Il Museo Bottacin
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- Questo testo fa parte della rivista Rivista italiana di numismatica 1897
- Questo testo fa parte della rivista Rivista italiana di numismatica 1898
IL MUSEO BOTTACIN
ANNESSO ALLA CIVICA BIBLIOTECA E MUSEO DI PADOVA1
Fra tanto attuale fervore per gli studi patrii, è indubitato che anche la scienza che ha per oggetto le antiche monete, principale ausiliaria della cronologia e della storia, dovrà riacquistare in Italia quell’intiero favore e quella diffusione che a ragione si merita. Tacendo di alcune splendide eccezioni, havvi bensì ancora qualche tiepidezza, prodotta più che altro, da estrinseche cagioni, ma sorgono anche tuttodì indizi consolanti del contrario, e sono: il numero ognor crescente di raccolte numismatiche pubbliche e private, le pubblicazioni di singole o periodiche opere nummografiche che ad intervalli compariscono, e quelle di maggiore entità che da alcuni valenti si stanno dettando.
Salutiamo con gioia questo ravvivato indirizzo delle menti verso lo studio della patria numismatica, imperocché siamo d’avviso ch’esso sia destinato a rendere importanti servigi ed accrescere gloria al bel paese. Ed invero, non sono le monete monumenti parlanti delle età passate; fonte ricchissima per la cognizione della cronologia, della storia, dell’archeologia; specchio sincero delle condizioni civili, delle tendenze religiose, dello stato economico e di quello delle arti nelle città e regioni in cui ebbero corso? Se così non fosse, tutti i governi civili profonderebbero tante cure e tanti tesori nella fondazione od ampliazione di ricchissimi gabinetti numismatici, e nobili municipi, gareggiando con essi a tenore dei propri mezzi, porrebbero sì amorevole studio nel comporre raccolte di monete, sia pure della sola provincia o città propria? E magnanimi cittadini, inspirati da tale verità, farebbero ad essi generosa cessione delle collezioni intorno alle quali spesero cure infinite e tempo e ricchezze? È d’uopo convenire che nelle antiche monete siavi ben più di quanto la folla dei profani è disposta di ravvisare, se vediamo, per citare pochi esempi, il dominatore della Russia decretare l’acquisto di vistosissime raccolte già di privata ragione; il Museo Britannico non trascurare occasione, ne arrestarsi a dispendi per l’incremento delle proprie collezioni, ed aggiungere premuroso perfino serie tali la cui immediata utilità per esso non apparisce a prima vista, come ad esempio la cospicua raccolta di monete venete già formata da Enrico Koch in Trieste, e fare altrettanto i governi di Prussia e di Francia, e questo, con decreto speciale del Ministero della Pubblica Istruzione, notisi bene, autorizzare la spesa di ben trentamila franchi per l’acquisto di un solo aureo medaglione di Eucratide, re della Battriana!
Per ciò che riguarda raccolte numismatiche formate da privati e generosamente donate a città di loro predilezione, basti citare il defunto benemerito cittadino Camillo Bruzzoni, che legava alla sua Brescia la ricchissima serie di monete e medaglie, precipuamente italiane, da lui adunata, raccolta che attende ancora di essere convenientemente disposta e cribrata; l’illustre commendatore canonico Spano, che cedeva al Regio Museo di Cagliari la importante serie di monete ed altre antichità dell’isola Sarda, con somma diligenza da lui composta, e finalmente il chiarissimo signor cavaliere Nicolò Bottacin, il quale in pari modo donava alla città di Padova l’egregia collezione di monete e medaglie che con grandissimo amore e lauto dispendio andò formando nella cortese Trieste, che per molti anni ebbe la ventura di annoverarlo distinto ed onorato cittadino. E fece opera magnanima e giusta, avvegnachè quella dotta ed illustre città, nella cui provincia egli ebbe i natali, fosse ben degna di tale preferenza, e meritasse di aggiungere a tanti altri titoli di gloria ed al possesso del più antico giardino botanico, di ricchissime raccolte paleontologiche, zoologiche, e mineralogiche, di ampie biblioteche ed archivi, e di una pregevole pinacoteca, un sì segnalato gabinetto numismatico, il quale compendia in sè la storia d’Italia delle età di mezzo e dei tempi a noi più vicini. E la città per tal modo prediletta corrispose degnamente a tanta liberalità, perchè tosto la illustre sua rappresentanza sanzionò riconoscente l’accettazione del cospicuo dono, ed annuì ai desideri espressi dall’egregio cavaliere, statuendo quella raccolta fosse conservata in apposita sala del Civico Museo, la quale avesse titolo di Museo Bottacin, e decretando inoltre l’aggregazione dell’illustre donatore alla cittadinanza padovana, come poco appresso la insigne Accademia della stessa città acclamavalo suo socio onorario. Né a ciò soltanto si arresteranno le premure della illustre Rappresentanza padovana, ma siamo convinti che come ella provvederà nell’avvenire pel più conveniente collocamento della sua Civica Biblioteca e Museo, farà quanto è da lei acciò anche le serie numismatiche del Museo Bottacin siano sempre custodite, nonché aumentate colle più amorevoli cure, e ne sia colle dovute cautele facilitata l’ispezione agli studiosi.
Se le raccolte sono la suppellettile indispensabile d’ogni studio scientifico, gli arsenali, per così dire, nei quali la scienza ritrova le più valide armi per la conquista del vero, conviene tuttavia che l’uso di esse ne sia facilitato in tutti i modi possibili, coll’ordinamento più opportuno e razionale, colla cortese prestazione per parte degli incaricati alla loro custodia, e con cataloghi stampati che ne divulghino anche ai lontani la conoscenza.
Sono i cataloghi per mio avviso tanto importanti, che nessuna collezione di qualche entità dovrebbe esserne priva; sono essi altrettante guide che segnalano all’attenzione degli studiosi ciò che a loro può maggiormente interessare, li sollevano da molte noiose ricerche, e li aiutano in quelle che per iscopo di studi speciali vanno facendo. Qualora si avessero stampati con buon metodo e precisione i cataloghi delle principali raccolte di monete di zecche italiane, sarebbe già fatto un passo gigante verso quella completa illustrazione di esse, la quale, mediante singole monografie, non potrà essere ottenuta che in lungo lasso di tempo. Di ciò emmi chiaro essere convinti anche il prelodato commendatore Spano, che dettò il catalogo delle raccolte da lui donate al Regio Museo di Cagliari, l’illustre dottore Luigi Pigorini, che diede principio alla pubblicazione di quello del Regio Museo parmense, alle dotte sue cure affidato, e l’egregio cavaliere Bottacin, il quale si è proposto di effettuare quello delle monete e medaglie che compongono il Museo da lui intitolato. Ma poiché la compilazione di un catalogo generale di tutte le serie ivi accolte richiederà tempo, ho stimato potesse intanto tornare opportuna una succinta notizia che desse ragione dell’importanza di quelle raccolte, e ne facesse risaltare i pregi generali e le specialità più meritevoli di rimarco. Gli è ben vero essersi di già ciò fatto per opera dell’illustre signor professore Andrea Gloria nella Relazione dei doni offerti al Civico Museo, impressa nell’anno 1867, ma poiché suo scopo era soltanto quello di porgere una generale idea del Museo Bottacin, così restami ancora campo aperto per farne alquanto più lungo ragionamento, ed è ciò che ora intraprendo.
Il Museo Bottacin, come disse di già il prelodato signor professore, componesi di sei parti o serie distinte, disposte con bell’ordine in altrettanti stipi di elegante e solido lavoro, eseguiti a spese dello stesso donatore, unitamente ad ogni altro arredo indispensabile a quella sala. Il primo contiene la serie delle monete di zecche italiane, escluse quelle che fanno parte delle seguenti: pontificia, veneta e napoleonica; il secondo rinchiude la serie delle monete, bolle e medaglie dei romani pontefici; il terzo quello delle monete venete; il quarto una collezione di monete e medaglie della grande rivoluzione europea, di Napoleone I sino al trasporto delle sue ceneri a Parigi, e dei membri della sua famiglia; nel quinto è disposta una incipiente raccolta di nummi dell’antica Roma repubblicana ed imperiale, e nel sesto una collezione di fac-simili di oltre tremila pregevoli cammei, che si conservano in vari Musei d’Europa. Il centro della sala è adorno di una vaga custodia a vetri, nella quale per ora stanno esposti alcuni pregevoli medaglioni d’argento e di bronzo, una raccolta di monete, medaglie e sigilli che ricordano i fatti che iniziarono e portarono quasi a compimento la indipendenza di tutta Italia, ed un prezioso aureo anello-sigillo pel doge Paolo Renier. Ammiransi inoltre in quella sala un pilo di bronzo, opera squisita di Andrea Briosco, detto il Riccio, rinomato plasticatore padovano; il busto in terracotta del nominato doge, modellato dalla mano dell’immortale Canova; quello in gesso del pontefice Pio VII, dallo stesso; una copia, pure in gesso, della effigie del cantor dell’Inferno, opera del secolo XV, che serbasi in bronzo nel Museo Nazionale di Napoli, ed una serica bandiera militare della Veneta Repubblica.
Fra cotante preziosità riunite ne sarebbe mancata una essenzialissima, quella dei libri, elemento e scorta indispensabile d’ogni studio, ma anche a ciò seppe provvedere il previdente donatore, mediante buon novero d’opere di storia, d’archeologia e d’arte, pelle quali egli si è proposto di far foggiare apposito mobile in armonia coi ricordati, quando altra sala di maggiore capacità ne permetterà il collocamento.
Nè con ciò è ancora segnato l’ultimo confine alla generosità del benemerito cavaliere, avvegnachè egli continui senza posa ad aggiungere cose nuove al santuario di sua creazione, il quale non passa giorno, può dirsi, che non vada arricchendosi maggiormente in monete, in medaglie, in libri od altre pregevolissime cose. Egli vi ha consacrato ormai ogni suo pensiero, da quando, abbandonate le cure del commercio, fissò stabile dimora nella città antenorea. £ necessario che ciò sappia l’Italia, la quale, se ognora onorò i figli egregi che la illustrarono colle opere dell’ingegno e del valore, non mancherà di acclamare altamente suo benemerito chi, munificentemente largendole i frutti della sua colta e diligente operosità, mostrava una volta di piia come, anche all’infuori del ministero della spada, o di quella della parola, si possa diventare grandemente utili al proprio paese.
Ed ora passerò ad accennare per sommi capi quanto custodiscono quei medaglieri, dall’ordine dei quali discostandomi in parte, seguirò per le monete italiane il geografico-politico, siccome quello che meglio soddisfa alle ragioni scientifiche, per rapporto alla storia del passato, alla quale cosifatti monumenti si riferiscono.
Sorpassando le ragioni che consiglierebbero di collocare prime nell’ordine delle monete italiane quelle che portano impressi i nomi dei re e degli imperatori di stirpe ostrogota, longobarda, franca, italiana e tedesca, senz’altra indicazione delle zecche onde uscirono, per essere desse ancora in iscarso numero in questo museo, e soltanto della serie dei re goti, con pochi denari dal tempietto e colla leggenda xpistiana religio, furono aggiunte le prime alle monete della zecca di Ravenna, ed inserite le altre fra quelle di Milano, nella cui zecca alcune con qualche verosimiglianza, altre con certezza si ritengono battute.
IL PIEMONTE E LA LIGURIA
Torino.
Al nome di questa principale zecca della reale dinastia di Savoia, onde non ismembrare di troppo la loro serie, si raccolsero tutte quelle monete che dal conio distinto, o pei nomi locali inscrittivi più che con semplici iniziali, o per circostanze particolari di loro battitura non fannosi a prima vista riconoscere per fattura di altre zecche.
