Atto I

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Prologo Atto II
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ATTO I

SCENA I

Noferi, Fazio vecchi.

          Noferi.Quest’è a punto ’l tempo e l’ora solita
          che Fazio suol uscir di casa. Oh! Eccolo
          a punto di qua. Tu se’ si sollecito,
          Fazio? che vuol dire?
          Fazio.Oh! Buon di, Noferi.
          Noferi.Buon di e buon anno.
          Fazio.Quest’è ’l mio solito,
          che ’nfin da giovanezza fui sollecito
          e buon levatore.
          Noferi.Io el contrario.
          Ma donde, a si grand’ora?
          Fazio.L’ordinario:
          da udir messa.
          Noferi.Tu mi par si torbido
          stamani! Che ara’ fatto? Con mógliata
          qualche batosta?
          Fazio.Mal potre’ combattere
          con lei: ch’ieri andò in villa a pigliar aria
          con la fanciulla e la fante; e verrassene
          stasera o domattina. Ma io fantastico
          sopra un mio caso, che, benché lunghissima
          la notte sia, m’ha, stanotte, continovamente
          tenuto desto.
          Noferi.Se gli è lecito,
          o s’egli ti vien ben comunicarmelo,

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          fallo: che, forse, ti darò ’l consiglio
          senza ’l fiorin; s’el caso, però, ’l merita
          o lo ricerca.
          Fazio.Assai ti ringrazio.
          Ma, in questo caso, non è necessario
          molto il consiglio perché ’l male, Noferi
          mio, è giá fatto; se male debb’essere
          il mio.
          Noferi. Dunque, di mal porti pericolo?
          Fazio.Pericol, si, ma nella borsa.
          Noferi. Duolmene,
          per Dio. Ma che cosa è?
          Fazio.Tu la vuo’ intendere;
          i’ me n’avveggio.
          Noferi. Si, sendoti comodo
          il dirlo; ch’altramente, noi desidero.
          Fazio.Tel dirò. Io manda’ a Roma quel giovane
          ch’i’ tengo in casa per compagnia di Albizo
          mio figliuolo, è un mese, per riscuotere
          certi danari dal reverendissimo
          cardinale di Capua, che servitolo
          avea, sendo in Firenze in minoribtis.
          Noferi.Si, ch? Che somma?
          Fazio.Dumila di camera,
          tutti in una partita sola.
          Noferi.Avevigli?
          Fazio.Cosí gli avessi io ora!
          Noferi.In fine, seguita:
          ch ’è avenuto?
          Fazio.È che giá son duo sabati
          che da Suo’ Signoria tengo lettere
          che gli ha pagati.
          Noferi.O non lo scrive el giovane?
          Fazio.Lo scrive; e dice voler partir subito.
          Ma non arriva.
          Noferi.Datt’egli notizia
          di sua partita a punto?

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          Fazio. Io non ho lettere
          di poi: se non che ’l procaccia, che ultimamente
          venne, m’afferma quello essere
          di tre giorni partito, la domenica
          che ei montò a cavallo; ond’ora esserci
          do verrebbe.
          Noferi. Gli è ver. Ma di che dubiti,
          in questa cosa?
          Fazio. Dice «di che dubiti»!
          Di quel che è da dubitar: non perdere
          i mie’ danar.
          Noferi. Vo* dir, dove va l’animo
          tuo; quel che ne pensi.
          Fazio. Le disgrazie
          son sempre apparechiate; e poi il comodo
          fa spesso l’uomo ladro.
          Noferi. Oh! Quest’intendere
          volea da te: se del giovane dubiti.
          Fazio. D’ogni cosa tem’io.
          Noferi. Mi maraviglio
          de’ fatti tuoi, che, se d’un non ti fidi,
          gli dia faccenda tale. Ti mancavano
          uomini da mandar?
          Fazio. Ci è ben dovizia
          d’uomini, si; ma, de’ fedel, pochissimi
          ci sono.
          Noferi. Come non ti venne in animo
          mandare il tuo figliuol?
          Fazio. Gli è troppo giovane;
          e non si debbe a un fanciullo credere
          si grossa somma, pe’ casi che nascere
          posson sempre. Che ne so io?
          Noferi. Piacemi
          il tuo discorso. Ma questo tuo giovane
          quant’è che ti fu in casa?
          Fazio. Oh! È giá un numero
          di dodici anni.

