I promessi sposi (Ferrario)/Capitolo XXXII

Capitolo XXXII

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Capitolo XXXI Capitolo XXXIII

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CAPITOLO XXXII.


Divenendo sempre più difficile il supplire alle esigenze dolorose della circostanza, era stato, ai 4 di maggio, preso nel consiglio dei decurioni, di ricorrere, per aiuto e per mercede, al governatore; e, ai 22, furono spediti al campo due di quel corpo, che gli rappresentassero i guai e le strettezze della città: le spese enormi, l’erario esausto e indebitato, le rendite future impegnate, le imposte correnti non pagate, per l’impoverimento generale prodotto da tante cause, e dal guasto militare in ispecie; gli mettessero in considerazione che, per leggi e consuetudini non interrotte, e per decreto speciale di Carlo V, le spese della peste dovevano essere a carico del fisco: in quella del 1576, avere il governatore marchese di Ayamonte, non pur sospese tutte le imposizioni camerali, ma sovvenuta la città di quaranta mila scudi della [p. 200 modifica]stessa Camera; domandassero finalmente quattro cose: che le imposizioni fossero, come già allora, sospese; la Camera desse danari; desse il governatore parte al re, delle miserie della città e della provincia; scusasse da nuovi alloggiamenti militari il ducato, già consumato e distrutto dai passati. Lo Spinola diede in risposta condoglianze, e nuove esortazioni: dolergli di non poter trovarsi nella città, per impiegare ogni sua cura in sollievo di quella; ma sperare che a tutto avrebbe supplito lo zelo di quei signori: questo essere il tempo di spendere senza risparmio, d’ingegnarsi in ogni maniera: quanto alle domande espresse, avrebbe proveduto nel miglior modo che il tempo e le necessità presenti avessero conceduto. Nè altro ne fu: v’ebbe bene nuove andate e venute, domande e risposte; ma non trovo che se ne venisse a più strette conclusioni. Più tardi, nel maggior fervore della pestilenza, il governatore stimò di trasferire con lettere patenti la sua autorità nel gran cancelliere Ferrer, avendo egli, come scrisse, da attendere alle guerra.

Insieme con quella risoluzione, i decurioni ne avevan presa un’altra: di domandare al cardinale arcivescovo, che si facesse una processione solenne, portando per la città il corpo di san Carlo. [p. 201 modifica]

Il buon prelato rifiutò, per molte ragioni. Gli spiaceva quella fiducia in un mezzo arbitratrio, e temeva che, se l’effetto non avesse corrisposto, come pure temeva, la fiducia si cangiasse in iscandalo1. Temeva di più, che, se pur c’era di questi untori, la processione fosse una troppo comoda occasione al delitto: se non ce n’era, un tanto adunamento per sè non poteva che spandere sempre più il contagio: pericolo ben più reale2. Chè il sospetto sopito delle unzioni s’era intanto ridestato, più generale e più furioso di prima.

S’era di nuovo veduto, o questa volta era paruto di vedere, unte muraglie, porte di edifizii publici, usci di case, martelli. Le novelle di tali scoperte volavano di bocca in bocca; e, come più del solito accade nelle grandi preoccupazioni, l’udire faceva l’effetto che avrebbe potuto fare il vedere. Gli animi, ognor più amareggiati dalla presenza dei mali, irritati dalla insistenza del pericolo, abbracciavano più volentieri quella credenza: chè l’ira [p. 202 modifica]agogna a punire, e, come osservò acutamente, a questo stesso proposito, un valentuomo3, ama meglio di attribuire i mali ad una nequizia umana, contra cui possa sfogare la sua tormentosa attività, che riconoscerli da una causa, colla quale non vi sia altro da fare che rassegnarsi. Un veleno squisito, istantaneo, penetrantissimo, erano parole più che bastanti a spiegare la violenza, tutti gli accidenti più oscuri e disordinati del morbo. Si diceva composto quel veleno, di rospi, di serpenti, di sanie e di bava d’appestati, di peggio, di tutto ciò che selvagge e perverse fantasie sapessero trovar di sozzo o di atroce. Vi si aggiunsero poi le malìe, per le quali ogni effetto diveniva possibile, ogni obiezione perdeva la forza, si risolveva ogni difficoltà. Se gli effetti non avevan tenuto dietro immediatamente a quella prima unzione, se ne vedeva il perchè; era stato un tentativo manchevole di venefici ancor novizii: ora l’arte era perfezionata, e le volontà più accanite nell’infernale proposito. Ormai chi avesse sostenuto ancora che l’era stata una burla, chi avesse negata l’esistenza d’una trama, passava per cieco, [p. 203 modifica]per ostinato; se pur non cadeva in sospetto d’uomo interessato a stornar dal vero l’accorgimento publico, di complice, di untore: il vocabolo fu bentosto comune, solenne, tremendo. Con una tal persuasione che untori vi fosse, se ne doveva scoprire, presso che infallibilmente: tutti gli occhi erano sull’avviso; ogni atto poteva dar gelosia. E la gelosia diveniva di leggieri certezza, la certezza furore.

