Dizionario moderno (Panzini)/Pareri

Pareri

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Queste sono le risposte alla prefazione che a modo di inchiesta ampiamente diffusi fra persone autorevoli ed amici. A parte le benevoli parole di approvazione e di elogio — non dirò pel dizionario, chè esso non si poteva giudicare da un semplice foglio di saggio, ma per l’idea di questo nuovo dizionario — io penso che le presenti risposte formino una lettura molto attraente ed utile per chi voglia studiare quale è lo stato presente della lingua italiana. Le opinioni più disparate (come del resto era da aspettarsi) vi sono espresse: raccoglierle in sintesi mi parve cosa difficile e non utile.

Tuttavia mi piace di notare una cosa in cui tutte queste opinioni concordano: cioè un grande e sincero amore per la gloriosa nostra favella italica e una viva fede nel suo divenire, quale ne sia l’evoluzione formale e comunque si giudichi del suo stato presente.

Ai cortesi che mi od orarono delle loro risposte qui si ringrazia da parte dell’Editore e mia.


.....Credo impossibile negare l’opportunità e l’utilità dell’impresa tentata da Lei, che conosce per le ottime prove fatte nel campo della prosa d’arte, italianamente viva e schietta e veramente moderna. Anche sono innegabili le difficoltà dell’impresa stessa; ma dal saggio che ne ho veduto, mi sembra ch’Ella sia preparato a superarle, almeno in gran parte, sì che tutto induce a credere che il Suo ardito tentativo riuscirà, oltre che opportuno e vantaggioso, nella esecuzione sua anche felice.

Nel più dei criteri esposti e dei nobili sentimenti altamente significati della Prefazione e applicati nel saggio, mi par difficile non consentire. Solo troverei consigliabile che Ella, pur senza atteggiarsi a legislatore e, come dice, a frustatore, a gabelliere della lingua, nell’accogliere le troppe forme esotiche, mostruosamente foggiate, perchè innaturali e talora illogiche, imposte dalla tirannia dell’uso, ma anche dalla passività colpevole degli Italiani, cercasse più spesso il modo di esprimere un giudizio severo, anzi un’aperta disapprovazione, insistendo sul dovere di accettare come moneta legale, solo i neologismi «spuntati sul ceppo italico», o, per giusta e necessaria analogia, anche da altri.

Ella ha fatto bene a non voler dare al suo Dizionario un carattere scientifico, ma penso che non avrebbe fatto male, se si fosse mostrato più impersonale ed oggettivo, resistendo alla tentazione di aggiungere tanti commenti, i quali, pur essendo giusti in sè e sagaci, ingombrano senza bisogno e, senza bisogno possono urtare lo suscettività di una parte dei lettori. Ad esempio: sotto Vaticano a scomuniche del V., [p. 570 modifica]fulmini d. V. soggiunge: «Cui il pensiero moderno ha fatto da parafulmine». Era proprio necessaria quest’arguzia, trattandosi anche di res judicata e dimenticata? Pontificante il veramente Pio X, chi può sognarsi di farne un pontefice fulminatore?

Delle spiegazioni e osservazioni comprese nel Saggio avrei ben poco a dire. P. es., sotto Vasello si cita il dantesco Vasel d’ogni froda e si avverte «non si intende piccolo vaso». L’avvertenza mi pare per lo meno arrischiata. Che vasello sia forma di diminutivo, non è dubbio, e che Dante l’usi in significato diminutivo è provato dal noto esempio del Purgatorio, II, 41, dove egli parla del «vasello snelletto e leggero» (noti l’insistere sull’accezione diminutiva col secondo aggettivo snelletto), cioè della barchetta dell’angelo nocchiere. Che poi la «fortuna» di questa parola abbia trasformata e ingrandita la barchetta sino a farne un grande legno, anche da guerra, un vascello, è un altro conto. La trasformazione è posteriore a Dante. Non mi pare poi difficile conciliare questo significato diminutivo col concetto voluto esprimere dall’Alighieri nell’inf., XXII, 82, dove dice di frate Gomita «vasel d’ogni froda». Basta intendere che l’anima di quel barattiere era come un vasetto che accoglieva l’essenza d’ogni frode, la quintessenza della frode. In tal caso il diminutivo conferirebbe un singolar valore d’ironia sanguinosa al battesimo d’infanzia che il Poeta gli affibbia. E badi che altrove (Parad., XXI, 127) Dante per designare San Paolo con «gran vasello», sentì il bisogno di temperare quel vasello strappatogli forse dalla rima, premettendogli un grande.