Ove si rifletta alla doviziosità di questa classe, quale ci fu rivelata dall’opera insigne dell’illustre sig. commendatore Promis, è giuocoforza confessare essere ben arduo raggiungere in essa quel grado di perfettibilità ond’è suscettibile, amenochè uno non voglia dedicarvisi con ispeciale predilezione; ma tuttavia non è spregevole il novero e la qualità dei pezzi già raccolti, fra cui sembranmi degni di menzione i seguenti:
Un denaro di tipo ginevrino, per opinione di quell’egregio autore battuto nella zecca di Nyon dal conte Amedeo VII; due esemplari, uno dei quali con leggende scorrette, del ducato d’oro del duca Lodovico, fatto a similitudine di quelli di Milano dei duchi viscontei; un denaro piccolo di Filiberto I, un testone di Carlo I; un denaro inedito di Carlo II (Vedasi tav. IV, n. 1); due scudi d’oro ed un tallero col duca battagliero a cavallo, di Emmanuele Filiberto; il ducato d’oro col simulacro della Madonna di Vico, due ducatoni ed un mezzo ducatone dall’arme, uno scudo di Vercelli col Beato Amedeo, e due mezzi scudi Spadini, uno dei quali contromarcato, ed una lira di Carlo Emmanuele I; un ducatone di Vittorio Amedeo I; la doppia da due di Maria Cristina, tutrice dell’infante Francesco Giacinto; un quarto di ducatone della seconda reggenza di quella principessa, sfuggito alle diligenti ricerche dell’esimio Commendatore (Tav. IV, n. 2); lo zecchino dell’Annunziazione, nonché la sua metà, di Carlo Emmanuele III, ed altre belle cose in tutti i metalli, che oltrepassano il numero di cento pezzi.
Di questa stessa zecca evvi poi un denaro piccolo tornese di Filippo principe d’Acaia.
Asti.
Venendo alle minori zecche del Piemonte, e procedendo per ordine approssimativo di anzianità, incontriamo Asti che da Corrado II ebbe il privilegio della moneta, e tenne zecca operosissima, in fuori di qualche breve interruzione, pel corso di tre secoli e mezzo, come dimostrò con altro lodatissimo dettato il predetto signor Commendatore. Ma, quantunque codesta zecca vanti numerosi monumenti, sono dessi per la massima parte rari, e pochi ne serba questo museo, per cui limiterommi a citare la pregevole parpagliola dalla croce del re Lodovico XII, ed il cavallotto del principe Emmanuele Filiberto.
Alessandria.
Delle sole tre monete finora conosciute, lavorate entro le mura di questo forte propugnacolo d’Italia, evvi la ossidionale da dieci soldi, di schietto rame, fatta battere dal governatore marchese di Caraglio, in distretta di numerario, mentre eravi bloccato dal generale Maillebois, nell’anno 1746; e per di più sia ricordata la non rara medaglia colla effigie del re Carlo Emmanuele III, commemorativa di quell’assedio.
Novara.
Questa città, sì di sovente contrastata a furore d’armi, i cui monumenti numismatici sono pochi e tutti notevoli per rarità, è rappresentata da tre monete, cioè, dal prezioso grosso col nome di un Enrico imperatore, che l’illustre commentatore delle zecche del Piemonte determinò essere il sesto; dal denaro piccolo imperiale che lo stesso giudicò appartenere alla prima metà del secolo XIII, mentre il chiarissimo signor D.re P. Caire vorrebbelo più antico, e forse del vescovo Guglielmo Torniello, intorno al 1153, e finalmente da un sesino o quattrino che sia, di Pier Luigi Farnese, il quale, sebbene fosse contemporaneamente duca di Parma e Piacenza, non potè, come tale, esercitare la facoltà di battere moneta che in questo suo inferiore dominio dal rango di marchesato.
Susa.
Più antica fra le zecche dei conti di Savoia, e pella quale il Rabut tentò rivendicare un tremisse merovingio, non figura che per un solo denaro, facile a rinvenire, di Amedeo III.
Tortona.
Le pochissime monete esistenti di questa città ricordano tutte l’imperatore Federigo II che nell’anno 1248 accordavale il privilegio della zecca, e poiché vi sono rarissime le suddivisioni del grosso, non possiamo affermare che il possesso delle due varietà di esso, la prima delle quali con la croce accompagnata da due anelletti, che mostra carattere di maggiore antichità, è di qualche pregio.
Acqui.
Contemporanea a quella di Tortona, questa zecca, oltre a monete simili a quelle, segnate dal nome del secondo Federico, ne vanta alcune del vescovo Oddone Berlinghieri, dei primi anni del secolo XIV, tutte rarissime, sì le prime che le seconde, ond’è che con piacere notiamo l’esistenza del denaro mezzano col nome di quell’imperatore, divulgato dalla Rivista Italiana della Numismatica.
Vercelli.
Al pari delle due precedenti ebbe questa antichissima città da Federigo II il privilegio della moneta, ma di quel primo periodo della sua zecca è noto un solo pregevolissimo grosso, del quale forse col tempo si scuopriranno le parti aliquote. Fu poi operosissima sotto il dominio dei duchi di Savoia, pel corso di oltre un secolo, dal 1530 in poi, e le monete battutevi essendo per lo più contraddistinte dalla iniziale del suo nome, tacerò di esse per la già esposta ragione, e limiterommi a segnalare due pezzi i quali ricordano l’assedio sostenutovi dal governatore marchese Dogliani a nome della duchessa Maria Cristina, reggente e tutrice del figlio Francesco Giacinto, contro le armi di Spagna, nell’anno 1638.
Il primo è un quarto di lira di bassa lega che differisce da quelli riportati dall’illustre Commendatore Promis, ma è invece uguale alla doppia, e mostra dunque che gli stessi coni servirono per due effetti. Il secondo è un mezzo soldo di lega ancor più povera, pochissimo dissimile da quello che figura nella dissertazione delle monete ossidionali del Piemonte.
Chivasso e Casale.
Raccogliamo in solo gruppo queste due città, nelle quali i marchesi del Monferrato fecero lavorare il maggior numero delle loro monete, per esserci impossibile di trovare la linea matematica che distingue i prodotti monetali dell’una da quelli dell’altra. Alla prima, nella quale forse anche Manfredi IV, marchese di Saluzzo, pretendente al marchesato di Monferrato, fece battere un suo denaro imperiale, spettano verosimilmente quattro monete di questa raccolta: un grosso ed un mezzo grosso di Giovanni I e due quarti di grosso di Teodoro II. E giacché l’esimio illustratore di questa serie lasciò indeterminato l’oggetto simulante una S coricata che osservasi sovra uno di tali pezzi, siami lecito notare essere quello un nastro o cartello colle estremità attortigliate in senso opposto, che per tale si manifesta sul nostro perfetto esemplare.
Fra le monete della stirpe paleologa che con più certezza si possono assegnare alla zecca di Casale, vogliono essere ricordati un bel esemplare del cornabò di Bonifacio II, ed un cavallotto di Gian Giorgio, alle quali può aggiungersi il rolabasso col cervo accosciato, improntato del nome dell’imperatore Carlo V, tutti pezzi di qualche pregio.
Delle monete uscite dalla stessa zecca, mentre il Marchesato ubbidiva ai Gonzaghi signori di Mantova, sarà detto più avanti.
Ivrea.
Codesta sede dei celebri marchesi che diedero all’Italia tre re, non vanta finora che due sole monete inscritte del suo nome e di quello d’un imperatore Federico, verosimilmente il secondo, in omaggio, sembra, di privilegio concessole, ma battute nei primi anni del secolo XIV, in uno dei brevi intervalli di sua indipendenza. In tanta penuria il gabinetto Bottacin è pago di possedere il grosso tirolino e fa assegnamento sul tempo, ch’è galantuomo pel più raro piccolo imperiale.
Cortemiglia.
Di questo già feudo dei marchesi del Carretto, i quali piuttosto per arbitrio che per concessione vi batterono moneta nel principio del secolo XIV, cessando ben presto in forza di divieti dell’imperatore Enrico VII, evvi pure un grosso tirolino, quello di Manfredo II, prezioso non meno di tutte le altre monete improntate del nome di quei marchesi.
Aosta.
Che i Salassi che ne popolavano la vallata vi abbiano avuta propria moneta è opinione che s’accostò alla certezza dacché gli illustri investigatori T. Mommsen ed A. di Longpérier ne esposero i sodi argomenti, come non è forse infondato il sentimento di coloro che a questa città attribuiscono alcuni tremissi di stile merovingio. Checché ne sia di ciò, basti pel caso nostro constatare che il conte Amedeo Vili vi fece aprire una zecca, e che altri principi della stessa stirpe vi fecero lavorare monete, inscrivendo talvolta in esse il nome latino di Augusta Praetoria. Non sono molte quelle di tal fatta e però non deve sorprendere se due sole ne serba questo museo, cioè due quarti di soldo col nome di Emmanuele Filiberto.
Carmagnola e Saluzzo.
Sebbene per un denaro fatto palese dal più volte encomiato commendatore Promis, apparisca che un figlio di Tommaso I, marchese di Saluzzo, esercitasse la prerogativa della zecca in Dogliani in sul principio del secolo XIV, ed in quel torno il marchese Manfredo IV, come fu già avvertito, facesse altrettanto in Chivasso od altrove, ed altri dello stesso casato abbiano probabilmente nello stesso secolo fatto battere moneta (denari imperiali), pure, di una loro zecca stabile e duratura non bassi indizio che verso la fine del secolo XV, allorché ne apersero una in Carmagnola, seguita da altra in Saluzzo, e dal marchese Lodovico II (1475-1504), non già da Lodovico I, come vorrebbero i Muletti, deve riconoscersi il principio di queste zecche, i cui prodotti, nella massima parte dei casi è per noi sì difficile, per non dire impossibile, di sceverare, che, almeno fintanto che quel luminare della numismatica italiana non ci abbia data la loro storia, non possiamo fare a meno di riunirle in un solo manipolo.
Le poche monete finora poste assieme di questa serie spettano ai marchesi Lodovico II, Michele Antonio, e Francesco, nè sono rare, ad eccezione di un quattrino del primo che offre inscritta la parola noc, motto a grido di guerra, bellicus clamor, usato da quella valorosa prosapia, che al Sanquintino parve enigmatico, ma non è punto, mentre, come già avvertiva il Denina, è quella una voce tedesca che suona, ancora. Che se la lezione sulla moneta in discorso è sbagliata, in più luoghi del castello di Saluzzo quella parola leggesi invece correttamente, noch2.
Dezana.
È sorprendente la ricchezza di questa zecca quale si manifestò per le opere degli illustri Friedlaender, Gazzera, Promis e Morel-Fatio, e pronostico di quanto talune altre serie numismatiche di città italiane diventeranno per opera di quei valenti che con amore si accingeranno a tesserne la storia.
Il gabinetto del quale vado brevemente informando conserva fra le monete di questa categoria le seguenti degne di ricordanza: Due cavallotti di Lodovico I Tizzone; il testone dell’usurpatore Pietro Berard; il testone dall’aquila e dal santo di Gianbartolomeo Tizzone, ed un esemplare di buona lega della murajuola col Santo Germano del conte Agostino. Offre inoltre qualche interesse un quattrino del conte Delfino colla H coronata e la croce gigliata, il quale sul primo lato, dopo il nome reca le iniziali A. F, ed al rovescio, dopo i titoli e l’anno 1585, le lettere R. G. Poiché queste dinotano Rolando Gastaldo, quelle, non per anco osservate, alludono verosimilmente ad un compagno di quel zecchiere.
Montanaro.
Rammembrando il numero esiguo e la singolare rarità delle monete finora emerse, dagli abati di san Benigno di Fruttuaria fatte battere nelle loro terre di Montanaro e di Lombardore, non è piccolo vanto per questo museo possederne tre. La prima, che per di più è anche inedita, è un cavallotto anonimo, il quale, per l’analogia che presenta con altri simili pubblicati da Tenivelli, Mader e Litta, credo spettare al Cardinale Bonifacio Ferrero che primo fra quelli abati esercitò il diritto della moneta, per concessione di papa Clemente VII (Tav. IV, n, 3). Le altre due, che portano il nome dell’abate Ferdinando Ferrero, sono quelle che vedonsi raffigurate nelle tavole del Litta, grosso forse la prima, quattrino la seconda.
Crevacuore e Messerano.
