Il Castello delle Mollere
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IL CASTELLO
DELLE MOLLERE
RACCONTO STORICO
FATTO
ALLE VALOROSE DONNE TORINESI
DA
MANDRICARDO DA SAMMICHELE
Cicero pro domo sua
TORINO MCCCXXXIV
IN BENEFIZIO
DI NOI ALTRI POVERI PAZZARELLI
Velut aegri somnia, vanae
Fingentur species
HORAT. ad Pis.
Noi altri letterati siamo il fiore dell’umana generazione. Signoreggiata ogni qualsivoglia perturbazione dell’animo, non diamo mai segno d’ira, d’invidia, nè di altro men che amorevole affetto; nelle amicizie e negli amori costanti sino alla pruova del tedio; scapoli per lo più andiamo espediti da quelle malinconie che piglian radice dai domestici affanni, nè ci cal dalla roba, onde, se ce ne avanzasse, guazzerebbero coloro che intorno ci stanno; dov’è persona al par di noi festevole e buona? Qual è l’ascoso arcano della natura, o all’intellettuale o al materiale mondo si aspetti, che da noi frugato, e messo in chiara luce non sia? La più rozza e la più volgar cosa, ornata coi fiori dell’incantatrice nostra eloquenza, subito diventa una gemma. E se il nostro senno monta in cielo, tanto tiriamo innanzi come se nulla fosse. Chi nega esse nobis partem divinae mentis et haustus aetereos? Aquile ardimentose nei voli verso le cose sublimi, timidi e modesti agnelletti nel sentire di noi medesimi.
Il divino Eti suol dire che noi siam pedanti e seccatori. Non dategli retta. Anche il divino Eti non di rado balena, o si lascia aggirare alle torte opinioni della gente leggera.
Che se alcuna volta vi competesse a buona ragione il diritto di accagionarci di seccaggine, pensate che della seccatura ce ne tocca anche la parte nostra; e dite pietosamente come alla Belcolore disse il prete «vada l’un per l’altro». Se sapeste quante stiracchiature di braccia, quanti sbadigliamenti mi costa il dovermi porre a questa bisogna dello scrivere! Mirate come da siffatte tediosissime contorsioni ne sia stravolta la bocca mia ch’era una rosa, e avrebbe potuto essere adoperata da voi ad uso molto migliore e molto più grato. Leggete e rileggete pure questo mio racconto; imparatelo a mente e fatelo imparare alle vostre Mise, alle vostre Eme, alle Cecilie, alle Bianche, non vi annojerete e non vi arrabbierete tanto, quanto mi sono arrabbiato ed annojato io per iscriverlo.
E nota che mi hanno costretto a prendere l’argomento tra le immondizie del medio Evo ch’io non ho mai potuto con buona licenza patire, a cagione d’un certo odio antico che gli porto, perchè la navicella d’alcuni amici miei ha sofferto gran danno per essere stati inquisiti e diffamati in genere di avversione a quella barbara età.
Chi è colui che mi vien bisbigliando nell’orecchio ch’ell’è un’affettazione la mia vantarmi d’essere obbligato a trattare materia che tanto mi riesce ingrata? Oh bisbigliatore, perchè mi vedi con questo viso burbero independentone, perchè mi ascolti talvolta pronto come un razzo ne’ miei motteggi tu credi non mi stringa i fianchi una dura catena? Inesperto!
Se le leggi delle buone creanze non vietassero a chi parla di parlar di se stesso, ti farei toccar con mano ch’io dico la verità.
Ma chi dettava? Chi ha promulgato queste leggi delle buone creanze? Certi uomini leziosi, bene attilati e meglio in zazzera i quali, avendo vissuto una vita scioperata e oziosa, non possono porgere verun esempio degno d’imitazione, e sarebbero nel più grande imbarazzo se taluno li ricercasse di dir quattro sillabe dei fatti loro. In grazia della povera loro origine e della noja ch’esse mi danno, parmi stupidità e stoltezza osservar queste leggi. Lasciate ch’io le violi, o valorose donne Torinesi, ve ne avrò un obbligo uguale a quel di coloro cui avete fatto degni di maggior benefizio... Seguane che puote! Violiamo.