Ma questa ed altre simili sono inezie, che non scemono il pregio del Dizionario, al quale auguro la migliore fortuna. E al benemerito autore stringo cordialmente la mano.

VITTORIO CIAN.




...Per farsi un giusto concetto del suo Dizionario moderno forse non basta il saggio ch’Ella ne invia, ma che, per mio conto, ho letto attentamente. Se però, come mi par di rilevare da esso e dal Discorso preliminare, di tante voci straniere, indispensabili o soverchie, e di molti vocaboli o significati nuovi Ella non intende farsi apologista, ma semplice registratore «come un notaio che fa un inventario», mi pare che il lavoro suo debba sempre riuscir utile, come in molti casi è curioso assai, specie là dove mostra che stendiamo la mano a limosinare ciò che possediamo. Piacemi pertanto che in molti casi Ella alla voce straniera e corrotta contrapponga l’uso paesano e retto.

Ad ogni modo mi sembra che questo specchio del parlare e dello scrivere, non dirò italiano ma d’Italia, nel principio del secolo XX, debba riuscire accetto ed opportuno, anche perchè mette in chiara luce, senza pedanteria arcigna, molte brutture, dalle quali volendo, potremmo liberarci. E se non altro rimarrà il vantaggio di trovar in esso la spiegazione e la derivazione di voci straniere, che si usano e si leggono senza averne una precisa notizia.

Avrei da farle qualche osservazioncella. Che la moda propriamente detta cominciò col secondo impero, avrei qualche dubbio. Poco più oltre Ella ricorda la piavola di Francia, che è del secolo XVIII. Ma io che sono più vecchio di Lei, credo di poter dire che la cosa è più antica, sebbene allora arrivano al massimo di potenza. E già ai suoi tempi il Parini non rimproverava a Silvia di obbedire alla moda d’oltralpe, anche alla meno imitabile?

A tutto l’articolo poi «Vestito» si potrebbe desiderare minor brevità e miglior distribuzione.

Meritava registrarsi il Vient de paraître, quando parve per le sole pubblicazioni francesi? e se è comunissimo, particolarmente per le italiane, il Novità.

A Versante potevasi aggiungere oltre Acquapendente, anche Acquapendere, e di più. Spartiacque.

A Virare potevasi aggiungere il modo comune: Girar di bordo.

Dirimpettaio lo sentivo a Firenze, per scherzo, verso il ’48 o ’50, cioè prima che lo «escogitasse un manzoniano».

Ma basta di queste pedanterie, e mi creda



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.... Trovo la prefazione una magnifica cosa, per le idee che esprime e per l’incisiva scultoria scintillante forma con la quale sono espresse. Credo che il Nuovo Dizionario da Lei compilato con così larghi e acuti intendimenti riuscirà un’opera di vittoria.




.....Accanto alla vecchia lingua venerabile vivo per noi la necessità quotidiana di un’altra lingua sempre nuova, sempre in via di arricchirsi e di mutarsi, e che non è italiana. Che ne facciamo? Bisogna prima di tutto che noi prendiamo a conoscerla con sicurezza, perchè, in ogni caso, non ci si comporta bene verso ciò che si conosce male. Ci ha pensato Alfredo Panzini, sano e arguto novellatore, nel quale nessuno finora avrebbe sospettato un vocabolarista in potenza. Vocabolarista egli s’è fatto per ragion di buon senso. Vivendo a Milano, nel maggior centro commerciale e industriale d’Italia, dove si diffondono prestamente nella parlata i nomi di cose e di costumi che vengano d’oltralpe, senza trovare gran resistenza in un tenace uso locale, il Panzini trovò che di codeste innumerevoli espressioni nuove e forestiere, come di modi correnti derivati da detti greci, latini o dialettali, neologismi della scienza, della politica, del giornalismo, della moda, dello sport del teatro, della cucina, i più fanno libero uso senza saperne esattamente il valore, l’origine e spesso nemmeno l’ortografia. E si accinse a fare ciò che, in verità, è strano che non sia già stato fatto: un Dizionario moderno (Milano, Hoepli) in cui siano registrate e spiegate le voci che mancano nei dizionari italiani della lingua pura. Del lungo lavoro il Panzini manda attorno un saggio e domanda agli amici il loro parere. Io rispondo in pubblico che la sua idea, intanto, è eccellente, checchè altri ne possa dire; perchè, barbare o no, scorrette o no, le locuzioni registrate nel suo dizionario, appartengono alla pratica comune, sono fatti linguistici che è impossibile negare e che sarebbe stolto disprezzare: sono espressioni del nuovo pensiero, del nuovo sapere, delle nuove usanze di tutti i paesi civili, e formano un piccolo vocabolario universale di cui anche l’Italia, anzi più che l’accademica tradizionale Italia ha bisogno.

