I promessi sposi (Ferrario)/Capitolo XXXI

Capitolo XXXI

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Capitolo XXX Capitolo XXXII

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CAPITOLO XXXI.


La peste che il tribunale della sanità aveva temuto potesse entrar colle bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, com’è noto; ed è noto parimenti ch’ella non si fermò qui, ma invase e disfece una buona parte d’Italia. Condotti dal filo della nostra storia, noi veniamo ora a raccontare gli avvenimenti principali di quella calamità; nel milanese, s’intende, anzi in Milano quasi esclusivamente: chè della città quasi esclusivamente trattano le memorie del tempo, come a un dipresso accade sempre e da per tutto, per buone e per cattive ragioni. E in questo racconto, il nostro fine non è, a dir vero, soltanto di rappresentar lo stato delle cose nel quale verranno a trovarsi i nostri personaggi; ma insieme di far conoscere, per quanto si può in ristretto, e per quanto si può da noi, un tratto di storia patria più famoso che conosciuto. [p. 169 modifica]

Delle molte relazioni contemporanee, non ce n’è nessuna che basti per sè a darne un concetto un po’ concreto e ordinato; come nessuna ce n’è, che non possa aiutare a formarlo. In ognuna, senza eccettuarne quella del Ripamonti1, la quale va di gran lunga innanzi a tutte, per la copia e per la scelta dei fatti, e ancor più pel modo di vederli, in ognuna sono omessi fatti essenziali che sono registrati in altre; in ognuna ci ha errori materiali che si possono riconoscere e rettificare coll’aiuto di qualche altra o di quei pochi atti di publica autorità, editi e inediti, che rimangono; spesso in una si vengono a trovar le cagioni di cui nell’altra s’erano veduti, come in aria, gli effetti. In tutte poi, regna una strana confusione di tempi e di cose; è un perpetuo andare e venire, come alla ventura, senza disegno generale, senza disegno nei particolari: carattere, del resto dei più comuni e dei più sensibili nei libri di quella età, in quelli principalmente scritti in lingua volgare, almeno in Italia; se anche nel resto d’Europa, i dotti lo sapranno, noi lo sospettiamo. Nessuno scrittore di epoca posteriore s’è proposto di esaminare e [p. 170 modifica]di raffrontare quelle memorie, per ritrarne una serie concatenata degli avvenimenti, una storia di quella peste; sicchè l’idea che se ne ha generalmente, debb’essere di necessità molto incerta e un po’ confusa: un’idea indeterminata di grandi mali e di grandi errori (e per verità ci ebbe dell’uno e dell’altro, al di là, di quel che si possa immaginare), un’idea composta più di giudizii che di fatti, alcuni fatti dispersi, scompagnati talvolta dalle circostanze loro più caratteristiche, senza distinzione di tempo, cioè senza sentimento di causa e d’effetto, di corso, di progressione. Noi, esaminando e raffrontando, con molta diligenza se non altro, tutte le relazioni stampate, più d’una inedita, molti (in ragione del poco che ne rimane) documenti, come dicono, uficiali, abbiam cercato di farne, non già quel si che vorrebbe, ma qualche cosa che non è stato ancor fatto. Non intendiamo di riferire tutti gli atti publici, nè tampoco tutti i successi degni, in qualche modo, di ricordanza. Molto meno pretendiamo di rendere inutile a chi voglia farsi un concetto più compiuto della cosa, la lettura delle memorie originali: sentiamo troppo che forza viva, propria e, per dir così, incomunicabile vi sia sempre nelle opere di quel genere, comunque concepite e condotte. Solamente [p. 171 modifica] abbiam tentato di distinguere e di accertare i fatti più generali e più rilevanti, di disporli nell’ordine reale della loro successione, per quanto il comporti la ragione e la natura di essi, di osservare la loro efficienza reciproca, e di dar così, per ora e finchè altri non faccia di meglio, una notizia succinta, ma sincera e continua di quel disastro.

Per tutta adunque la striscia di territorio corsa dall’esercito, s’era trovato qualche cadavere nelle case, qualcheduno in sulla via; Ben tosto, in questo e in quel paese, cominciarono ad infermarsi, a morire, persone, famiglie, di mali violenti, strani, con segni sconosciuti alla più parte de’ viventi. V’era soltanto alcuni che gli avessero veduti altre volte: quei pochi che potessero ricordarsi della peste che cinquantatrè anni innanzi, aveva desolato pure un buon tratto d’Italia, e in ispecie il milanese, dove fu chiamata, ed è tuttavia, la peste di san Carlo. Tanto è forte la carità! Tra le memorie così varie e così solenni d’un infortunio generale, può essa far primeggiare quella d’un uomo, perchè a quest’uomo ha inspirato sentimenti ed azioni più memorabili ancora dei mali; porlo nelle menti, come un segnale di tutti quegli avvenimenti, perchè in tutti lo ha spinto e intromesso, [p. 172 modifica]guida, soccorso, esempio, vittima volontaria; d’una calamità per tutti far per quest’uomo come una impresa, nominarla da lui, come una conquista o una scoperta.

