Guerino detto il Meschino/Capitolo XIV
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CAPITOLO XIV.
Il Meschino libera la figliuola del re di Persepoli e tutto il reame
dall’invasione dei Turchi, e quella toglie poi per sua sposa.
Inginocchiossi avanti al soldano, facendo sì gran pianto che non poteva parlare. Il Meschino disse allora al soldano: «Signore, io vi prego che abbiate pietà di questa damigella, la quale vedete che per dolore non può parlare; fate che parli uno di que’ cavalieri per lei»; onde il soldano disse che un di loro parlasse. Ed uno fra questi incominciò:
«Alta corona, questa damigella fu figliuola del re di Persepoli1, il quale si chiamava Finistauro. Questo Finistauro aveva due figliuoli maschi e questa femmina. I Turchi che sono sotto la signoria del re Galismarte, gli sono venuti addosso con trecento mila uomini armati, ed hanno ucciso Finistauro coi due figliuoli, e presero la città di Persepoli, e tutte le terre di Persia sul fiume Tigri in fino al fiume Ulione. E non è maraviglia che il re Galismarte ha tanta potenza, imperocchè egli è signore di Damasco, e tiene l’Assiria, la Giudea, la Palestina, l’Armenia, Media, Sicilia, Panfiglia, Laconia e Trabisonda, ed un suo fratello nominato Astiladoro tiene il resto della Turchia. Dopo che fu morto il nostro re, se noi non avessimo campata questa fanciulla, la sarebbe mal capitata. Sappiate ora che i Turchi subito verranno per la felice Persia ad armata mano contro di voi, se voi non riparate. Dunque vi sia raccomandata questa fanciulla, che se per vostro aiuto non è vendicata conviene che ella vada mendicando pel mondo. Ella, come scacciata, si raccomanda a voi, che siete nostro soldano di Persia».
Avendo il cavaliere compito il suo dire, ognuno sospirava, così il soldano come gli altri. Disse il Meschino che molto gli rincresceva di questa damigella, e udendo che non vi era alcun conforto nè speranza di aiuto, si levò in piedi, fece riverenza all’Almansore, e disse: «Per Maometto, questo è gran peccato, e pregovi pel dio Apollo, di cui io ho veduti gli alberi, che voi le diate aiuto». Egli rispose: «Se tu sapessi chi sono i Turchi e la gran signoria che hanno, tu non diresti così». Poi domandò a que’ cavalieri da quanto tempo i Turchi loro facevano la guerra. Risposero dopo che il re Astiladoro aveva perduto la battaglia a Costantinopoli, dove gli furono uccisi undici figliuoli per le mani di un cavaliere chiamato il Meschino, il quale fu già schiavo in quella città, e fu francato pel figliuolo di quell’imperatore, che aveva nome Alessandro. E convenne ai Turchi giurare di non far guerra ai Greci in fin che quell’imperatore viveva ed il figliuolo Alessandro; cominciarono allora la guerra col nostro re, per i paesi di Persia e d’Arabia. Il Guerino udendo queste parole disse all’Almansore di pregare quel cavaliero a dir tutta la novella che fu a Costantinopoli, se ei la sapeva. Il soldano, che tutt’ora mangiava, aderì alla domanda del Guerino, e il cavaliere cominciò a dire dal principio al fine della guerra che fece Astiladoro, la battaglia che fu nella bastia, e le gran prodezze fatte per quello che aveva nome il Meschino. Dopo questo il Meschino si levò, e disse ad alta voce: «O vero dio Apollo, quando avrò io la virtù in questo modo che ebbe questo Meschino? O grande Apollo fammi venir quella fama a cui giunse il Meschino». E da capo pregò il soldano ch’ei non abbandonasse la damigella. L’Almansore disse che col suo tesoro farebbe tornare il Turco indietro. Il Meschino levatosi dritto gridò: «Pel viaggio che ho fatto mi vanto di essere capitano di questa damigella contro i Turchi, coll’aiuto del soldano di Persia. Quando i baroni videro l’ardente faccia di Guerino, tutti presero ardire, e gridarono di andar coraggiosamente contra i Turchi. L’Almansore voleva mandare ambasciatori in Babilonia e nell’India per dimandare soccorso. Il Guerino disse che non faceva bisogno del soccorso se essi vincevano, e se la fortuna non fosse loro stata prospera, poter Il Meschino visita l’arca di Maometto. poi mandare per aiuto. E così fu deliberato di fare. L’Almansore mandò per tutta la Persia cavalieri e messi, che gente apparecchiassero, e accordaronsi più di cento signori di fare compagnia al Meschino, armati contra i Turchi. Fu fatto perciò grande onore al Meschino, e la damigella venne raccomandata alla regina maggiore, imperocchè è usanza dei Saraceni di tener molte mogli. Il soldano ne aveva più di duecento, ma ne aveva una incoronata, ed a quella fu mandata la bella Antinisia, per la quale il Meschino aveva tolto così grande impresa contro i Turchi, perchè ne era già stato preso d’amore.
In corto tempo si adunarono a Lamech dodici re di corona, e cento mila Arabi armati, e quattro migliaia di persone persiane. Quando il Meschino vide tanta gente, disse al soldano: «Tanta moltitudine assai volte fa perder le battaglie, e molti si gabbano». Prese egli l’incarico di esserne il capitano, e di essere il campione della donzella reale, come si era offerto e vantato.