I pedanti, i quali credono sul serio che i vocabolari siano i codici legali e non gli indici anagrafici della lingua, si scandalizzino a posta loro: il pubblico sarà ben contento di trovare finalmente spiegate in un libro autorevole tante espressioni che la moda ci porta di fuori o conia di suo, obbligandoci a usarle se vogliamo trattare coi nostri simili speditamente, da gente pratica e deliberata a far suoi gli acquisti della civiltà moderna: espressioni di tutti, che però pochi intendono a dovere, giacchè, osserva il Panzini, se il «giovin signore» non ha bisogno di chi gli spieghi il vocabolo steeplechase, il fisiologo involuzione, la crestaia aigrette, il medico toracentesi, il geografo Thalweg, il geologo trias, il cuoco suprême di pollo, il filosofo agnosticismo, il giornalista leader, l’avvocato preterintenzionalità, il fisico radioattività, l’archeologo terramara, l’economista plusvalore, eccetera, ciascuno di questi signori può aver bisogno degli schiarimenti di cui non ha bisogno l’altro, e il pubblico in genere gradirà che gli si chiarisca il glossario speciale delle varie scienze e professioni.

Rendendo ragione del suo lavoro in assai lunga prefazione, l’autore del Dizionario moderno prevede e ribatte gli argomenti di coloro a cui l’opera sua può parere empia o provocatrice di letterari disordini. Prima di tutto, comporre un vocabolario sia pur di barbarismi e di neologismi non è consacrare queste eresie nè imporle altrui. E poi, secondo il Panzini, non si può sacrificare una parte anche minima di pensiero alla purezza del linguaggio, e al pensiero moderno è oramai indispensabile, istintivo, quasi connaturato un linguaggio internazionale. È inutile opporsi all’accettazione delle novità, sian esse vocaboli stranieri o italianizzati: nèé por esseo la lingua italiana andrà in rovina. Chi può assicurare che questa invasione di neologismi non rappresenti una necessità, un fenomeno dell’evoluzione storica del nostro paese, venuto con l’indipendenza e con l’unità a contatto immediato con altri popoli più progrediti?

Senonchè il fenomeno naturale, fisiologico, si complica con altri fenomeni fittizi, patologici: da una parte la resistenza gretta e cieca dei nuovi puristi, che vedono nella lingua più tosto un fine agli studi che un mezzo alla vita intellettuale e [p. 572 modifica]pratica; dall’altra l’avventata prontezza di innumerevoli italiani nell’accogliere le espressioni di modo nuova, per quanto irragionevole e spuria, e il loro quasi compiacimento nell’usare la frase forestiera in luogo della nostrana. Son l’uno e l’altro costumi servili, da cui non può guarirci se non la sana consapevole libertà dei tempi nuovi. Ma quali sono i limiti di questa libertà? Nessuno può determinarli, dice il Panzini, e ha ragione. Nessun areopago di grammatici può legiferare in questa materia senz’essere disobbedito o deriso. «La discrezione e il limite potrebbero essere dati dalla necessità, ma più da un nobile senso individuale di italianità, per cui l’uso, quando è inutile, di parole straniere dovrebbe ripugnare come ad una persona pulita ripugna il compiere un atto sudicio, anche se è sola e non vista.... Se uno scrupolo continuo ci deve perseguitare nello scrivere e nel parlare, l’italiano l’impareremo a cinquant’anni. Poche e sicure norme grammaticali, fede nella parlata natia, un po’ di amore e di conoscenza della tradizione letteraria, e il resto affidatolo alla divina natura».

Non altrimenti, in fondo, sentiva il Leopardi, il quale, vide e previde questi dubbi nostri, e li risolse, almeno in teoria, con moderna indipendenza di pensiero. «Conviene — si legge in un suo frammento opportunamente ricordato come decisivo, a questo proposito, da Romualdo Giani — conviene proclamar lo studio profondo e vasto della lingua, e nel tempo stesso la libertà che ciascuno scrittore, impadronitosi bene di essa e conosciutane a fondo l’indole, usi il suo giudizio nell’introdurre e impiegare e spendere la novità necessaria, anche straniera».