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          Noferi.E fedel hai trovatolo,
          ne l’altre tuo’ faccende?
          Fazio.Fedelissimo.
          Noferi.D’ond’è?
          Fazio.Mi dice egli esser da Genova
          e di nobil famiglia; benché, pregami
          ch’i’ noi vadia dicendo, che vergognasi
          di star come gli sta.
          Noferi.Questo è il solito
          di tutti que’ che son fuor della patria
          e van per l’altrui case: farsi nobile.
          Die ’l sa, po’, chi e’ sono! Pur, può essere.
          D’ogni sorte va a torno. Come chiamasi?
          Fazio.Bernardo, par a me, di casa Spinola.
          Noferi.Ben, be’: gli è di gran casa. E per che causa
          dice egli esser fuor? per la republica?
          Fazio.No, no. È pur per altro.
          Noferi.È un miracolo,
          certo: che esser suol consuetudine
          di simil gente per lo stato fingere
          d’esser fuori; e di poi, spessissime
          volte, si trova che son fuor per debito
          e, talora, di mane ed altre simili
          ribalderie. Ma ei del suo essilio
          che cagion dice?
          Fazio.Ch’a uno omicidio
          si trovò giá con certi.
          Noferi.Si può credere,
          cotesto. E che ancora e’ sia nobile,
          si come e’ dice: che ’n tale error caggiono
          uomini d’ogni sorte; e ’l suo procedere
          anco lo mostra, ch ’un che non è ignobile
          ne fa ritratto. E, per questo, non piccolo
          conforto ti vo’ dar, che tu non dubiti
          di lui; che, se gli avessi avuto in animo
          di tòrti e’ tuo’ danar, perché di scriverti

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          e darti aviso gli era necessario?
          Non potev’ei, senz’altro, verso Napoli
          pigliar la volta?
          Fazio.Certo, ch’i’ t’ho obbligo
          de’ tua conforti; ma non è possibile,
          per questo, ch’i’ non tema.
          Noferi.Dir non possoti
          altro. Ma lasciam questo. I’ vo’ la causa
          dirti del mio venir cosí sollecito
          a ritrovarti a casa. I* vogl’intendere
          da te ch’animo è ’l tuo: se tu deliberi
          dar donna al tuo fígliuol.
          Fazio.Di che domandi?
          ch’è ancora un fanciul, ch’a punto quindici
          di son ch’entrò ne’ ventanni, e non credo
          ch’ei sappia ancor come sia fatta femina?
          Noferi.Tu l’erri, Fazio. Oggi, e’ nostri giovani
          son prima tristi che grandi. Né muovomi
          a dirti questa cosa senza causa.
          Basta ch’i’ so che vuol moglie.
          Fazio.Io desidero
          saper da te quel che ne sai e quel che ti
          muove a questo.
          Noferi.Tel dirò. Per Risobolo
          sensale ed altri, m’ha fatto richiedere
          che io gli dia per moglie quella giovane
          ch’i’ tengo in casa; che forse debbe esserne
          innamorato.
          Fazio.Che mi di’ tu, Noferi?
          Noferi.La sta cosi.
          Fazio.I’, per me, mi strabilio:
          per ciò ch’i’ mi pensava ch’agli studi
          solo attendessi e non dietro alle femine.
          Noferi.Noi biasimar, che si porta benissimo
          a domandarla in sposa.
          Fazio.Dimmi, Noferi:

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          chi ella è? e quando e come avestila
          in casa?
          Noferi. L’anno ch’i’ fu’ a Livorno,
          che fará, a punto in questo maggio, dodici
          anni, passando le galee di Napoli,
          ed alloggiando meco, l’amiraglio
          (che vi stette duo giorni), seco avendola,
          me la lasciò: con condizion di renderla
          a’ suo’ parenti, se mai si trovassero.
          Fazio. Chi sono e’ sua parenti?
          Noferi. Di Cicilia,
          par a me; ma non credo che lo sappia
          a pena ella.
          Fazio. In che modo ebbela
          quel capitano nelle mani?
          Noferi. Tolsela
          a certe fuste di mori che rimasero J
          suo’ prigion; tra le quali una ne missero
          in fondo, ove era il padre della picciola
          fanciulla.
          Fazio. Di che etá era ella?
          Noferi. Pensomi
          che avessi un quattr’anni o cinque.
          Fazio. Puossene
          ella ricordare?
          Noferi. Oh! oh! Benissimo
          se ne ricorda.
          Fazio. E con lei alcuni uomini
          non erano, ch?
          Noferi. Si. Era ben un giovane
          piamontese, il qual era famiglio
          loro; e dicea che l’era di Cicilia
          e che, venendo in queste parti, furono
          presi da’ mori e di poi, come io t’ho
          detto, scontrando le galee di Napoli,
          furono fatti liberi. Io pensava

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          ch’in Cicilia tornassi a dar notizia
          a’ parenti di lei della disgrazia
          intervenuta e dove ella trova vasi.
          Ma, perché allor non aveva un danaio,
          colle galee se n’andò verso Spagna
          dove erano indiritte. E potrebbe essere
          che po’ ito vi fusse. E potre’ giugnere,
          un giorno, qua, con qualche suo strettissimo
          a cui dariela.
          Fazio. Questa non è pratica
          da lui.
          Noferi. T me lo intendo. E fo disegno,
          quando tu ’l voglia accompagnar, di metterti
          altro partito innanzi. E son certissimo
          che non te ne discosterai.
          Fazio. Ragionami
          d’una cosa da fare; e, se gli ha animo
          di pigliar moglie, io son per fartene
          onore.
          Noferi. Io vo’ venir teco alla libera
          e non per andirivieni. Io desidero,
          quando ti piaccia, alla nostra amicizia,
          che fu infin da fanciulli, ancora aggiugnere
          il parentado. I’ ti vo’ dar l’Emilia
          mia figliuola, se la ti va in animo,
          con dumila ducati e, piú, le donora
          che ella ha: della qual so parlatoti
          è stato altra volta; e tu rispostone
          hai che ti piaceva e sol tenevati
          che ’l tuo figliuol non ave* vòlto l’animo
          a pigliar moglie. Ora che di’?
          Fazio. Che piacemi;
          e son contento, in caso che contentisi
          Albizo mio figliuolo.
          Noferi. Questo intendesi;
          ch’altramente, io non voglio. Or dunque porgimi
          la mano.

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          Fazio.Ecco.
          Noferi.Io ti do l’Emilia,
          in caso che se ne contenti Albizo.
          Fazio.Ed io cosí l’accetto.
          Noferi.Or solo restaci
          che tu gliel dica e tu lo sappi svolgere
          a questo, ch’è’l ben suo.
          Fazio.Ne son certissimo;
          e son, dal canto mio, per farne ogni opera.
          Ma non vo’ giá, quando ben si contenti,
          ch’el parentado si scuopra, se l’animo
          di questi mie’ danar non ho piú scarico.
          Noferi.Quest’è un caso che ’n picciolo spazio
          si doverrá chiarire. Ti do un termine
          di duo giorni, e sará’del tutto libero
          o tu sará’in stato che potrassene
          far el pianto.
          Fazio.Face ’egli, pur ch’i’ sappia
          di che morte ho a morir! —
          Noferi.Mettiti in animo
          el peggio ch’avenir ti possa; e poscia,
          andando ben la cosa, ne ringrazia
          Dio, come si de’ far d’un benefizio
          ricevuto.
          Fazio.Cosí farò.
          Noferi.Or vattene
          in casa e conta questa cosa a Albizo;
          e di po’ fa’ che, passato le sedici,
          i’ ti truovi in mercato.
          Fazio.Cosí facciasi.
          Addio.
          Noferi.A te mi raccomando, Fazio.

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SCENA II

Alamanno giovane, Gianni suo servidore.