Due esempii ne riferisce il Ripamonti, avvertendo di averli trascelti, non come i più fieri, fra tanti che avvenivano alla giornata; ma perciò d’entrambi poteva pur troppo parlar di veduta.4.

Nella chiesa di sant’Antonio, in un giorno di non so quale solennità, un vecchio più che ottuagenario, dopo aver pregato ginocchioni, volle sedersi; e prima, colla cappa spolverò la panca. “Quel vecchio ugne le panche!” sclamarono ad una voce alcune donne che vider l’atto. La gente che si trovava in chiesa (in chiesa!), fu addosso al vecchio: gli stracciano i bianchi capelli, lo pestan di pugni e di calci, lo strascinano fuori semivivo, per trarlo alla prigione, ai giudici, alle [p. 204 modifica]torture. “Io lo vidi strascinato a quel modo,” dice il Ripamonti: “nè seppi altro della fine: ben credo che non abbia potuto sopravvivere più di qualche momento.”

L’altro caso, e seguì il domani, fu egualmente strano, ma non egualmente funesto. Tre giovani compagni francesi, un letterato, un pittore, un meccanico, venuti per veder l’Italia, per farvi studio delle antichità, e per cercarvi occasione di guadagno, s’erano accostati a non so qual parte esterna del duomo, e stavano quivi contemplando attentamente. Uno, due, alcuni passeggieri, si fermarono; si fe’ un crocchio, pure a contemplare, a tener d’occhio coloro, che l’abito, la capigliatura, le bisacce, accusavano di stranieri e, quel che era peggio, di francesi. Come per accertarsi ch’egli era marmo, stesero essi la mano a toccare. Bastò. Furono involti, afferrati, malmenati, spinti a furia di percosse alle carceri. Per buona sorte, il palazzo di giustizia è poco discosto dal duomo; e per una sorte ancor più felice, furono trovati innocenti e rilasciati.

Nè di tali cose accadeva soltanto nella città: la frenesia s’era propagata come il contagio. Il viandante che fosse incontrato da contadini fuor della strada maestra, o che in quella, fosse veduto rallentarsi baloccando, o [p. 205 modifica]starsi sdraiato a riposo; lo sconosciuto, a cui si trovasse qualche cosa di strano, di malfidato, nel volto, negli abiti, erano untori: al primo avviso d’un chi che fosse, al grido di un ragazzo, si sonava a martello, si accorreva; gl’infelici erano tempestati di pietre, o presi, venivano menati a furore in prigione. E la prigione, fino a un certo tempo, era un porto di salvamento5.

Ma i decurioni, non disanimati dal rifiuto del savio prelato, andavano replicando le loro istanze, che il voto publico assecondava romorosamente. Persistette quegli ancor qualche tempo, cercò di dissuadere: tanto e non più potè il senno d’un uomo contro la ragione dei tempi, e l’insistenza di molti. In quello stato di opinioni, colla idea del pericolo, confusa, com’ella era in quel tempo, contrastata, ben lontana dall’evidenza che noi vi sentiamo, non si fa duro ad intendere, come le sue buone ragioni potessero, anche nella sua mente, esser soggiogate dalle cattive altrui. Se poi, nel cedere ch’egli fece, avesse o non avesse nessuna parte una debolezza della volontà, sono misteri del cuore umano. Certo, se in alcun caso par che si possa [p. 206 modifica]attribuire in tutto l’errore all’intelletto, e scusarne la coscienza, egli è quando si tratti dei pochi (e questi fu ben del numero), nella vita intera de’ quali appaia un obedir risoluto alla coscienza, senza riguardo ad interessi temporali di nessun genere. Al replicar delle istanze, cedette egli dunque, acconsentì la processione, acconsentì di più al desiderio, alla premura generale, che l’arca dove posavano le reliquie di san Carlo, rimanesse di poi esposta, per otto giorni, al concorso publico sull’altar maggiore del duomo.

Non trovo che il tribunale della sanità, nè altri, facesse opposizione, nè rimostranza di sorta. Soltanto, il tribunale suddetto ordinò alcune precauzioni, che, senza ovviare al pericolo, ne indicavano il sentimento. Diede più strette regole, sul lasciare entrar persone in città; e, per assicurarne l’esecuzione, fe’ star chiuse le porte: come pure, affine di escludere al possibile dalla raunanza gli infetti e i sospetti, fece inchiodar gli usci delle case sequestrate: le quali, per quanto può valere, in tali faccende, la nuda asserzione d’uno scrittore, e d’uno scrittore di quel tempo, erano intorno a cinquecento6. [p. 207 modifica]