Appunto così. La lingua buona non è, non può essere oggi quella de’ grammatici, ma quella degli uomini di buon senso e di gusto sinceramente, educatamente italiano, i quali sappiano secondo il bisogno sciegliere l’espressione opportuna, conciliando con avveduta temperanza il vocabolario della Crusca e.... il Dizionario moderno di Alfredo Panzini.



.....A dare (com’Ella mi chiede) un giudizio serio e pensato «intorno allo stato presente della lingua italiana», mi abbisognerebbero qualità competenza meriti e tempo che non ho. A ciò avrebbe potuto giovarmi l’esame di tutto il Dizionario che con tanta geniale fatica ha compilato; ma sfortunatamente non ne ho qui dinanzi che poche pagine. Le scrivo perciò senza l’ombra di pretensione.

Non v’ha dubbio che la nostra lingua viva che generalmente parliamo e scriviamo, è più ricca (o, forse meglio, diversa) di quella che è raccolta nei comuni dizionari, e che il popolo italiano, colto ed incolto, non ha scrupoli ad accettare ed usare le più svariate forme linguistiche di espressione, senza chiedere loro la nazionalità e la origine; il suo dizionario sarà ed è un curiosissimo ed utilissimo libro di storia. Tra cento, tra mill’anni, i nostri posteri, se vorranno sapere come si parlava, nell’anno di grazia 1904 (chi sa se allora qualcuno troverà tempo ancora di fare il filologo!?), dovranno di necessità prendere in esame, oltre agli altri comuni dizionari nostri, anche il suo «Supplemento». Quanto poi a determinare se le espressioni da Lei raccolte siano utili o necessarie, possano essere oggi usate, o siano per essere un giorno accolte nei dizionari della nostra lingua pura, questa è un’altra questione ch’io non saprei definire. Solo il nostro futuro lontano filologo potrà saperne la soluzione. A noi, per ora, non resta altro, mi pare, che star a sentire quel che il popolo dice, il popolo che, a dispetto di tutti noi, (ci chiamassimo anche Manzoni o Tommaseo) fa, rispetto alla lingua (e il resto) tutto quello che gli pare e piace. Noi staremo da principio, un po’ dispettosi, arcigni, riservati, prima di deciderci a introdurre nella nostra purgata prosa questa o quella paroletta nuova od impura, ma se il popolo ci si intesterà, dopo dieci o vent’anni, per forza, se vorremo farci intendere, useremo anche noi la paroletta, anche se sarà di origine giapponese, e goffa ed aspra e non necessaria.

Credo per altro che non bisogna scendere ad esagerazioni, riguardo a codesta invasione di parole nuove o barbare: e non è giusto che noi ci calunniamo. Non è vero che oggi gl’Italiani scrivano molto male; certo è che, cinquant’anni fa, in generale, scrivevano peggio. E poi bisogna distinguere neologismi da neologismi. Alcuni di essi resteranno, perchè saranno riconosciuti necessari ed efficaci, ma altri molti [p. 573 modifica]si può star certi che avranno vita effimera. Vi son parole che sorgono perchè un individuo le crea, perchè un fatto le provoca; ma, passato l’individuo, spentasi l’eco del fatto, scadon di moda, scompaiono; hanno servito pel bisogno del momento: cessato il bisogno, muoion da sè. Or di queste parole e frasi ve n’ha moltissime, e ogni giorno ne nascon di nuove. Tutte quelle che, in questi ultimi anni, molti o pochi hanno usato ed usano, Ella ha raccolte nel dizionario; ma chi sa se avranno vita? Alcune già vedo moribonde; altre mi sono parse nuove e le ho lette per la prima volta — il che vuol dire che non sono dell’uso comune — ; altre sono usate da una ristrettissima cerchia di persone per loro singolari bisogni, spesse volte giochi di effimera moda; e perciò non si può asserire che tutte facciano veramente parte della nostra lingua. Le lingue mi pare siano simili a grandi fiumi che scorrono. La corrente si muove e perciò si muta; ma non bisogna confondere la gran massa dell’acqua colle foglie secche e coi fiori che vi possono cader sopra e che per un po’ stanno a galla e magari luccicano al sole, ma poi sono giù travolti e scompaiono. Certo che s’Ella avesse voluto prendersi la briga di distinguere i neologismi necessari, efficaci, belli, forti e ormai consacrati dall’uso, da quelli già morti o moribondi o presumibilmente morituri, si sarebbe messa in un ginepraio anche più aspro di quello nel quale coraggiosamente si è messa; ma forse un po’ di discrezione bisognava usare, e, se non erro, Ella è stata un po’ troppo largamente ospitale. Coi larghissimi indefiniti criteri coi quali Ella ha condotto il suo lavoro, io penso che, tra un anno, se vorrà continuarlo, troverà duplicata, triplicata la materia, e ogni mattina alzandosi, Ella avrà in casa sempre una invasione di nuove parole: sarà una disperazione, caro collega. E intanto io dubito che anche le 500 pagine del suo dizionario attuale possano trarre in inganno (come già un po’ Lei stessa) qualche altro studioso, e fargli credere che tutte quelle migliaia e migliaia di voci e frasi siano proprio lingua viva o vitale in Italia. No, le forze conservatrici che dominano le lingue, sono molto più forti delle forze innovatrici. Dai grandi fiumi secolari delle lingue consacrate dall’uso e dalle letterature, noi non ci possiamo scostare; e, in verità, con tanta vita nuova che ci ferve d’attorno, ci conserviamo più puristi di quello che comunemente si crede; anzi, col progredire della vita civile, avviene che aumentano, è vero, i neologismi, ma, d’altra parte, cresce anche e maggiormente si diffonde la cultura, e questa ci lega più strettamente alle tradizioni della nostra lingua, al purismo; la cultura vince la moda: passano le foglie, resta la corrente regale.