Il terzo dì fece ordinare la mostra, e scelse quella gente che a lui piacque, e ne fece tre schiere. La prima fu di ottantamila, la più pulita gente del campo. La seconda fu di centomila più valorosi di quelli, e per sè tenne una schiera di settanta mila de’ più valenti, dicendo: «Con questi vincerò, con tutti perderei: se manderò per gente, mandatemi quegli altri in due volte». Fu il Meschino lodato per savio consiglio, e apparecchiata gran roba, circa mille cariche, e molti cammelli carichi di vettovaglie e di trabacche e di padiglioni, partì da Lamech con dodici re di corona, e con ottantamila cavalieri; e tutta l’oste prese il viaggio verso Persepoli.
Passate molte città, Guerino mandò innanzi molte spie per intendere come i Turchi erano forniti, e come ordinatamente si portavano all’arme. Si riposò ad una città chiamata Darida, appresso Persepoli cinquanta miglia, e quivi rinfrescò la gente per alquanti dì. In questo mezzo alcuna delle sue spie tornò, e disse come altre spie avevano fatto sapere al re Galismarte, che erano essi venuti a Darida, e quanta gente erano. Dissero poi come quel re aveva fatta poca stima di loro, disdegnando di venire con cento mila Turchi comandati dal figliuolo di lui chiamato Finistauro contra sì pochi Persiani. Ed usò ancora dire, come il re Alessandro Magno aveva vinto tutti i Persiani e l’India con quaranta mila Turchi. Quando il Meschino sentì tutto questo, fece armare tutti i baroni di Persia, che per tali cose erano impauriti, e parlò a loro in questa forma: «Noi abbiamo da lodare gli dèi, che i nemici facciano poco conto di noi, mentre all’incontro noi facciamo grande stima di loro, e solo per questa ragione la vittoria sarà nostra. La ragione è questa, che noi varremo per tre di loro, perchè chi non stima il suo nemico, non fa buona guardia, ma colui che teme sta sempre avvisato, e fa buona guardia; e udito che d’una gran forza hanno fatto due parti, ci daranno più sicura la vittoria. E noi comincieremo a battere i primi, poi i secondi». Tutti i baroni furono del parere del Meschino, e nella seguente mattina, ordinate le schiere, uscirono fuori di Darida. Venne allora un messo di Persepoli che diede un breve al Meschino, il quale diceva: «V’avvisiamo, che dovete tosto affrettarvi alla battaglia, imperocchè il re Galismarte è stato consigliato che seguiti il figliuolo per pericolo della dubbiosa battaglia, e che egli fa mettere in punto tutta la gente con quattro altri figliuoli, con dieci re, e duecento mila Turchi per venirvi contro da Persepoli».
Il Meschino affrettò subito d’ordinare le sue schiere in cinque parti, e mandò la prima schiera comandata da Tenaur incontro al nemico. Udito il Meschino che la battaglia era già cominciata, passò per tutte le schiere confortandole a combattere, e vide come alcuni cogli occhi rivolti al cielo, le lancie ficcate in terra, e il viso scoperto dimandavano che quel Dio che adoravano, loro desse vittoria, chi facendo voto di sacrificare, chi d’innalzar templi. Il re Aginapar capo d’una schiera, voltato verso levante adorava, e Guerino si volse verso ponente; per cui Aginapar gli disse che egli non adorava francamente. Il Guerino risposegli: «Se le cose del cielo e della terra sono poste sotto un Dio, non monta niente adorar più col volto ad una parte che all’altra, quando s’abbia l’animo rivolto a Dio». Aginapar nulla intese di quelle parole, e si volse verso il campo co’ suoi cento cavalieri, dicendo come il Guerino era un uomo mandato da Dio in aiuto de’ Persiani, e che era figliuolo di Marte Dio delle battaglie. Crescè questa fama, e dicevasi per tutto il campo non potersi perdere la battaglia, mentre che Guerino fosse con loro.
In questo mezzo Tenaur colla sua schiera si trovò rinchiuso frammezzo i Turchi, ed egli, come sogliono i capitani, fece unire insieme tutti i suoi difensori, aspettando soccorso dalle altre schiere. Quando il Guerino sentì che la prima schiera era rinchiusa, spinse avanti quella schiera di cento cavalieri, i quali, arrestate le lancie, si misero in battaglia, e stretti insieme diedero si grande e forte assalto ai Turchi, che apersero la via a Tenaur.
Combattendo le due schiere de’ Persiani colla prima schiera de’ Turchi, entrò in battaglia Finistauro con cinquemila Turchi, e nel giungere uccise il re Aginapar. Guerino fece ristringere insieme tutta la gente, e ordinò che l’ultima schiera prendesse i Turchi in mezzo, e che da due parti l’assalisse furiosamente, e combattesse virilmente; e questi si mossero senza alcun ritegno, e corsero addosso ai Turchi a tutta briglia e con furia; per questo modo percosse il campo nemico nella battaglia. Il Guerino tornò alla sua schiera, e vedutala in ordine di battaglia, fece suonare gl’istromenti del campo, e levatosi a romore, con quei gridi assalì i Turchi, i quali vedendosi da tante parti assaliti, impauriti presero da ogni parte la fuga, perdendo anche le bandiere.