          Alamanno. Fra gli altri segni, quando vuoi conoscere,
          Gianni, se sei col tuo padron in grazia
          e se t’ha caro, pon’mente se egli
          ti conferisce e’ segreti e se fidasi
          di te, cora’ or fo io.
          Gianni. Io son certissimo
          che vo’ m’amate piú che ’l convenevole.
          Ed io, dal canto mio, come è mio obligo,
          colla mia servitú vi rendo il cambio.
          Alamanno. Io lo veggio. E però, senza ch’i’ dubiti, c_
          ti vo’ narrar ogni cosa acciò sappimi
          me’ consigliare.
          Gianni. Io son paratissimo
          a darvi tutti i consigli che ottimi
          istimerò per voi.
          Alamanno. Or dunque, ascoltami.
          Colei per cui, giorno e notte, affliggermi
          vedi non è, come stimi, l’Emilia
          di quel Noferi Amier ch’era or con Fazio;
          ma è un’altra piú bella e piú nobile.
          Gianni. Dunque, m’avete dimostrate lucciole
          per lanterne infino a oggi?
          Alamanno. Ascoltami.
          Io l’ho fatto a buon fin, non giá per fingere.
          Gianni. Non importa, padron, perch’ogni comodo
          vostro è mio.
          Alamanno. Tutto so benissimo.
          Ma odi. Quella per cui sento struggermi
          è quella che sta li.

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          Gianni. Chi? la Lucrezia
          di Bernardo?
          Alamanno. La figliuola di Cambio
          Ruffoli, si.
          Gianni. Dunque, si può conchiudere
          che voi siete a un taglier medesimo
          duo ghiotti.
          Alamanno. No. Bernardo la sua opera
          mi presta in questo; ed io gli rendo il cambio
          in trattener l’Emilia, di cui spasima
          egli, non di Lucrezia.
          Gianni. Dch! Ve’ chiachiera!
          E’ fa a l’amor per voi e voi il simile
          fate per lui?
          Alamanno. Si.
          Gianni. Non posso intendere
          questa cosa, né che diavolo muovere
          vi possa a usar, in questo, simil termini.
          Forse che siete di tal sorte giovane
          che avete bisogno ch ’un uom simile,
          che sta con altri, vi faccia aver grazia
          colla dama, ch? Or non vi basta l’animo
          acquistarla da voi, che è d’un povero
          uomo figliuola?
          Alamanno. E perché l’è d’un povero
          uomo figliuola, come di’, diffidomi
          v io; e dirotti perché. Ella conoscesi
          non aver dote: e non gli par essere
          tal che per sposo un uom come me meriti;
          ed, ogni di, mi fa favor piú debole.
          Onde, vedendo a Bernardo piú facile
          l’aquistarla, come amico, imposigli
          che vi attendessi egli: intendendosi
          che, se mai dello amor fusse a buon termine,
          mettessi me nel grado suo; ed io il simile
          facessi della Emilia, la cui grazia

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          non ha mai potuto aquistar, per essere
          in quel grado che gli è. E riuscivami:
          che giá la cosa era ridotta a termine
          buono; e, se ei non partiva cosí subito
          per Roma, com’ha fatto, per riscuotere
          dumila scudi del padron (che ’l diavolo
          ne lo porti!), era io salvo.
          Gianni. Potrebbe essere.
          Ma io, per me, d’un simil uom, per dirvela,
          non mi rídere ’mai.
          Alamanno. Perché?
          Gianni. Uno ignobile m
          di rado ama un ch’è nobil. Non convengono
          e’ giude’ co’ samaritan.
          Alamanno. Son favole
          coteste. E poi Bernardo è uomo nobile
          a casa sua.
          Gianni. Dio ’l sa.
          Alamanno. Iddio e gli uomini
          ancora el sanno. E, se tu vuoi promettermi
          di noi dir mai, per ciò che è d’importanzia
          grande, il suo caso ti dirò per ordine.
          Gianni. Come, in ogni altra cosa, segretissimo
          vi son, cosí prometto in questo d’essere.
          Non dubitate.
          Alamanno. Alza la fede.
          Gianni. Eccola.
          Alamanno. Or odi. In prima, quantunque e’ si nomini
          Bernardo, el nome proprio suo è Giulio;
          e, benché a tutti dica esser da Genova,
          è da Palermo cittá di Cicilia;
          e ’l padre suo, se gli è vivo oggi, chiamasi
          Girolamo Fortuna.
          Gianni. Dch! Ve’ favola
          ch ’è questa!
          Alamanno. Ed era, a casa sua, richissimo
          e nobile.