Da più autori fu riportato un privilegio dell’anno 1249, col quale Guglielmo Imperatore concedeva ai Fieschi, con altri diritti, quello pure della zecca, ed il Litta affermò, ancora prima di quell’anno avere essi battuto moneta in qualità di Conti di Lavagna. Gli angusti limiti del presente lavoro non concedono digressioni sull’attendibilità di tali notizie, ne io sarei da tanto di farle concludenti, ma poiché in breve sarà fatta pienissima luce anche in questo campo per opera di chi già tanta ne versò sulla patria numismatica, basterà per intanto ch’io mi attenga al fatto delle monete divulgate dei signori di Messerano, le quali non risalgono più in là del principio del secolo XVI, e spettano in parte a due personaggi della famiglia Fieschi, ed in maggior copia a sei del casato Ferrero di Biella che da quelli ereditarono feudi e privilegi.
Furono le loro monete battute in Crevacuore ed in Messerano, e sebbene non manchi a questo gabinetto l’anonimo grosso tirolino colla leggenda: moneta nova crepachorii, evidente fattura del secolo XIV, emmi quel pezzo ancora troppo oscuro perchè io possa azzardarne qualche attribuzione. Le altre monete più sicure e più osservabili dell’una e dell’altra zecca sono le seguenti: Di Lodovico II con Pier Luca Fieschi evvi il testone coll’aquila ed il San Teonesto a cavallo; di Lodovico II solo, due testoni colla di lui effige ed il santo assiso; di Pier Luca II, il testone dall’aquila col santo ritto, e sono tutte belle monete.
I Ferreri contano otto pezzi, e sono rimarchevoli la imitazione del bianco di Bologna del marchese Besso; due talleri del principe Filiberto Ferrero; il quattrino anonimo sul quale un poco avveduto nummografo, invece del nome di Crevacuore volle scoprire quello di Carmagnola, feudo dei Saluzzesi, ed un quattrino foggiato ad imitazione di alcuni di Milano di Filippo IV, il quale, per essere sciupato, mi lascia dubbioso, ma che forse appartiene al principe Francesco Lodovico Ferrero.
Passerano.
In breve volgere di tempo il novero delle monete uscite da questo scomparso castello dei Conti Radicati, tratte dall’obblio quase tutte per opera di due diligentissimi ricercatori, s’accrebbe di tanto da detestare invidia a molte città d’alta storica rinomanza. Sono per la massima parte prodotti clandestini e contraffazioni d’altre zecche, emessi con iscopo d’illecito guadagno nel corto intervallo di pochi anni, dal 1581 al 1598. Sette, tutte prive di nomi personali, ne conserva il Museo Bottacin, fra cui una che seppe occultarsi alle ricerche di quei valenti, una parpagliuola cioè di schietto rame, fatta con più intiera somiglianza di quelle di Milano dalla Provvidenza, perchè ne ripete esattamente le leggende e soltanto i due quarti dell’arme ostendenti ivi il biscione visconteo, sono in questa occupati dal castagno sbarbicato dei Radicati. (Tav. IV, n. 4).
Frinco.
Altra effimera zecca ch’ebbe vicende simili alla precedente e l’onore degli stessi illustratori. Cinque sono le monete che trovammo di questa officina, ma nessuna ci offerse qualche particolarità degna di rimarco.
Pria di abbandonare il Piemonte conviene ch’io accenni a due monete che vi hanno relazione. La prima è il denaro dal tempietto, di Lodovico I, signore di Vaud, terzogenito di Tommaso II, conte di Savoia, battuto nella zecca di Thierrens presso Modone. La seconda è un denaro che al nome di Aimone, tracciato negli angoli d’una croce, ed al titolo di duca del Ciablese, unisce sul secondo suo lato il tempietto, simbolo della religione cristiana, attorniato dalla corrispondente inscrizione: xpi(sti)ana religio. Tale pezzo che al certo fu battuto al di là delle Alpi, volle il marchese di Pina emesso da Aimone conte di Savoia (1329-1343) in san Maurizio d’Agauno nell’alto Ciablese, ma potrebbe di ciò dubitarsi, non vedendolo figurare fra le monete di questo conte proposte dal commendatore Promis. E tale dubbio si rafforza alla vista di quel tempietto di pretta forma carolingia, che consiglia a tenerlo più antico. Gli è perciò che oserei attribuirlo ad Aimone signore del Ciablese, terzogenito del conte di Savoia Tommaso I, morto intorno al 1238, se a ciò non si opponesse il titolo di duca che accompagna il nome, titolo il quale, secondo Guichenon, soltanto in quell’anno sarebbe stato accordato al conte Amedeo IV, dall’imperatore Federico II.
Genova.
Sebbene si abbiano alcune pregevoli dissertazioni sulla moneta genovese, manca tuttora una storia completa di essa, e la mancanza, sta, come per qualche altra primaria zecca d’Italia, in ragione diretta della sua importanza e della ricchezza dei suoi prodotti, al che si aggiunge in questo caso la difficoltà di concordare la serie metallica colla cronologica per ciò che riguarda le monete più antiche dei dogi perpetui. Ma evvi fondamento a sperare che presto possa essere riempiuta tale lacuna, sapendosi come da alcuni egregi eruditi di quella città si stanno diligentemente raccogliendo i materiali per tale effetto.
Questa città è sufficientemente rappresentata nel museo padovano, contando oltre ottanta monete fra le quali fermarono la mia attenzione le seguenti. Della prima epoca, dell’anno 1139 fino al 1339, il quarto di genovino d’oro ed il genovino coll’acclamazione Janua quam Deus protegat. Del tempo dei dogi perpetui e dei dominatori stranieri, un grosso ed un mezzo grosso di Filippo Maria Visconti; un grosso ed un più raro mezzo grosso di Pietro Fregoso il giovane; genovino d’oro ed un grosso di Galeazzo Maria Sforza; un magnifico pezzo, forse testone maggiore da venti soldi di Gian Galeazzo Maria Sforza; un grosso di Battista Fregoso; un bel testone di Lodovico XII, ed un mezzo testone di Francesco I (Tav.IV, n,6).
Ho scavalcato un pezzo che sembrami rimarchevole, per poter dirne con agio qualche cosa. È desso un mezzo grosso anonimo e privo di numero d’ordine, colla leggenda: ianva. q. devs. protegat, la quale, secondo il Gandolfi, non sarebbe stata usata sulle monete che fra gli anni 1252-1339, e secondo l’illustre conservatore del gabinetto Reale di Torino, avrebbe avuto tempo ancor più limitato (Monete di Savona, pag. 23). Ben alieno dall’oppormi a tanto sapere, ed ammettendo anzi incontrastabile quel criterio in tesi generale, questa moneta, segnerebbe una eccezione, perchè allo stile si palesa di molto posteriore, onde inclino a crederla battuta in occasione di qualche vacanza o mutamento di governo, per cui nell’entusiasmo del momento, si ritornò a quell’antica invocazione. Dirò di più: quella moneta offre sì grande analogia coi mezzi grossi col duca Filippo Maria Visconti, che non sembrami troppo azzardato tenerla fabbricata nell’anno 1436, nel quale i Genovesi, insorgendo, si liberarono dall’aspro governo di quel principe. (Tav. IV, n. 5).
Abbondano le monete della terza epoca, in tutti i metalli, ma dacché esse porgono in generale poco interesse, mi restringerò a ricordare due rari pezzi, che stimo quarti di ducatoni, i quali arieggiano le forme delle monete veneziane nelle loro rappresentazioni del Redentore che benedice al doge genuflesso. Il primo è dell’anno 1554, ed il secondo, notevolmente differente pel disegno, del 1563. (Tav. IV, n. 7).
Savona.
Una sola moneta, un ottenne da tre denari di Lodovico XI, rappresentava questa città allorché ispezionai i medaglieri del museo Bottacin, ma, intanto che ripassavo gli appunti fatti, l’indefesso donatore vi aggiunse il prezioso fiorino d’oro, incunabulo di questa zecca, battuto intorno all’anno 1350.
Tassarolo.
Feudo principale della potente famiglia Spinola, eretto in contea nell’anno 1560 in favore di Marcantonio dall’imperatore Ferdinando I, le monete poco numerose battutevi dal di lui figlio Agostino e dal nipote Filippo hanno tutte pregio di rarità e godo perciò poter segnalare l’esistenza di quattro fra esse.
Del Conte Agostino, oltre al quarto di scudo col millesimo 1607, e l’ottavo simile, ma privo della data, evvi un pezzo non osservato dal diligente Olivieri, il cui disegno tornerà gradito ai cultori della patria numismatica. È desso una parpagliuola fatta con esatta imitazione di alcune uscite dalla officina di Casale nel tempo in cui vi ebbero dominio i duchi di Mantova. (Tav. IV, n, 8).
Del conte Filippo osservasi il ducatone col problematico Santo a cavallo che vuole essere raccomandato agli eruditi agiologisti.
Ronco.
Di codesto feudo d’altro ramo degli Spinola conviene ricordare un ottavetto del marchese Napoleone, che offre la data 1669. Al pari d’altri da me veduti è d’aspetto sì nuovo e sì lampante da indurre sospetto che ne esistano tuttora i coni e da essi, in tempo a noi vicino, ne siano stati battuti alcuni esemplari a compiacimento dei raccoglitori smaniosi di cose peregrine.
Loano.
Dopoché l’imperatore Carlo V donava, nell’anno 1547, gran parte dei feudi di ragione dei Fieschi all’illustre Andrea Doria, non trascorse gran tempo che i costui successori vollero far uso del privilegio della moneta che ad essi da quei possessi derivava, e pria che altrove in Loano, le cui poche monete fino ad ora scoperte sono tutte di molta rarità, ond’è che anche il possesso d’una sola accresce merito a qualunque raccolta. Quella che serba codesto gabinetto è un luigino della principessa Violante Lomellini Doria, già edito per il Mantellier, il quale, sebbene non offra il nome di quella feudataria, pure pei documenti riferiti dall’Olivieri chiaramente apparisce essere stato lavorato per di lei ordine.
Torriglia.
Anche in questo minore lor feudo vollero i Doria concedere a privati imprenditori facoltà di lavorarvi monete della specie degli ottavetti o luigini d’imitazione, pel commercio del levante, ed è della stessa principessa Violante quello che si osserva nel nostro gabinetto, ed al pari del precedente è privo del suo nome, ma i documenti ed i punzoni scoperti dall’Olivieri dimostrano con evidenza ancor maggiore che ad essa si deve assegnare. L’esemplare ch’ebbe sott’occhio il Mantellier portava impresso l’anno 1666; altro descritto dal Reichel era contrassegnato dall’anno 1667, e se questo mostra invece la data 1668, ciò serve a comprovare l’attività di una officina della quale sono ora sì fenomenali i prodotti.
Cade opportuno accennare qui ad altri due luigini di tipo trevolziano, i quali, avvegnacchè tuttora indeterminati, potrebbero per avventura essere usciti da taluna delle tante officine abusive della Liguria nelle quali si lavorò tale specie di moneta, e che per tale titolo sono da raccomandare allo studio dei nummofili italiani.
Il primo, che fra gli incerti fu riportato anche in disegno dal Mantellier, ma coll’anno 1668, mentre il nostro reca la data 1669, offre sui due lati la scritta: partes volvptati — orientalivm dicati:. Lo scudo, invece dei tre gigli araldici, è occupato da tre fiori o ramoscelli a cinque foglie che il Mantellier disse impropriamente gigli naturali. Quegli emblemi non rassomigliano nemmeno tanto ad alabarde da potersi ammettere senz’altro essere questo una varietà degli ottavetti suggeriti alla principessa Violante dal P. Noceti, sui quali i gigli furono cambiati in alabarde, perchè, oltrechè differenti, come afferma l’Olivieri, ne erano le leggende, indecoroso ed inverosimile deve tenersi il consiglio del motto Partes voluptati diretto da un simile consigliere ad una principessa scrupolosa la quale appellavasi ai teologi e sopra altre consimili sue monete dichiarava la propria effigie pulcra virtutis imago.