Quando Finistauro vide fuggire la sua gente con tanta fretta, prese partito di fuggir verso il fiume Ulione per non esser trovato a fuggire tra la sua gente. Guerino giunse al padiglione del nemico, e vedendo che i Persiani attendevano a rubare ed empirsi le borse, ed abbandonavano la battaglia, comandò a tutti i re e baroni persiani, che attendessero ad uccidere qualunque persona rubava, insino a tanto che il campo non era vinto, altrimenti saria morto, perciocchè temeva che i nemici non si rinfrancassero e ritornassero alla battaglia. E trovato Guerino un Mamalucco turco, gli dimandò che fosse di Finistauro; fugli detto che fuggiva verso il fiume Ulione per meglio campar la sua vita: disse Guerino a Personico che attendesse alla vittoria ed a raccoglier la gente; ed egli prese una lancia, e andò a Finistauro, perchè non fuggisse e facesse più guerra. In questo frattempo la vittoria de’ Persiani fu grande e la ruberia del campo, e raccolti i signori persiani insieme ebbero grande allegrezza della vittoria, e gran dolore del capitano, pensando che senza lui non potevano sottometter appieno i loro nemici. Molto lodavano la sua prodezza, e le prove che egli aveva fatto, dicendo che trattava con gli dèi immortali, e specialmente con Apollo che l’aveva aiutato nella battaglia, e accampati parte dentro di Darida e parte di fuora per sicurezza della gente, aspettavano il loro capitano.
Seguitando il Guerino la fuga di Finistauro, giunse al fiume Ulion, e vide le pedate del suo cavallo, e che un solo cavallo era passato. E pregò Dio che gli desse grazia di trovare suo padre, e che gli accordasse vittoria contro Finistauro nemico della fede cristiana. E sforzandosi di cavalcar per raggiungerlo, nel tramontare del sole giunse dove il fiume aveva fatto una ghiaia; vide sulla riva un cavaliero che si rinfrescava coll’acqua del fiume, dicendo: «Che dirà il re Galismarte della mia perdita? che diranno Grandonio, Pantaleon, Utinafer e Melidonio, e tutti i franchi signori di Turchia e di Soria?»
Mentre quello piangeva, giunse il Guerino, salutollo, e gli dimandò se era passato un cavaliero di là, nomato Finistauro, figliuolo del re Galismarte. E l’altro disse: — Perchè lo dimandi tu? — Per combattere con lui,» rispose Guerino. Disse Finistauro: — Chi sei tu che il domandi? Avresti tu tanto ardire di combattere con lui? Appena tanto ardire saria competente nel capitano de’ Persiani, il quale dice di esser figliuolo di Marte, Dio delle battaglie». Disse Guerino: — Sappi che io non sono figliuolo degli dèi, e son mortale come sei tu, poichè io sono il capitano dei Persiani. Ma tu chi sei? — Se tu mi lasci metter l’elmo! soggiunse l’altro». Allora il Guerino: — Se mi facessero signore di tutta la Soria, non potrebbero indurmi ad offenderti, se tu non fosti armato; ora francamente puoi palesarti. — Bene, rispose, io fui figliuolo del re Galismarte, ma ora nol sono più, poichè son vinto da sì vil gente qual sono i Persiani. — Dunque sei tu Finistauro?» Rispose egli di sì. — Ora metti l’elmo in testa, disse Guerino, e monta a cavallo che un di noi conviene che qui rimanga morto». Finistauro postosi l’elmo in testa montò a cavallo, tolse la lancia che seco portava quando fuggì dal campo, poi dimandò a Guerino chi egli era, e perchè aveva dato aiuto a così vile gente come i Persiani. — Se ho vinto i forti in battaglia, rispose Guerino, quello che tu hai detto raddoppia la tua vergogna, avendo perduta la battaglia». Disse Finistauro che appunto il non far conto dei nemici lo aveva fatto perdere, e lo richiese perchè egli non serviva il re Galismarte, cosa che farebbe lui onorato e gran signore. Guerino lo confuse con queste parole: «Non venire tu qui per predicare; sappi che io sono tuo capitale nemico, e sappi di più che sono cristiano due volte battezzato; però guardati da me».
In questo modo posero i due cavalieri fine alle loro querele, e minacciandosi l’un l’altro presero del campo, si diedero colle lancie gran colpi, e rotte le lancie, colle spade si volsero alla battaglia. Finistauro assalì il Guerino con gran ferocità, e questi si serrò sotto l’arme ponendo mente a’ modi di quel cavaliere con grande avviso, perchè aveva udito che egli era il più forte cavaliere in battaglia che in quel tempo si trovasse. Dando e togliendo ciascuno molti colpi, si approssimarono ambidue, ed abbandonarono le redini dei loro cavalli, i quali trasportati l’un l’altro, tornavano e venivano a ferirsi con furia per assalirsi ad ambe mani colla spada. I cavalli si drizzarono l’un contra l’altro, per modo che i baroni menando le spade diedero sulle teste de’ cavalli, sicchè Guerino uccise il cavallo di Finistauro, ed egli quel di Guerino. Caduti morti i cavalli ad un tratto, essi si alzarono colle spade in mano, combattendo francamente, e pregando ciascuno il suo Dio che l’aiutasse. Il Guerino diceva: «O vero Dio, Padre, Figliuolo e Spirito Santo, dammi grazia che questo nemico della tua fede io faccia ricredente, e che trovi il padre mio e la mia generazione, acciò io possa adempiere il quarto comandamento della tua legge: Onora il padre»; e in questo dire scagliò un gran colpo a Finistauro. Finistauro si gettò con furia lo scudo dietro le spalle, e percosse Guerino ad ambe le mani con sì gran colpo che lo stordì. Guerino dette poi sì forte sulla testa di Finistauro che gli ruppe l’elmo. Per questo colpo Finistauro gli disse: «O franco cavaliere, pregoti a venire dal re Galismarte mio padre, che pel tuo gran valore ti farà gran signore». Rispose Guerino: «Tu mi domandi cosa che non può essere. Io son quello che uccise in battaglia i figliuoli del re Astiladoro, tuoi cugini, in Costantinopoli, dove era chiamato il Meschino per nome. Pertanto se vuoi salvar l’anima tua, piglia il santo battesimo, poichè ti convien morire;» e detto questo, lo colpì sì fieramente, che Finistauro disperato gridò: «O Maometto, ricevi l’anima mia prima ch’io mi renda per morto a uno schiavo che non so chi sia, e ch’io pigli battesimo:» e con grand’ira riprese il combattimento, ed essendo tanto appresso l’un l’altro, che con le spade non potevano ferirsi, si abbracciarono, e come si furono abbracciati, Guerino trasse l’elmo di testa a Finistauro, e per forza il prese per i capelli e tirollo indietro per modo, che Finistauro cadde ginocchioni, e Guerino gli dette un colpo sul collo, e tagliogli la testa, molto lodando Dio che gli aveva dato vittoria. Poi si pose in cuore di andare così solo e sconosciuto sino a Persepoli per ispiare la verità dei Turchi, dicendo: «Non posso io andare come andò Alessandro a veder la corte di Dario; e come Giulio Cesare andò a vedere gli avversarii suoi; e come Spontorio andò a pigliare gli ordini degli Ambrosi?» Tolse secretamente due gioielli che erano sulla testa di Finistauro, i quali valevano un gran tesoro, poi prese un pezzo della lancia rotta, trassegli l’elmo di testa, e poselo sopra quella lancia, che si mise in ispalla, gettò via lo scudo, e prese il suo cammino verso la città di Persepoli che era appresso quattro leghe. Era circa un’ora di notte.