Il protofisico Ludovico Settala, che non solo aveva veduta quella peste, ma ne era stato uno de’ più attivi e intrepidi e, quantunque allor giovanissimo, de’ più riputati curatori; e che ora, in gran sospetto di questa, stava all’erta e sulle informazioni, riferì, ai 20 d’ottobre, nel tribunale della sanità, come, nella terra di Chiuso (l’ultima del territorio di Lecco, a confine col bergamasco), era scoppiato indubitabilmente il contagio. Su di che, non fu presa risoluzione veruna, come si ritrae dal Ragguaglio del Tadino2.

Ed ecco sopraggiungere avvisi simiglianti, da Lecco e da Bellano. Il tribunale allora si risolvè e si contentò di spedire un commissario, che in via prendesse un medico a Como, e si portasse con lui a visitare i luoghi indicati. Ambidue, “o per ignoranza o per altro, si lasciarono persuadere da un vecchio et ignorante barbiero di Bellano, che quella sorte de mali non era Peste;3” ma, in [p. 173 modifica]qualche luogo, effetto consueto delle emanazioni autunnali delle paludi, e per tutto altrove, effetto dei disagi e degli strapazzi sofferti, nel passaggio degli alemanni. Una tale assicurazione fu riportata al tribunale, il quale pare che vi si acquietasse.

Ma sorvenendo senza posa altre e altre novelle di morte da diverse bande, furono spediti due delegati a vedere e a provedere: il Tadino suddetto e un auditore del tribunale. Quando questi arrivarono, il male si era già tanto dilatato, che le prove si offerivano senza che bisognasse andarne in cerca. Scorsero il territorio di Lecco, la Valsassina, le riviere del lago di Como, i distretti denominati il Monte di Brianza e la Gera d’Adda; e per tutto trovarono ville sbarrate, altre quasi deserte, e gli abitanti scappati e attendati alla campagna, o dispersi; “et ci parevano,” dice il Tadino, “tante creature selvatiche, portando in mano chi l’herba menta, chi la ruta, chi il rosmarino et chi un ampolla d’aceto.”4 S’inchiesero del numero dei morti, ed era spaventevole; visitarono infermi e cadaveri, e da per tutto rinvennero le luride e terribili marche della pestilenza. [p. 174 modifica]Diedero tosto, per lettere, quelle sinistre nuove al tribunale della sanità, il quale, al riceverle, che fu ai 30 d’Ottobre, “si dispose,5” dice il Tadino a prescriver le bullette, per chiuder fuori dalla Città le persone provenienti dai paesi dove il contagio s’era manifestato; “et mentre si compilaua la grida,” ne diede anticipatamente qualche ordine sommario ai gabellieri.

Intanto i delegati fecero in fretta e in furia quei provedimenti che seppero e poterono migliori; e se ne tornarono, col tristo sentimento della insufficienza di essi a rimediare e ad arrestare un male già tanto avanzato e diffuso.

Giunti il 14 di novembre, dato ragguaglio, in voce e di nuovo in iscritto, al tribunale; ebbero da questo commissione di presentarsi al governatore, e di esporgli lo stato delle cose. V’andarono, e riportarono: aver lui di tali novelle provato molto dispiacere, mostratone un gran sentimento; ma i pensieri della guerra esser più pressanti: sed belli graviores esse curas. Così il Ripamonti6, il quale aveva spogliati i registri della Sanità, e conferito col Tadino incaricato, specialmente [p. 175 modifica]della missione: era la seconda, se il lettore se ne ricorda, per quella causa, e con quell’esito. Due o tre giorni di poi, ai 18 di novembre, emanò il governatore una grida, in cui prescriveva publiche dimostrazioni, per la nascita del principe Carlo, primogenito del re Filippo IV, senza sospettare o senza curare il pericolo d’un gran concorso, in tali circostanze: tutto, come in tempi ordinarii, come se di nulla non gli fosse stato parlato.

Era quest’uomo, come abbiam detto a suo luogo, il celebre Ambrogio Spinola, mandato appunto per ravviar quella guerra per raccontiare gli errori di don Gonzalo, e incidentemente, a governare; e noi pure possiamo ricordar qui incidentemente ch’egli morì indi a pochi mesi, m quella stessa guerra che gli stava tanto a cuore; e morì, non già di ferite sul campo, ma in letto, d’affanno e di struggimento, per rimproveri, soprammani, disgusti d’ogni sorta ricevuti da cui serviva. La storia ha deplorata la sua sorte e notata l’altrui sconoscenza; ha descritte con molta diligenza le sue imprese militari e politiche, lodata la sua antiveggenza, l’attività, la costanza: poteva anche ricercare che cosa egli abbia fatto di tutto ciò, quando la peste minacciava, invadeva una popolazione datagli in cura o piuttosto in balìa. [p. 176 modifica]