Avete dunque a sapere che da giovinetto avendo menato alquanto le mani contro un gran baccalare, mi toccò abbandonare la casa paterna... Scusate la lagrima che mi spunta sul ciglio! Quando rammento il giorno dell’estremo addio, non posso temperarmi ch’io non pianga. M’erano intorno la madre amorevole che mi benediva, le sorelle che mi abbracciavano e piangevano, ed il fratello che voleva serbare una costanza da Catone e che nell’accomiatarsi mi diceva «fa cuore», ma del cuore ei più non aveva. E della mia dipartita si dolevano le signore, perchè non si menava una danza ch’io non ne fossi stato il promotore; si dolevano i preti, perchè non si cantava un vespro ch’io non andassi a salmeggiare con essi, a suonar l’organo o per lo meno a scuotere il turibolo; si rammaricavano le fantesche, perchè io le ajutava a attinger acqua, ed a raccogliere il bucato quand’era asciutto; se spuntava un fiore nel mio orticello subito ne ornava il loro seno, in corrispondenza del grande amore che mi mostravano. E mi ricordo come la Barboretta di Ririno, la quale si vantava d’essere la prediletta, mi diede una ciocca de’ suoi neri capelli, e tenendosi il grembiale in sugli occhi si facea promettere che l’avrei serbata per sempre, e la serbo tuttavia, chè chi vuol vederla, non ho difficoltà di mostrarla. Insomma v’era un corrotto in tutto il paese, come quando ci muore una fanciulla da marito, e tale che il medesimo baccalare da me sì malamente percosso m’avrebbe agevolato il ritorno all’indomane, se si fosse saputo qual via mi avessi preso tra le gambe. Dio vi benedica di quel vostro dolore, o anime pietose de’ miei compaesani; ne invoco la memoria quando il cuor mio è in tempesta; essa gli è refrigerio e fonte di soavissima calma.
Io m’era messo di conserva per viaggio insieme con un di quelli che portano le uova alla marina. Dopo aver camminato un giorno intiero tra colli sterilissimi, e in mezzo a povere catapecchie mi si scuoprì il mare. M’accoglieva Savona, chiarissima cittade per aver dato i natali a due Sommi Pontefici, al Chiabrera e, si credette alcun tempo, anche allo scopritore dell’America. Era l’ingegno pieno di rudimenti, l’animo di affetti, ma nel borsellino avrebbe capito maggior copia di moneta. Pare quasi Savona fosse in capo al mondo e il fine di mia peregrinazione mi vi fermai. Al par di Rafaello Sanzio vi rimasi preda d’una fornarina. Era pur vegnentoccia e attaccaticcia! Ma il tempo fuggiva, e con esso fuggirono pur anco i danari; di modo che rimasto così brullo ed arsiccio mi sarei disperato, se a diciott’anni, con una salute erculea, e con un grillo in testa l’uomo potesse disperare.
Mentre un giorno me ne andava ajato per la via aspettando che la provvidenza si desse briga de’ fatti miei, un uomo m’accosta e mi dice «giovane, che cosa fai? Nulla, risposi, e vorrei pur fare se il potessi... Potrai, vien meco; ed io me gli posi dietro. Chi fosse costui non lo so tuttavia; so bene che postomi in una barca pescareccia, comandò a’ suoi che dessero dei remi nell’acqua; ed io lasciava fare: sino a che a quattro miglia discosto dalla marina ci trovammo sotto ad una nave grossa di tre alberi che stava in panna. Il capitano si affaccia al bordo, mi accoglie, dà qualche piastra di mancia al conduttore, accomiata la barca pescareccia. Qual maniera di vita mi toccasse di dover menare colà, io non lo sapeva. Il capitano bisbigliava in un certo linguaggio di cui io non comprendeva nemmeno una sillaba. Volevano ch’io arrampicassi su per le scale di corda, che tirassi le sarte e ammainassi, come dicono i marinai: ma al primo ufficio faceva ostacolo questo mio panciotto che, sebben fossi giovane, già tondeggiava, ed al secondo il poco amore ch’ebbi mai sempre alla fatica. M’argomentava di schermirmene alla meglio, e ad un tal fine usai la francese e l’italiana favella, ma a nulla montava. Parlai finalmente in latino, e il capitano, fatto tanto di occhi, mi pigliò riverenza e, invece di farmi lavorare cogli altri, mi pose all’educazione di due suoi figliuoletti. La storia di quel capitano e d’un certo nostromo detto Barbagelata, e le vicende di quella navigazione ve le racconterò un’altra volta, se il cielo ci dà vita, e ancora un po’ di tempo da perdere; perchè adesso in fede mia ho troppe faccende in sulle braccia. Mi tocca consolar gli afflitti, visitar gl’infermi, rigenerare un mezzo mondo e leggere le gazzette che ci fioccano addosso come la neve.
