Guerino detto il Meschino/Capitolo XIII
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CAPITOLO XIII.
Il Meschino va nella Persia in traccia di nuove avventure.
Il Meschino cavalcò molti giorni dopo per un bellissimo paese, pieno di belle castella e di villaggi, ricco di bestiame e di gente, e vide molte città, fra le quali Arcusa, la quale in tutte quelle città è donna, cosicchè da essa si chiamano Arcusiani gli abitatori di tutto quel regno. In questo paese nasce la maggior parte delle spezierie che a noi vengono di levante, come le noci moscate, la fina cannella, e il fino indaco, e ogni cosa che nasce in quel paese è il più fino del mondo: ed ogni simil cosa che si traffica, chi la conduce ai porti d’Arabia, che è sul mar Rosso, e chi ai porti del prete Janni in India minore, e chi ai porti di Persia, ma la maggior parte si conduce ai porti di Babilonia e d’Egitto, e di là vanno carovane di cavalli al Cairo, e molti generi entrano nel Nilo, il quale è il maggior fiume del mondo, e poi si trasportano ad Alessandria, dove vanno i navigli d’Europa per esse spezierie. In questo paese son molti cristiani, ma la Signoria è composta di pagani, idolatri e Saraceni. Stette quivi il Moschino per suo diletto quaranta dì, poi andato a Canel, che è città e porto di mare, montò sopra una nave per andare a vedere l’isola Blombana.
Navigando, il primo dì si levò una fortuna da cui scamparono tra cinque isole disabitate, dove stettero quarantacinque giorni, che mai non poterono sortire. Ripreso il cammino, come il mare tornò in bonaccia, andarono all’isola Blombana, nella quale vi sono dieci città e cento castelli murati. I nomi delle città son questi: la prima che è nel mezzo, ha nome Galabise, e questa signoreggia tutta l’isola in questa forma: che dodici uomini eleggono di sei mesi in sei mesi di ciascheduna città, uno di questi dodici fanno imperatore, il quale è capitano sopra gli undici, e non tengono ufficiali di guardia in niuna terra, che sia di quell’isola, ma mandano di questa in quella a comporre e mantenere i benefici provvedimenti. Le altre città hanno nome Porto Jafanzon, Amorsa, Malbiar, Magna, Daridune, Ulipandargli, Porto, Bocana, e Jonahana decima. L’isola Blombana ha molte acque dolci, grandissimi fiumi e gran montagne, tra le quali una è chiamata monte Galabis, che è sulla marina verso l’India. Dimandò il Meschino che fede era la sua, e gli fu detto che vi erano cristiani, saraceni e pagani. Della fede non vi si fa questione, ognuno tiene qual fede gli piace, salvo che niuno non può, poichè l’ha presa, rinnegare, perchè v’è pena di fuoco. Chi giunge in quell’isola e volesse abitarla, tiene qual fede vuole, ma quella convien mantenere, e questa legge è fatta per reggere l’isola, acciocchè gente di ogni fede vi possa mercantare. Maraviglia è, disse il Meschino, che Persiani ed Arabi non sieno d’accordo a cacciar i Cristiani. Risposero che se lo facessero, sarebbe guasta l’isola, e le mercanzie dei Cristiani d’India loro non perverrebbero; tutta Persia e l’India sono perciò contenti di un tale reggimento dell’isola per le mercanzie. A dire del loro colore, queste genti son negre più che l’altra gente di levante, e di comune grandezza.
Stette quivi un mese ad abitare, e più per udita che per veduta seppe l’esser dell’isola, la quale gira d’intorno mille e duecento miglia. Partissene quindi, e verso la Persia navigando n’andò, giurando, se il ginocchio faceva forza, cioè caso che egli potesse andar per terra, non avrebbe mai tentato il mare.