Ma ciò che, lasciando intero il biasimo, scema la maraviglia di quel suo contegno, ciò che fa nascere un’altra e più forte maraviglia, è il contegno della popolazione medesima, di quella, voglio dire, che, non tocca ancora dal contagio, aveva tanta ragione di temerlo. Al giungere di quelle novelle dei paesi che ne erano così malamente imbrattati, di paesi che formano attorno alla città quasi una linea semicircolare, in alcuni punti non più distante da essa che venti, che diciotto miglia; chi non crederebbe che vi si suscitasse un commovimento generale, un affaccendamento di precauzioni bene o male intese, almeno una sterile inquietudine? Eppure, se in qualche cosa le memorie del tempo vanno d’accordo, è nell’attestare che non ne fu nulla. La penuria dell’anno antecedente, le angherie della soldatesca, le afflizioni d’animo, parvero più che bastanti a render ragione della mortalità: nei trivii, nelle botteghe, nelle case, chi gittasse un motto del pericolo, chi motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo. La medesima miscredenza, la medesima, per dir meglio, cecità e pervicacia prevaleva nel senato, nel Consiglio dei decurioni, in ogni magistrato.

Trovo che il cardinal Federigo, tosto che [p. 177 modifica]si riseppero i primi casi di mal contagioso, ingiunse con lettera pastorale ai parochi, fra le altre cose, che inculcassero ai popoli l’importanza e l’obbligo di rivelare ogni simile accidente, e di consegnare le robe infette o sospette7: e anche questa può essere contata fra le sue lodevoli singolarità.

Il tribunale della sanità sollecitava provedimenti, cooperazione: tutto era presso che invano. E nel tribunale stesso, la premura era ben lungi dall’adeguare l’urgenza: erano, come afferma più volte il Tadino, e come appare ancor meglio da tutto il contesto della sua narrazione, i due fisici che, persuasi e compresi della gravità e della imminenza del pericolo, stimolavano quel corpo, il quale aveva poi a stimolare gli altri.

Abbiamo già veduto come, ai primi annunzii della peste, andasse freddo nell’operare, anzi nell’informarsi: ecco ora un altro fatto di lentezza non men portentosa, se però non era forzata, per ostacoli frapposti da magistrati superiori. Quella grida per le bullette, risoluta ai 30 di ottobre, non fu conchiusa che ai 23 del mese seguente, non fu [p. 178 modifica]publicata che ai 29. La peste era già entrata in Milano.

Il Tadino e il Ripamonti vollero notare il nome di chi ce la portò il primo, e altre circostanze della persona e del fatto: e per verità, nell’osservare i principii d’un vasto eccidio, in cui le vittime, non che esser distinte per nome, appena si potranno disegnare approssimativamente pel numero delle migliaia, si prova un non so quale interesse, a conoscere quei primi e pochi nomi che pur poterono essere notati e serbati: questa specie di distinzione, la precedenza nell’esterminio, par che faccian trovare in essi, e nelle particolarità, per altro più indifferenti, qualche cosa di fatale e di memorabile.

L’uno e l’altro storico dicono che fu un soldato italiano al servigio di Spagna; nel resto non sono ben d’accordo, nè anche sul nome. Fu, secondo il Tadino, un Pietro Antonio Lovato, di quartiere nel territorio di Lecco; secondo il Ripamonti, un Pier Paolo Locati, di quartiere a Chiavenna. Differiscono anche nel giorno della sua entrata in Milano: il primo la pone ai 22 d’ottobre, il secondo ad altrettanti del mese seguente: e non si può stare nè all’uno nè all’altro. Ambedue le epoche sono in contraddizione con altre [p. 179 modifica]ben più avverate. Eppure il Ripamonti, scrivendo per ordine del Consiglio generale dei decurioni, doveva avere al suo comando molti mezzi di prendere le informazioni necessarie; e il Tadino, per ragione del suo uficio, poteva meglio d’ogni altro essere informato d’un fatto di questo genere. Del resto, dal riscontro di altre date che ci paiono, come abbiam detto, più avverate, risulta che fu prima della publicazione della grida sulle bullette; e se la cosa ne portasse il pregio, si potrebbe anche provare o quasi provare, che dovette essere ai primi di quel mese: ma certo, il lettore ce ne dispensa.

Comunque sia, entrò questo fante sventurato e portator di sventura, con un gran fardello di vesti comperate o rubate a soldati alemanni; andò a porsi in una casa di suoi parenti, nel borgo di porta orientale, presso ai cappuccini; appena giunto, s’infermò; fu portato allo spedale; quivi, un bubone che gli si scoperse sotto un’ascella, mise chi lo curava in sospetto di ciò che era infatti; il quarto giorno egli morì.