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          Gianni. E per che conto usa ei fingere
          esser un altro?
          Alamanno. Tel dirò. E’ dubita
          non esser amazzato; e’ ha grandissima
          taglia dietro, per ciò che a un omicidio
          si trovò d’un de’ primi di Cicilia.
          E ’n questo stato stará fin che piaccia
          a Dio: che so che tuttavia si pratica,
          per mezzo d’un suo amico, di levargliela
          e di rimetterlo, un di, nella patria;
          dove soleva aver anco una rendita
          di secento fiorin, di cui ha perdita
          fatta, e riaver forse potrebbela.
          Gianni. Or dich’i’ ben che gli ha ragion da vendere
          a far a questo mo’. Ma perché domine
          si chiama e’ piú Bernardo che Girolamo
          o Matteo o altro nome? e perché Spinola
          piú presto che Rosaio?
          Alamanno. Oh! oh! Dirottelo.
          Gli ha preso questo nome, che gli ha in Genova
          un grand ’amico che cosí si nomina.
          Gianni. Come?
          Alamanno. Non odi tu? Bernardo Spinola,
          che fu figliuol d’un mercante di credito
          grande. E questo è quello che procaccia
          di levargli la taglia e nella patria
          ridurlo.
          Gianni. Ben.
          Alamanno. Or io in questo termine
          mi truovo. Quando gli avea la Lucrezia
          giá in pugno, e’ s’è partito; che giá lettere
          gli aveva scritto ed ella esser prontissima
          a compiacergli gli rispose, in caso
          ch’e’ la pigliassi per sposa legittima.
          E di tutto è la fante consapevole.
          Gianni. Ben, be’, la cosa è molto in lá.

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          Alamanno. Consigliami,
          adunque, ora tu quel che far debbia
          in questo caso. I’ pensa’ che fra quindici
          giorni ei tornasse, e son passati i sedici
          giá due volte.
          Gianni. I’ vo’ dirvi quel che subito
          m’è venuto nel capo. V so che scrivere
          sapete....
          Alamanno. Diavolo anche ch’i’ non sappia!
          Gianni. ...e contrafar la mano.
          Alamanno. Al possibile;
          che non è man ch’i’ non sappia benissimo
          ritrar, che scritta da quel proprio paia.
          Gianni. Buono. Questo mi piace. Or dunque, scrivasi
          da voi una lettera che paia
          di mano di Bernardo, o di Giulio,
          che vogliam dir.
          Alamanno. Di Bernardo, di grazia.
          Non dir ma’ «Giulio». Questo si sdimentichi
          da te in tutto e per tutto.
          Gianni. Perdonatemi.
          Non lo dirò ma’ piú.
          Alamanno. Or avertiscivi,
          ch’emporta.
          Gianni. Al savio un sol cenno è bastevole.
          Alamanno. Or be’, che ho io a dir in questa lettera?
          Gianni. Come siate tornato e che gran numero
          di danar vi trovate....
          Alamanno. Verisimile
          fia questo, perché gli andò per riscuotere,
          come t’ho detto.
          Gianni. Or udite.
          Alamanno. Be’, seguita.
          Gianni. ...e che vo’ siate ascosto acciò non trovivi
          il padron.
          Alamanno. Dunque, lo vuoi ladro fingere?