Il secondo di questi luigini, descritto da Mantellier e da altri autori francesi, colla data 1667, ovvero 1668, porta la seguente leggenda, divisa sui due lati, ma principalmente da quello dell’arme: partes curiositate — et delectatione digne (sic). Lo scudo è caricato dei tre gigli col lambello e sott’esso notasi la lettera A, nella quale si potrebbe forse credere adombrata la zecca spinolina di Arquata, se dessa non fosse troppo frequente sulle monete di tal specie, quale nota o finzione della zecca di Parigi, Anche per questo ottavetto presiedette adunque una idea satirica suggerita dalle abitudini galanti di madamigella di Montpensier, e perciò crediamo dovere escludere l’ipotesi che sia stato battuto per autorità di qualche principessa.
Monaco.
Evvi fondata lusinga che non tarderà molto ad essere fatta di pubblica ragione la storia numismatica di questo Principato, che un egregio cavaliere sta dettando, altro indizio che ne fa pronosticar bene per l’avvenire di questo studio in Italia.
Fra le poche monete di questa serie che serba la nummoteca padovana, meritano ricordanza uno scudo ed un luigino del principe Onorato II, ed un luigino di gentile lavoro col nome e le sembianze di Lodovico I.
Cagliari.
Mercè il Bullettino archeologico ed il Catalogo dell’illustre commendatore Spano, le nostre cognizioni sulle più antiche monete dell’isola di Sardegna sonosi di molto accresciute, ma non basta; abbiamo diritto di attendere ben più dal suo colto ingegno e dalla sua operosità, ed una storia completa a8 delle zecche di quella regione porrebbe il colmo alla sua benemerenza ed alla nostra gratitudine.
Le monete di quest’ordine finora collocate nel medagliere Bottacin, ad eccezione di poche dell’ispano re Carlo II, spettano ai regnanti di Savoia e furono battute per la massima parte in Torino, pei bisogni dell’isola. Primeggia una doppietta di Carlo Emmanuele III; un reale di Carlo Emmanuele IV, ed un pezzo da tre cagliaresi di Vittorio Emmanuele I, notevoli questi due per certo originale arcaismo particolare alla zecca di Cagliari, riattivata dopo quasi secolare riposo per ordine del re Vittorio Amedeo III, come insegna il più volte lodato commendatore Promis.
Murato e Corte.
Sebbene l’isola di Corsica segua ora altro destino politico da quello dell’Italia, il tenore della sua storia passata, dei suoi costumi, della sua lingua, non permettono di staccare gli scarsi suoi monumenti monetali da quelli delle altre zecche della penisola.
Fanno tuttora deficienza le povere monete lavorate in Sartena dall’effimero re Teodoro, ma non mancano parecchie di quelle che il condottiero Paoli fece battere in Murato ed in Corte, ed è di qualche rarità un pezzo d’argento da venti soldi, che all’anno 1766 che porta impresso, mostra essere uscito dal secondo di quei luoghi.
LA LOMBARDIA
Milano.
La splendida metropoli dell’Insubria, famosa per tanti gloriosissimi fatti antichi e moderni, che fu patria di elettissima falange d’uomini illlustri in ogni maniera di umane discipline, che nelle proprie monete offre uno specchio quasi continuo della sua storia di ben sedici secoli, attende ancora, non diremo chi ne sappia, ma chi ne voglia illustrare degnamente i fasti monetali: imperocchè di tanta dottrina ella è sempre ostello, che ove un impulso fosse dato, o per opera di un solo, o con mezzi riuniti, una si deplorevole lacuna non tarderebbe a scomparire. Perchè, ciò che fu fatto con ottimo successo nel Belgio ed altrove non potrebbe tentarsi per questa ed altre città d’Italia, instituendo concorsi che avessero per oggetto la storia delle loro monete? Non è forse argomento codesto meritevole dei riflessi delle illustri accademie che onorano quasi tutte le città italiane? E non sarebbe tale compito opportunissimo a quest’ora in cui con nobilissima gara, alle sonnifere Arcadie d’un tempo che fu, vanno subentrando associazioni più positive e commissioni ch’hanno per iscopo lo studio della storia patria? Per Milano poi in ispecialità sono tutti i materiali già pubblicati e tanti ve ne saranno al certo d’inediti che di molto ne sarebbe facilitato il lavoro per quei generosi che volessero intraprenderlo.
Le monete dei bassi tempi e moderne della zecca di Milano raccolte nel museo ch’è obbietto di questa rassegna sono numerose, perchè oltrepassano le duecento, non comprese quelle delle Repubbliche Cisalpina ed Italiana, del Regno Napoleonico e del Regno attuale.
La più antica è il denaro a monogramma che primo il Le Blanc assegnò a Carlo Magno, ma che in tempo a noi vicino, con altri simili d’altre zecche, diede argomento a vivacissime controversie sostenute da sì valenti campioni che arduo poteva sembrare il definitivo giudizio se spettasse a Carlo Magno, a Carlo il Calvo od a Carlo il Grosso; sennonchè le ragioni addotte in fine a favore del primo dal chiariss. sig. dottore Vincenzo Promis nei suoi studi sulla origine della zecca veneta, sembrano sì convincenti da consigliare il bando d’ogni altra opinione. Viene secondo il denaro di Lotario I; poi seguono un denaro largo di Lodovico II e tre denari più larghi semibratteati di Carlo il Grosso, di Guido di Spoleto e di Berengario I, i quali, quantunque privi del nome di questa città vi appartengono senza contrasto, perchè pari tecnica, peso, lega e modulo osservansi per uno il quale oltre i nomi dei re Arnolfo e Berengario offre quello della città inscritto entro il tempietto. Non mancano i denari di forma più ovvia col nome locale, dello stesso Berengario I, di Ottone I, di Corrado II, e parecchi denari e denari terzoli dei due primi Federici e di qualche Enrico. Tanto per le monete dei re d’Italia fino al tempo in cui Milano, considerandosi indipendente, tralasciò d’inscrivervi i loro nomi. Di questa epoca, repubblicana o Torriana che dire si voglia, non mancano i facili grossi di vario disegno, seguiti da presso da alcuni grossoni e grossi e denari di Enrico VI, Enrico VII e Lodovico l’il Bavaro.
Eccoci alle monete che segnano il dominio della potente famiglia Visconti pella quale la potestà fu sorgente di tali sventure da bilanciare quasi il cumulo delle sue colpe. Le più meritevoli di rimarco sono un grosso di Luchino e Giovanni coll’arme di casato; il grosso di Giovanni, ultima moneta di questa zecca imitante le forme di alcune degli imperatori d’Oriente dei secoli XI e XII; il pregevolissimo fiorino d’oro segnato dei nomi dei tristi fratelli Barnabò e Galeazzo II; quello di pari impronto e rarità del solo Barnabò, ed altro non meno rimarchevole col duca a cavallo in arnese da torneo, la cui attribuzione a Galeazzo II richiama alla mente i dubbii concepiti dal Giulini che spetti forse a Gian Galeazzo. Di Filippo Maria non sono spregevoli il grosso che lo rappresenta a cavallo ed il soldo col santo in cattedra.
La seconda Repubblica, ch’ebbe sì corta durata e finì colla dedizione di Milano a Francesco Sforza, ci porge il mezzo ambrosino d’oro, un soldo ed un denaro.
Con Francesco Sforza, il valoroso e prudente capitano, ha principio una nuova serie di monete la quale mostra quale grado di eccellenza avesse toccato la piccola arte non meno delle arti monumentali nel tempo in cui Milano fu governata da lui e dai suoi discendenti, e come anche in questo caso, secondo spesso si nota, un grande carattere storico sia scintilla che desta dintorno a se ogni sorta di progressi e di perfezionamenti. Figurano vantaggiosamente in questa categoria due ducati d’oro dello stesso Francesco; un grosso di Bianca Maria, tutrice di Galeazzo Maria; tre grossi colla effigie di questo malvagio principe, ed il pregevole testone della di lui vedova la debole ed avvenente Bona di Savoia. Se le monete del costoro figlio Gian Galeazzo Maria e del di lui zio Lodovico non possono qualificarsi rare, vanno però ricordate per la squisitezza dell’intaglio, in ispecialità il testone che riunisce i ritratti di entrambi, una fra le più felici opere del bulino. L’ultimo periodo del dominio degli Sforzeschi, alternato con quello di due re stranieri, porge i seguenti pezzi di maggior momento: due differenti testoni ed un soldo coll’arme d’ambo i lati di Lodovico XII; un pegione e due quattrini di Massimiliano Sforza.
La decadenza d’ogni buona cosa, che seguì dappresso le orme della dominazione spagnuola e s’impresse profondamente nelle belle arti, degradò anche quella del conio che divenne rozza e manierata dopo aver date alcune ultime prove di valentìa sotto Carlo V. Sono infatti opere egregie tre testoni di questo imperatore i quali attestano quanto esimio fosse l’artista che li eseguiva, sia desso il Caradosso od altri. Dei regni seguenti, abbondevolmente rappresentati in tutti i metalli, meritano osservazione un mezzo scudo da 55 soldi di Filippo II, non accorsoci ancora nelle opere consultate (Tav. V, n. i); un soldo colla effigie dello stesso, accollata ad una testa muliebre, verosimilmente quella della di lui quarta moglie Anna d’Austria (Tav. V, n. 2); un quattrino di Filippo III, non raro, ma che non trovammo nei libri (Tav, V, n. 3); una lira di Filippo IV, descritta dall’Appel ma non raffigurata (Tav. V, n. 4); un ducato o filippo di Filippo V d’Angiò ed un mezzo filippo di Carlo III (VI), che del pari ci riuscì nuovo (Tav. V, n. 5).
La monetazione degli ultimi regnanti di casa d’Austria non porge cose degne di rimarco. Le monete delle due ultime Repubbliche e quelle del Regno Napoleonico, lavorate in gran parte con ottimo magistero, appartengono come fu già avvertito, ad altra serie in questo museo.
Pavia.
Cotesta antica e gloriosa città che fu sede dei re Goti dopo ch’ebbero perduta Ravenna, e residenza dei Longobardi che vi innalzarono quel singolarissimo tempio dedicato all’Arcangelo Michele, sotto le cui vòlte tanti re d’Italia assunsero la corona, non tarderà molto, speriamo, a mostrare una storia della famosa sua zecca, per opera dell’illustre cavaliere il quale con due recenti pubblicazioni nummografiche seppe conquistare di botto seggio primario fra i cultori di tale studio.
Non sono molte le monete di questa serie collocate finora nel museo padovano e possono annoverarsi le seguenti: Un denaro di Lotario I; altro più raro e perfetto che intorno al monogramma di Ugo di Provenza reca inscritto il di lui nome seguito da quello di suo figlio Lotario II, ch’egli assunse collega del regno nell’anno 931; un terzo di Ottone I nel quale il nome della città è preceduto dal titolo onorifico di inclita, e finalmente uno di Enrico II il Santo.
Nessuna rarità si riscontra negli altri pezzi degli imperatori tedeschi ed in quelli dei duchi di Milano.
Cremona.
Le monete finora a noi pervenute di questa città non contraddicono al notissimo diploma, riportato dal Muratori, col quale l’imperatore Federico I le concesse il privilegio della moneta nell’anno 1155. Ma può egli affermarsi recisamente che non possa rinnovarsi per essa qualche fatto analogo a quello che avvenne per Piacenza, un tremisse della quale, improntato del nome di re Desiderio, rivelò la origine ben più remota della sua zecca di quanto fino allora era creduto? Ma, sia pure infondata tale lusinga, Cremona offre vasto argomento di studio nelle sue monete, specialmente nel tempo in cui, reggendosi a libertà, segnava sovr’esse il nome dell’Enobarbo; graziosi nummoli i quali per entro ad una certa apparente monotonìa di tipo offrono numerose varietà pel peso, la lega e lo stile, ed attestano la grande operosità della sua officina.