Il tribunale della sanità fe’ segregare e sequestrare in casa la famiglia di lui; i suoi abiti, e il letto dove egli era giaciuto allo spedale, furono arsi. Due serventi che lo [p. 180 modifica]avevano quivi governato, e un buon frate che lo aveva assistito, caddero pur essi infermi, fra pochi giorni, tutti e tre di peste. Il dubbio che ivi si era avuto, fin da principio della natura del male, e le cautele usate in conseguenza, fecero sì che il contagio non vi si propagasse di più.

Ma il soldato ne aveva lasciata di fuori una semenza, che non tardò a germogliare. Il primo in cui scoppiasse, fu il padrone della casa dove quegli aveva alloggiato, un Carlo Colonna sonatore di liuto. Allora tutti gli inquilini di quella casa furono, d’ordine della Sanità, condotti al lazzeretto; dove la più parte si posero giù, alcuni morirono in breve, di manifesto contagio.

Nella città, quello che già c’era stato disseminato per la pratica di costoro, per vesti e arredi loro, trafugati da parenti, da pigionali, da serventi alle ricerche e al fuoco prescritto dal tribunale, e quello di più che c’entrava di nuovo, per la difettuosità degli ordini, per la trascuranza nell’eseguirli e per la destrezza nell’eluderli, andò covando e serpendo lentamente, tutto il restante dell’anno, e nei primi mesi del susseguente 1630. Di quando in quando, ora in questo, ora in quel quartiere, qualche persona ne era presa, [p. 181 modifica]qualcheduno ne moriva: e la radezza stessa dei casi allontanava il sospetto della peste, confermava sempre più l’universale in quella stupida e micidiale fidanza che peste non ci fosse, nè ci fosse stata pure un momento. Molti medici ancora, facendo eco alla voce del popolo, (era essa, anche in questo caso, voce di Dio?) deridevano gli augurii sinistri, gli avvertimenti minacciosi dei pochi; e avevano in pronto nomi di malattie comuni, per qualificare ogni caso di peste, che fossero chiamati a curare; con qualunque sintomo, con qualunque segnale si fosse mostrato.

Gli avvisi di questi accidenti, quando pur giugnevano alla Sanità, vi giugnevano tardi per lo più e incerti. Il terrore della contumacia e del lazzeretto aguzzava tutti gl’ingegni: si dissimulavano i malati, si corrompevano i sotterratori e gli anziani; da subalterni del tribunale stesso, deputati da esso a visitare i cadaveri, s’ebbero a prezzo falsi attestati.

Siccome però, ad ogni scoperta che gli riuscisse di fare, il tribunale ordinava di abbruciar robe, metteva in sequestro case, mandava famiglie al lazzeretto, così è facile argomentare quanta dovesse essere contro di esso l’ira e la mormorazione dell’universale, [p. 182 modifica]“della Nobiltà, delli Mercanti et della Plebe8,” persuasi, com’erano tutti, ch’elle fossero vessazioni senza causa e senza costrutto. L’odio principale cadeva sui due medici, il nostro ricantato Tadino e Senatore Settala, figlio del protofisico: a tale, che ormai non potevano essi attraversare i mercati, senza essere assaliti di male parole, quando non erano pietre. E certo ella fu singolare e merita un ricordo la condizione in cui, per qualche mese, si trovarono quegli uomini, di veder venire innanzi un orribile flagello, d’affaticarsi per ogni via a stornarlo, di trovare, oltre l’arduità della cosa, ostacoli da ogni parte nelle volontà, e di essere insieme bersaglio delle grida, aver voce di nemici della patria: pro patriae hostibus, dice il Ripamonti9.

A parte dell’odio erano ancora gli altri medici che, convinti com’essi della realtà del contagio, suggerivano precauzioni, cercavano di comunicare altrui la loro dolorosa certezza. I più discreti li tacciavano di corrività e di ostinazione: pei più, ell’era evidentemente impostura, cabala ordita, per far bottega sul publico spavento. [p. 183 modifica]

Il protofisico Ludovico Settala, pressochè ottuagenario, stato professore di medicina nella università di Pavia, poi di filosofia morale in Milano, autore di molte opere riputatissime allora, chiaro per inviti a cattedre di altre università, Ingolstadt, Pisa, Bologna, Padova, e pel rifiuto di tutti questi inviti, era certamente uno degli uomini più autorevoli del suo tempo. Alla riputazione della scienza si aggiungeva quella della vita, e alla ammirazione la benevolenza, per la sua grande carità nel curare e nel beneficare i poveri. E, una cosa che in noi turba e contrista il sentimento di stima inspirato da questi meriti, ma che allora doveva renderlo più generale e più forte, il pover’uomo partecipava dei pregiudizii più comuni e più funesti de’ suoi’ contemporanei: era innanzi a loro, ma senza allontanarsi dalla schiera, che è quello che attira i guai, e fa molte volte perdere l’autorità acquistata per altre vie. Eppure quella grandissima ch’egli godeva, non solo non bastò a vincere l’opinione dell’universale in questo affare della pestilenza; ma non potè salvarlo dall’animosità e dagli insulti di quella parte di esso che corre più facilmente dai giudizii alle dimostrazioni e al far di fatto.