[p. 318 modifica]

          Questo giá non mi piace; ch’ogni grazia
          perderá, se l’è donna ragionevole.
          Gianni. Dch! ascoltate... e che siate prontissimo
          a tórla per isposa e po’ menamela,
          con que’ danari del padron, a Genova.
          Alamanno. Pur lo fa’ ladro.
          Gianni. No; ch’i’ voglio aggiugnere
          «che dir si posson mia per il salario,
          ch’i’ l’ho servito tant’anni». E credibile
          questo parrá a lei, perché le femine
          non discorron piú lá.
          Alamanno. Oh! oh! oh! Piacemi
          cotesto.
          Gianni. E, perché gli è necessario
          prima parlar insieme, pregherretela
          che, come il padre è ito fuori, subito
          vi metta in casa, nel modo e coll’ordine
          ch’i’ vi dirò di poi, quando la lettera
          scriverrete.
          Alamanno. Sta bene.
          Gianni. E, se l’è d’animo
          che voi mi dite e se n’è consapevole
          la fante, per uscir di tal miseria,
          vi è me’ per riuscir che io non dicolo.
          E, come siate in casa, che ella veggavi
          in viso, vo’ saresti ben uom debole,
          se, in poche parole e presto, non ve la
          facessi amica; che di Monterappoli
          ara la lancia né gli fia possibile
          far altramente che la vostra grazia
          mantenersi e donar quel non può vendere.
          Che dite?
          Alamanno. Vo’ lo far. Ma come domine
          gli manderò poi la lettera?
          Gianni. Diavolo
          che ci manchi chi vadia! Un uom incognito.

[p. 319 modifica]

          Basta ch’el padre sia fuori ed ei lascila
          in casa. E sia la soprascritta a Cambio;
          ma sia disuggellata, acciò che leggerla
          possa: che lo fará, perché le giovani
          son sempre curiose de lo ’ntendere.
          Alamanno. Se la non la leggesse?
          Gianni. Oh! Se cadessino
          i cieli?
          Alamanno. Orsú! T’ho ’nteso. I’ vo’ tal ristio
          correre. Andianne. Ma di casa Fazio
          chi esce? È ei Bernardo? Ah! Gli è Albizo.
          Che dira’ che mi par sempre vedermelo
          inanzi?
          Gianni. Cosí fa quel che desidera.

SCENA III

Bolognino servidore, Albizo giovanetto suo padrone.

          Bolognino. Il mal vi siete fatto voi medesimo.
          Voi medesmo el piagnete.
          Albizo. Deh! Di grazia,
          non mi dar piú passion che i* m’abbia.
          Pensiam, piú presto, se e’ ci è rimedio.
          Bolognino. Vi dirò ’l vero. A me non basta l’animo
          di trovar se non quel ch ’e’ piú dar usano
          negli altrui affanni.
          Albizo. Quale?
          Bolognino. Pazienzia!
          Albizo. Ah Bolognin! Tu vuoi sempre la baia
          con esso meco.
          Bolognino. E voi usate termini
          da volella. Dite un po’: chi costrinsevi,
          potendo voi la Spinetta con comodo
          aver in braccio, a domandarla a Noferi
          per moglie?

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          Albizo. Io lo feci, che richiesemi
          cosi ella.
          Bolognino. Bastava di promettere
          cotesto infin che ’l vostro desiderio
          di lei adempissi.
          Albizo. Ah! Non è convenevole
          ingannar chi si fida.
          Bolognino. Un uomo savio
          non pensa a tante cose. Sol bastevole
          gli è aver l’intento suo.
          Albizo. Tristi si chiamano
          cotesti; non giá savi.
          Bolognino. Siete giovane,
          Albizo, né intendete ancora il vivere
          de’ nostri tempi. Questi tanto ottimi
          son tenuti poi sciocchi.
          Albizo. Chi ma’ diavolo
          are’ pensato che subito Noferi
          avessi fatto sopra me disegno?
          e, chiedendo io la Spinetta, l’Emilia
          mi voglia dare?
          Bolognino. Oggidí, tutti gli uomini,
          giusta lor possa, al lor mulino tirano
          l’aqua. La vostra domanda si semplice
          gli dette occasion poi di muovere
          questo.
          Albizo. La cosa è qui. Ora il rimedio
          convien trovare e ’l modo ch’i’ mi scapoli
          da questo intrigo.
          Bolognino. Fia cosa difficile.
          Pur, penseremci.
          Albizo. Non bisogna indugio.
          Mio padre vuol, come Bernardo subito
          è tornato, scoprir lo sponsalizio
          e far le nozze.
          Bolognino. Che bisogna piagnere?