Fra i pezzi di codesta zecca notammo nel Museo Bottacin il grosso piuttosto raro dalla iniziale e dal titolo che alludono al nominato imperatore; un denaro mezzano che per la forma rotonda o gotica di più sue lettere mostra essere battuto nel secolo XIII innoltrato, ed è forse l’ultima moneta di questa città che ricorda il Barbarossa; un denaro di Azone Visconti, ed un soldo coll’arme inquartata, di Francesco I Sforza, che amo credere lavorato, non meno d’altre sue monete, in questa zecca anzichè nella milanese, per certa maniera particolare d’intaglio e per la forma di alcune lettere che non mi offre analogie nelle monete di Milano.
Brescia.
Non è grande il numero delle monete di questa generosa città che figurano nell’ottimo trattato del Doneda, completato dalle note, dai documenti e dai disegni del diligente ed arguto Zanetti, ed il poco che potè aggiungervi dopo ottanta anni il preclaro autore delle Storie Bresciane consta di varietà o suddivisioni delle monete pria recate, battute in omaggio del primo Federico od in nome del solo Comune, ed in un singolare pezzo di Pandolfo Malatesta, ch’è forse il boldino non rinvenuto dal numismatico bolognese, sul quale, ostinato come sono, persisto a vedere una testa d’Ercole, perchè tale n’è il carattere e così vedo rappresentato quell’eroe sovra alcune medaglie greche, non esclusa quella apparenza di veste intorno al collo.
Trannechè del Malatesta, di nessun altro dei signori che vi ebbero dominio hannosi monete, e quanto a quelle che vi avrebbe fatte battere lo spagnuolo Icardo, assediato entro la città dai Veneziani nell’anno 1515, convien restarne molto dubbiosi.
Niuna moneta bresciana essendo intieramente ovvia, possono annoverarsi tutte le possedute, che sono: un denaropiccolo col nome dell’imperatore Federico; il grosso dai due santi che lo Zanetti ascrisse alla vacanza dell’impero dopo la morte di Federico II; il mezzano del Comune colla testa di Santo Apollonio, ed un quattrino malatestiano.
Como.
Molti eruditi scrittori trattarono della moneta di Como ed almeno dodici constami ch’abbiano riportato anche disegni di esse, ma tuttavia siamo ancora lontani dal possedere una completa illustrazione dei prodotti della sua zecca, per cui torna opportunissima la istanza dell’illustre cav. Camillo Brambilla, il quale, dichiarando con soda dottrina tre sue monete, scriveva: " Resta anche per questa serie il desiderio che qualche erudito comasco si faccia a riunire gli impronti e ad illustrarli, aggiungendovi quanto alle ricerche di altri fosse per avventura sfuggito. „
Pel documento riferito dal Rovelli resta comprovato Federico I avere battuto moneta a Como; ottime ragioni, alle quali potrebbe aggiungere qualche altra, adduce il nominato cavaliere per assegnare allo stesso oltrechè gli oboli caucei improntati dal nome imperiale anche tutti i grossi ad effigie; ma forsechè non tutti si adatteranno senza contrasto a tale opinione, e sia pure, che l’attrito d’opposti e ragionati pareri giova grandemente a dare risalto alle verità scientifiche3.
Le monete che rappresentano questa città nel nostro gabinetto sono: un obolo cauceo del Barbarossa; due di quei grossi ad effigie imperiale; il grosso di Franchino Rusca, il quale quantunque s’intitolasse Capitano e signore del Comune e del popolo di Como, improntando sovr’esso le sole iniziali del proprio nome e lasciando il posto d’onore pel nome intiero di Lodovico V che avealo creato suo vicario, palesava quanto fosse sempre da esso dipendente, ed un denaro di Azone Visconti.
Lodi.
Le sole monete che con certezza possono attribuirsi a questa città sono un grosso ed un denaro piccolo, sul lato principale dei quali, intorno al nome abbreviato del suo santo protettore Bassiano, si legge: imperator. f. Questa lettera deve tenersi allusiva all’imperatore Federico II da cui, secondo Tristano Calco, ebbe Lodi il diritto della moneta nell’anno 1239.
Il grosso fu pubblicato dal Giovanelli, poi nuovamente dall’Aldini, e questi, avvertita l’esistenza d’altra moneta di consimile tipo, ma di bassa lega, reputavala il denaro del soldo lodigiano. Alludeva egli certamente all’accennato piccolo, del quale porgo il disegno tratto dall’esemplare di questo Museo (Tav. V, n. 6), che serba anche il grosso, preziosi pezzi entrambi.
Bergamo.
Numerosa, sebbene monotona, è la serie delle monete uscite dalla zecca di Bergamo, perchè tutte offrono il nome e l’effigie dell’imperatore Federico II, e sul secondo lato un’edifizio. Ma fra tanta conformità di tipo quanta varietà nel peso, nel metallo, nella paleografia delle leggende, nei segni di zecca e nelle forme architettoniche dell’edifizio, che ora presenta l’aspetto di un tempio, or quello di un palazzo civico irto di merlature e più raramente di un castello di severa costruzione o di una semplice torre o porta turrita! Tale multiformità ci fa dubitare della opinione di quelli che vollero ravvisare sovra codeste monete la rappresentazione fedele di un determinato edifizio, e preferiamo invece trovarvi nulla più che un simbolo generico della città, abbandonato al capriccio degli artisti intagliatori. Tanta varietà di cose mostra inoltre quanto operosa fosse questa zecca, durante il secolo XIII, ed in parte del XIV, e persuade dell’opportunità di una storia diligente e documentata di essa, che tale invero non è una sedicente critica lucubrazione, nella quale le singolari cabalistiche scoperte della lega d’antimonio e della orientazione dei due lati delle monete vanno di pari passo colla povertà delle notizie e colla deficienza di senso pratico.
All’infuori delle monete impresse in omaggio di quell’imperatore non apparisce che Bergamo ne abbia battute altre. Il quattrino del tempo in cui ella ubbidiva alla repubblica di Venezia fu notoriamente lavorato nella zecca di questa città.
Nessuna rarità rinvenni nei grossi e nei denari mezzani, sì scodellati che piani, del museo padovano.
Monza.
Estore Visconti, bastardo del duca Barnabò, che tenne Monza pel corso di cinque anni, tentò rendersi signore di Milano alla morte del duca Giovanni Maria, ed associatosi per tale effetto Gian Carlo, discendente legittimo di Barnabò, potè riuscirvi, ma per brevissimo tempo, perchè dopo un solo mese ne fu scacciato dal nuovo duca Filippo Maria, che assediollo poi nel castello di Monza, dove rimase ucciso per un colpo di spingarda. Erami necessario premettere brevemente questi notissimi fatti per venire alle seguenti domande. È egli verosimile che tutte le monete che sopravanzano, battute da Estore Visconti e da Gian Carlo, siano state lavorate nella zecca di Milano durante quel brevissimo periodo di un mese, fra le angoscie di una contrastata occupazione, e nessuna sia stata battuta in Monza, dove per ben cinque anni Estore solo o congiuntamente al nipote potè esercitare tranquillo il potere coi diritti da esso dipendenti? Non so capacitarmi di ciò, per quanto da molti si neghi recisamente che Monza abbia avuto officina monetaria nel tempo di questi signori, e fino a ragioni bene chiarite, che quelle addotte dal Frisi non convincono punto, continuerò ad intitolare tutte le loro monete da questa città, dove la mummificata salma di Estore mostra ancora allo stupito viandante la frattura del proiettile che lo trasse a morte.
Tre sono le monete di questi visconteidi; un grosso di Estore che pel Santo Ambrogio raffiguratovi sembrò (e nulla più) al Litta coniato in Milano, ma che potrebbe invece dinotare semplice artifizio di pretendente intento a prepararsi la strada al dominio di quella città; un denaro dello stesso, che, sebbene sciupato, mostra essere differente da quelli delle tavole del Litta, perchè d’ambo i lati le sue iscrizioni finiscono colla parola ....modoetie, doppia affermazione adunque di questa zecca (Tav. V, n. 7); ed un denaro coi nomi di entrambi questi apocrifi sovrani, per adoperare l’espressione del Verri, simile al n. 73 di quelle tavole.
Mesocco e Musso.
Fu nell’anno 1496 che il maresciallo Gian Giacomo Trivulzio ottenne dall’imperatore Federico III la conferma del possesso di Mesocco e della valle Mesolcina, che ora fa parte del Cantone de’ Grigioni con privilegio di battervi monete d’oro e d’argento, come insegna Pietro Mazzucchelli nella storia di quel prode capitano, dettata dal Rosmini. Avendo egli nell’anno 1508 fatto acquisto del castello di Musso presso la sponda occidentale del Lario, ottenne quattro anni dopo estensione di quel privilegio anche per questo secondo possedimento, da Luigi XII, ond’è che in entrambi quei luoghi devono essere state battute le numerose sue monete. E però difficile e forse impossibile di fare la parte di ciascheduna di queste zecche, per cui non avanza altro partito che raccoglierle al nome della prima e più importante.
Delle cinque monete che osservammo di Gian Giacomo Trivulzio, per tacere di quelle del di lui nipote Gian Francesco, che sarebbero battute parte a Mesocco e parte a Roveredo, e delle quali una sola, un bel cornabò figura in questo gabinetto, merita essere segnalata una, la quale differisce da quelle che produsse il Mazzucchelli. Vi corrispondono per gl’impronti i numeri 21 e 17 di questo autore, ma la prima, che più si accosta, sembra essere un testone, ed alla seconda, ch’egli trasse dal Bellini, può farsi competere il nome di grossone, laddove questa nostra, che già al modulo mostra di rappresentare un minor valore, e pesa grammi 2,450, sarà un grosso semplice (Tav. V, n. 8).
Furono indubitatamente lavorate nell’ora smantellato castello di Musso le monete di Gian Giacomo Medici, che se ne rese padrone nell’anno 1523. Pochi anni appresso l’imperatore Carlo V investivalo dei titoli di marchese di Musso e conte di Lecco, con facoltà di battere moneta. Sono tutte pregevoli le di lui monete e di egregio lavoro il testone sul quale è figurata una nave in burrasca col Medeghino che ne ammaina la vela e ne regge il timone.
Oltre al quattrino di questo marchese colla personificazione del fiume Adda, posso affermare il possesso del grosso, probabilmente una delle monete della zecca di Brianxona poste al bando con grida del 1529 dal duca Carlo II di Savoia, che volle far conoscere l’Argelati, ma senza riuscirvi appieno, per cui un nuovo disegno di esso non sarà sgradito (Tav. V, n. 9).
Retegno.
Nell’anno 1654 l’imperatore Ferdinando II eresse questa terra del Lodigiano in baronia imperiale a favore del cardinale Gian Giacomo Teodoro Trivulzio, in compenso del perduto possesso di Mesocco, con facoltà di battervi moneta, e ciò è confermato da un di lui scudo recato dal Litta.
Estinto nell’anno 1678 il ramo di questi Trivulzi col principe Antonio Teodoro, Retegno passò per eredità a Gaetano Gallio di Como, il quale, assunto il nome di Antonio Gaetano Trivulzio, vi fece battere alcune belle monete d’oro e d’argento che sono verosimilmente le ultime uscite da questa zecca, perchè quelle di Antonio Tolomeo, che nell’anno 1708 ottenne dall’imperatore Giuseppe I conferma degli anteriori privilegi, hanno una foggia di fabbrica straniera, come tante altre monete di principi italiani, i quali, particolarmente nella prima metà del secolo XVIII, avendo ottenuto facoltà di battere moneta, fecero lavorare in qualche zecca non propria alcune specie d’oro e d’argento quasi per mera ostentazione di tale diritto. Di questi principi serba il nostro museo un triplice ed un doppio ducato o filippo di Antonio Teodoro, un ducato di Antonio Gaetano ed il mezzo tallero di Antonio Tolomeo.
Maccagno.
Come fu di già avvertito in breve monografia inserita nella Rivista della Numismatica, possedeva il signor cavaliere Bottacin, ancor prima ch’egli avesse fatto dono delle sue collezioni, una imitazione dei batzen di Lucerna, eseguita in Maccagno dal conte Jacopo III Mandelli. Avendo dappoi potuto esaminare tale moneta, mi persuasi non essere già segno di zecchiere lo scudetto che vedesi sul suo rovescio, ma bensì un’arme partita, caricata nel primo punto dei tre leopardi dei Mandelli e monocrona nel secondo4.