Un giorno ch’egli andava in lettiga a veder [p. 184 modifica]suoi malati, cominciò a farglisi gente attorno, gridando esser lui il capo di coloro che volevano per forza che ci fosse la peste, lui che metteva in ispavento la città, con quel suo cipiglio, con quella sua barbaccia: tutto per dar faccenda ai medici. La folla e la furia andavano crescendo: i portantini, vedendo la mala parata, ricoverarono il padrone in una casa amica, che per sorte era vicina. Questo gli toccò, per aver veduto chiaro, detto ciò che era, e voluto salvar dalla peste molte migliaia di persone: quando, con un suo deplorabile consulto, cooperò a far martoriare, tanagliare, e ardere per istrega una povera infelice sventurata, perchè un padrone di essa pativa dolori strani di stomaco, e un altro padrone di prima era stato fortemente innamorato di lei10, allora ne avrà avuta presso l’universale nuova lode di sapiente e, ciò che è intollerabile a pensare, nuovo titolo di benemerito.

Ma sul finire del marzo, cominciarono, prima nel borgo di porta orientale, poi in ogni quartiere della città, a spesseggiare le malattie, le morti, con accidenti strani di spasimi, [p. 185 modifica]di palpitazioni, di letargo, di delirio, con quelle divise funeste di lividori e di buboni; morti per lo più celeri, violente, non di rado repentine, senza alcun precedente indizio di malattia. I medici opposti alla opinione del contagio, non volendo ora confessare ciò che avevano deriso, e dovendo pur dare un nome generico al nuovo malore, divenuto troppo comune e troppo palese per andarne senza, trovarono quello di febbri maligne, di febbri pestilenti: miserabile transazione, anzi trufferìa di parole, e che pur faceva gran danno; perchè, mostrando di riconoscere la verità, riusciva ancora a far discredere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male si appigliava per via di contatto. I magistrati, come chi si risente da un alto sonno, principiarono a dare un po’ più orecchio ai richiami, alle proposte della Sanità, a tener mano a’ suoi editti, ai sequestri ordinati, alle quarantene prescritte da quel tribunale. Domandava esso anche di continuo danari, per supplire alle spese quotidiane, crescenti del lazzeretto, di tanti altri servigi; e li domandava ai decurioni, intanto che fosse deciso (che non fu, credo, mai, se non col fatto) se tali spese incumbessero alla città, o all’erario regio. Ai decurioni faceva pure istanza il gran [p. 186 modifica]cancelliere, per ordine anche del governatore che era andato di nuovo a metter l’assedio a quel povero Casale, faceva istanza il senato, perchè avvisassero al modo di vettovagliare la città, prima che dilatandovisi per isventura il contagio, le venisse negato pratica degli altri paesi; perchè trovasser mezzo di mantenere una gran parte della popolazione, a cui erano mancati i lavori. I decurioni cercavano di far danari, per via di prestiti, d’imposte; e di quel che ne raccoglievano, ne davano un po’ alla Sanità, un po’ ai poveri; un po’ di grano comperavano; supplivano a una parte del bisogno. E le grandi angosce non erano ancora venute.

Nel lazzeretto, dove la popolazione, quantunque decimata ogni giorno, andava ogni giorno crescendo, era un’altra ardua impresa quella di assicurare il servigio e la subordinazione, di far serbare le separazioni prescritte, di mantenervi in somma, o per dir meglio, di stabilirvi il governo ordinato dal tribunale della sanità: chè, fino dai primi momenti, v’era stato ogni cosa in confusione, per la sfrenatezza di molti rinchiusi, per la incuria e per la connivenza degli uficiali. Il tribunale e i decurioni, non sapendo dove dar del capo, pensarono di rivolgersi ai [p. 187 modifica]cappuccini, e supplicarono il padre commissario, come lo chiamavano, della provincia, il quale faceva le veci del provinciale, morto poco innanzi, volesse dar loro un soggetto abile a governare quel regno desolato. Il commissario propose loro per principale un padre Felice Casati, uomo d’età matura, il quale godeva una gran fama di carità, di attività, di mansuetudine insieme e di fortezza d’animo, a quel che mostrò il seguito, ben meritata; e per compagno e come ministro di lui, un padre Michele Pozzobonelli ancor giovane, ma grave e severo, di pensieri come d’aspetto. Furono accettati ben di buon grado; e ai 30 di marzo entrarono nel lazzeretto. Il presidente della Sanità li condusse attorno, come per prenderne il possesso; e, convocati i serventi e gli uficiali d’ogni ordine, dichiarò innanzi a loro, presidente di quel luogo il padre Felice, con primaria e piena autorità. A misura poi che la miserevole raunanza andò moltiplicando, v’accorsero altri cappuccini; e furono quivi soprintendenti, confessori, amministratori, infermieri, cucinieri, guardarobi, lavandai, tutto che occorresse. Il padre Felice, sempre affaticato e sempre sollecito, girava di giorno, girava di notte, pei portici, per le stanze, pel campo, talvolta portando [p. 188 modifica]un’asta, talvolta non armato che di cilicio; animava e regolava i servigi, acchetava i tumulti, faceva ragione alle querele, minacciava, puniva, riprendeva, confortava, asciugava e spargeva lagrime. Contrasse in sul principio la peste; ne guarì, e riprese, con nuova alacrità, le cure di prima. I suoi confratelli vi lasciarono la più parte, e tutti gioiosamente, la vita.