Andammo in Calcutta e quindi nella terra di Lahor. Ivi fondai l’accademia Asiatica che nelle sue ricerche abbraccia lo scibile, come la mente di Pico della Mirandola lo abbracciava. Egli era solo; noi, per saper tutto, eravamo in molti. Don Fricciofilo venne da me incaricato di rimettere in onore la lingua Sanscritica, e lo fece; il Lugente andava investigando le date, per adattare a tutta l’India i sistemi dei frati Benedettini della congregazione di S. Mauro; il Liquio prendeva a dichiarare le antique leggi dei Brama, e vi riusciva a pennello; Etiobolo s’ingolfava nei misteri della natura e, cosa meravigliosa a dirsi, sotto quel cielo che giova sì poco per l’azione, tanto è morbido e sereno, ma che serve alla contemplazione per modo che chi d’essa è invaghito dovrebbe colà condursi a far sempre nulla, a forza d’investigare quest’Etiobolo avea trovato il modo di far sì che l’acqua più non andasse alla china, ma sibbene risalisse e serpentasse su per le altissime schiene dei monti. Gli esperimenti andavano bene, se ne sarebbe di molto vantaggiata l’agricoltura, e la pittura dei paesi; chè nuovo e dolcissimo aspetto riuscito sarebbe vedere i contorni delle Alpi e del monte Tauro orlati da una striscia d’argento come il cappello dei generali; ma per timore che non se ne guastasse il corso della navigazione, l’Etiobolo fu pregato di rimanersene, e si ristò. Il Paffuto poi a furia di ricerche era giunto a sapere al giusto quante serque d’uova nascessero nella provincia di Lahor, e ne desumeva il computo delle frittate che se ne sarebbe potuto fare in occasione di guerra, di pace o di tregua. Altri altre cose facevano. Il tempo volava via com’una saetta, e dolcemente volava, chè del giorno sei ore si davano allo studio, quattro si spendevano a mensa, tutti noi accademici di conserva, otto si passavano a dormire e sei si spendevano trescando colle nostre innamorate. Perocchè ciascuno di noi s’era preso una donna a vagheggiare, e ciascuno avea dato alla sua il nome di un fiore, L’una la rosa, l’altra l’anemona, l’altra la margaritina o la tulipa chiamavasi.
Alla mia posi il nome di Mammoletta, perchè la era morbida e soave quant’altra cosa sia nata mai, lieta e turlupinante sovente, e talvolta con una nubecola della più cara melanconia sul viso. Quanto l’amai! e quanto io l’amo ancora! sebbene essa abbia sempre fatto le viste di non accorgersi dell’acceso mio desio, nè io abbia osato mai di svelarglielo apertamente; e ad onta di ciò la memoria di quel virtuoso affetto m’è sì gradita, che se mi dicessero di bere un bicchierino di Lete e di spegnerla, o in difetto di lasciarmi strappare gli occhi, consentirei di diventar cieco anzichè d’accostar le labbra a quel nappo fatale.
L’autorità femminile che s’usa nella provincia di Lahor non è perpetua, ma temporaria, come s’usava dai Consoli Romani. Al nostro arrivo la terra obbediva alla Regina Formosante gran volpona, ma buonissima come colei che aveva il seno e i fianchi rilevati, possenti rimedi colà a mantenere i soggetti nell’obbedienza e nella fede. Datosi il cambio, la suprema podestà passò tra le mani d’un’altra Regina bella così così, ma meno pastosa e solenne odiatrice d’ogni maniera di abluzione, onde nissuno ambiva l’onore di starle troppo vicino. Teneva modi sprezzanti verso dei letterati, e lasciava guidarsi a certi consiglieri venuti di lontano. Questi spinti non so da qual demonio crudele vollero stornarci dall’innocentissima nostra maniera di vita. Mi adirai secondo l’usato, e per non iscoppiare colla rabbia nel petto, dettai tre commedie ch’io diedi a recitarsi sul teatro, e le chiamai le tre sorelle. Intitolavansi così, il trionfo delle brutte, il trionfo degli sciocchi, il trionfo dei tristi. Passò la prima senza bisbiglio, perchè la favola era coperta, e nissuna tra le nostre avversarie volea credere di essere stata presa a bersaglio; ma la seconda sera alcuno di quei nuovi potenti stimò d’essere il protagonista, nè seppe celare lo sdegno suo; tanto più che nella favola era introdotto un progettista, che co’ più bei paroloni del mondo sull’economia, proponeva il modo di far camminare i dicasteri dello Stato a vapore, dal numero degli impiegati di ciascheduno di essi calcolando la forza, come nei battelli ora si fa dei cavalli. La terza sera poi, quando si recitava il trionfo dei tristi, lo sdegno non ebbe più nè ritegno nè confine. Dei tristi ve n’erano assai, e forse con troppa amarezza io gli aveva smascherati e punti. Non vollero darsi a divedere, conciossiachè la fama di tristo dispiaccia anche a chi lo è; ma nelle loro segrete conventicole deliberarono di darmi la morte.