Un quattrino aggiunto posteriormente mostra bene una testa simile a quella del signore di Maccagno e l’arme inquartata di due aquile e due leoni, ma le leggende mancanti non danno bastante certezza che gli appartenga.
Principato di Belgiojoso.
Antonio I Barbiano, creato principe dall’imperatore Giuseppe II, fece battere nell’anno 1769 uno zecchino ed un tallero che, come i pezzi del principe Antonio Tolomeo Trivulzio, sembrano usciti da qualche zecca straniera, la quale, potrebbe per avventura essere quella di Monaco di Baviera. Quantunque tali monete siano state coniate piii che altro per pompa di diritto, non posso convenire nell’opinione che non abbiano circolato perchè sono fatte alla stessa legge d’altre consimili di Germania, ed il tallero incontrasi quasi sempre sdruscito.
Questo gabinetto possiede il tallero.
Masegra (?)
Che dire di certi pezzettini di rame, che non vi mancano, i quali da un lato portano la scritta: di beccaria, e dall’altro: i quatrino, ovvero 1/2 quatr? Sulla fede dell’Appell, che disse possessore del Castello di Masegra e d’altri luoghi presso Sondrio un Antonio Beccaria, il quale assalito dai Veneziani nell’anno 1447, seppe sostenersi fintantoché vennegli aiuto dalle armi del duca di Milano, e pei bisogni del momento fece battere queste sedicenti monete, un ricercatore di cose peregrine accolse Masegra senz’altro esame nel novero delle zecche italiane del secolo XV. Ma chi osserva senza prevenzione quei pezzi facilmente si persuade che non in quel secolo, ma tutt’al più verso la fine del decimottavo, se non nei primi anni del presente, furono lavorati, e l’essere dessi battuti fuori della legge delle monete del tempo, scorretti nella parola quattrino e nemmeno proporzionati fra loro, perchè il secondo pesa più del primo, dissuade dal tenerli effettive e pubbliche monete. Per quale uso siano stati fatti noi so, ma certamente per uno molto privato, per contrassegni di qualche fabbrica, o pedaggio, o tassa locale, se pure la parola beccaria non sia da prendersi alla lettera come la voce bovi della presunta moneta di Degagna dello stesso scopritore. Lasciando ad altri la soluzione di sì poco interessante indovinello, credo si possano per intanto senza rimorso riporre quei pezzi in compagnia delle tessere, dei bottoni e delle marche da giuoco di Norimberga.
Mantova
e le zecche minori dei principi gonzaga.
Se vogliamo prestar fede allo Zanetti, Leopoldo Camillo Volta, mantovano, in sullo scorcio del passato secolo, lavorava intorno ad una storia delle monete della sua città, ma di tale opera non abbiamo altre notizie, né sappiamo di quanto fosse progredita. Quale un saggio di essa è però da considerarsi la erudita dissertazione sulla origine della zecca e sulle prime monete di Mantova, inserita nella raccolta Zanettiana.
Qualora fosse indubitato il diploma dell’imperatore Ottone III (997), per tacere di quello di Berengario I e di Lotario II, tenuti controversi da molti, l’origine della zecca mantovana daterebbe dalla fine del secolo X; ma se vogliamo invece attenerci soltanto alle monete pervenuteci, ch’è forse il migliore partito, il suo principio non salirebbe oltre la seconda metà del secolo XII5. Checché ne sia di ciò, facciamo voti che il concetto del Volta sia incarnato al più presto e con tutta la possibile ampiezza per opera del chiarissimo signor D. Attilio Portioli, il quale, negli Appunti che va dettando nel Bullettino di Numismatica, mostra di quanta soda dottrina fornito e quanto innamorato e padrone egli sia del suo soggetto. Avremmo così per lui snebbiata e completata la storia d’una zecca ch’è fra le più importanti d’Italia, anche in ordine a numero e ad artistica perfezione de’ suoi prodotti. Nè ciò può sorprendere, avvegnachè la Corte degli splendidi Gonzaghi, che ressero le sorti di questa città per oltre tre secoli e mezzo, fosse il convegno delle sommità artistiche di quel tempo, e la città stessa patria di uomini insigni in ogni arte e dottrina. Così, per nominarne uno solo, Sperandio, l’immaginoso creatore di tanti stupendi medaglioni, era mantovano.
Dei due primi periodi di questa zecca vescovile (dico così per più facile intelligenza, sebbene il prelodato dimostri i vescovi non avere mai signoreggiata questa città), e repubblicano, non ha questo museo cose degne di speciale rimarco, ma nella numerosa serie delle monete gonzaghesche molte sono quelle che si distinguono per rarità o venustà di conio. Tali sono il bolognino del capitano Francesco I; il grassone di Gian Francesco, primo marchese; un grosso ed un mezzo grosso non dissimili, ed un denaro piccolo con iniziali allusive al marchese ed a Virgilio, di Lodovico III (Tav. IX, n. 1). Del valoroso Francesco II un ducato d’oro, il magnifico testone, sul quale egli è rappresentato a cavallo quale capitano della Veneta Repubblica, alquanto differente da quello divulgato dal Bellini (Tav. IX, n. 2), un mezzo testone colla sua effigie, ed il soldo dall’impresa della cervia, col moto tedesco, altrove accennato (Tav. IX, n. 3). Del primo duca, Federico II, sono notevoli un testone, un mocenigo coi due Santi, ed un mezzo testone (?) di squisito lavoro, con una soave madonnina che si direbbe disegnata dal Mantegna. Fu descritto dal Gradenigo, ma non per anco riportato in disegno, per quanto sembrami (Tav. IX, n. 4). Del secondo duca, Francesco III, che morto giovane lasciò poche e rare monete, evvi un mocenigo non per anco pubblicato, simile a quello del padre (Tav. IX, n. 5). Di Guglielmo non è ovvio il grassetto col Santo Adriano, e fra i pezzi di Vincenzo I meriterebbero l’incisione, un tallero da dodici lire coll’arme, ed un ducatone dell'anno 1589 con San Giorgio a cavallo, che trovai soltanto descritti in qualche opera tedesca; senonchè molte essendo nel museo le monete di tal fatta, non posso riportarne che alcuna, omettendo quasi tutte quelle di gran modulo. Del duca Ferdinando, pel tempo in cui era ancora cardinale, notansi, un ducatone dal sole, in argento, altro che per essere di schietto rame si palesa prova di zecca, e pezzi meno rari del tempo in cui non tenne più la porpora. Vincenzo II porge la bella medaglia del Morone col mastino, un ducatone ed un mezzo ducatone di pari impronto ed un pezzo da ottanta soldi col Beato Luigi. Credo poi spetti allo stesso una moneta anonima, della quale porgo il disegno acciò ne sia meglio chiarita la pertinenza, notando intanto come il primo lato di essa ricordi il di lui stupendo ducatone maggiore colla galera speronata, del Gabinetto imperiale, e gli emblemi della giustizia e della pace, espressi sul rovescio, osservinsi uguali sovra un suo pezzo da quattro soldi descritto dal Gradenigo (Tav. IX, n. 6). Di Carlo I, che ha ben quindici pezzi, distinguonsi due ducatoni collo zodiaco, un scudo ed un mezzo scudo dal mirasole (Tav. IX, n. 7), il pregevolissimo mezzo ducato col Santo Andrea (Tav. IX, n. 8), un da ottanta soldi col Beato Luigi ed una mezza lira colla Santa Lucia (Tav. IX, n. 9); di Carlo II un ducatone. Della reggenza d’Isabella Chiara nominerò un ducatone, e sorpasserò le monete del di lei figlio Ferdinando Carlo, ultimo duca di Mantova, che nulla offrono di particolare. Non mi soffermerò alle monete anonime di questi signori che per un sol soldo di rame coll’impronto singolare dell’elefante, il quale per alcun dettaglio penso essere del tempo di Vincenzo I.
Dell’epoca del dominio austriaco è degno di menzione un pezzo di rame di Carlo VI che per la nota, L. 6, che porta impressa, mostra essere prova di zecca di una moneta da lire sei, la quale probabilmente non ebbe intiera esecuzione. È dell’anno 1736, e, come in altre sue monete, porge l’effigie laureata di quell’imperatore e l’aquila bicefala colla croce del Comune in petto.
Chiudono il novero delle monete di questa città le ossidionali degli anni 1799 e 1848, ed il totale di esse oltrepassa le centosessanta.
Pria di rivolgermi ad altre cose, conviene io spenda poche righe intorno alle monete che i duchi di Mantova fecero battere in Casale, dopochè per sentenza dell’imperatore Carlo V il Monferrato fu aggiudicato a Margherita Paleologa, seconda moglie del duca Federico e nipote del marchese Gian Giorgio, nel quale si estinse la successione mascolina di questo casato.
La prima tutela della marchesana Margherita pel figlio Francesco non è rappresentata in questo museo da alcuna moneta, ma tre ve ne sono del tempo in cui ella resse lo Stato col secondo suo figlio Guglielmo: uno scudo d’oro alquanto differente da quello che pubblicò il meritatissimo signor R. Chalon nella Rivista Numismatica ch’egli con tanto sapere dirige (Tav. X, n. i); un terzo di scudo colle teste accollate di entrambi ed il motto Non improvidis, imitante la ripristinata lira del duca di Savoia Emanuele Filiberto, ed un cavallotto da tre grossi fregiato delle armi paleologa e gonzaghesca, simile in tutto ad altro della prima tutela (Tav. X, n. 2)6. Il duca Guglielmo, emancipato, annovera tre differenti bianchi da quattro soldi, ed altre minori monete, le quali, forse inedite tutte, sarebbero a posto in una speciale monografia, ma qui non possono essere riportate. Di Vincenzo I evvi un ducatone, alcune parpagliuole col Santo d’Assisi, e parecchie fra le copiosissime varietà dei quattrini simbolici colla impresa della mezza luna, che isolati hanno poco pregio, ma riuniti formano un bel contingente di questa zecca, alla quale sembranmi appartenere. Di Francesco IV, che ha sì poche cose e tutte rare, evvi il ducatone con quel Santo, la parpagliola descritta dal chiarissimo dottore Pigorini (Tav. X, n. 3), ed un inedito soldo (Tavola X, n. 4). Del duca Ferdinando è osservabile un ducatone col Santo leggendario, uccisore del drago, e di Carlo II un testone di pari impronta.
Con ciò abbia fine questa indicazione, che, nella sua aridità, pur servirà a dimostrare come sia doviziosa la serie delle monete operate dai principi del ramo principale Gonzaga, nelle loro zecche di Mantova e di Casale.
Novellara.
Il P. Ireneo Affò, che occupa posto sì distinto fra i nummografi italiani, coadiuvato in parte da quel praticone che era lo Zanetti, dettando la storia delle zecche dei rami collaterali della stirpe Gonzaga, fece opera sì dotta e diligente che servirà mai sempre di base sicura a quanti dalle scoperte di nuove monete trarranno motivo meno di correzioni che di qualche aggiunta a quelle serie. Ma comunque limitato resti il compito di quelli che mettonsi a spigolare nel campo da lui coltivato, avvegnaché poco sia sfuggito alle attente sue ricerche, tuttavia il lavoro non riesce sempre infruttuoso, e per giunta facile ed aggradevole, dietro le orme di guida così valente. Di ciò daranno novella prova i seguenti cenni.
Più antico fra i rami secondari della famigha Gonzaga, quello dei Conti di Novellara e Bagnolo, che trasse origine da Feltrino, figlio di Luigi primo Capitano di Mantova, ottenne facoltà di battere moneta, nella prima di quelle terre, dall’imperatore Carlo V, nell’anno 1533, a favore dei tre superstiti figli del conte Alessandro, morto nello stesso anno.
Le monete di questi Conti, consortive, anonime e del secondo Alfonso, sono poche e rare, per cui non è piccolo vanto di questo gabinetto potere additarne cinque, che sono: il da dieci soldi, il pezzo che l’Affò disse da cinque, ma che stimo rappresenti un valore inferiore, ed il sesino di quel Conte; un nuovo quattrino anonimo di stampo lucchese, la cui mancante leggenda non mi riesce di raccappezzare (Tavola X, n. 5), ed un quattrino del pari inedito, della specie di quelli di Bologna detti chiavarini, di cui hannosi già contraffazioni di Dezana, di Frinco e di Castiglione (Tavola X, n. 6)7.