Arrivato il Meschino nelle parti di Persia in una regione chiamata Semiramide, dimandò subito d’andare a Lamech1, e fra molti dì passando molti paesi disabitati, giunse a quella città, dove era il gran Soldano di Persia con gran gente seco, che era venuto a visitar l’Arca di Maometto, insieme all’Argalifo, che è il loro papa. Il Meschino non avendo trovato dove alloggiare, n’andò a corte; un gentiluomo l’accolse cortesemente, e dettegli alloggiamento per lui e per i cavalli in casa propria. Costui aveva nome Ponedas, il quale mentre era a tavola col Meschino dimandogli del suo essere, ed il Meschino per rispondere a tanta cortesia, gli disse sotto coperto parte della sua fortuna, ed il gran paese che aveva cercato, e come era già stato agli Alberi del Sole. Il gentiluomo si fece gran maraviglia che egli avesse cercato l’India e combattuto con fiere, e che avesse veduto gli Alberi d’Apollo. E come ebbero entrambi mangiato, Ponedas condusse il Meschino innanzi all’Almansore di Persia, ed in presenza di molti baroni gli s’inginocchiò davanti, e disse: «O magno imperatore, perchè ognuno che abbia qualche grande allegrezza la deve palesare al suo signore, però voglio che voi abbiate gioia ed allegrezza, come ho io avuto; che a me non parrebbe buono non avendone voi pure la vostra parte. Ora m’udite quel che m’ha detto questo gentiluomo, e quanti paesi egli ha cercato». Allora il Meschino s’inginocchiò all’Almansore, il quale lo fece su drizzare, per cui il Meschino salutollo da parte degli dèi, pregandoli che avessero guardia della persona di lui e della sua signoria. L’Almansore gli disse: «Dimmi franco in che parte tu sia stato». Il Meschino così rispose alla corona: «Questo gentiluomo mi ha fatto onore, ed io gli ho detto le mie fatiche, come ho io cercato la Media e parte della Tartaria, e ciò che io ho fatto in India, dicendogli con quanto fiere ebbi a combattere, e come finalmente sono stato agli Alberi del Sole», e tutto quello raccontò al Soldano che aveva raccontato a Ponedas, ed ognuno maravigliò credendo a quanto egli diceva, salvo un barone, il quale vedendo che gli altri avevano compassione delle fatiche di lui, n’ebbe invidia. Forse la fortuna aveva apparecchiato questo contrasto del cavaliere alle parole del Meschino per fargli maggiormente onore. Mentre adunque eragli fatto grand’onore da tutti i baroni, quel cavaliere si levò e dissegli gran villania, chiamandolo ubbriaco, falso, e che andava truffando il mondo perchè si vantava aver veduto gli Alberi del Sole e della Luna. Il Meschino per queste parole si tenne vituperato, e temendo del luogo dove egli era, inginocchiossi all’Almansore Soldano, dicendo: «Alta corona, quel che ho detto è la verità, e se voi non mi lasciate far torto, io sosterrò con la mia persona che quel che ho detto, è proprio la verità». L’Almansore gli domandò come aveva nome, ed ei per temenza di essere conosciuto, celò il nome usato e pronunziò quello che egli aveva udito agli Alberi del Sole. Perciò disse: «Io ho nome Guerino, cioè uomo di guerra». Il che udendo, molti ne risero. Ma il re assicurò il campo, e disse a lui: «Non temere, chè io sarò tuo campione». Il Meschino allora gettò il guanto della battaglia in terra, soggiungendo: «O gentiluomo, voi mi avete accusato di bugia, ed io vi sfido in battaglia, e per forza d’arme vi proverò che quel che ho detto è la verità». Il barone rispose con isdegno che egli non avrebbe combattuto con un ubbriacone, e di sì vil condizione, e disse perciò ad un suo servo; «Piglia il guanto, e combatterai tu con lui». Il Meschino nol lasciò torre, e gli impose che il togliesse ei medesimo come principale, il quale dovette a ciò ubbidire. L’Almansore comandò che in quel proprio dì fossero eglino armati, e diede ordine a’ siniscalchi che in piazza fosse ordinata la battaglia. Di questa battaglia per suo onore fu il Meschino più allegro, che se avesse acquistata la signoria di venti città. Confortato dall’Almansore a non temere nè oltraggio nè torto alcuno, e condotto da un siniscalco nella sua stanza, questi mandò subito pel suo cavallo e per le sue armi, e con altri gentiluomini, che erano lì, l’aiutò poi ad armarsi. In questo tempo giunse uno da parte dell’Almansore, dicendo che in piazza era apparecchiato il luogo di combattere, e che l’Almansore parlando coll’argalifo diceva che Tenaur aveva troppo parlato male, e che aveva fatto vergogna alla corona. Alle quali parole il Meschino si rallegrò molto, veggendo come Tenaur fosse poco ben voluto; e come fu armato venne sulla piazza accompagnato da cinquecento armati.