Io stava coll’occhio vigile, e bene in arme, deliberato di vender caro la vita a chi me la volesse torre. Gli amici miei gli aveva divisi in categorie, distinte a colori diversi: i bianchi erano quelle animette devote e innocenti con cui ci volevamo del bene con un candore di paradiso; i rosei quelli con cui l’amicizia si faceva più stretta per via di regaluzzi e di scappatelle; i turchini apparecchiati a mettersi a qualsivoglia cimento per me, come io per loro; i verdi eran quelli in cui l’amore andava temperato da un certo brivido d’invidia che Dio lor la perdoni. Tutti insieme per altro facevano un eletto drappello, e niuno vi fu che coi nemici miei si accomunasse. Visto che v’era pericolo nell’assaltarmi alla scoperta, deliberarono di ferirmi nell’animo, e trovato modo di dare un beveraggio alla Mammoletta, essa fu creduta morta. Perchè rammento quel durissimo accidente? Perchè tocco mai questa corda che dà un suono così doloroso?
Che cosa avvenisse di me non lo so. Ben vi so dire che mi trovai un giorno in nave già presso al Capo di Buona-Speranza; e mi vidi accanto quel Nostromo, detto di sopra, che mi ministrava con sommo amore e si affaticava a schermirmi dall’aere, dalla voglia di buttarmi in mare e dai motteggi dei marinai. Riposa in pace, o Barbagelata, poichè nell’atto di gettar l’ancora nel porto di Genova ti fu rotta la persona dalla gomena; e quel cippo marmoreo eretto in Sturla donde traesti i natali, e dove ordinai che fossero composte in pace le tue ossa onorate, faccia fede ai tardi nepoti della tenera mia gratitudine.
Da Genova fui posto in vettura e condotto in Torino, dove, come infermo, venni collocato in una grandissima casa che sempre echeggia o di risa stemperate, o di urli feroci, o di lamentevoli pianti, o di strepito di catene. Nello stesso albergo rinvenni quei cari amici miei ch’io stimava aver lasciato nella provincia di Lahor; eglino sono sciolti al par di me. I maligni di quel paese hanno forse anche dato il beveraggio alle loro innamorate? Non ardisco domandarlo; perchè davvero mi pajono ben bene stralunati e ancor più di me nemici giurati della logica.
Per buona ventura io fui dato in custodia del cavaliere Ristorelli. Chi di voi non conosce il cavalier Ristorelli? Creatura più umana, più benefica, più servigiale credo non sia nata mai. Egli è così mal vago del dir di no, che se avesse fiorito ai tempi del Fiorenzuola, Falalbacchio sarebbe morto senza fama. Chiedetelo di giorno, chiedetelo di notte, per questa, per quell’altra bisogna, gli è sempre apparecchiato ad esservi intorno con uffici amorevoli e pietosi; nè vi abbandonerebbe quand’anche vi toccasse salir sulle . . . . . . Tolgano i Dei gli augurii. In una cosa sola da lui vi dovete guardare, cioè dal non affidargli il segreto di certi vostri negozietti ch’io non dico. Non già per riuscirvi molesto, ma sibbene per dar diletto altrui svelerebbe l’arcano: perocchè tutto in lui muove da sentimento di amore e di misericordia sì grande, che farebbe mestiero essere un cattivo per torcergli solamente un capello . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Egli dunque mi tornò a vita ragionevole e discreta; può in me ciò che vuole, ed ha tanto bel garbo nel prescrivermi le cose, ch’io non saprei disdirgli mai, avvegnachè talvolta mi paja che sarebbe maggior prudenza lasciarmi libera la scelta delle mie operazioni, o prescrivermene delle altre. Così ora mi comanda di narrarvi l’istoria del Castello delle Mollere, perchè io non so qual cattivo genietto gli ha fatto a sapere ch’io la imparai da Monna Gratterìa, moglie di quel pescatore che voi siete troppo giovani per averlo conosciuto; donna sapientissima che la povera mamma mia chiamava vicino al mio letticciuolo quando bambino ero infermuccio, e non si avea altro mezzo per acquetarmi che farmi udir delle istorie; della quale inclinazione, ch’io non credeva avesse in se cosa alcuna di riprensibile, Dio mi punisce ora che mi condanna a sentire e a narrare delle istorie assai più che non vorrei. Mi dà noja non piccola dovervi narrare di quel castello: ma per obbedienza lo fo.