Camminò Guerino con gran fatica, e passata mezzanotte, arrivò a Persepoli a suo piacere. Trovò gente ch’era campata dalla battaglia, dispersa per la via, chi bestemmiando Maometto, e chi Apollo; chi Trivigante, e chi il re Galismarte, chi piangendo il figliuolo, chi il padre, chi il fratello, ed alcuni dicendo: «Gran pazzia fu quella del re a mandar così poca gente contro il figliuolo del dio Marte: chi saran quelli che potranno durar fatica contro gli dèi?» Alcuno diceva che il re combatteva a torto, ch’egli non aveva alcun diritto in Persia; alcuni dicevano: «Che può essere di Finistauro?» altri dicevano: «Forse egli è tutto tagliato a pezzi;» il Guerino diceva fra sè stesso: «Voi siete esauditi!» e camminò tutta notte fra questa gente. Guerino sentiva la gente che era fuori della città a far gran rumore e beffe di quelli ch’erano stati rotti, e che ritornavano dicendo: «Andate voi a combattere cogli dèi, che il capitano degli Indiani è figliuolo del dio Marte», e questa voce già era tanto sparsa, che le genti di Turchia cominciarono ad aver dubbio della battaglia. Giunto a Persepoli ad un albergo fuori della porta, pregò l’oste che gli desse alloggio, ed ei rispose di non potere, chè l’albergo era pieno di soldati. Lo pregò un’altra volta che lo accettasse, e l’oste che aveva un lume in mano, lo guardò, e parvegli che il Meschino non fosse Turco, per cui gli disse di venire con lui, e menollo nella propria camera, dov’era la sua donna e una sua figliuola molto bella. L’oste vedendolo meglio, si accertò che non fosse Turco, onde mandate le donne in altro luogo, domandò s’egli era stato alla battaglia, ed ei rispose di sì; disse l’oste: «È vero questo che dicono costoro, che il capitano degli Indiani sia figliuolo degli dèi? Rispose Guerino: «Non è vero, imperocchè io l’ho veduto, ed è quasi della mia grandezza, e uomo mortale come son io». Disse l’oste: «Sapete voi che sia avvenuto di Finistauro?» Guerino si strinse nelle spalle, e l’oste fece chiamar la figliuola, e portar da mangiare, e da bere del zibello, perchè non vuole la loro legge che bevano vino. Questo zibello si fa d’acque con spezierie, e con uve secche macinate. La figliuola prese a molto guardare il Meschino, onde suo padre mandolla in un altro luogo, e si fece a parlare con lui della dominazione di Galismarte.
Gli disse come la gente del re Galismarte disfaceva il paese che altri aveva fabbricato: poi soggiunse: «Quando Finistauro andò contra i Persiani, io fui rubato, e quando mi lamentai fui beffato; così non possa egli mai tornare!» Subito si avvide egli aver mal detto, ed ebbe paura. Guerino lo assicurò, e disse: «Non vi fa il re Galismarte buona signoria?» ed ei rispose di no, che la città era mezza in preda: e mentre che diceva queste parole piangeva amaramente. Per questo Guerino con poco di conforto disse fra lui: Io sono ben arrivato per la grazia di Dio»; e confortava l’oste, che offerse al Meschino quello che poteva, dicendo: «Voi parete un uomo dabbene, non avete la ciera di questi Turchi, che sono molto strana gente». Ragionando insieme il Guerino disse all’oste: «Tieni per certo quello che ti dirò: io ho trovato Finistauro morto sulla riva del fiume, e senza testa». E donogli una delle gioie tolte dall’elmo di lui, e l’oste la stimò valere più di quattromila ducati; poi inginocchiossi davanti a lui, lo ringraziò e andò a dormire.