Certo una tale dittatura era uno strano ripiego; strano come la calamità, come i tempi: e quando non ne sapessimo altro, basterebbe questo per argomento, anzi per saggio d’una società ben rozza e malcomposta. Ma l’animo, ma l’opera, ma il sacrificio di quei frati, non meritano però meno che se ne faccia menzione, con rispetto, con tenerezza, con quella specie di gratitudine che si sente, come in solido, pei grandi servigi renduti da uomini ad uomini. Morire per far del bene, è cosa bella e sapiente, in qualunque tempo, in qualunque ordine di cose. “Che se questi Padri iui non si ritrouauano,” dice il Tadino, “al sicuro tutta la Città annichilata si trouaua; puoichè fu cosa miracolosa l’hauer questi Padri fatto in così puoco spatio di tempo tante cose per benefitio publico, che non hauendo hauuto agiutto, o [p. 189 modifica]almeno puoco dalla Città, con la sua industria et prudenza haueuano mantenuto nel Lazaretto tante migliaia de poueri.11

Anche nel publico, quella caparbieria del negare la peste andava naturalmente cedendo e perdendosi, a misura che il morbo si diffondeva, e si diffondeva, a occhi veggenti, per via del contatto e della pratica; e tanto più quando, dopo esser qualche tempo rimasto soltanto fra i poveri, cominciò a toccar persone più conosciute. E fra queste, come allora fu il più notato, così merita anche adesso una espressa menzione il protofisico Settala. Avranno detto almeno: il povero vecchio aveva ragione? Chi lo sa? Caddero infermi di peste, egli, la moglie, due figliuoli, sette persone di servizio. Egli e uno de’ figliuoli ne uscirono salvi; il resto morì. “Questi casi,” dice il Tadino, “occorsi nella Città in case Nobili, disposero la Nobiltà, et la plebe a pensare, et gli increduli Medici, et la plebe ignorante et temeraria comminciò stringere le labra, chiudere li denti, et inarcare le ciglia12.”

Ma i rivolgimenti, ma le riprese, ma le vendette, per dir così, della caparbietà [p. 190 modifica]convinta, sono alle volte tali, da far desiderare ch’ella fosse rimasta intera e invitta, fino all’ultimo, contro la ragione e l’evidenza: e questa fu bene una di quelle volte. Coloro i quali avevano impugnato così risolutamente e così a lungo che esistesse presso a loro, fra loro, un germe di male, che poteva, per mezzi naturali, propagarsi e fare strage; non potendo ormai negare il propagamento di esso, e non volendo attribuirlo a quei mezzi (che sarebbe stato confessare ad un tempo un grande inganno e una gran colpa), erano tanto più disposti a trovarne qualche altra causa, a far buona qualunque ne venisse messa in campo. Sventuratamente ve n’era una in pronto nelle idee e nelle tradizioni comuni allora, non qui soltanto, ma in ogni parte d’Europa: arti venefiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a sparger la peste, per via di veleni contagiosi, di malìe. Già cose tali o somiglianti erano state supposte e credute in molte altre pestilenze; e qui segnatamente, in quella di mezzo secolo innanzi. Si aggiunga che, fino dall’anno antecedente, era venuto un dispaccio, soscritto dal re Filippo IV, al governatore, in cui gli si dava avviso, essere scappati da Madrid quattro francesi, ricercati come sospetti di spargere [p. 191 modifica]unguenti velenosi, pestiferi: stesse egli all’erta, se mai coloro fossero capitati a Milano. Il governatore aveva comunicato il dispaccio al senato e al tribunale della sanità; nè per allora, pare che vi si badasse più che tanto. Però, scoppiata e riconosciuta la peste, il tornar nelle menti di quell’avviso potè servire di conferma o di appiglio al sospetto indeterminato d’una frode scelerata; potè anche essere la prima occasione di farlo nascere.

