il vessillo inglese, volsero indispettiti le spalle e tornarono dond’eran partiti11.

» I vincitori si prepararono alla discesa, che su’ pendii molto ripidi è assai più difficile e pericolosa dell’ascesa. Immaginatevi una parete, anzichè una china, incrostata di ghiaccio, donde sporgono delle schegge su cui s’appoggia a mala pena la punta del piede. I sette viaggiatori discendevano precisamente quella parte suprema del pendio che si vede nel disegno alla distanza di un centimetro dalla vetta (in realtà è di 200 metri), a destra dello spigolo acuto che vedete delineato dalla cima fino al piede della piramide.


» Si erano legati l’uno all’altro per mezzo di una lunga corda, con cui sostenersi a vicenda, se mai un di loro sdrucciolasse. Il signor Rambert critica severamente, e dimostra a rigore di ragionamento scientifico la funesta fallacia di questo metodo applicato alla discesa dei forti pendii. L’urto del primo, che per avventura perda l’equilibrio, invece di comunicarsi a tutti gli altri insieme, dividendosi un po’ per uno fra tutti, si comunica tutto intiero al secondo; e questo, se non lo regge, lo comunica al terzo, raddoppiandolo coll’impeto della sua propria caduta. Così, via via, tutti quanti vanno a perdersi miseramente. La prova di fatto di questo ragionamento dell’illustre letterato fu pur troppo anticipata dalla catastrofe dei nostri sette viaggiatori.

» Precedeva legato ad un’estremità della corda l’intrepido Michele Croz; veniva secondo il signor Hadow, che era il più bisognoso di soccorso, perchè meno atto degli altri a quella tremenda ginnastica; terzo il signor Hudson, che per la sicurezza del piede ben valeva una guida, e sul quale si faceva assegnamento per soccorrere l’Hadow; quarto della funata era lord Douglas; quinto il Taugwalder padre; sesto il Whymper; chiudeva la marcia il figlio Taugwalder. Questi ultimi due, che prima camminavano soli, avevano allora allora annodata la loro corda a quella degli altri cinque.

» Al momento in cui siamo, la brigata si poteva dir ferma, appiccicata ai formidabili scogli. Michele Croz, lasciata per un momento l’accetta con cui le guide alpine sogliono ricavare degli [p. 33 modifica]scalini nella neve o nel ghiaccio, era tutto inteso ad assicurare le mosse dell’Hadow, prendendogli le gambe perchè i piedi trovassero dove postarsi».

«Pare», scrive il Whymper, «che Michele Croz, dopo aver fatto ciò, si volgesse per continuare la discesa. In quell’istante mancò il piede all’Hadow, che cadde sopra il Croz e lo rovesciò sul pendio. Sentii un’esclamazione, distinsi la voce del Croz e lo vidi precipitare coll’Hadow. In un batter d’occhi stramazzo anche l’Hudson, e dietro ad esso lord Douglas. Fu un attimo appena; ma il grido del Croz avvertì il Taugwalder figlio e me di stringerci con tutto lo sforzo possibile alle rocce. La corda era tesa fra noi due, e la stretta ci colpi come fossimo un solo. Noi resistemmo; ma la corda si spezzò fra il padre Taugwalder e lord Douglas. I quattro infelici, Michele Croz, l’Hadow, l’Hudson e il Douglas, tutti in un fascio, orribilmente abbandonati al proprio peso, precipitarono da un’altezza di 1200 metri a sfracellarsi sul ghiacciajo del Cervino (Matterhorn-Gletscher), un di quei che si diramano appiè della spaventosa piramide»12.

«I tre superstiti uscirono salvi da quella catastrofe; ma con che cuore, potete imaginarvelo. I pii montanari si unirono per l’ardua impresa di raccogliere le reliquie dei quattro sventurati; [p. 34 modifica]ma il corpo di lord Douglas fu cercato invano. Il signor Whymper, che lasciò scritti i particolari di questa orribile storia, non rivide mai più le Alpi, e si cacciò fra i geli delle regioni artiche a studiarvi la geologia della Groenlandia13.