Guerino fatto giorno dimandò all’oste s’egli aveva un vestimento turco, ed egli gli diede un vestimento ed un cappello, con cui andò nella città coll’oste, e vide gran parte d’essa. E mentre che andavano per la città, l’oste s’incontrò con un cittadino il quale era chiamato Parvidas, ed entrò con lui in casa. Questo era uno dei maggiori cittadini della terra, e quando fu in casa, l’oste se gli accostò all’orecchio, e disse come Finistauro era morto. Il Meschino si ricordò della lettera a lui mandata quando entrò nella città di Darida, e Parvidas si voltò al Guerino, dimandò della battaglia come era andata, e dimandò se egli aveva mai conosciuto il capitano de’ Persiani, e questi disse di sì». «Ed io sono tanto servitore, disse Guerino, di quel capitano, che quando entrammo nella città di Darida io lessi una lettera che voi le mandaste dicendo che egli dovesse combattere tosto, perchè il re Galismarte si apparecchiava d’andar in aiuto di Finistauro». Allora disse Parvidas: «Ahimè può essere che egli lo abbia palesato a te». Guerino disse: «Non bisogna aver paura, perchè io son proprio quello che è lui; di suo comandamento e volontà sono venuto per avvisare del fatto di questi Turchi; e però egli sa ch’io venni in questa baronia». Allora Parvidas lo abbracciò e disse: «Quando tu sarai tornato dal tuo signore raccomandami a lui».
Uscito di casa il Meschino fu condotto nel palagio regale dove era la baronia del re Galismarte, vide molti re di corona, tra i quali erano cinque di quelli che erano fuggiti dalla battaglia, tutti dolorosi signori che minacciavan di morte i capitani di Persia. Pensa lettore, se avessero saputo ch’era Guerino in quel luogo ciò che avrebbero fatto! Essendo a vedere questa baronia fu portato il corpo di Finistauro senza testa, e si pianse Abbiamo da lodare gli Dei, che facciano poco conto di noi. molto sopra quel corpo, giurando quattro suoi figliuoli la morte di Guerino per vendetta del padre, e così giurarono molti baroni che erano in sala. E subito dopo si fecero ad ordinare le schiere, le quali il re Galismarte comandò che la mattina seguente cavalcassero verso Darida sulle rive del fiume Ulione, e per la fretta del cavalcare non lasciò nella città alcuna guardia.
Tutte queste cose vide Guerino, e partito dalla corte andò a casa di Parvidas, e pregollo che gli facesse avere un buon cavallo, perchè il suo era morto per la via, e donogli l’altro gioiello più bello che il primo. Queste due gioie erano due pietre preziose che alcuni chiamano rubini, ed alcuni carbonchi. Poscia ritornò dall’oste suo albergatore. Parvidas comprò un grosso cavallo, e la sera glielo mandò, e poco dopo venne egli stesso. Allora il capitano Guerino tenne secreto consiglio con Parvidas e l’oste, e disse loro: «Fratelli miei, voi vedete che la città di Persepoli rimane sfornita di gente, e se il capitano de’ Persiani a cui voglio ora tornare, sentirà questo, che l’oste dei Turchi va verso Darida costeggiando il fiume, egli verrà tanto alla larga dal fiume che essi non se ne avvedranno, e non trovata la gente de’ Turchi verranno a pigliar la città; se egli viene mi dice il cuore che questa città si volterà, e darassi al Soldano. Sappiate, che se questa città si ribella ai Turchi, il re Galismarte rimane disfatto». Disse Parvidas: «Ne aiuti Maometto, nostro iddio, e ne dia tanta grazia che se vediamo una sola bandiera del Soldano di Persia nostro Almansore, tutti quelli di Persepoli gli daranno le terre». Guerino si allegrò di quella risposta, e disse: «Come tornerò dal mio signore, se non so la via costeggiando il fiume?» Disse l’oste: «Io ho un figliuolo che sa tutte le vie di questo paese, egli verrà con voi» e fecelo chiamare. Questo giovane era bello di persona, di anni venticinque, ed aveva nome Moretto: con lui si partì, quando fu mezzanotte, armato delle sue armi. Parvidas poi, e l’oste parlarono a’ suoi amici dell’accaduto, ed aspettavano che la gente venisse alla città per uscir di mano de’ Turchi.
Ognuno dovrebbe essere sollecito nel governo di quelli che hanno a condur gente, ed a farsi obbedire, e domar il nemico con ogni arte e con ogni ingegno, come fecero i nostri antichi. Partito Guerino da Persepoli in compagnia di Moretto, la notte e tutto il seguente giorno camminò pei boschi, selve, monti e valli, e per certe lagune del paese, poco dormendo, e sempre confortando la guida, perchè non si sgomentasse dicendogli che lo avrebbe fatto ricco. Essendo appresso Darida dieci miglia, alla mezzanotte i Sacomani di Persia erravano per le campagne cercando dello strame per i cavalli. Le loro scorte il videro apparire, e quando lo riconobbero levarono grande rumore e gridi di allegrezza pel capitano, del qual rumore tutto il paese ragionava, e tutta la gente d’arme correva per vederlo. I gridi andarono persino a Darida che il capitano loro tornava, e tutti i re e signori montarono a cavallo, e vennergli incontra, e quando lo videro, tutti smontarono da cavallo, i re si cavarono le corone ed abbracciaronlo. Vedendo ciò il Moretto, figliuolo dell’oste, stava come sbalordito, e quando furono all’entrare nella città Guerino il chiamò, ed in presenza di tutti lo fece cavaliere, e fecegli donar molto tesoro. Avendo poi inteso che nella città si trovavano cinquantamila cavalieri venuti dal Soldano, e che nella battaglia erano morti diecimila Persiani, e cinquantamila Turchi, il Meschino chiamò il Moretto, e disse: «Tu sei certo chi io sono, e però affrettati di tornar a Persepoli, e conforta Parvidas e tuo padre, e digli che fra cinque giorni sarò con tutta questa gente a Persepoli». Il Moretto tutto allegro se ne tornò. Guerino fece apparecchiare la sua gente, e partissi da Darida con centomila persone, lasciando fornita la città, perchè sapeva che il re Galismarte veniva. Andò fornito di vettovaglie per dieci dì, acciocchè, se gli fallasse che non avesse la città, non gli mancasse il vivere per la via.