Ma due fatti, l’uno di cieca e indisciplinata paura, l’altro di non so quale sciaurataggine, furono quelli che convertirono quel sospetto indeterminato d’un attentato possibile, in sospetto, e presso a molti in certezza, d’un attentato positivo e d’una trama reale. Alcuni, ai quali era paruto di vedere, la sera del 17 di maggio, persone in duomo andare ungendo un assito che serviva a dividere gli spazii assegnati ai due sessi, fecero nella notte portar fuori della chiesa l’assito e una quantità di panche rinchiuse in quello; quantunque il presidente della Sanità accorso a visita con quattro persone dell'uficio, visitato l’assito, le panche, le pile dell’acqua benedetta, e non trovando cosa che potesse confermare l’ignorante sospetto d’un attentato venefico, avesse, per compiacere alle [p. 192 modifica]immaginazioni altrui, e più tosto per abbondare in cautela, che per bisogno, avesse, dico, pronunziato, bastar che si facesse una lavatura all’assito. Quel volume di roba accatastata produsse una grande impressione di spavento nella moltitudine, per cui un oggetto diventa così di leggieri un argomento. Si disse e si credè generalmente esser state unte in duomo tutte le panche, le pareti, fino alle corde delle campane. Nè si disse soltanto allora allora: tutte le memorie di contemporanei (alcune scritte dopo molt’anni) che parlano di quel fatto, ne parlano con eguale asseveranza: e la storia sincera di esso, bisognerebbe indovinarla, se la non si trovasse in una lettera del tribunale della sanità al governatore, che si conserva nell’archivio detto di san Fedele; dalla quale l’abbiamo cavata, e della quale sono le parole che abbiamo poste in corsivo.

La mattina seguente, un nuovo e più strano, più significante spettacolo colpì gli occhi e le menti de’ cittadini. In ogni parte della città, si videro le porte delle case, e le muraglie, per lunghissimi tratti intrise, infardate di non so che sudicerìa, giallognola, biancastra, sparsavi come con ispugne. O sia stata una vaghezza ribalda di vedere un più clamoroso e più generale spaurimento, o sia stato un più reo [p. 193 modifica]disegno di aumentare la pubblica confusione, o che che altro; la cosa è attestata di maniera che ci parrebbe men ragionevole l’attribuirla ad un sogno delle fantasie, che al fatto d’una tristizia, non nuova del resto nei cervelli umani, nè scarsa pur troppo d’effetti consimili, in ogni luogo, per così dire, e in ogni età. Il Ripamonti, che spesso in questo particolare delle unzioni deride, e più spesso deplora la credulità popolare, qui afferma di aver veduto quell’impiastramento, e lo descrive13. Nella lettera sopraccitata, i signori della Sanità raccontano la cosa nei medesimi termini; parlano di visite, di esperimenti fatti con quella materia sopra cani, e senza cattivo effetto; aggiungono, credere eglino che cotale temerità sia più tosto proceduta da insolenza, che da fine scelerato: pensiero che indica in loro, fino a quel tempo, pacatezza d’animo bastante per non vedere ciò che non vi fosse stato. Le altre memorie contemporanee, senza contare la loro testimonianza per la verità del fatto, accennano pure insieme, essere stata in [p. 194 modifica]sulle prime opinione di molti, che quell’impiastricciamento fosse fatto per burla, per bizzarria; nessuna parla di nessuno che lo negasse; e ne avrebbero parlato certamente, se ve ne fosse stati, se non altro, per chiamarli stravaganti. Ho creduto cosa non fuor di proposito il riferire e il mettere insieme questi particolari, in parte poco noti, in parte affatto ignorati, d’un celebre delirio; perchè, negli errori e massime negli errori di molti, ciò che è più interessante e più utile ad osservarsi, mi pare che sia appunto la strada che hanno tenuta, le apparenze, i modi con cui hanno potuto entrar nelle menti e dominarle.

La città già commossa ne fu sossopra: i padroni delle case, con paglie accese, abbruciacchiavano gli spazii unti; i passeggieri si fermavano, guardavano, inorridivano, fremevano. I forestieri, sospetti per questo solo, e facili allora ad esser riconosciuti all’abito, venivano arrestati nelle vie dal popolo, e consegnati alle carceri. Si fecero interrogatorii, esami di arrestati, di arrestatori, di testimonii; non si trovò reo nessuno: le menti erano ancor capaci di dubitare, di ponderare, d’intendere. Il tribunale della sanità publicò una grida, con la quale prometteva premio e im[p. 195 modifica]punità a chi mettesse in chiaro l’autore o gli autori del fatto. Ad ogni modo non parendoci conveniente, dicono que’ signori nella citata lettera, che porta la data del 21 maggio, ma che fu evidentemente scritta ai 19, giorno segnato nella grida a stampa, che questo delitto in qualsivoglia modo resti impunito, massime in tempo tanto pericoloso e sospettoso, per consolatione e quiete di questo Popolo, e per causare indicio del fatto, habbiamo oggi publicata grida, etc. Nella grida stessa però, nessun cenno, almen chiaro, di quella ragionevole e tranquillante congettura che partecipavano al governatore: reticenza che accusa ad un tempo una preoccupazione furiosa nel popolo, e in loro una condiscendenza, tanto più rea, quanto più poteva essere perniciosa.