Se mai vi accade di condurvi a Savona passando pel Mondovì, fatevi mostrare dal postiglione il sito dove il Recurezo precipita romoreggiando nel fiume Cevetta. Ivi è la scena del nostro racconto. Ivi Rosetta, moglie di Rampoldo signore di Bardinetto che fu pronipote della celebre Agnese Nurus Adelasiae, la quale andò a farsi seppellire in Ferrania, fece edificare il castello di cui vedrete ancora qualche reliquia, e scelse quel sito, perchè lo strepito delle acque, che si frangono tra i macigni, e dell’aria, che soffia ad ogn’ora tra le gole dei monti, imita il ruggito del mare. Povera Rosetta! quando venne a rinchiudersi in quel castello era sconsolata per la partenza del giovane suo marito.
Era costui di primo pelo quando venne sposato con Rosetta che fu della famiglia dei Doria d’Oneglia. Parea che la natura avesse a bello studio creato l’uno per l’altro. La vita di lei era piuttosto lunga e distesa, ricca la testa di biondissime chiome, gli occhi dolci e cilestri, soavissima la bocca, la pelle vinceva il latte in bianchezza. Tale ardisco desiderarmi una donna quando, dopo aver fatto una buona azione, stimo che un premio mi sarebbe dovuto. Tra i giovani dei dintorni Rampoldo era il primo; occhio nero e scintillante, inanellata e corvina la chioma, di statura mediocre ma svelta ed asciutta che tutti aveva i caratteri della forza maschile. Tale un marito si desiderano le timide donzelle quando, per essere state bene obbedienti alla cara madre, stimano che un premio sia loro dovuto. Eran concordi gli umori. Lieti per la maggio parte del tempo, compassionevoli verso dei miseri. Nè i soverchi e multiplici studii avean guasto la purezza di quelle indoli felici. Rosetta era mediocremente versata nel maneggiare la spola; in Rampoldo altra dottrina non era fuorchè d’armeggiare, cavalcare arditamente un indomito ginetto, arrampicarsi leggero sin sopra le estreme punte degli alberi più facili a piegarsi che a rompersi, e lasciarsi spenzolare per l’aura che dilettavasi a lascivirgli d’intorno. Si videro ad una festa, si piacquero, i congiunti consentirono alle nozze che Pietro Semini arciprete di Cosio benedì. Immenso era l’amore che l’uno all’altro portava; immensa la gioja del trovarsi sempre insieme e d’andar vagando su per gli gioghi dei monti e nei più oscuri recessi delle opache valli ove prende origine la Bormida. Lieti scorreano i giorni e pieni di felicità degna d’invidia. Come mai se ne cangiava lo stile?
Un messo dei Reali di Napoli, che dalla Provenza veniva passando pel Piemonte, e attendeva a far gente affine di condur soccorsi a’ suoi Signori impegnati in certe lor guerre, giunse in sul far della sera, sotto forma di pellegrino, al castello di Bardinetto. Mentiva casato e professione; ma il suo vero nome era Ubellardo, e sapea l’arti di scaltro trovatore. Sotto la schiavina portava un lungo ed acuto pugnale ed un liuto. Aveva saputo della vita placida e beata del giovane: onde accolto a mensa ospitale fattosi, dopo la cena, a favellare delle molte cose che lui vedute in viaggio, intrecciava al vero molti accidenti e fioriture sì varie e sì care, che i conjugi pendevano quasi estatici dalla bocca di lui. Prese poscia a cantare, e celebrò dapprima la beatitudine delle caste nozze, quindi la gloria dei guerrieri, e quanto sia dolce, dopo i pericoli delle battaglie, rivedere i figli, deporre ai piè della sposa gli allori mietuti, e come sieno più saporiti i baci e gli amplessi dopo che furono per lodevoli imprese interrotti. Da quel fatale istante le dolcezze della vita pacifica parvero alquanto fastidiose a Rampoldo; lo star colla moglie sembravagli ozio vergognoso e molle, e picciolo scopo del suo viril coraggio inseguir volpi e lepri tra i burroni nativi. Di tal fuoco vogliono le antiche cronache che si accendesse il fuoco di Peleo, alla vista delle armi che Ulisse gli protendeva, mentre stava torpendo alla corte di Licomede. Venga pure un canchero ad Ulisse, ad Ubellardo ed a chiunque turba la pace degli innamorati. Come vi potrei descrivere la spina di cui si sentiva punta Rosetta, allorchè un troppo geloso amore la fece accorta delle voglie del giovane marito? Come gli artifizi che questi pietosamente usar voleva onde celarle gli ascosi moti del cuor suo? Tronchiam le parole, chè mi torna da piangere e la ragione vacilla più che mai ogni volta che mi accade pensare a casi somiglianti. L’astuto messaggero, che leggeva addentro in quei contrasti, appena sorse il sole accennò di volersi partire, e nell’accomiatarsi dagli ospiti disse in un orecchio a Rampoldo «domani sera farai di trovarti in Finale in casa il podestà Giorgio Gallesio: una stretta di mano fu la sola risposta affermativa ch’egli ne ottenne.