Le genti persiane cavalcando per tre giorni trovarono mala via, sicchè sostennero gran fatica, fra le altre cose per certe lagune di acqua piovana. Onde cominciarono a dir male del lor capitano, e bestemmiare, ed avere paura dei loro nemici, e molti dicevano: «Noi andiamo dritto, e non sappiamo dove»; ed altri: «Sarebbe meglio tornare indietro». Ciò sentendo il Guerino fece fermare il campo, e chiamò a parlamento tutta la baronia, re, duchi, principi e marchesi, e loro parlò in questo modo: «Carissimi fratelli, molto mi duole che siate ingrati contra i cieli de’ beneficii ricevuti. Credete voi che io vi conduca senza buon consiglio? Ma non è lecito che il capitano dica i suoi segreti ad ogn’uomo, perchè quel ch’ei vuol fare non giunga all’orecchio del nemico. Chi mi assicura che in questo campo non vi sieno spie del re Galismarte? Credete voi che io mi sia mosso con grande oste per fare questo cammino indarno? Certo questa andata sarà morte e disfacimento dei nostri nemici. Però senza paura cavalcate e seguite le bandiere del nostro Soldano. Benchè la via ci sembri un poco faticosa, non passeranno quattro giorni che voi sarete tutti ricchi del tesoro de’ nemici».
Così li confortò, e fece comandamento che sulla mezzanotte vegnente, senza suonar istrumento alcuno seguitassero le bandiere. Giunta la notte, si mosse subito tutta la gente senza timore, e nel muoversi venne un cavaliere di Darida, e diede un breve al Guerino. Il breve diceva che i Turchi erano a Darida, e mettevano il paese a fuoco. Guerino non disse niente, continuò il suo viaggio, e nel giorno seguente a ora di vespro giunse a Persepoli. Come quelli della città videro l’insegne de’ Persiani, levarono rumore, corsero per la città, e furono morti ottomila Turchi. Così prese Guerino la città senza un colpo di spada, e comandò subito a’ cavalieri e a tutti i Persiani che andassero dietro al campo de’ Turchi. Nella mattina seguente fece la scelta di ventimila Persiani, i quali presero tutta la vettovaglia del campo de’ Turchi, e il terzo dì ritornarono a Persepoli ricchi di vettovaglie e di carriaggi. Saputo al campo dei Turchi che Persepoli era presa e tutte le vettovaglie e carriaggi, tanta paura entrò nel campo loro, che la notte seguente fuggirono sessanta mila Turchi. Ma il re Galismarte ardito, con furia, e senz’ordine, tornò verso Persepoli non curandosi d’altro consiglio.
Non era ancora entrato nel territorio di Persepoli, che la novella fu portata al Guerino, che i Turchi erano mossi da Darida per tornare a Persepoli; perciò il Guerino fece radunare tutti i baroni persiani, chiamò Parvidas, l’oste e Moretto, e feceli ratificare come era stato a Persepoli in persona, e aveva spiato tutte le cose de’ Turchi. Appresso comandò nella mattina seguente che tutta la gente uscisse fuori della città senza alcun carriaggio, e lasciò dentro lo stesso Parvidas e i cittadini; il Moretto poi uscì dalla terra, e fece serrar le porte e gettar fuori le chiavi delle medesime, e portar appresso alle bandiere. Disse a molti nel campo che aveva fatto quello acciò alcuno non pensasse di fuggir nella città. Poi ordinò le sue schiere per combattere.
Benchè l’animo nostro sia desideroso di molte cose, nondimeno ne brama solamente una, e quando questa viene non si desidera più, e questo è l’ultimo bene il quale, ognuno giunto ad averlo, ha saziato l’animo del suo desiderio. Ma per queste cose mondane molti desiderano cose che intorbidano non tanto l’ultimo bene, ma questi beni vili corporali perturbano, e di ciò l’esempio era nell’oste dei Persiani. Un barone chiamato Tenaur, il quale abbiamo in più parti nominato, o che lo facesse per invidia, o per superbia, o per tirannia, o per ira, o desiderando signoria, non lo so, cominciò a biasimar il capitano, e per molte cose che faceva di sua volontà, e senza consiglio; ed aggiungeva che s’egli avesse avuto la signoria del capitano sopra i Persiani, avrebbe vinto i Turchi. Queste cose furono riportate al Guerino, e per questo il fece capitano della prima schiera, e gli diede cinquanta mila Persiani, i più disutili, e mise questa schiera per perduta. La seconda la diede a Personico nipote dell’Almansore, e al re Arabismonte, ed al re Dodano con cinquanta mila. La terza tolse Guerino per sè, e furono dieci mila, e comandò che nell’oste de’ Turchi entrassero destramente. Il re Galismarte fece tre schiere, la prima diede a Grandonio e Pantaleone con sessanta mila, la seconda la diede a Melidonio e Utinafar, ciascuna schiera aveva cinque re di corona, l’ultima fu il resto della sua gente. E fece comandamento che una schiera andasse dietro all’altra, e si affrettasse a combattere, acciocchè la battaglia durasse poco, e niuno non restasse prigione; con questa superbia e furia si mosse, e facevano i Turchi sì gran rumore, che Tenaur capitano della prima schiera dei Persiani ebbe sì gran paura, che si volle ritirar indietro, se non fosse stato un Persiano che gli disse: «O Tenaur, tu hai detto che pure avresti vinto i Turchi come Guerino? questo non è segnale di prova che ciò sia vero:» ed egli per queste parole si vergognò, e confortò la sua gente a combattere.