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          Pensate ch’i’ non trovi uno arzigogolo
          con cui vi tragga di questo travaglio?
          Albizo. Deh! fallo, Bolognino mio carissimo,
          per quanto ben ti vo’ ; che t’arò obligo
          grande.
          Bolognino. Io ci penso.
          Albizo. Che di’?
          Bolognino. Sará ottimo
          questo partito...
          Albizo. Come?
          Bolognino. ... e riuscibile.
          Date la man. Vo’ siate accivito.
          Albizo. Eccola.
          Bolognino. Udite quel che mi è venuto in l’animo.
          I’ vo’ che la Spinetta, innanzi vespero,
          si cavi fuor di casa (il che per opera
          si fará d’Aldabella) e che voi poi
          con essa per un mese a spasso andiatene.
          Il vecchio vi ama si ch’aia di grazia,
          pur che torniate, che per moglie abbiatela.
          Albizo. Si. Ma come poss’io di casa muovermi,
          senza un quattrino?
          Bolognino. Oh! Cotesta è la giuggiola!
          È quel ch’i’ ho pensato, che non manchino
          i danari.
          Albizo. E fará’lo?
          Bolognino. Senza dubbio.
          Albizo. Donde gli caverem?
          Bolognino. Donde difficile
          piú par: da vostro padre. E vo’ che mettavi ’nfino
          a cavai.
          Albizo. Come potrá mai essere?
          Bolognino. Udite. Tutto vi dirò per ordine.
          Albizo. Oh Bolognin mio caro!
          Bolognino. Orsú! Lasci n si
          le cerimonie, e ascoltate.

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          Albizo. Di grazia,
          di’; che volentieri odo.
          Bolognino. Oh! Sta’, sta’. L’uscio
          di casa s’apre. Gli è Fazio. Partitevi,
          ch’i’ voglio, a sol a sol, con lui quest’opera
          fare. Andate a l’Aldabella. Non perdasi
          tempo. Fate che costei oggi cavisi
          di casa e ch’i’ vi truovi pria che Fazio
          acciò sappiate rispondere.
          Albizo. Al Carmine
          sarò.
          Bolognino. Sta ben. Costi non fia possibile
          ch’el vecchio venga e guasti. Tutto piacemi.

SCENA IV

Fazio, Bolognino.

          Fazio. Con tutto che le cose mi succedino
          bene del parentado che da Noferi
          sono stato richiesto, perché Albizo
          ci acconsentisce pur, benché li paia
          un po’ fatica, non però ci è ordine
          che rallegrar mi possa; perché l’animo
          ho sempre vòlto a’ mie’ danar che portano
          pericol grande.
          Bolognino. Questo è a proposito
          al mio disegno.
          Fazio. Se io non mi scarico
          da questo peso, non saria possibile
          che mai mi quietassi.
          Bolognino. Or ho il comodo
          d’assaltarlo; or bisogna saper fingere.
          Oh che cattiva sorte ha questo Fazio

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          mio padrone! Io non credo ch’un altr’abbia
          la simil.
          Fazio. Che dice costui?
          Bolognino. Oh che perdita
          è questa!
          Fazio. Oimè!
          Bolognino. Come lo ’ntende, subito
          si morrá di dolor.
          Fazio. O Dio, aiutami!
          Bolognini Tu non odi?
          Bolognino. Chi mi chiama?
          Oh padron mio!
          Fazio. Che ci è?
          Bolognino. Novelle pessime.
          Vo’ ben dir, che vi dica cattivissimo.
          Fazio. Hai nuove di Bernardo?
          Bolognino. Cosí avessile
          avute d’altra sorte!
          Fazio. Che ha? Dimelo.
          Non tardar piú.
          Bolognino. Gli sta come e’ non merita,
          il poveretto.
          Fazio. Che ha male?
          Bolognino. Grandissimo.
          Fazio. E’ mia danari ha seco?
          Bolognino. No, che toltogli
          sono stati.
          Fazio. Oimè!
          Bolognino. Ma si potrebbono
          forse ancor ritrovar.
          Fazio. Oh infelicissimo
          me! Dimmi quel che tu ne sai, che struggere
          mi sento.
          Bolognino. Mentre che, or or, tornavomi
          a casa di mercato, dietro sentomi
          un a cavallo che, con grand’instanzia,