Sabbioneta.
Per la morte del cardinale Francesco, secondogenito di Lodovico II marchese di Mantova, che ne era stato investito nell’anno 1466, passò il castello di Sabbioneta in possesso del solo terzogenito Gian Francesco, conte di Rodigo, che non tardò ad ottenere l' investitura dall’imperatore Massimiliano I; ma è problematico se fossevi aggiunto anche il diritto di zecca, e la presunta di lui moneta, recata dall’Affò, sembra essere piuttosto disegno non fedele di una sua medaglia. I costui quattro figli ottennero nuove investiture negli anni 1497 e 1521, con facoltà di battere moneta, ma non apparisce che essi, nè Luigi, primogenito del primo, abbiano fatto uso di tale privilegio. Non è così di Vespasiano, di lui figlio, promotore dei buoni studi e zelante raccoglitore di antichità, che nell’anno 1562 stabilì formalmente la zecca in Sabbioneta e vi fece lavorare monete in tutti i metalli, nei quattro periodi del suo governo, quale marchese di Sabbioneta e conte di Rodigo, o marchese, principe o duca di Sabbioneta.
Fra le di lui monete trovammo un cavallotto differente da quello divulgato dall’Affò, spettante al terzo periodo, dopo l’anno 1575, in cui ottenne il titolo di principe (Tav. X, n. 7), ed un quattrino dalla corona, del tempo in cui fu duca.
Premorto al padre l’unico figlio di Vespasiano, la di lui figlia Isabella col marito Luigi Caraffa, principe di Stigliano, presero possesso del Ducato e continuarono a farvi lavorare la zecca. Le sole loro monete, riportate dall’Affò, sono un soldo ed alcuni sesini, e nè a lui, nè al Zanetti fu dato rinvenire il cavallotto del quale trovarono notizia in gride ed in documenti, ma che conservasi in questo museo (Tav. X, n. 8).
Guastalla.
Don Ferrante Gonzaga, terzogenito del marchese di Mantova, Francesco II, acquistato ch’ebbe Guastalla dai Torelli nell’anno 1539, ne ottenne regolare investitura dall’imperatore Carlo V, che poco dopo accordavagli anche il privilegio della zecca; ma non arrivò a farne uso, perchè morì nello stesso anno 1557. Il di lui figlio, Don Cesare I, cultore delle belle lettere e raccoglitore di cose antiche, come il signore di Sabbioneta — piacemi accennarvi, sebbene non sempre la tendenza a raccogliere cose scientifiche vada di pari passo coll’amore allo studio — non diessi premura di approfittarne, perchè consta che soltanto nell’anno 1570 aprì la zecca nella sua città di Guastalla.
Delle poche monete da lui battute, quasi tutte rarissime, notai la mezza lira col San Pietro ed una singolare varietà del pezzo recato dall’Affò, che imita il bianco di Bologna, ch’egli stimò corrispondente al valore di quindici soldi, ma che più verosimilmente equivaleva a soldi venti, avendo peso uguale agli anselmini. Ne dò il disegno, perchè oltre alla differente leggenda del suo rovescio serve a correggere lo ornamento che sovrasta al leone di quello del nominato autore (Tav. X, n, 9).
Copiosa è la serie delle monete battute da Don Ferdinando, figlio del precedente, nel lungo periodo di cinquanta anni che tenne il dominio di Guastalla, e parecchie ne serba questo gabinetto, fra cui due talleri degli anni 1603, e 1619; un bel testone dello Xell, coll’aquila bicipite e l’effigie di San Carlo; un anselmino con San Pietro ed altro con San Paolo, che, segnato col numero 22, viene in conferma della notizia data dall’Affò che tale moneta valesse nell’anno 1610, soldi ventidue, probabilmente dopo che gli altri simili, battuti anteriormente, erano saliti dai venti ai ventidue soldi (Tavola X, n. io); un giulio da quattordici soldi, un da otto colla testa del Principe, ed altri minori pezzi colla ovvia Annunziazione. Sono poi varietà inedite un da tre soldi — secondo l’Affò da cinque — coll’aquila, ed una gazzetta da due, ed il solo pezzo fra i pochi segnati del titolo di Duca, è il paolo col Santo di Tarso.
Don Cesare II non avendo verosimilmente fatto lavorare la zecca, restano i duchi Ferdinando III e Giuseppe Maria. Del primo si distinguono l’egregio scudo coll’allegorico simulacro del primo Ferdinando, la doppia lira e la lira, entrambe dell’anno 1674; del secondo non manca che lo scudo, ma quanti sono quelli che lo possiedono?
Pomponesco.
Da Gian Francesco, conte di Redigo, nominato alla zecca di Sabbioneta, oltre a Lodovico, capo del ramo che s’intitolò da quella città, nacque Pirro, i cui superstiti nipoti, dopo varie contestazioni, vennero alla divisione dei feudi, per cui Pirro e Scipione ebbero San Martino dell’Argine, Ferrante, Isola Dovarese e Giulio Cesare, Pomponesco. Questi, innanzi che divenisse principe di Bozzolo, mentre non possedeva altra signoria che quella della terra di Pomponesco, aperse in essa, senza diritto speciale, una zecca, nella quale, fra gli anni 1578 e 1593, fece lavorare alcune monete, quasi tutte di bassa lega o di rame, contraffatte a quelle d’altre zecche, con iscopo di lucro. Da ciò, oltreché dalla piccolezza di questo feudo, ne viene la molta rarità di esse.
Quattro sono quelle che osservammo: un sesino di mistura e tre quattrini di schietto rame, tutte già divulgate dal nummografo parmigiano.
Bozzolo.
Avendo l’imperatore Rodolfo II, nell’anno 1593, concessa la successione diretta di Giulio Cesare nel governo di Bozzolo, assegnatogli nel 1591 in divisione effettuata coi fratelli dopo la morte di Vespasiano Gonzaga duca di Sabbioneta, ed innalzata questa terra al titolo di Contea, Giulio Cesare trasferì la sua residenza in Bozzolo, facendo in pari tempo cessare il lavoro della officina di Pomponesco. Nel nuovo suo feudo, dalla dignità di Principato, fece egli battere alcune monete che non sono meno rare di quelle lavorate in Pomponesco, Alle poche recate dall’Affò ne aggiunsero due gli illustri signori comm. Promis e Morel-Fatio, e qualche altra potrò far io conoscere quando ne avrò opportunità, ma intanto ecco, da questo museo, una nuova varietà dei quattrini coll’arme del Balzo, a formare la quale concorsero due di quelle già pubblicate (Tav. X, n. 11).
Morto Giulio Cesare senza fighuoh, passò questo feudo al di lui fratello Ferdinando, del quale non hannosi monete e che, trapassato nel 1605, lasciò erede il figlio Scipione sotto la tutela della madre Isabella, della quale il più volte nominato autore produsse un rarissimo pezzo. Avendo Scipione ottenuto nell’anno 1613 l’investitura del feudo, cominciò poco stante a battere monete, da prima quale principe di Bozzolo, e dal 1636 in poi quale pretendente legittimo al ducato di Sabbioneta, in seguito alla morte d’Isabella Gonzaga e di Luigi Caraffa.
Del primo di tali periodi offre questo gabinetto paolo col Principe degli Apostoli e due inediti pezzi da tre, dei quali basti esporre uno, variando l’altro soltanto per l’assenza della stella sotto la corona, allusiva parmi anche qui all’antenata Antonia Del Balzo (Tav. X, n. 12). Fra quelle della seconda epoca basti ricordare un pezzo da tre che riunisce il dritto n. 30 al rovescio n. 29 dell’Affò, ed un quattrino col nome di Scipione ripetuto sui due lati e perciò formato con due differenti dritti (Tav. XI, n. 1).
San Martino.
San Martino di Bozzolo o dell’Argine — Sanctus Martinus ab aggere — fra Bozzolo e Guazzuolo, fu uno dei feudi gonzagheschi che dopo varie vicende toccarono in sorte ai sei figli di Carlo Gonzaga di Pirro, del ramo denominato di San Martino e Bozzolo. Per altre divisioni e per la morte successiva dei membri del casato passò questa terra in dominio di Scipione Gonzaga, nominato nel precedente articolo. L’Affò non trovò che i possessori di questo feudo vi facessero battere monete, né altro ne dice, ma un quattrinello di schietto rame di non difficile reperimento mostra che Scipione, se anche non vi aperse una officina, perchè più verosimilmente lo fece improntare in Bozzolo, volle ricordare quel luogo per ragioni a noi ignote. In certe Decadi numismatiche è fatta menzione di tale quattrino ma con tale negligenza, che quantunque sembri affare di poco momento, una breve rettifica non torna superflua, avvegnaché anche questi infusori della numismatica, come li denomina l’illustre Chalon, che alla più soda dottrina sa accoppiare una festevole ironia, hanno diritto di essere giudicati rettamente. Il quattrino in discorso non può adunque essere autonomo se offre l’effigie ed il nome del Signore che lo fece battere, né può il nome di questi esservi seguito dal titolo di Dux Bozuli, perchè Scipione era Principe di Bozzolo e Duca di Sabbionetta. Dirò inoltre, perchè ne serbo ancora memoria, come l’esemplare già posseduto da quel poliglotte nummografo, mancante sul primo lato dell’ultima parola, sia stato da lui completato sul disegno come meglio seppe. Quello che ora produco, conforme ai due esemplari di questo museo, confermerà viemmeglio l’asserto (Tav. XI, n. 2).
Castiglione delle Stiviere.
Francesco I, signore di Mantova, fu quegli che primo ebbe in potere questa terra, ed il possesso ne venne confermato a lui ed ai suoi successori dalla Repubblica Veneta e dagli Imperatori. Da Rodolfo I Gonzaga, fratello di Federico I, terzo marchese di Mantova, si propagò la discendenza dei Principi di Castiglione, Marchesi di Medole e Signori di Solferino. Venuti alla divisione dei feudi i figli di Luigi, primogenito di Rodolfo, il primo di essi, Ferrante, ebbe Castiglione, e di lui l’Affò diede una sola moneta, prima fra quelle uscite da questa terra, innalzata dall’imperatore Massimiliano II al titolo di Marchesato. Non è però la sola, perchè qualche altra ne esiste che ora non mi lice divulgare.
Per rinunzia fattagli dal fratello Luigi, passò questo feudo in potere di Rodolfo, secondogenito di Ferrante. Violento, uccise lo zio Orazio e morì di pari morte dopo avere contraffatto largamente le altrui monete, particolarmente le baiocchelle ed i quattrini dei Pontefici, attirandosi processi e scomuniche. Lo Zanetti ne riporta una sequenza, né sono le sole, ed a lui dovrebbero inoltre riferirsi certi quattrini, imitati come altri di Dezana, di Frinco e di Novellara su quelli di Bologna detti chiavarini, che da un lato estendono le chiavi decussate colla scritta: p. bonorvm. c, ovvero p. bonor. ca, e dall’altro S. Pietro.
Spetta a questo marchese una contraffazione di quattrino di Montalto del nostro museo, e forse anche altro quattrino imitante quelli del re Francesco I per Milano (Tavola XI, n. 3).
Francesco, fratello del precedente, quantunque non affatto mondo del peccato delle adulterazioni, occupa posto più decoroso nei fasti della moneta, ed alcuni egregi pezzi d’oro e d’argento, e qualche impronta originale, inducono a credere possa essere stato il primo fra questi signori che esercitò legalmente il diritto della zecca. Con lui Castiglione salì all’ordine di Principato.