Non voglio affannarvi col racconto del dolore e del mutuo guardarsi in silenzio che fecero gli sposi in quel terribile giorno. Se avete fatto attenzione agli occhi dell’Agar del Guercino che sta nelle gallerie di Brera, avrete un’idea dei muti rimproveri di Rosetta. Rampoldo si trovò all’ora e nel luogo indettato a Finale. Splendevano le stanze del Gallesio di cento doppieri. Là era il fiore dei giovani e delle fanciulle della riviera di Ponente, tra le quali, v’ha chi dice, che il fuggitivo adocchiasse Ottavietta di Raimondo, come quella ch’era la più svelta della persona, e aveva certi occhioni che nel dialetto vernacolo i vagheggini di lei usavano chiamare euggi santi, e ne ricevette di soppiatto, senza che il Boagni avvedere se ne potesse, una delle nerissime ciocche che ne ornavano la fronte. Vedi ciò che possano in danno della conjugal fede poche leghe di distanza.
Le smanie di Rosetta furono assai. Affaticavansi nel consolarla la Bianchi di Calizzano, il Cazzulini, e Nicolò Viola. Ma a nulla montava. A lei più non poteva reggere il cuore rimanersi in quei luoghi, fidi testimonii della passata sua felicità; e si fu allora che al tutto deliberò di ritirarsene, e porre la stanza al confluente del Recurezo e della Cevetta, per udire sotto il balcone un rumoreggiare simile a quello delle onde marine che le avevano involato il suo Rampoldo; chè per lettere aveva saputo essersi condotto, sulla nave del capitan Martino, a militare del regno.
Passò nove anni intieri in questa giovanil vedovanza. Ma una sera mentre tornava colle ancelle dal passeggio, vede sopra un bel muletto venirle incontro una persona vestita di tonaca bianca, e le facean corteggio, in forma di scudieri, due fraticelli dell’abbadia di Ferrania. Il capo di quella comitiva salutolla in aria di antica conoscenza e con un’allegrezza da scioperato, e sceso a stento dalla sua cavalcatura si accingeva ad abbracciarla: ma ella, cui l’atto riusciva insolito, si cuoprì di rossore, e facendosi scudo colla mano sinistra parea cansar volesse quell’atto di famigliarità. Più non mi riconosci? pigliò a dire l’uomo bianco, io sono il tuo Rampoldo! - Rampoldo!... sì grasso...! riprese Rosetta... allargava gli occhi e pur le pareva trovar nelle sembianze dell’advena qualche rassomiglianza colla fisionomia del marito... si peritava se dovesse abbracciarlo, e provava un interno brivido di cui non sapeva darsi nè ragione nè pace, Imperocchè nel fatto della zoologia la provvida natura, per via di misteriose rivelazioni, ne insegna a voi altre donne assai più di quello che non ne sapessero a’ tempi loro quelle buone anime di Aristotele, del Cuvier e del Bonelli. Così, raccontano, che accertatasi finalmente ch’egli era desso, Rosetta gli stese intorno al collo le braccia, ma che nell’abbracciarlo non potè schermirsi da quel raccapriccio che pruovano coloro i quali pongono all’impensata la mano sovra nudo animale di sangue freddo.
Giunti in castello ella non rifiniva mai d’interrogare il consorte, il quale se magnificava le sue imprese guerresche, dava per altro ambigue e tronche risposte in ordine ad altri più minuti accidenti della vita passata.