Mentre il tribunale cercava, molti nel publico, come accade, avevano già trovato. Coloro che credevano esser quella una unzione velenosa, chi voleva che la fosse una vendetta di don Gonzalo Fernandez di Cordova, per gl’insulti ricevuti nel suo partire, chi una pensata del cardinale di Richelieu, per disertar Milano e impadronirsene senza fatica; altri, e non si sa per quali motivi, ne voleva autore il conte di Collalto, Wallenstein, questo, quell’altro gentiluomo milanese. Non.mancava, [p. 196 modifica]come abbiam detto, di quelli che non vedevano in quel fatto altro che una malvagia corbellatura, e l’attribuivano a scolari, a signori, ad uficiali che si annoiassero all’assedio di Casale. Il non veder poi, come per avventura s’era temuto, che ne seguisse a dirittura un infettamento, un eccidio universale, fu probabilmente cagione che quel primo spavento s’andasse per allora acquietando, e la cosa fosse o paresse posta in non cale.

V’era del resto un certo numero di persone non ancora persuase che peste vi fosse. E perchè, tanto nel lazzeretto, che per la città, alcuni pur ne guarivano, “si diceua,” (gli ultimi argomenti d’una opinione battuta dall’evidenza sono sempre curiosi a sapersi) “si diceua dalla plebe, et ancora da molti medici partiali, non essere vera peste, perchè tutti sarebbero morti14.” Per togliere ogni dubbio, trovò il tribunale della Sanità uno spediente congenere al bisogno, un modo di parlare agli occhi, quale i tempi potevano richiederlo o suggerirlo. In uno de’ giorni festivi della Pentecoste, usavano i cittadini concorrere al cimitero di san Gregorio, fuori di porta orientale, a pregare pei morti [p. 197 modifica]dell’altro contagio, dei quali i corpi erano quivi sepolti; e, pigliando dalla divozione opportunità di divertimento e di spettacolo, v’andavano ognuno nella gala che potesse maggiore. Era in quel giorno morta di peste, fra gli altri, una intera famiglia. Nell’ora del maggior concorso, per mezzo alle carrozze, ai cavalcatori, ai passeggianti, i cadaveri di quella famiglia furono, d’ordine della Sanità, tratti al cimitero suddetto, sur un carro, ignudi; affinchè la folla potesse vedere in essi il marchio manifesto, il brutto suggello della pestilenza. Un grido di ribrezzo, di terrore, si levava per tutto dove passava il carro; un lungo mormorìo regnava dove era passato, un altro mormorìo lo precorreva. La peste fu più creduta: ma del resto ella s’andava ogni dì più acquistando fede da sè; e quella riunione medesima non dovè servir poco a propagarla.

Da prima adunque, non peste, assolutamente no, in nessun modo: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea si ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste; vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste appunto appunto, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza [p. 198 modifica]dubbio e senza contrasto: ma già vi s’è appiccata un’altra idea, l’idea del veneficio e del maleficio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro.

Non fa, credo, bisogno d’esser molto versato nella storia delle idee e delle parole, per vedere che molte hanno fatto un simil corso. Per grazia del cielo, che non sono molte quelle d’una tal sorta e d’una tale importanza, e che conquistino la loro evidenza a un tal prezzo, e alle quali si possano attaccare accessorii d’un tal genere. Si potrebbe però, nelle cose grandi e nelle picciole, evitare in gran parte quel corso così lungo e così torto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, di osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare.

Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più agevole di tutte quelle altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po’ da compatire.

Note

  1. Josephi Ripamontii, canonici scalensis, chronista urbis Mediolani, De peste quæ fuit anno 1630, Libri V. Mediolani, 1640, apud Malatestas.
  2. Pag. 24.
  3. Tadino, ivi.
  4. Pag. 26.
  5. Pag. 27.
  6. Pag. 245.
  7. Vita di Federigo Borromeo, compilata da Francesco Rivola. Milano, 1666, pag. 584.
  8. Tadino, pag. 73.
  9. Pag 251.
  10. Storia di Milano del Conte Pietro Verri: Milano 1825, Tom. 4. pag. 155.
  11. Pag. 98.
  12. Pag. 96.
  13. .... et nos quoque ivimus visere. Maculæ erant sparsim inæqualiterque manantes, veluti si quis haustam spongia saniem adspersisset, impressissetve parieti: et ianuæ passim ostiaque ædium eadem adspergine contaminata cernebantur. pag. 75.
  14. Tadino, pag. 93.