Quando il Meschino giunse nella piazza, vide l’argalifo e l’Almansore ad un balcone grande del palazzo per vedere la battaglia. Poco stette che giunse in piazza Tenaur con grande moltitudine d’armati. Ciascheduna parte stava dal suo lato della piazza, e dato il segno, il siniscalco disse al Meschino: «Combatti francamente che tu sei alla mia guardia». Quindi si mossero colle lancie in mano, e si diedero due sì gran colpi, che i cavalli furono per cadere, e ruppero le lancie; pure Tenaur ebbe la peggio per sè. Il Meschino essendosi volto colla spada, vide il suo avversario molto spaventato. L’Almansore e l’argalifo quando videro il Meschino ritornare alla zuffa con tanto animo, dissero questo essere miracolo fatto per lo dio Apollo, e perchè egli era stato agli Alberi del Sole. Quando il Meschino trasse la spada, pregò Dio che gli desse vittoria e grazia di ritrovar suo padre, e andando contro Tenaur, questi gridò al Si mossero colle lancie in mano e si diedero due sì gran colpi. Meschino: «Renditi a me e farotti signore di una bella città, e ti salverò la vita per il tuo valore. Imperocchè dee l’uomo valente onorare le promissioni degli dèi, e forse per questo gli dèi ti aiuteranno». Il Meschino rispose in questo modo: «Tutte le cose son fatte al governo dei cieli; quale stoltizia è quella di contraddire alle cose fatte dal sommo Fattore? E tu, cane, senza fede, pieno di pessima invidia, perchè in presenza di tanti migliori di te, contrastare alle sacrate cose della fortuna?» A queste parole Tenaur adirato si mosse contra il Meschino con tutta quell’ira con che è solito mostrarsi colui che con superbia e senza ragione contrasta alla verità. Tenaur percosse il Meschino, il Meschino gli rendette la pariglia; quegli tornò ancora sopra di lui, e questi, temendo che egli non fosse più valente che non era, spinse verso di lui il cavallo animosamente, e con ambo le mani gli menò addosso la spada per dargli la morte. Il suo cavallo si drizzò ritto con tanto impeto che spezzò la testa al cavallo di Tenaur. Questi rimase in piedi, onde il Meschino arditamente saltò in terra dal suo cavallo, e colla spada alla mano gli andò contra. Tenaur vedendosi a brutto fine, tutto impaurito si gettò ginocchioni, e domandò al Meschino di grazia la vita, dicendo: «Ho fallito contra di te e contra gli dèi, e sopra tutto contra Apollo». Il Meschino, che pensò di non essere in luogo da farlo battezzare, donogli la vita a condizione che dicesse dinanzi all’Almansore di aver fallito, e si chiamasse mentitore e falsificatore della verità. E così Tenaur gli giurò di fare. Senz’altro comandamento Tenaur si mosse a piedi, ed il Meschino a cavallo, e venuti fino alla scala del palazzo, questi smontò, e menò l’avversario dinanzi all’Almansore ed all’argalifo il papa, e postosi ginocchioni, si chiamò reo in quello che il Meschino voleva, per avere la vita da lui.
Poi il Meschino cominciò a parlar alto: «O alto imperatore, che stoltizia è di molti che vogliono giudicare i fatti del cielo empireo dove il gran Dio ha posto la sua sede, del cielo dove riposano i suoi eletti, del cielo di Giove, Saturno, Marte, Apollo, Venere, Mercurio, e della volgente Luna? Considerando come è difficile a conoscere il poco spazio di questa parte già eletta ad essere abitata e calpestata coi piedi, come potremo noi conoscere le cose e luoghi dove non possiamo noi andare se non per la morte? Però è detto beato quello che raffrena la lingua ed è discreto nel parlare di ciò che non sa e non può conoscere». Dette queste parole si fece l’Almansore appresso di lui, fecelo seder al suo lato un gradino più abbasso, e compartigli grandi onori. Il Meschino gli dimandò la grazia di vedere l’arca di Maometto e la sua Moschea. L’Almansore accennò col capo di sì, e nella seguente mattina comandò che fossero apparecchiati i sacerdoti per far riverenza all’arca di Maometto2.
Tutta la baronia si rallegrò appena sentì che l’arca di Maometto si mostrava. E nella seguente mattina si radunarono insieme molti gentiluomini e baroni, i quali facendo corteo all’Almansore che aveva il Meschino per mano, si portarono alla Moschea, che è una chiesa rotonda e molto alta, ma minore di Santa Maria Rotonda, la quale è nella città di Roma. Il Meschino osservò esattamente come la detta chiesa era fatta. Era intorno infino al mezzo bianca, dal mezzo in su tutta nera. V’era in essa una cappella, la quale intorno era tra il bianco ed il nero con una lista rossa, ed aveva due finestre tonde, una verso levante, verso ponente l’altra; ed in mezzo di questa cappella era un bel vaso fatto a modo di una cassetta di ferro, la quale nell’arena stava sospesa, e non toccava da niun lato. Allora egli intese gl’inganni di Maometto, perchè vide che la parte dal mezzo in su della moschea era di calamita, la quale è una pietra marina, di colore tra nero e bigio, che gode della proprietà di tirare a sè il ferro per la sua frigidità, e di più toccando la punta d’un ferro leggiero che abbia da ogni parte la punta, e mettendo il ferro in bellico, quella parte che avrà tocca la calamita si volgerà a tramontana; però i naviganti vanno colla calamita sicuri per mare. Per questa ragione l’arca di Maometto è di ferro e sta sospesa, essendo tenuta dalla calamita, ed alla grossa gente, che non sa questa virtù, pare gran miracolo che la stia in aria.