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          mi chiama e mi domanda se di Fazio
          Ricoveri so la casa. Io risposili:
          — Vedila lá. — Soggiuns’elli: — Conoscilo? —
          — Come! — diss’io — che sto al suo servizio? —
          — Dunque — diss’elli — non fia necessario
          ch’i’vadia piú avanti. Tu benissimo
          gli fará’l’ambasciata che ’l suo giovane
          (e’ ha nome, pare a me, Bernardo Spinola)
          fu, son tre giorni, assaltato e fu toltali
          una sua bolgia dove dice ch’erano
          ben dumila ducati; ed ei gravissimamente
          è ferito; e, quanto può piú, pregalo
          che mandi un dove gli è, che qualche indizio
          ha di quelli assassini e forse, usandosi
          diligenzia, ritrovar si potrebbero. —
          Fazio. Dove fu il caso? ed ei dove ritrovasi?
          Bolognino. Il caso fu, par a me, allo scendere
          della montagna di Viterbo; e ei trovasi
          li in Viterbo.
          Fazio. Oh sorte mia contraria!
          Ma dimmi: che uomo è quello che disseti
          questo? che la non sia una burla.
          Bolognino. Era un giovane
          da bene.
          Fazio. Onde ciò seppe?
          Bolognino. Trovòvisi.
          E dice che anch’ei portò pericolo
          grande; ma che, per aver buona bestia
          sotto, si liberò da quella furia.
          Fazio. Dunque era seco?
          Bolognino. Si, per quanto dicemi.
          Fazio. Gli are’ voluto parlar.
          Bolognino. Ben un asino
          fu. E gne ne dissi: che, se servizio
          v’avea a far, dove’ di bocca propria
          farvi questa imbasciata. Ma non valsemi

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          il pregar: che non volle; e, senza indugio,
          dette volta al ronzin, che possa rompere
          il collo!
          Fazio. Oh Dio! Che partito ho io a prendere?
          Bolognino. A mandar a Viterbo un uomo, subito.
          Fazio. E chi debb’io mandare?
          Bolognino. Mandate Albizo.
          Fazio. Cosí solo?
          Bolognino. Se io sono a proposito,
          andrò in sua compagnia. E, s’abbia m lettere
          di favore a chi ministra giustizia
          o a qualch’amico, ben mi basta l’animo,
          con Albizo, di far qualche buon’opera.
          Fazio. I* temo che non sia un gittare il manico
          dietro alla scure.
          Bolognino. Eh! che non ci è pericolo.
          Fazio. Tu sai ben, tu. Poi, che può far un giovane
          con un par tuo?
          Bolognino. Fate voi. Spendetemi
          per quel ch’i’ vaglio.
          Fazio. Vo’ pensarci.
          Bolognino. Fatelo.
          Fazio. Ma dimmi: sa’mi tu dir dov’è Albizo?
          Bolognino. Alla Nunciata, a udir messa, dissemi
          che andava.
          Fazio. Sta ben. Se torna, fermalo
          a casa.
          Bolognino. Tanto farò. Or fa opera
          la medicina. Dio voglia giovevole
          ne sia a’ nostri bisogni. I’ vo’ subito
          andar a cercar d’Albizo, che ei sappia,
          se gli accadessi, a suo padre rispondere
          ch’è presto alle sua voglie: che certissimo
          son ch’alia fin, dopo molto dibattersi,
          piglierá questo partito per ottimo;
          che, benché lo ritenga un po’ el grandissimo

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          amor del suo figliuol, pur l’avarizia,
          come vecchio, ara ’lfin in lui vittoria.
          Il che se fa, ci fíen danar da spendere,
          che è quel che noi vogliamo; e potrá Albizo,
          in cambio di Viterbo, ir a suo comodo
          colla Spinetta. E cosí sará ottimo,
          com’io promessi, al suo male il rimedio.