Tre giorni furono spesi in preparamenti: l’undici di giugno, che era il destinato, la processione si mosse, in sull’alba, dal duomo. Andava innanzi una lunga schiera di popolo, donne la più parte, coperte il volto d’ampii zendadi, molte scalze e vestite di sacco. Venivano poi le arti, precedute dai loro confaloni, le confraternite, in abiti varii di fogge e di colori; poi le fraterie, poi il clero secolare, ognuno colle insegne del grado, e portando un cero acceso. Nel mezzo, tra il chiarore di più spesse faci, tra un romor più alto di canti, sotto un ricco baldacchino, procedeva l’arca, sostenuta a vicenda da quattro canonici, parati in gran pompa. Dai lati di cristallo, traspariva il venerato cadavere, ravvolte le membra di splendidi abiti pontificali, mitrato il teschio; e tra le forme mutilate e scomposte, si poteva ancora distinguere qualche vestigio dell’antico sembiante, quale lo rappresentano le immagini, quale alcuni si ricordavano di averlo veduto e onorato vivente. Dietro alla spoglia del morto pastore (dice il Ripamonti7, da cui principalmente togliamo questa descrizione), e prossimo a lui, come di meriti e di sangue e di dignità, così [p. 208 modifica]ora anche della persona, veniva l’arcivescovo Federigo. Seguiva l’altra parte del clero, e appresso i magistrati, nelle assise di maggior cerimonia; poi i nobili quali sfarzosamente abbigliati, come a dimostrazione solenne di culto, quali, per segno di penitenza, in abito di corruccio, o a piè nudo, coperti di sacco, coi cappucci arrovesciati sul volto; tutti con grandi torce. Finalmente una coda d’altro popolo misto.

Tutta la strada era addobbata a festa; i ricchi avevan cavate fuora le suppellettili più sfarzose; le fronti delle case povere erano state ornate da vicini benestanti, o del publico; dove in luogo di parati, dove sopra i parati, erano rami fronzuti; da ogni parte pendevano quadri, iscrizioni, imprese; sui davanzali delle finestre stavano in mostra vasi, anticaglie, arredi preziosi; da per tutto fiaccole. A molte di quelle finestre, infermi sequestrati miravano la pompa, e mescevano le loro preci a quelle de’ passeggieri. Le altre strade, mute, deserte; se non che alcuni, pur dalle finestre, porgevan l’orecchio al ronzio vagabondo; altri, e fra questi si videro fin monache, eran saliti sui tetti, se di quivi potessero veder da lontano quell’arca, il corteggio, qualche cosa. [p. 209 modifica]

La processione passò per tutti i quartieri della città: ad ognuno de’ crocicchi, o delle piazzette che sono allo sbocco delle vie principali nei borghi, e che allora serbavano l’antico nome di carrobii, ora rimasto ad un solo, si faceva una fermata, posando l’arca presso alla croce, che in ognuno era stata eretta da san Carlo, nella pestilenza antecedente, e delle quali alcune sono tuttavia in piede: tanto che non si tornò al duomo, se non ben oltre il mezzo giorno.

Ed ecco che, il dì seguente, mentre appunto regnava quella presontuosa fiducia, anzi in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città, a una dismisura tale, con un salto così subitaneo, che non v’ebbe quasi chi non ne vedesse la causa o l’occasione nella processione medesima. Ma, oh forze mirabili e dolorose d’un pregiudizio generale! non già al tanto e così prolungato stivamento delle persone, non alla infinita moltiplicazione dei contatti fortuiti, attribuivano i più quell’effetto; lo attribuivano alla facilità che gli untori vi avessero trovata di eseguire in grande il loro empio disegno. Si disse che, mescolati nella folla, avessero infettate col loro unguento [p. 210 modifica]quante più persone fosse lor venuto fatto. Ma, come questo non sembrava mezzo bastante nè appropriato, ad una mortalità così vasta e così diffusa in ogni ordine; come, a quel che pare, non era stato possibile, nè anche all’occhio così attento e pur così travedente del sospetto, scernere untumi, macchie di sorta in sul passaggio; si ricorse, per la spiegazione del fatto, a quell’altro trovato già vecchio e ricevuto allora nella scienza comune d’Europa, delle polveri venefiche e malefiche; si disse che polveri tali, sparse pel lungo della via e principalmente ai luoghi delle pose, si fossero attaccate agli strascichi delle vesti, e meglio ai piedi, che in gran numero erano quel dì andati in volta scalzi. “Vide pertanto” dice uno scrittore contemporaneo8, “l’istesso giorno della processione la pietà a cozzar con l’empietà, la perfidia con la sincerità, la perdita con l’acquisto.” Ed era in quella vece il povero senno umano che cozzava coi fantasmi creati da sè.

Da quel dì, la furia del contagio andò sempre crescendo: in breve non v’ebbe quasi più casa che non fosse tocca; in breve la [p. 211 modifica]popolazione del lazzeretto, al dire del Somaglia citato di sopra, montò dalle due alle dodici migliaia: in progresso, al dir di quasi tutti, giunse fino alle sedici. Ai 4 di luglio, conte trovo in un’altra lettera de’ conservatori della sanità al governatore, la mortalità quotidiana oltrepassava i cinque cento. Più innanzi e nel colino, arrivò e stette, secondo il computo più comune, ai mille dugento, mille cinquecento: se vogliam credere al Tadino9, andò qualche volta al di là dei tre mila cinquecento.