7. » Che ne dite adunque di questa catastrofe? Vi par egli che si possa farne un capo d’accusa contro gli alpinisti e i viaggi alpini? Quegli sgraziati non erano provvisti di buone corde; non seguirono un buon metodo di discesa; tra i viaggiatori ce n’era uno non giudicato sufficientemente esperto in quel genere di alta ginnastica!... Che volete di più?... Del resto, anche nel supposto che si usino tutte le precauzioni, non è nemmeno un tal genere di intraprese che io vi consiglio. Quando vi invito a correre sulle orme degli alpinisti, non vi esorto a farvi emuli dei più arditi fra loro. Non vi dico: andate, e piantate la bandiera sopra una vetta inesplorata! Ho da dirvela all’orecchio? Nè chi vi parla, nè lo stesso apostolo Budden non si avventurarono mai a nessuna di queste salite famose. Ci vogliono tempre speciali, e fornite di quelle doti che fanno il capitano impavido nel furore delle tempeste, o reggono attraverso ai ghiacci gli scopritori del polo; muscoli d’acciajo, presenza e freddezza di spirito a prova; nervi che non oscillino, cervello che non giri, capelli che non si dirizzino. Di stoffe così fatte non abbonda mai il mercato.

» Vi dirò anzi che il Club alpino italiano ha questo pregio suo proprio che non si propone tanto di promovere le ardue salite, quanto la cognizione e lo studio di tutto ciò che può utilizzare e sviluppare le innumerevoli riprese della regione alpina. Non è questo un ottimo intento? [p. 35 modifica]

» Io mi contento dunque, ovunque lo possa, di raccomandare ai giovani, ai parenti, agli educatori tutti, i viaggi in montagna, poichè sono convinto che fra i mezzi educativi siano dei migliori. Per me gli è già un alpinista il fanciullo che giunge a fatica sino al dorso dei colli ond’è circondato il villaggio natio; è un alpinista il giovinetto che, infilate le cinghie di una valigia e armato dell’Alpenstock14, fa a piedi il suo primo viaggetto nelle Alpi svizzere ed italiane.

» Mi fanno compassione que’ giovinetti che crescono appiccicati alle gonnelle della mamma oltre una certa età, e vengono su mingherlini, allampanati, cedevoli come i giunchi della palude. Poveri fiorellini scoloriti, cresciuti nell’ombra! In corpo gracile e malescio alberga troppo sovente uno spirito fiacco, timido, ingrullito, senza energia di volontà. Fatelo rampicare quel meschinello, quattro o cinque giorni in montagna, che non sappia la mattina dove andrà a riposare la sera, e vedrete se non vi diventa un altr’uomo. È moda insegnare la ginnastica agli uomini, insegnarla alle donne; ed è una moda assai buona perchè tende all’ideale della umana perfezione — mente sana in corpo sano. — Ma i salti, i cavalletti, le corde, i trappesi e tutto l’arsenale della palestra ginnastica che vale a fronte di una ascensione su qualche cima elevata dell’Alpi? La sera, dopo una camminata di dieci o dodici ore, seduti sulla dura pancaccia d’un’osteria di montagna, che vi parrà più soffice d’ogni sofà, divertitevi a passare in rassegna tutti i vostri muscoli, tutte le fibre del vostro corpo, e troverete che tutti saranno stati in moto, tutti avranno fatto l’ufficio loro, avranno veramente vissuto. Salite: la respirazione si fa più frequente, la circolazione del sangue si accelera, il calore si diffonde fino alle estremità, la carnagione rosseggia, il sudore gronda.... pare una sofferenza, ma l’appetito formidabile, che vi fa somigliare squisito ogni più rozzo alimento, vi dice che il vostro organismo s’è avvantaggiato d’assai.

» E la ginnastica dello spirito non è mille volte preferibile alla ginnastica del corpo? Anche quella si apprende viaggiando in montagna; poichè ginnastica spirituale è la pazienza con cui si [p. 36 modifica]tollera la fame, la sete, il caldo, il gelo, tutti i disagi inevitabili in un viaggio sui monti. L’ilarità, il benessere dell’animo, la poesia dell’intelletto e del cuore, vi faranno accorti che, se il corpo s’è avvantaggiato, lo spirito ci ha guadagnato ancor più.