Per il troppo parlare Tenaur fu messo tra i perduti, essendo cominciata la battaglia. Egli si mise in quella francamente, ed avviluppate insieme le due schiere, molti d’ogni parte ne morivano. Grandonio figliuolo del re andava per il campo guardando se vedeva il capitano de’ Persiani, e vide Tenaur a vibrar tanti colpi che egli s’immaginò questo fosse il capitano dei Persiani. E andando avvisato per dargli morte, appena il vide, con una lancia diedegli nelle coste, e tutto il passò da banda a banda, e morto lo gittò da cavallo. Levossi il rumore in tutto il campo de’ Turchi come se il capitano dei Persiani fosse morto, il quale era figliuolo di Marte, dio delle battaglie. Per questo il re Galismarte insuperbito, entrò nella battaglia sopra questa schiera nella quale commise una grande uccisione. Quando Personico vide tanta mortalità di gente, mandò a domandar al capitano s’egli doveva allora entrar nella battaglia. Guerino disse di no: ma che sollecitasse le sue genti onde sostenessero più che potessero. Personico corse al conforto di quelli con mila cavalieri. Per questo tutte le schiere de’ Turchi entrarono nella battaglia, e quasi tutti i Persiani della prima schiera si misero a fil di spada, e molto si spandevano per il campo. Veduto, e conosciuto questo, Guerino fece dire a Personico che entrasse nella battaglia, onde assalì il campo da due parti. Guerino ferì da traverso il campo de’ Turchi, e drizzò la sua schiera alle bandiere loro. Allora il re Galismarte trascorse alle sue bandiere, abboccossi con Guerino; e con la spada Guerino gli diede un colpo che gli partì la faccia, e morto lo gittò a terra.
Quando il re Galismarte fu morto, i Turchi non ebbero più difesa, e le loro bandiere furono gittate per terra. Allora i Persiani per allegrezza cominciarono a gridare, facendo grande uccisione, e i Turchi cominciarono a fuggire. Serrata la schiera di Personico con quella di Guerino, misero le loro bandiere in mezzo, cacciando e uccidendo i Turchi per il campo. Impauriti i Turchi mentre che seguiva la battaglia, disse Personico a certi Persiani: «Per certo onore non si acquista, nè per dormire, nè per fuggire, ma per forza d’arme con gran sollecitudine e fatica, ed io cercherò, diceva egli, e con le mie mani ucciderò un figliuolo del re Galismarte», e correndo per il campo gridando e dimandando s’attaccò con Pantaleone, e insieme gran battaglia cominciarono. Pantaleone percosse Personico, e ferito gittollo a terra da cavallo, poi andò verso Guerino, il quale veniva da uccidergli il fratello Grandonio, e diedegli gran colpi credendo tagliarlo a pezzi; ma Guerino si volse a lui, e adirato menogli un gran colpo sopra la spalla manca che gli mise la spada fin alla mammella, e subito cadde morto per terra. Morto Pantaleone, i Persiani seguendo la battaglia ebbero trionfale vittoria.
Poichè i Persiani ebbero ottenuto la vittoria, molti vennero al lor capitano, ed andarono nella città facendo allegrezza della ricevuta vittoria. Guerino del tesoro di Galismarte molto ne donò a molti signori, specialmente all’oste chiamato Amigian, ed a Moretto suo figliuolo; e fece molti con la sua mano cavalieri. Mandò una reale ambasciata al Soldano, significandogli la vittoria ricevuta, e quello che gli pareva che si facesse, pregandolo, che la città e il reame si rendesse alla bella Antinisca. Poi dimandò che gli fosse mandato cinquanta mila cavalieri, con i quali tutta la Soria sino a Damasco torrebbe, cacciando i Turchi d’ogni parte. Dopo di questo Guerino comandò a quelli del paese che attendessero a far consumar i corpi morti, e che i corpi del re Galismarte e de’ suoi figliuoli fossero onorati di sepolture, e tutti gli altri re de’ Turchi e dei Persiani fossero seppelliti, e gli altri fossero consumati nel fuoco, acciò non corrompessero l’aere, e così fu fatto. Fu presentato a Guerino gran quantità di tesoro che era stato del re Galismarte; egli lo prese, e fece venir a sè tutti i baroni, e loro dimandò di chi era quel tesoro, risposero che era suo; egli disse: «Io non ho cercato oro, nè argento, nè altre ricchezze; solamente cerco onore, e grazie dagli dèi», e comandò che fosse partito tra quelli dell’oste. Alcuni signori dissero che sarebbe stato meglio aver mandato quel tesoro al Soldano, ma Guerino disse: «Il nostro signore ha oro e argento tanto che basta, voi avete sostenuto fatiche e sparso il vostro sangue, e però a ogni modo è ragione che sia vostro»; poi attesero a fare festa, ed allegrezza della vittoria.
Stettero a Persepoli due mesi, tanto che ognuno fu bene guarito, ed in capo di due mesi ritornarono gli ambasciatori dei Persiani, che condussero cinquanta mila Persiani, e la bella Antinisca, la quale era allora di tredici anni, accompagnata da duecento gentildonne.