Si pensi ora quali dovessero esser le angustie dei decurioni, addosso a cui era rimasto il peso di provedere alle publiche necessità, di riparare a ciò che v’era di riparabile in un tale disastro. Bisognava ogni dì surrogare, ogni dì aumentare serventi publici di molte specie: monatti; così, con denominazione già antica qui e d’oscura origine, si disegnavano gli addetti ai più penosi e pericolosi servigi della pestilenza, togliere dalle case, dalle vie, dal lazzeretto i cadaveri, carreggiarli alle fosse e sotterrarli, portare o guidare al lazzeretto gl’infermi, governarli quivi, ardere, purgare le robe infette e [p. 212 modifica]sospette: apparitori, cui uficio speciale era di precedere i carri, avvertendo col suono d’un campanello i passeggieri, che si ritraessero: commissarii, che regolavano gli uni e gli altri, sotto gli ordini immediati del tribunale della sanità. Bisognava tener fornito il lazzeretto, di medici, di chirurghi, di medicinali, di vitto, dei tanti attrezzi di un’infermeria; bisognava trovare e approntar nuovo alloggio ai nuovi bisogni. Si fecero a ciò costruire in fretta capanne di legno e di paglia nello spazio interno del lazzeretto; un nuovo ne fu costruito, pur di capanne, con una chiusura di tavole, capace di quattro mila persone. E non bastando, due altri ne furono decretati; vi si pose anche mano; ma, per mancanza di mezzi d’ogni genere, rimasero incompiuti. I mezzi, le persone, il coraggio, venivano meno, a misura che il bisogno cresceva.

E non solo l’esecuzione restava sempre addietro dei progetti e degli ordini; non solo, a molte necessità, pur troppo riconosciute, si provedeva scarsamente, anche in parole; si venne a questo d’impotenza e di disperazione, che a molte, e delle più pietose, come delle più urgenti, non si dava provedimento di sorta. Morivano, per esempio, d’abbandono una gran quantità di bambini, a cui erano morte [p. 213 modifica]le madri di pestilenza: la Sanità propose che s’istituisse un ricovero, per questi e per le partorienti neecessitose, che qualche cosa si facesse per loro; e non potè nulla ottenere. “Si doveva non di meno,” dice il Tadino, “compatire ancora alli Decurioni della Città, li quali si trovavano afflitti, mesti et lacerati dalla soldatesca senza regola et rispetto alcuno, come molto meno nell’infelice Ducato, atteso che aggiutto alcuno, nè provisione si poteva havere dal Governatore, se non che si trovava tempo di guerra, et bisognava trattar bene li Soldati10.” Tanto importava il prender Casale! Tanto pareva bella la lode del vincere, indipendentemente dalla cagione, dallo scopo per cui si combattesse!

Così pure, trovandosi colma di cadaveri un’ampia, ma unica fossa, ch’era stata scavata presso al lazzeretto; e rimanendo, quivi, per ogni dove, insepolti i nuovi cadaveri che ogni giornata dava in maggior copia, i magistrati, dopo avere invano cercato braccia al tristo lavoro, s’erano ridotti a dire di non saper più a che mezzo appigliarsi. Nè si vede che uscita la cosa potesse avere, se non [p. 214 modifica]veniva un soccorso straordinario. Il presidente della Sanità ne domandò, per disperato, colle lagrime agli occhi, a quei due valenti frati che stavano a governo del lazzeretto; e il padre Michele s’impegnò a dargli, in capo a quattro dì, sgombra di cadaveri la città; in capo ad otto, fosse bastevoli, non solo all’uopo presente, ma a quello che l’antiveder più sinistro potesse supporre nell’avvenire. Con un frate compagno, e con uficiali datigli a ciò dal presidente, andò, fuori della città, alla cerca di contadini; e, parte coll’autorità del tribunale, parte con quella dell’abito e delle sue parole, ne raccolse da dugento, e gli scompartì in tre disgiunti luoghi allo scavamento; spedì poi dal lazzeretto monatti, a raccorre i morti; tanto che, al dì prefisso, la sua promessa si trovò adempiuta.