Si gettò l’Almansore tre volte col viso in terra, dicendo che egli non era degno di vederla, e tutti gli facevano veramente l’onor che merita, perchè essi ascondono la più bella cosa che facesse Dio all’uomo appresso l’anima, cioè ascondono a Maometto il volto, e mostrangli il culo che è la più brutta cosa del corpo dell’uomo. Vedendo il Meschino ognuno gettarsi per terra, volse le spalle all’arca, e voltato anch’egli il viso in terra, ingegnossi di alzare le natiche per più dispregio, come a così fatto ingannator si conviene. E la sua orazione fu questa: «O maladetto seminatore di scandali, la divina giustizia dia a te degno merito delle anime che tu hai fatto e fai perdere per la tua operazione». Mentre ch’egli faceva così la sua orazione, fu chiamato e preso a furia, e menato innanzi all’argalifo, il quale dimandò perchè teneva volte le spalle a Maometto, dicendo che egli era degno di morte, conciossiachè egli fosse gabbator di Maometto. Udendo il Meschino le costui parole, e conoscendo le menti bestiali di quella gente, gli parve esser giunto a mal punto, e rispose che quello che egli aveva fatto, l’aveva fatto sol per riverenza, perchè non gli pareva cosa degna che un misero peccatore, come era egli, stesse voltato col viso a così santa cosa come era l’arca di Maometto, e che egli non meritava di vederla, affermando ancora, per sua divozione avere fatto così agli Alberi del Sole per venerare più la loro santità.
Per queste parole fu liberato il Meschino da ogni timore, e fu chiamato santo nella fede maomettana.
Partito l’Almansore ed il Meschino con lui, all’uscire della moschea, nella quale non può entrare niuna femmina, vide certi che si avevan fatti cavar gli occhi per amor di Maometto, per non veder mai più cosa niuna, poichè avevan veduta l’arca di Maometto, di cui al mondo non era cosa più santa. Il Meschino rideva della loro stoltezza; e udì ancora dire che alcuni si fanno mettere sotto le ruote de’ carri, e fannosi uccidere, dicendo ch’e’ lo fanno di volontà per l’amor di Maometto. I loro corpi sono portati nelle loro patrie, e dicono quelli esser santi in compagnia di Maometto. Il Meschino per queste parole aveva fra lui piacere, ma rincrescevagli delle anime loro, che si perdevano così miseramente.
Note
- ↑ Da quanto si dirà dopo vedrassi chiaramente, che Lamech sta per la Mecca.
- ↑ L’autore si tiene alla volgare opinione che Maometto sia stato sepolto nella Mecca, quando invece lo fu a Medina. Non sarà discaro a’ miei leggitori leggere quanto di questo tempio e del sepolcro di Maometto scrisse, Gabrielle Bremont circa il 1700 nella sua opera: Descrittioni esatte dell’Egitto superiore et inferiore, lib. 1, c. 30. «Questo tempio, egli dice, è fabbricato come quello di Gerusalemme, non così bello ma ricchissimo; tutto coperto di marmi fini come diaspro verde, lapislazzoli, ed abbondanza di agate, ed in più luoghi lastre d’oro d’argento, in particolare nelle congiunture più riguardevoli. Si dice per certo che vi siano ventimila lampade da accendere, mentre vi sono i pellegrini; e molti vasi in cui fanno ardere odori aromatici. Il sepolcro di Maometto è una cappella fatta in forma di torretta o fabbrica tonda, con una cupola che i maomettani chiamano Turbè. Quest’edifizio dal mezzo in su verso la cupola è aperta, e all’intorno vi è una piccola galleria o ringhiera: la muraglia è piena di quantità di finestre che hanno gelosie d’argento. La parte inferiore della torretta è apparata, e arricchita d’oro e gioie, sopra tutto dove risponde la testa del sepolcro, di valore inestimabile, mandate dai principi maomettani in tanti secoli.... La porta per dove s’entra alla galleria è d’argento, e così quella per la quale s’entra nel Turbè, ove si scendono alcuni scalini per andare al sepolcro. I pellegrini non vedono questo sepolcro perchè è chiuso, e vi bisogna la chiave d’oro per iscendervi: e non lo possono vedere che per la galleria, essendo coperto per ogni lato dal padiglione ed altri ornamenti. Ma, passata la