» Oh il piacere dei monti, non lo provate voi? Quante volte, nella solitudine della mia stanza, sento il richiamo a’ miei monti, al S. Martino, alle Grigne, al mio Resegone, e parmi d’essere portato a volo su quelle cime! È un richiamo febbrile, una fantasia crudele, un fremito, una sensazione nervosa indefinita che vi ammala. La nostalgia dev’essere qualcosa di così fatto. Vorreste volare là.... là.... e spingete lo sguardo dalla finestra, e fate una corsa al bastione15, a passare in rivista quelle cime, quelle nevi lontane. Il vostro sguardo si ferma con predilezione sulle vette da voi già salite, e aguzzate la pupilla come per iscoprire nell’ombre e nelle lumeggiature di que’ rilievi la traccia invisibile dei sentieri percorsi. Oh le montagne! Che v’ha di più semplice e insieme di più attraente di quella linea che ascende, ascende, che si perde nelle nubi o si disegna sul cielo?».

«Essa si eleva»; scrive il Rambert, «essa invita lo spirito a seguirla, e sembra dettargli uno scopo al disopra della vita comune e delle meschine realtà. Essa si eleva; essa vuol dunque ciò che vuole il genio, ciò che domandano l’amore, la religione, la poesia; essa è il simbolo naturale di tutte le sublimi aspirazioni; è la negazione della mediocrità soddisfatta, la negazione della pesantezza16». «Poveretti voi se non sentite il linguaggio dei monti così eloquente e fecondo! È un linguaggio che s’intende, ma non s’interpreta nè si traduce.

» Questa elevazione dell’anima, che par salita tanto più alta quanto più il corpo si è sollevato dalla pianura, è gran parte dell’allegrezza che regna nelle adunanze montane del Club alpino. Quella di Agordo era la seconda a cui assistevo, e ne fui proprio contento. Non temete che ve la descriva; è troppo facile imaginarla. Accoglienze festose; presentazioni e strette di mano amichevoli; seduta animatissima in una chiesuola disposta all’uopo; proposta d’un premio di 1000 lire offerte da Mister Budden all’autore della migliore Guida dell’Alpi; poi, dopo la [p. 37 modifica]seduta, pranzo, e brindisi, e musiche, ed allegrie fino a notte avanzata.

» Ci destammo la mattina per una bella gita nell’interno della valle, e spero che giovedì sarete anche voi così riposati da sentirvi in lena d’accompagnarmivi se v’aggrada».

«Sì certo, sì certo,» ripeteva, sciogliendosi, il gruppo de’ miei uditori; «verremo, verremo».


Note

  1. Giganti smisurati, con un sol occhio circolare in fronte, come indica il loro nome che in greco significa occhio rotondo. Essi abitavano i monti, ne passeggiavan le vette, ne cercavano e ne lavoravano i metalli nascosti. Talora erano rappresentati come pastori selvaggi; tal altra come fabbricatori di edifici, composti di grandi macigni, più o meno grezzi, e chiamati tuttora mura ciclòpiche.
  2. Nemrod, discendente di Cham, chiamato dalla Bibbia robusto cacciatore davanti a Dio, passato in proverbio per indicare un uomo robusto, violento, intraprenditore d’audaci imprese.
  3. Le operazioni geodetiche (geodesia è l’arte di misurare le estensioni terrestri) intraprese in questi ultimi anni dimostrarono che i due monti maggiori della catena del Caucaso, l’Elbruz e il Kasbek, i quali appartengono al defluvio settentrionale della catena, sono anche le due cime più alte d’Europa. Il Monte Bianco arriva a 4810 metri d’altezza: il Kasbek a 5043; l’Elbruz a 5638. È dunque l’Elbruz il più alto monte d’Europa.
  4. Jungfrau (fanciulla), monte dell’Alpi bernesi fra il cantone di Berna e il Vallese, alto 4184 metri sul livello del mare.
  5. Adepto, voce derivata dal latino, propriamente significa colui che ha acquistato: e l’usarono nel medio evo gli alchimisti a indicare colui che aveva acquistato, che possedeva gli alti secreti dell’alchimia. Prese poi (dopochè la chimica e la fisica fecero dimenticare le ciarlatanerie dell’alchimia), il significato più generico di chi si reputa a parte dei misteri di secrete società, di chi s’inscrive in una società qualsisia e ne diventa zelante fautore.
  6. Qui e più innanzi, riferisco le proprie parole di Mister Budden, come ricordo d’averle intese dalla sua bocca. Queste poi si possono leggere in parte nel N.º 228 (25 settembre 1871) del Giornale di Udine.
  7. Neòfito, vocabolo derivato dal greco, significa piantato di recente, e alla lettera, novellamente piantato. Si prende in senso traslato per indicare chi fu di recente ascritto ad una società, convertito ad una religione, guadagnato ad un partito, ecc.
  8. Vedi Figuier, La terre et les mers, a pag. 120. Ivi è riferito anche l’epigramma di cui si parla più innanzi, ma non è detto esplicitamente di chi sia.
  9. Lo suggerirei per lettura a tutti, per modello a nessuno: ai giovinetti lo proibirei per timore di farne de’ ridicoli imitatori.
  10. Rambert, Les Alpes Suisses, vol. I, pag. 10.
  11. L’ingegnere Giordano, costretto dal cattivo tempo a desistere per quell’anno dalla salita, la ritentò nel 1863, e fu il primo che desse la scalata al Cervino per il declivio italiano.
  12. Il disegno mostra di fronte il gran Ghiacciajo di Furgen colle sue belle morene, e alla destra il Ghiacciajo del Cervino. Sull’altro declivio, ma nascosto dai primi rilievi della base in cui si prolunga, lo spigolo che divide in due parti il declivio Svizzero. Ora il lettore potrà intendere e, spero anche, gustare il breve apologo col quale il Rambert alluse a questa catastrofe, e di cui mi sono studiato di conservare le native bellezze nel tradurlo. Il poeta simboleggia nella fisica struttura del Cervino la superbia indomabile, a cui di nulla cale purchè sovrasti, e che d’altro non si duole fuorchè dell’altrui preminenza.