Una volta, il lazzeretto rimase destituito di medici; e, con offerte di larghi stipendii e di onori, a fatica e non così subito, se ne potè avere, e troppo al di qua del bisogno. Fu spesso in estremo di vettovaglie, a segno di temere che si avesse a morirvi anche d’inedia; e più d’una volta, mentre si tentava ogni via di far derrate o danaro, sperando appena di trovarne, non che di trovarne affatto a tempo, vennero a tempo abbondanti [p. 215 modifica]sussidii, per inaspettato dono di misericordia privata: chè, in mezzo alla stupefazione comune, alla indifferenza per altrui, venuta dal continuo temer per sè, v’ebbe animi sempre desti alla carità, ve n’ebbe altri in cui la carità nacque al cessare d’ogni allegrezza terrena; come, nella strage e nella fuga di molti, a cui toccava di soprintendere e di provedere, alcuni ve n’ebbe, sani sempre di corpo e saldi di coraggio al loro posto: v’ebbe pure altri che, spinti dalla pietà, assunsero e sostennero prodemente le cure a cui non erano chiamati per uficio.

Dove rifulse una più generale e più volonterosa fedeltà ai doveri difficili della circostanza, fu negli ecclesiastici. Ai lazzeretti, nella città, non venne mai meno la loro assistenza: dove si pativa, v’era di essi; sempre si videro mischiati, interfusi ai languenti, ai moribondi, languenti e moribondi talvolta essi medesimi: coi soccorsi spirituali erano prodighi, quanto potevano, di temporali; prestavano qualunque servigio fosse del caso. Più di sessanta parochi, della città solamente, morirono di contagio: dei nove gli otto, all’incirca.

Federigo dava a tutti, com’era da aspettarsi da lui, incitamento ed esempio. Peritagli intorno quasi tutta la sua famiglia [p. 216 modifica]arcivescovale, sollecitato da parenti, da alti magistrati, da principi circonvicini, perché si ritraesse dal pericolo in qualche villa solitaria, rigettò il consiglio e le istanze, con quell’animo, con cui scriveva ai parochi: “siate disposti ad abbandonar questa vita mortale, piuttosto che questa famiglia, questa figliuolanza nostra: andate con amore incontro alla peste, come ad una vita, come ad un premio, quando vi sia da guadagnare un’anima a Cristo11.” Non trasandò alcuna delle cautele che non lo impedissero dal dovere: sul che diede anche istruzioni e regole al clero: e insieme, non curò, nè parve avvertire il pericolo dove, a far del bene, bisognasse passar per esso. Senza parlare degli ecclesiastici, coi quali era sempre, per lodare e regolare il loro zelo, per eccitare qual di loro andasse freddo nell’opera, per mandarli ai posti dove altri era perito, volle che l’adito fosse aperto a chiunque avesse bisogno di lui. Visitava i lazzaretti, per dare consolazione agli infermi e incoraggiamento agli assistenti; scorreva la città, portando soccorsi ai poverelli sequestrati nelle case, fermandosi agli usci, sotto le finestre, ad ascoltare i loro [p. 217 modifica]rammarichi, a porgere in iscambio parole di consolazione e di coraggio. Si cacciò in somma e visse nel mezzo della pestilenza, maravigliato anch’egli alla fine, d’esserne uscito illeso.

Così, negli infortunii publici e nelle lunghe perturbazioni di quel quale ch’ei si sia ordine consueto, si vede sempre un aumento, una sublimazione di virtù; ma, pur troppo, non manca mai insieme un aumento, e d’ordinario ben più generale, di perversità. E questo pure fu segnalato. I ribaldi che la peste risparmiava e non atterriva, trovarono nella confusione comune, nel rilasciamento d’ogni forza publica, una nuova occasione di attività, e una nuova sicurezza d’impunità ad un tempo. Che anzi, l’uso della forza publica stessa venne a trovarsi in gran parte nelle mani dei peggiori fra loro. All’impiego di monatti e di apparitori non si adattavano generalmente che uomini sui quali l’attrattiva delle rapine e della licenza potesse più che il terrore del contagio, che ogni naturale ribrezzo. Erano a costoro poste strettissime regole, intimate severissime pene, assegnate stazioni, sovrapposti, come abbiam detto, commissarii: sopra questi e quelli, eran delegati magistrati e nobili in ogni quartiere, coll’autorità di [p. 218 modifica]proveder sommariamente ad ogni occorrenza di buon governo. Un tale ordinamento camminò e fece effetto, fino ad un certo tempo: ma, col crescere: delle morti e dello sbandamento, dello sbalordimento di chi sopravviveva, venner coloro ad essere come franchi d’ogni sopravveglianza; si fecero, i monatti principalmente, arbitri d’ogni cosa. Entravano da padroni, da nemici, nelle case; e, senza parlare del saccheggio, del come trattavano gl’infelici ridotti dalla peste a passar per siffatte mani, le ponevano, quelle mani infette e scelerate, sui sani, figliuoli, parenti, mogli, mariti, minacciando di strascinarli al lazzeretto, se non si riscattavano, o non venivano riscattati a prezzo. Altre volte, mettevano a prezzo il servigio, ricusando di levare i cadaveri già infraciditi, a meno di tanti scudi. Si tenne (e tra la corrività degli uni e la nequizia degli altri, è egualmente malsicuro il credere e il discredere) si tenne, e il Tadino lo afferma12, che monatti e apparitori lasciassero a bello studio cader dai carri robe infette, per propagare e mantenere la pestilenza, divenuta per essi un’entrata, un regno, una festa. Altri sciaurati, dandosi per monatti, portando [p. 219 modifica]campanelle attaccate ai piedi, com’era prescritto a quelli, per distintivo e per avviso del loro avvicinarsi, s’intromettevano nelle case, ad esercitarvi ogni arbitrio. In alcune, aperte e vote d’abitatori, o abitate soltanto da qualche languente, da qualche moribondo, entravano ladri a man salva, a far bottino; altre venivano sorprese, invase da birri, che vi commettevano ruberie, eccessi d’ogni sorta.