Tornata la bella Antinisca alla città di Persepoli, i cittadini fecero grande allegrezza. Quando Guerino la vide, si accese molto più del suo amore, e disse: «O Dio, dammi grazia ch’io mi possa difendere da questa fragil carne, tanto ch’io trovi il padre mio, e la mia generazione». Ricevuta con grande onore e riverenza, fugli resa la signoria, ed ei la diede per suo governo a tre cittadini dei maggiori, cioè Parvidas, e due altri. Essendo un dì Guerino nella sua camera tra sè stesso si lamentava del cammino che gli restava a fare, secondo la risposta che ebbe dagli Arbori del Sole, che in ponente sarebbe la sua generazione. Essendo in questi pensieri giunse Parvidas, e poichè si ebbero salutato, si presero per mano, e di molte cose ragionarono. Parvidas tra le altre cose gli disse che gli piacesse pigliar Antinisca per moglie, e che ei si facesse signore del reame. Guerino gli rispose: «O nobile amico, a me convien cercare le parti di ponente per comandamento di Apollo, ma prima cacciare i Turchi da tutta Soria». Parvidas tornò ad Antinisca, la quale udita la risposta, subito mandò a dire al Meschino che le venisse a parlare. Egli andò, ed ella cominciò a pregarlo dolcemente, che gli fosse in piacere di non partir da Persepoli, dicendo: «O signor mio, io sperava sotto la vostra spada di esser sicura del regno, che voi m'avete renduto, per questa cagione vi giuro per gli dèi, che come saprò che voi siete partito, con le mie proprie mani m’ucciderò per vostro amore, e se mi promettete che finito il vostro viaggio ritornerete a me, io vi prometto aspettarvi dieci anni senza prendere marito». Disse il Meschino: — Non già, perchè sarete già maritata. — Questo non curo, purchè voi giurate di tornare a me, e di non pigliar altra donna». E mentre andavan ragionando queste parole fra loro, giunse Parvidas, l’oste e il Moretto, figliuolo dell’oste, fatto ricco per virtù del Guerino, ed a questi disse il solo secreto, e come egli cercava il suo padre, e le risposte avute da Apollo e da Diana, e raccomandò a loro Antinisca, e giurò per tutti i Sacramenti di farla sua donna, e legittima sposa in presenza dei suddetti, e non pigliare altra donna che lei, promettendo di tornare fra dieci anni. Così pure essa giurò per la fede del suo Dio di non pigliar altro marito che lui. E questi tre furono testimoni giurando di mai non abbandonarla e di fare guardia alla sua bella persona. Antinisca e Guerino datasi la fede, si abbracciarono. Nella seguente mattina si radunarono tutti i maggiori della città, e fu da tutti deliberato che la bella Antinisca fosse regina di tutto il reame, ma che non portasse corona d’oro fin da lì a dieci anni. E appresso ordinarono che la gente sotto gli ordini di Guerino si mettesse in punto per cavalcare e cacciare i Turchi fuori del paese de’ Persiani. Guerino partì di Persepoli con cento mila Persiani, lasciata Antinisca piangendo, coll’animo di prendere tutta la Soria posseduta dai Turchi.
Note
- ↑ Persepoli è una rarità dell’arte persiana, una fra le più famose e superbe città del mondo, la più magnifica ed altera città che l’impero persiano potesse vantare, quando aveva più distesi e più ampii i suoi confini, e la più bella città dell’Oriente. Era lunga diciotto o diciannove leghe, larga ora due ed ora sei leghe. Aveva circa mille e cinquecento villaggi. Si entrava in essa per una schiera di monti scoscesi ed alti, lunga quattro leghe, e larga due miglia. Si osservano ancora le rovine dei superbi edifizi che abbellivano quelle alture. Sono ancora osservabili le mura del palazzo degli antichi re di Persia, detto Chil Ulinar, ossia quaranta colonne.
Egli è una maraviglia, come ce lo descrisse il signor Le-Brun e Giovanni Chardin, e rivelano la magnificenza persiana. Le processioni che sono disegnate ne’ muri, i vasi, e gl’infiniti geroglifici hanno fatto credere che questo fosse un tempio di Numi. Checchè sia, queste figure s’accordano molto cogli abiti degli antichi Persiani. Questo palagio chi lo vuole edificato da Ciro, chi da Dario, chi infine da Serse. Questo superbo edificio veniva circondato da tre muraglie, delle quali la prima giugneva all’altezza di sedici cubiti, come pure la seconda e la terza veniva formata in guisa di quadrangolo dell’altezza di sessanta cubiti, tutto di marmo. Ne’ quattro suoi lati v’erano porte di rame, presso cui si vedevano certe cortine a palizzate dello stesso metallo, alte venti cubiti, e levate a questo segno per recare spavento a coloro che le guardassero ad Oriente. Alla distanza di circa quattrocento passi v’era un monte dove si seppellivano i re, perciò detto Monte Regio. Siffatti sepolcri erano scavati nel mezzo della rupe dove si eran formati molti appartamenti senza alcun passaggio, poichè le casse de’ cadaveri si collocavano dentro con certe macchine.
Alessandro fu quello che appiccò il fuoco al palazzo per consiglio di Taide. Gli scrittori dissentono fra sè se allora fosse stata anche annichilata la città, oppure solo saccheggiata. Però Curzio dice: «La città di Persepoli non fu ristorata nè rifatta; nè di essa restò pedata ed orma, onde si potesse conghietturare ove si fosse stata ella mai, salvo il fiume Arasse che scorreva presso ad essa». I soldati di Alessandro passarono a fil di spada tutti gli abitatori, e riportarono via una quantità di tesoro. Alessandro dovette farsi somministrare dalle vicine contrade i muli e le bestie da soma, tra le quali oltre a 3000 cammelli per trasportarne il bottino, fra cui Ti erano 120,000 talenti d’oro.
Vedi ora la confusione dei principii degli scrittori del medio evo, l’amalgama delle idee religiose, e la crassa ignoranza in cui erano del mondo antico e del nuovo.