    Il Monte Rosa e il Cervino.

    Mentre il bujo notturno il mondo ingombra
    Udissi il Rosa volgersi al Cervino:
    «Che rantoli mai tu, chiuso nell’ombra,
    Maledetto fratel, fosco vicino?

    Le tue vittime sogni? od il sentiero
    Ti punge, che a te pure incise il fianco?
    Sogni l’ossa acciaccate e il sangue nero
    Che l’irte rupi tue lorda puranco?»

    «Che importa a me delle formiche umane?
    Di que’ nani?» risponde l’omicida;
    «Sognavo.... oh rabbia! cime più sovrane
    La cui fronte più in alto il ciel disfida!»

    Mentre almanaccavo questi versi, parendomi naturalissimo che le montagne si parlino anche da un continente all’altro, mi sembrò di sentire il Gorishanta dar sulla voce al Cervino. Il Gorishanta (detto anche Gaurisankar o Gauriscnaka o Monte Everest, dal maggiore Everest che ne misurò l’altezza ) è il picco più alto dell’Himalaya e, per quanto ne sa di presente la geografia, è la cima più elevata del globo. L’Atlante dello Stieler gli dà 27,272 piedi cioè metri 8840 di altezza sul livello del mare. Ecco dunque la paternale che il gigante dell’Asia, o meglio della terra, parevami che facesse al Cervino:

    Al Cervino il Gorishanta.

         «Taci, nano d’Europa!» Il Gorishanta
    Tuonò al Cervino. «Chi, di sua statura
    Superbo, il cielo disfidar si vanta,
    Badi almen se m’arriva alla cintura.

         Sai che appresi quassù donde vegg’io
    Tanti mondi danzar? Son nostre cime
    Rughe sul volto della terra: Iddio
    Solo è l’inaccessibile, il sublime!»

  13. Ne raccolse buon numero di piante fossili, illustrate poi dal professore Heer di Zurigo nella sua grand’opera: La Flora Artica, ossia descrizione delle piante fossili delle regioni artiche.
  14. Alpenstock (bastone alpino) chiamano i tedeschi un bastone alquanto più alto della persona, munito di una punta di ferro all’estremità inferiore, usato invariabilmente, o per bisogno o per vezzo, da tutti i viaggiatori e le viaggiatrici nelle Alpi. Sull’asta di esso sogliono stampare a ferro rovente i nomi dei luoghi più celebri visitati.
  15. Bastioni si dicono a Milano gli avanzi delle antiche mura smantellate, che cingono ancora la città, e che furono ridotti in forma di ombrosi ed ameni passeggi. Di là, riunite in una sola cerchia nevosa e dentata, si prospettano le Alpi e le Prealpi.
  16. Eugenio Rambert, Les Alpes Suisses, vol. I, pag. 29