A paro colla perversità, crebbe l’insania: tutti gli errori già dominanti più o meno, presero dalla attonitaggine e dalla agitazione delle menti, una forza straordinaria, ebbero più vaste e più precipitose applicazioni. E tutti servirono a rinforzare e ad ingrandire quella insania speciale delle unzioni, la quale, ne’ suoi effetti, ne’ suoi sfoghi, era spesso, come abbiam veduto, un’altra perversità. L’immagine di quel supposto pericolo assediava e martoriava gli animi, più assai che il pericolo reale e presente. “E mentre,“ dice il Ripamonti, “i cadaveri sparsi o i mucchi di cadaveri, sempre dinanzi agli occhi, sempre fra i passi dei viventi, facevano della città tutta, come un solo funerale; qualche cosa d’ancor più funesto, una maggiore publica deformità era quell’accanimento vicendevole, la sfrenatezza, [p. 220 modifica]la mostruosità dei sospetti.... Non del vicino soltanto si prendeva ombra, dell’amico, dell’ospite; ma quei nomi, quei vincoli della umana carità, marito e moglie, padre e figlio, fratello e fratello, erano di terrore: e, cosa orribile e indegna a dirsi! la mensa domestica, il letto nuziale, si temevano, come agguati, come nascondigli di veneficio13.

“La vastità immaginata, la stranezza della trama turbavano tutti i giudizii, alteravano tutte le ragioni della fiducia reciproca. Oltre l’ambizione e la cupidigia, che da prima erano supposte per motivo degli untori, si sognò, si credette in progresso una non so quale voluttà diabolica in quell’ungere, una attrattiva dominatrice delle volontà. I vaneggiamenti degli infermi, che accusavano sè stessi di ciò che avevano temuto dagli altri, parevano rivelazioni, e rendevano ogni cosa, per dir così, credibile d’ognuno. E più delle parole, dovevano far colpo le dimostrazioni, se accadeva che appestati deliranti andassero facendo di quegli atti, che s’erano figurati dovessero fare gli untori: cosa insieme molto probabile e atta a dar miglior [p. 221 modifica]ragione della persuasione generale e delle affermazioni di molti scrittori. Allo stesso modo, nel lungo e tristo periodo delle inquisizioni giudiziarie per affari di stregheria, le confessioni, non sempre estorte, degl’imputati, servirono non poco a promuovere e a mantenere l’opinione che regnava intorno ad essa: chè, quando una opinione ottiene un vasto e lungo regno, ella si esprime in tutti i modi, tenta tutte le uscite, scorre per tutti i gradi della persuasione; ed è difficile che tutti o moltissimi credano a lungo che una cosa strana si faccia, senza che venga alcuno il quale creda di farla.

Fra le storie che quel delirio delle unzioni produsse, una merita d’essere menzionata, pel credito che acquistò e pel giro che fece. Si raccontava, non da tutti a un modo (che sarebbe un troppo singolar privilegio delle favole), ma a un dipresso, che un tale, il tal dì, aveva veduto fermarsi sulla piazza del duomo un tiro a sei, e dentro, con un gran seguito, un gran personaggio, d’aspetto signorile, ma fosco e abbronzato, cogli occhi accesi, coi capelli ritti, e il labbro atteggiato di minaccia. Lo spettatore, invitato a salire nel cocchio, v’era salito: dopo un po’ d’aggirata, s’era fatto alto e smontato alla porta d’un palazzo, [p. 222 modifica]dov’egli, entrato cogli altri, aveva trovato amenità e orrori, deserti e giardini, caverne e sale; e in esse, fantasime sedute a consiglio. Finalmente gli erano state mostrate grandi casse di danaro, e detto che ne pigliasse quanto gli fosse in piacere, se insieme voleva accettare un vasello d’unguento, e andar con quello ugnendo per la città. Il che avendo egli ricusato di fare, s’era trovato in un istante al luogo donde era stato preso. Questa storia, creduta qui generalmente nel popolo e, al dire del Ripamonti, non abbastanzà derisa da molti savii14, corse per tutta Italia e fuori: in Germania se ne fece un disegno in istampa: l’elettore arcivescovo di Magonza chiese per lettera al cardinal Federigo, che cosa si dovesse credere dei portenti che si narravano di Milano, e n’ebbe in risposta ch’erano sogni.