folla, quei che risiedono in Medina, per favore lo possono vedere ed entrarvi.... È questo sepolcro di pietre concie, rivestite di marmi finissimi, posato nel mezzo di questa torre a terreno piano, lungo sette piedi, largo quattro, avendo verso la testa una colonna di diaspro scannellata, sopra la quale vi è un turbante verde, e verso i piedi vi è un’altra simile; e su questa continuamente si abbruciano odori soavissimi, come balsamo e legno di aloe. Sopra questo sepolcro, verso il suo mezzo, vi è un pezzo di marmo che si leva segretamente, e sotto di esso è un forame, per cui può passare un braccio e un cereo acceso, per vedere dentro una testa di morto che non ha che quattro denti. L’osso d’una coscia, e gamba, ed alcune vertebre tarlate stanno separatamente; e questo è il residuo del corpo di Maometto. Vi sono attorno al gran sepolcro più lampade d’argento che ardono notte e giorno: e sopra un baldacchino d’oro ricamato di perle, e sotto di esso sopra il sepolcro, si pone il padiglione, che a tale effetto si porta ogn’anno da Damasco, riportandosi il vecchio al Gran Signore. Dal lato di mezzogiorno, nel muro sotto la galleria, che sporge in fuori per reggere la balaustrata, v’è una pietra di calamita, grossa tre dita, di due piedi in quadro, la quale è attaccata con quattro grossi rampini d’argento; e sotto di essa si vede una mezza luna d’oro con le punte rivolte in alto; nel mezzo della quale vi è un chiodo grosso come un dito, che tirato dalla calamita si tiene sospeso per aria fra la calamita e la cassa. In questa mezza luna sono incastrati diamanti ed altre gioie di gran pregio. Questo è il tanto decantato miracolo del sepolcro di Maometto, che ai maomettani idioti e più zelanti cagiona estasi furiose: perchè alcuni si fanno crepare gli occhi per non vedere dopo ciò cosa alcuna. «Di questo tempio, o meskita, gettò le fondamenta lo stesso Maometto nella sua trasmigrazione dalla Mecca in Medina, tempo da cui i maomettani cominciano a computare gli anni dell’Egira. Il tempio della Mecca, assai famoso presso i maomettani per essere in quella città nato Maometto, vogliono che sia stato innalzato a Dio dalle mani d’Abramo, più degnamente del tempio di Salomone. Non è meno ricco del tempio di Medina, nè meno privo di superstizioni. Basta il dire che nell’entrare di questo tempio, che essi chiamano kaabe, cioè casa quadrata, si vede vicino alla porta una pietra grossa come la testa d’uomo, che dicono essere scesa dal cielo, che altre volte era bianca, e che per i peccati degli uomini sia diventata nera. Questa pietra è in gran venerazione, perchè dicono che quando Abramo fabbricava con le sue mani questa casa a Dio, era sopra queste pietra che si alzava ed abbassava, secondo il bisogno, acciò non vi lasciasse alcun bugio, o altro mancamento ne’ muri. Quello che bacia il primo questa pietra nel tempo del Salamè, che è dopo la preghiera del Kous Klouk, il venerdì che s’incontra ne’ tre giorni che stanno alla Mecca, è riputato santo, ed ognuno procura di baciargli i piedi, e vi si affollano in modo, che, se non si salva in luogo di difesa, sarebbe soffocato.
Delle superstizioni maomettane molto sarebbe a dire, basta il leggere la storia delle tanto svariate sètte di quella religione, e conoscere i riti e le costumanze, per essere convinti che tutto ciò che va soggetto ai sensi degli uomini, partecipa alla loro originale imperfezione. Quanto avvi di ridicolo e di stravagante, che i maomettani non facciano nella loro peregrinazione alla Mecca! Vorrestù perciò deridere il Corano ed il pio maomettano, che comprende la sua religione in questo assioma: Non v’è Dio fuori di Dio, Maometto è l’apostolo di Dio? Vorrestù aver meno venerazione al Vangelo ed alla religione cristiana, per quelle peregrinazioni in Terra Santa, o perchè una volta bastava andare a Roma e a San Jacopo di Campostella per lavarsi l’anima da qualunque più brutto peccato? Deridere la religione altrui, perchè essa non è la nostra, è ingiustizia o barbarie dei tempi.