Qual cuore, o Rampoldo, qual consiglio fu mai il tuo di voler dividere il talamo con lei, che aveva negli occhi descritto il presentimento che quella notte tanto sospirata non dovess’essere refrigerio e compenso delle infinite che s’eran perdute? Buona però com’ell’era e candida Rosetta richiamava al pensiero le antiche delizie, e le reciproche dimostrazioni d’affetto. Ma il marito prorompendo in un doloroso ohimè! sclamò: ogni gioja, o cara, per noi è finita per sempre. E proseguì in queste parole «sia pur maledetta l’ora e il momento in cui quell’ignoto pellegrino pose il piede nelle nostre stanze di Bardinetto. Egli mi trasse ad esercitar la milizia agli stipendii del Re di Napoli; le mie prime imprese corrisposero al valore che tu in me conoscevi, e pari alla valentìa nelle armi era la mia destrezza nei torneamenti, e nelle giostre che soventi volte in quella splendida corte si celebravano. Frequenti e famigliari i miei colloqui colla Regina Giovanna avvenente ed amorevole quant’altra donna sia stata al mondo. T’amai sempre, o Rosetta, e di vero amore ti amai; ma la lontananza e l’occasione sono due possenti stimoli all’errore. Accortosi il Re Andreasso della troppo dimestichezza che passava tra me e la moglie sua, ci tese l’agguato, ci colse in fallo, e coll’ajuto di due suoi fidi scherani fece sopra di me solo cader la pena di una colpa che per lo meno era comune. In questo punto Monna Gratterìa scendeva a recitare, con semplicità Salviniana, certi sanguinosi particolari, dai quali per la sua bontà il cavalier Ristorelli consente ch’io prescinda. Quale fosse la mia confusione, continuava Rampoldo, quale il pentimento e la rabbia non io potrei spiegartelo con parole. Mentr’io stava languente e semivivo in un letto, seppi che per vendetta la regina Giovanna aveva fatto spenzolar giù dal balcone Andreasso ed uccisolo. Ma che monta? La morte di quel principe troppo geloso, e la nascita d’un fanciullo, a cui gli oracoli predicono cento liete venture, ma di cui non voglio che la memoria d’Andreasso rimanga onorata, non mi restituivano lo spento vigore. A che mi giova l’esserti tanto affezionato? A che mi giova trovarti sempre accesa nell’amor mio? Qui singhiozzava assai, indi proseguiva: sebbene io ti sia stato infedele, pure t’ebbi sempre presente al pensiero, ed appunto per te per te sola forte mi dolse, ed ora più che mai, poichè t’ho ritrovata, forte mi duole la sofferta sciagura. Ma il cuore è costante, e se pur v’ha gioja che da esso proceda, d’or innanzi sia tutta nostra, e tu per la tua indulgenzia, io per esserne fatto segno avremo almeno quest’ombra di felicità. Ombra, ombra vana, borbottava mezzo smarrita ed estatica la misera Rosetta. Alto è il mio sentire, sono stirpe d’Eroi ed Eroina ancor io, sincero è il contento che provo del tuo ritorno; ma quel che pascersi d’ombra.... Due anni or sono per causa di un raffreddore mi salassarono e vidi che il mio sangue era porpora come quello della Beppa del Mancino ch’io aveva poc’anzi assistita cagionevole. Oh Oh! Plutarca, Plutarca, disse allora Rampoldo pieno di maraviglia, chi ti ha appreso le sentenze di Plutarco? Ed ella rispose. Capitò qua un giorno un certo Orazio Criccoli lieta e rubesta persona, il più caro matto che ci sia. Ballava, trescava, armeggiava tutto il giorno, e quando volea farla da menestrello, invece di cantare, strillava. Noi andavamo soventi volte insieme o nelle solinghe parti della valle del Salisola, o giù in fondo alla pratora di san Bernardino, là donde fa di se così vaga mostra la valle del Tanaro, e la rocca di Cigliero che la chiude. Nei primi giorni ch’ei mi conobbe narravami liete novelle, perchè lieto e giulivo egli era oltre misura: quindi poco a poco diventava più grave ed un filo di malinconia sottentrava alla primiera festività: nè men mi piacque perciò: allora cominciò a narrarmi storie più solenni di battaglie campali, di contese cittadinesche in cui erano stati avvolti gli antichi cui egli dava il nome di Greci e di Romani, e fu appunto mentre mi parlava di un certo Alessandro Magno, di cui non s’era mai fatto parola nè in Oneglia nella mia casa paterna, nè dentro il tuo castello di Bardinetto, grande guerriero, a cui per adulazione i suoi scudieri volean far credere ch’ei fosse figliuolo di Giove, che venne il discorso sopra il colore del sangue, comune a tutti i mortali. Stette quasi due mesi interi con meco quel buon Orazio; ma in lui la tristezza cresceva sopra ogni fede, di modo che un bel dì cogli occhi rossicci ed umidi e con interrotte parole, prese da me commiato, e dicono sia andato, insieme con Galeotto del Carretto, in Levante a far la guerra contro ai Saracini. Dio l’accompagni e lo salvi; chè nell’affrontar belve e masnadieri era un leone, ma con meco timido agnelletto. Era cara persona; nè io potrei giurare di non averlo amato anche un poco... per altro io non t’ho rotto la fede. Tu non mi hai rotto la fede, disse Rampoldo, ma ora tu mi rompi... Che cosa ti rompo? rispose Rosetta sdegnata per la villana parola che il marito aveale incontro scagliata.