Se Luigi, il maggiore dei due figli di Francesco, dichiarato erede del Principato, ma dimorante quasi sempre lontano, non apparisce ch’abbia tenuto operosa la zecca, ben fece lavorarvi, dopo la sua morte, il di lui fratello Ferdinando, che neppure seppe restare immune dal mal vezzo delle contraffazioni. Di lui, oltre il paolo arrecato dall’Affò, notammo altro ben differente, che al rovescio porge il Santo del suo casato, quel desso che cedette al fratello i propri diritti, ma fatalmente sciupato di molto (Tav. XI, n. 4). Delle altre sue monete sono di qualche pregio la gazzetta battuta in commemorazione della sventurata donzella Domenica Calubini, ed il soldo che sul primo lato finge il biscione visconteo; inediti altro soldo sul quale una torre completa il concetto della sua leggenda meglio che non faccia il vaso sacro sui consimili dell’Affò (Tav. XI, n. 5), ed un quattrino contraffatto ai vitalini di Parma del duca Ranuccio II Farnese (Tav. XI, n. 6)8.
A Carlo, figlio di Cristierno e cugino del nominato, toccò in retaggio Solferino, dove, non volendo essere da meno degli altri, fece lavorare alcune monete. Morto Ferdinando entrò egli in possesso del Principato, e nel breve periodo dei tre anni ancora rimastigli, pur sopprimendo l’officina di Solferino, poco fece lavorare in quella di Castiglione, due sole essendo le monete che vi alludono.
Ferdinando II, ultimo reggitore di Castiglione, se fu onorato
dalla corte di Spagna, non fu al certo buon Principe,
perchè, come insegna l’Arrighi, colle vessazioni e gli aggravi
ridusse i suoi governati alla disperazione ed alla rivolta.
Un bellissimo pezzo di lui, ignorato dall’Affò, fece
conoscere testè l’illustre signor comm. Promis, ed altro
minore, da venticinque soldi, che ora incontrasi facilmente
nelle collezioni, era del pari sfuggito alle ricerche del dotto
bibliotecario di Parma. La sua rarità d’allora trova facile
spiegazione nella sua impronta che imita certi pezzi di principi
della Germania, dove promiscuamente ad essi avrà in
quel tempo avuto corso (Tav. XI, n. 7).
Solferino.
Pria che Carlo Gonzaga, per la morte del fratello, diventasse Principe di Castiglione, essendo soltanto Signore di Solferino, volle usare o piuttosto abusare del diritto di zecca, facendo battere talune scarse monete, tutte contraffatte a quelle d’altri signori. Meritano essere conosciuti due pezzi di questo gabinetto i quali, differenti nel primo lato, estendono al rovescio il sole, arme di questa terra, ma postovi più che altro per imitazione di certe monete dei duchi di Mantova alle quali dovevano fare disonesta concorrenza (Tav. XI, n. 8 e 9). Il Gradenigo ne descrisse una, simile alla prima, ma priva del millesimo.
Gazzoldo.
Di questa terra del Mantovano, dichiarata feudo imperiale di Carlo VI a favore dei Conti Ippoliti, che da secoli la possedevano, ed ai quali era pervenuta dai Bonacolsi, riportarono brevi notizie Gradenigo, Zanetti, Carli, Volta ed altri. L’esimio signor comm. Promis, pubblicando non ha guari una nuova moneta dei Conti Ippoliti, ne ragionò più ampiamente, per cui passò senz’altro a due pezzi non per anco pubblicati con disegno, che serva questo museo, al quale non manca il mezzo scudo dalla fenice del conte Annibale, eseguito verosimilmente in tempo a noi vicino coi coni tuttora esistenti.
La prima di tali monete è un grosso di basso argento allo stampo di quelli di Genova del secolo XVI, e con leggende non dissimili da quelle del mezzo grosso che illustrò il prelodato Commendatore, allusive ad un feudatario denominato verosimilmente Scipione ed all’imperatore Rodolfo II, datore del privilegio di zecca agli Ippoliti (Tav. XI, n. 10). La seconda è la muraiuola descritta dallo Zanetti, imitante alcune di Bologna, coi nomi dei tre o quattro fratelli consignori del feudo (Tav. XI, n. 11)9.
Note
- ↑ Pubblicato nel Periodico di numismatica e sfragistica per la storia d’Italia. Firenze 1868, Anno I (N. d. D.).
- ↑ Non è insolito trovare nelle monete italiane motti tedeschi tolti dalle imprese di quelli che le fecero battere, ed il più di sovente in forma scorretta. Cosi, ad esempio, in moneta di Milano di Lodovico Sforza, reggente lo stato in nome del nipote, leggesi: ich vergies nit, io non dimentico; sovra un grosso della stessa città di Francesco II Sforza: mit zait, col tempo; su molti pezzi di Alberico I Cybo, marchese di Massa: von gueten in pesser, di bene in meglio; in un soldo di Francesco II marchese di Mantova: bider craft, possanza leale.
- ↑ Anche l’esimio conservatore del gabinetto di Torino, dichiarando testè un grosso di questa città, battuto dal Comune a nome di Lodovico il Bavaro, sembra esprimere tale opinione.
Gli autori che ragionarono sui grossi comaschi ad effigie non stimarono opportuno di notare alcune essenziali differenze che in essi si osservano. Sono que’ grossi di due specie ben distinte. Alcuni, e sono i più numerosi, hanno l’aquila rivolta verso la sinistra dell’osservatore e la leggenda che vi corre intorno suona brevemente: cvmanvs; in altri, più rari, l’aquila guarda a destra, ed è accompagnata dall’iscrizione: civitas cvmana. Potrebbero notarsi alcune altre differenze in poco rilievo, ma lo stile fra l’una e l’altra specie, tranne qualche maggior finezza d’intaglio nei secondi, è uguale come uguali ne sono il peso ed il titolo e mostrano perciò che furono battuti ad una stessa legge. Ora, ammessa l’opinione del chiarissimo cav. Brambilla, non potrebbe dedursi a completamento quasi di essa, che questi secondi grossi, sui quali la parola Civitas sarebbe equivalente a Comunitas, siano stati battuti dopo la lunga lotta fra l’imperatore ed i Comuni lombardi, che colla pace di Costanza (1183) finì per consolidare questi in repubbliche? Ben vorrebbe egli già nella sola parola Cumanus dei primi grossi sottintendere Populus, ma il sottinteso, se vi è, non dà ancora a divedere quella sicurezza della propria libertà e diritti annessi che esprime senza reticenza la parola Civitas. E sarebbe forse puerilità ammettere che anche l’aquila rivolta in altra direzione serva all’espressione di tale concetto, quasi a dinotare le mutate sorti della città? Che se Como, emancipata dalla immediata supremazia dell’impero volle pur mantenere l’impronta ed il nome imperiale, può averlo fatto, oltrechè per l’omaggio che continuava a prestare agli imperatori, per ragioni economiche. Esempi analoghi non mancano, e l’assenza totale di monete repubblicane di questo tempo rende forse più probabile tale supposizione. - ↑ Alle monete del Mandelli descritte in quell’articolo deve aggiungersi altra imitazione di moneta maggiore, dicken, o testone, di Lucerna, ch’erami ignota allora, perchè soltanto in quel torno veniva pubblicata dall’illustre signor Morel-Fatio; ma a tale omissione suppliva poi il chiarissimo Olivieri nella Rivista stessa.
- ↑ A tale opinione non aderisce l’egregio D. A. Portioli, che retrocede fino alla prima metà del secolo XI colle prime monete vescovili Egli ammette anche il diploma di Lotario II e segnala l’esistenza d’altri di Corrado II e di Federico I, i quali, quantunque posteriori, gli comprovano l’esistenza della zecca mantovana più in là del mille. Ci rimettiamo a lui per tale affermazione che desideriamo possa venire avvalorata dalla scoperta di monete corrispondenti, che fino ad ora mancano.
- ↑ Sebbene l’illustre e venerato maestro commendatore Promis, nella egregia storia delle zecche di Masserano e Crevacuore non ha guari pubbHcata, ne insegni tale pezzo vedersi in tariffa di. Lione dell’anno 1578, non so decidermi a sopprimere il disegno che ne feci, trattandosi di cosa rara e di libro ancor più raro.
- ↑ Furono queste, al certo, le contraffazioni che ammorbarono di ogni parie Bologna, ed indussero il suo Senato a mutare il conio dei quattrini nell’anno 1591, come nota il Ghirardacci.
- ↑ La presenza in questo gabinetto del quattrino che da molti si vuole battuto in Castiglione del Lago dal Granduca di Toscana Ferdinando II, porgemi occasione di esporre un mio pensamento. L’Orsini fu il primo, credo, che ne facesse menzione, ma avendo egli omesso di riportarlo nelle tavole sembra dinotare non fosse intieramente convinto che appartenesse a quel principe ed a quel luogo. Còlta la palla al balzo, l’instancabile letterato D. M. Manni accolse nei suoi Discorsi quale fatto irrefragabile quella opinione, e tanto bastò perchè dai più fosse poi ammessa senz’altra discussione; ond’è che in nuovissime pubblicazioni nummografiche italiane trovasi ripetuta l’affermazione di quella pretesa zecca, contro la quale il mio istinto si è sempre ribellato, e ne dirò il perchè, non senza invocare perdono da tutti quelli che opinano in altro modo. In primo luogo non posso concedere che il magnifico Signore della Toscana facesse battere quei quattrini con omissione del titolo suo principale di Granduca. Se poi, considerandosi successore del signore del castello che sorge presso al Trasimeno, voleva soltanto ricordare il titolo annessovi, doveva, anziché principe, dichiararsi su quelle monete marchese, ossivero duca, qualora questo titolo fosse accertato più che non sia. Il Granduca, che faceva lavorare i suoi quattrini di mistura, cioè con buona parte d’argento, avrebbe inoltre agito in opposizione ad ogni regola di buon governo facendo contemporaneamente improntare quei presunti suoi pezzi di schietto rame, come sono infatti, e, sia ch’egli stabilisse nello stesso castello una officina temporaria, sia che li facesse lavorare nella sua zecca di Firenze, non è credibile potessero riuscire sì barbari e negletti in confronto di tutte le altre sue monete. Altra considerazione: la corona che sovrasta all’arme in codesti quattrini non ha la forma tutta particolare, della granducale, ornata di raggi frammezzati dal giglio fiorentino, ma sibbene una consueta corona principesca, come ho potuto constatare sovra più esemplari. Nuovo argomento mi porse il Bullettino di Numismatica pubblicando un inedito quattrino della raccolta Donati, battuto da un Gonzaga nella terra di Bozzolo. Ora, l’illustre Commendatore Promis scriveva testé: " Se una moneta fu contraffatta da uno dei tre casati Mazzetti, Tizzoni e Radicati, quasi sempre si trova essere stata imitata anche dagli altri „ e questo è ormai assioma numismatico applicabile ad altri consimili casi. Ma di tale prova non vi è nemmeno bisogno in questo, perchè da lungo tempo, sono conosciute parecchie monete contraffatte a quelle dei Granduchi, di qualche principe di Castiglione delle Stiviere. Aggiungasi inoltre la circostanza che, dall’Orsini fino al dottissimo sig. P. Tonini, a nessuno fu dato ancora di rinvenire traccia alcuna di documenti che comprovino l’esistenza di una zecca in Castiglione del Lago, o di una speciale battitura di monete per esso, e si avrà, parmi, quanto basta per poter dare l’ostracismo definitivo ad una infondata opinione ed autorizzare la restituzione di quelle subdole monete al luogo che le vide nascere, cioè a Castiglione delle Stiviere. Ammesso ciò, sono d’avviso che il quattrino in discorso sia stato battuto dal principe Ferdinando I Gonzaga; che se uno di cotali pezzi porta veramente la nota numerale II, non mi opporrò perchè sia assegnato al secondo Ferdinando, il quale può bene avere ripetuto la frode del primo. La crazia poi, prodotta dal prelodato P. Tonini, non invalida i suesposti argomenti, perché mutatis mutandis, fu operata con analogo scopo.
- ↑ Quantunque non sia cosa del museo Bottacin, approfitto di un cantuccio della tavola per esporre una terza moneta inedita di questa zecca, fatta con intiera imitazione di alcuni quattrini pontifici di Fano, e poco dissimile da altra descritta nel catalogo Welzi (Tav. XI, n. 12).