D’egual valore, se non in tutto d’egual natura, erano i sogni dei dotti; come disastrosi del pari ne erano gli effetti. Vedevano i più di loro l’annunzio e la ragione insieme dei guai, in una cometa apparsa l’anno 1628, e in una congiunzione di Saturno con Giove; “inclinando,” scrive il Tadino, [p. 223 modifica]la congiontione sodetta sopra questo anno 1630, tanto chiara, che ciascun la poteva intendere. Mortales parar morbos, miranda videntur15. Questa predizione, fabbricata non so poi quando nè da chi, correva, come accenna il Ripamonti16, per tutte le bocche che appena fossero abili a proferirla. Un’altra cometa sopravvenuta nel giugno dell’anno stesso della pestilenza, si tenne per un nuovo avviso, anzi per una prova manifesta delle unzioni. Pescavano nei libri, e pur troppo ne rinvenivano in copia, esempii di peste, come dicevano, manufatta: citavano Livio, Tacito, Dione, che dico? Omero e Ovidio, i molti altri antichi che hanno narrati o toccati fatti simiglianti: di moderni ne avevano ancor più dovizia. Citavano cento altri autori, che hanno trattato dottrinalmente, o parlato per incidenza, di veleni, di malìe, d’unti, di polveri; il Cesalpino citavano, il Cardano, il Grevino, il Salio, il Pareo, lo Schenchio, lo Zachia e, per finirla, quel funesto Delrio, il quale, se la rinomanza degli autori fosse in ragione del bene e del male prodotto dalle loro opere, dovrebbe [p. 224 modifica]essere uno de’ più famosi; quel Delrio, le cui veglie costarono la vita a più uomini che non le imprese di qualche conquistatore; quel Delrio, le cui Disquisizioni Magiche (lo stillato di tutto ciò che gli uomini avevano, fino a’ suoi tempi, farneticato in quella materia) divenute il testo più autorevole, più irrefragabile, furono, per oltre un secolo, norma ed impulso potente di legali, orribili, non interrotte carnificine.

Dai trovati del volgo illetterato, la gente colta pigliava ciò che si poteva acconciar colle sue idee; dai trovati della gente colta, il volgo pigliava ciò che ne poteva intendere, e al modo che lo poteva; e di tutto si formava una indigesta, immane congerie di publica forsennatezza.

Ma ciò che dà maggior maraviglia, è il vedere i medici, dico i medici che fino da principio avevan creduta la peste, dico in ispecie il Tadino che l’aveva pronosticata, veduta entrare, tenuta d’occhio, per dir così, nel suo progresso, che aveva detto e predicato come ella era peste e si appiccava pel contatto, come dal non porvi riparo ne sarebbe venuta una infezione generale, vederlo poi, da questi effetti medesimi, cavare argomento certo delle unzioni venefiche e malefiche; lui [p. 225 modifica]che, in quel Carlo Colonna, morto il secondo di peste in Milano, aveva notato il delirio, come un accidente della malattia, vederlo poi addurre in prova delle unzioni e della congiura diabolica, un fatto di questa sorta: che due testimonii deponevano di avere udito un loro amico infermo, raccontare come, una notte, gli erano venute persone in camera, ad offerirgli la salute e danari, se avesse voluto ugnere le case del contorno; e come, al suo replicato disdire, quelli erano partiti, e in loro vece, era rimasto un lupo sotto il letto, e tre gattacci sopra, “che sino al far del giorno vi dimororno”17. Se un tal modo di connettere fosse stato d’un sol uomo, si vorrebbe attribuirlo a una sua grossezza, a una sua sbadataggine particolare; e non vi sarebbe un proposito di farne menzione; ma, come fu di molti, è storia dello spirito umano; e vi è da scorgere, quanto una serie ordinata e ragionevole d’idee possa essere scompaginata da un’altra serie d’idee, che vi si getti a traverso. Del resto, quel Tadino era qui uno degli uomini più riputati del suo tempo.

Due illustri e benemeriti scrittori hanno [p. 226 modifica]affermato che il cardinal Federigo dubitasse del fatto delle unzioni18. Noi vorremmo poter dare a quell’inclita e amabile memoria una lode ancor più intera, e rappresentare il buon prelato, in questo, come in tante altre cose, singolare dalla folla de’ suoi contemporanei; ma siamo in quella vece costretti di notar di nuovo in lui un esempio della prepotenza d’una opinione comune anche sulle menti più nobili. S’è veduto, almeno dal modo con cui il Ripamonti riferisce i suoi pensieri, come da principio egli stesse veramente in dubbio: tenne poi sempre che in quella opinione avesse gran parte la corrività, l’ignoranza, la paura, il desiderio di scusare la lunga trascuranza nel guardarsi dal contagio; che molto vi fosse di esagerato; ma insieme, che qualche cosa vi fosse di vero. Nella biblioteca ambrosiana si conserva, scritta di sua mano, un’operetta intorno a quella peste; ed ecco uno di molti luoghi dove è espresso un tale suo sentimento. “Del modo di comporre e di spargere siffatti unguenti si dicevano molte e varie cose: delle quali, alcune abbiamo per vere, altre ci paiono affatto imaginarie19[p. 227 modifica]