Era allora in quella terra a Scambino uno che chiamavasi Ser Gavassonio. Avea passato i primi anni suoi tra gente perduta ed in conversazione di donne peccatrici ora drudo or fattorino di quelle. S’accostò alle corti dei signori, e quale era il nome che seguivano, tale egli parteggiava; oggi Guelfo domani Ghibellino, conforme stimava fosse l’umore o il talento di chi gli dava belle vesti da indossare, maggior copia di vino da tracannare, o più saporite vivande da leccare. In Padova si fece Paterino per gratificarsi uno spurio dei Carraresi; a mala pena si salvò dal rogo, ma fu messo alla colla e parecchie tratte delle buone furongli date. Entrò poscia nella masnada di Luchino Visconti, ma poich’egli era beone e vigliacco fu punito d’un sacrilegio, che a tutt’altri quegli empii avrebbero perdonato di leggeri, battuto colle verghe e con ignominia cacciato in bando. Si fece quindi Chietino, e usando torcere il collo, con quell’arte ingannò un potente che lo mandò alla scabinerìa di quel paese. Mentre Rampoldo era assente ei s’era affaticato ad amicarsi Rosetta, e le avea teso insidie per recarla a’ suoi soperchievoli appetiti. La tentazione era stomachevole nè difficile a vincersi da quell’anima gentile, onde io non verrò celebrando con lodi una tale vittoria. Le repulse furono senza sdegno, ma non senza qualche dimostrazione di sprezzo. Di che ser Gavassonio se la legò al dito e giurò dentro se stesso di voler farne le sue vendette. Aggiungi ch’ei portava odio contro la memoria del Criccoli, perchè un bel giorno, disputando intorno al libro delle sentenze ed alle decretali d’Isidoro Mercatore, lo aveva chiarito ignorante, quale diffatto era quel ribaldo, che non allo studio di Padova o di Bologna, ma sibbene tra i fiaschi e le taverne s’era fatto dottore.
Astuto com’egli era non indugiò molto ad avvedersi essere una ruggine tra marito e moglie, e troncate le vie atte a menare una sincera riconciliazione. Si pose intorno a Rampoldo, nè mai lo lasciava; gli metteva nell’anima continui sospetti e gli veniva sussurrando certe calunnie intorno al Criccoli, di modo che quel debolone, fatto credulo e fastidioso come il fistolo, non lasciava più un’ora di bene alla povera Rosetta, tanto la punzecchiava e la bistrattava in parole ed in fatti. Languì l’infelice per alcun tempo, poi a poco a poco uscì di cervello, ed un giorno scappata di casa, e salita sull’alta cima della rocca di Lepre, che sta a cavaliere della Coppa d’oro, raccomandato alla meglio l’anima a Dio, come Saffo da Leucade si precipitò.
Incrudelì contro la fredda salma ser Gavassonio, e volle che fosse sepolta nel luogo istesso ov’era caduta. Ivi i contadini le scavarono la fossa, e vi piantarono i fiori che sbucciano ad ogni luna nuova. Se andrete da quelle parti udirete il ritornello della canzone che dice così: «Tutti coui che passeranno ciameran ’d chi son cousti fior? Son le fior - de la Rosetta c’a l’è morta per amor. Bis» e le contadinelle ne fanno echeggiare i dintorni con una cantilena lagrimevole e dolce dolce da disgradarne la Gazza Ladra e la Norma. Ah se avessero la cara voce di quella mariuola che ad ogni sabbato co’ suoi gorgheggi in estasi mi rapisce, che coro d’angioli sarebbe mai!
Rampoldo abbandonò quel sito e tornò a Bardinetto. Alla casa fondata da Rosetta fu posto il nome di Castello delle Mollere, nome che ritiene anche oggidì.
Lì vicino al ponte della Cevetta si vedono ancora alcune cupe grotte, che si dice fossero stanza di fate benefiche amanti della giustizia. La tradizione vuole che, in premio del buon oprare di lui, abbiano una notte impiccato ser Gavassonio al travicello che sporge in fuori dalla casa di Benedetto Bellone. Ognuno che sa l’istoria da me narrata vorrebbe che il fatto stesse così. Ma per altro non è bene avverato, perchè i documenti tacciono sempre delle cose piacevoli e più rilevanti.
CONGEDO
O valorose Donne Torinesi, mi dicono or ora che avevate una gran sete d’udire questo racconto. Che cosa ve ne pare adesso ch’io ve l’ho fatto? Se non vi piacque, non fatene motto, ch’io me ne accorgerò, anzi lodatelo a cielo, perchè importa assai che se ne vendano molte copie in benefizio di noi altri poveri pazzarelli; ed io ve ne farò poi degli altri per accontentarvi. Se vi piacque, lasciatelo detto al caffè di Fiorio, dove vado ogni sera a far la zagagliata col mio caro signor Gnao.