V’ebbe però di quelli che pensarono fino alla fine, e sempre poi, che tutto fosse imaginazioni: e lo sappiamo, non da loro, chè nessuno fu abbastanza ardito per esporre al publico un sentimento così opposto a quello del publico; lo sappiamo dagli scrittori che lo deridono o lo riprendono o lo confutano, come un pregiudizio d’alcuni, un errore che non s’attentava di venire a disputa palese, ma che pur viveva; lo sappiamo anche da chi lo aveva ricavato dalla tradizione. “Ho trovato gente savia in Milano,” dice il buon Muratori, nel luogo sopraccitato, “che aveva buone a relazioni dai loro maggiori, e non era molto a persuasa che fosse vero il fatto di quegli unti velenosi.” Si vede ch’egli era uno sfogo segreto della verità, una confidenza domestica: il buon senso v’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune.

I magistrati, diradati ogni giorno, smarriti e confusi in ogni cosa, tutta, per dir così, quella poca vigilanza, quella poca risoluzione di che erano capaci, la rivolgevano a cercar [p. 228 modifica]di questi untori. E pur troppo credettero di averne trovati.

I giudizii che ne vennero in conseguenza, non erano certamente i primi d’un tal genere: nè pure si può considerarli come una rarità nella storia della giurisprudenza. Chè, per tacere dell’antichità, e accennar solo qualche cosa dei tempi più vicini a quello di cui trattiamo, in Ginevra, del 1530, poi del 1545, poi ancora del 1574; in Casale Monferrato, del 1536; in Padova, del 1555; in Torino, del 1599; in Palermo, del 1526; in Torino di nuovo, in quello stesso anno 1630, furono processati e condannati a supplizii, per lo più atrocissimi, dove qualcheduno, dove molti infelici, come rei d’aver propagata la peste, con polveri o con unguenti o con malìe o con tutto insieme. Ma l’affare delle così dette unzioni di Milano, come fu quello forse di cui il grido andò più lontano e durò più a lungo, così fors’anche è di tutti il più osservabile; o, a parlar più esattamente, c’è più campo di farvi sopra osservazione, per esserne rimasti documenti più circostanziati e più distesi. E quantunque uno scrittore lodato poco innanzi20 se ne sia occupato, tuttavia, essendosi egli proposto, [p. 229 modifica]non tanto di darne propriamente la storia, quanto di cavarne sussidio di ragioni, per un assunto ancor più degno e più importante, ci è paruto che la storia potesse essere materia d’un nuovo lavoro. Ma non è cosa da passarsene così con poche parole; e il trattarla colla estensione che le si conviene, ci porterebbe troppo in lungo. Oltre di che, dopo essersi fermato su quei casi, il lettore non si curerebbe più certamente di conoscere quei che rimangono della nostra narrazione. Riserbando però ad un altro scritto la narrazione di quelli, torneremo ora finalmente ai nostri personaggi, per non lasciarli più, fino all’ ultimo.

Note

  1. Memoria delle cose notabili successe in Milano intorno al mal contaggioso l’anno 1630, etc. raccolte da D. Pio la Croce, Milano, 1730. È tratta evidentemente da scritto inedito di autore vissuto al tempo della pestilenza; se pure non è una semplice edizione, piuttosto che una nuova compilazione.
  2. Si unguenta scelerata et unctores in urbe essent... Si non essent.... Certiusque adeo malum. Ripamonti, pag. 185
  3. P. Verri, Osservazioni sulla tortura: Scrittori italiani di economia politica, parte moderna, tom. 17, pag. 203.
  4. Pag. 94.
  5. Ripam. pag. 91-92.
  6. Alleggiamento dello Stato di Milano etc. di C. G. Cavatio della Somaglia. Milano. 1653, pag. 482.
  7. Pag. 62-66.
  8. Agostino Lampugnano, La pestilenza seguita in Milano, l’anno 1630. Milano 1634, pag. 44.
  9. Pag. 115 e 117.
  10. Pag. 117.
  11. Ripamonti, pag. 164.
  12. Pag. 102.
  13. Pag. 81.
  14. Pag. 77.
  15. Pag. 56.
  16. Pag. 273.
  17. Pag. 123-124.
  18. Muratori, Del governo della peste. Modena 1714. pag. 117. — P. Verri, opuscolo citato, pag. 261.
  19. Unguenta vero haec aiebant componi conficique multi- fariam, fraudisque vias esse complures: quarum sane fraudum et artium, aliis quidem assentimur, alias vero fictas fuisse commentitiasque arbitramur.— De pesta quae, Mediolani, anno 1630, magnam stragem edidit. Cap. V.
  20. P. Verri, opuscolo citato.