Io credo ormai che (come già gli studi scientifici dell’Ascoli ebbero la virtù di far cessare la famosa «questione della lingua») anche adesso la scienza un’altra volta ci risparmierà di tornare sopra la medesima o sopra una simile questione; e credo che il buon senso trionferà, il buon senso italiano che, nel suo eccletismo giudizioso, in pochi anni da che l’Italia è fatta, ha già posto (checchè si dica) solide basi di una lingua nazionale viva, bella, vigorosa ed efficacemente espressiva. Noi abbiam lasciato discutere a lor piacimento cruscanti e non cruscanti, siamo stati via via manzoniani, carducciani, d’annunziani, e poi?... e poi, tratto vantaggio dagli ottimi esempi dei maestri che furono che sono e che saranno, noi non resteremo nè manzoniani, nè carducciani, nè d’annunziani, ma più generalmente italiani, e useremo quella lingua che, senza fisime, ci viene fuori dal cervello e dal cuore, allorchè vogliamo esprimere quello che dentro sentiamo: lingua antica ma sempre nuova, ma rinsanguata dal giovino sangue di mille parole nitide e vigorose che le necessità del nuovo pensiero e della vita nuova avranno potuto accogliere e creare.

Com’Ella vede, io son dunque un poco ottimista, nel giudicare «dello stato presente della nostra lingua», e le cinquecento pagine di neologismi ch’Ella offre alla considerazione degli studiosi, non mi pare ci debbano far paura. E pur dai giornali traggo conforto al mio ottimismo. Ciò ch’Ella scrive, che «la lingua usata dal giornale è di solito deplorevole» non trovo sia giusto giudizio; è una vecchia condanna che non dovrebbe essere più ripetuta. Io so che tutti i nostri ingegni migliori, più o meno, al giornalismo hanno collaborato o collaborano, e molti di essi esercitano professione di giornalista; e so che ogni giorno io leggo su pei giornali, articoli d’arte, di scienza, di politica, e persino affrettate corrispondenze dal campo di battaglia, dal tribunale, dal teatro, dalla borsa, così chiare e vivaci ed efficaci da far impallidire le pagine di molti professori. E poi è una malignità anche questa mia: da qualche tempo scrivono bene anche i professori, pur dettando quei lor ponderosi e noiosi volumi che son costretti a comporre per i concorsi. [p. 574 modifica]

«Ma che vuol dire bene?» — Ella mi domanderà, — «vuol dire con purezza?». Rispondo: «Vuol dire con sincerità, e con cervello nutrito di qualche pensiero. A queste condizioni, puristi o non puristi, si scrive bene». L’autunno scorso, ricordo, mi occorse di leggere in un giornale tutto dedicato a onorare il Carducci, un articolo di una donna, la quale candidamente affermava di non conoscere altro scrittore moderno che al Carducci si possa accostare, all’infuori di .... Filippo Turati. A leggere ciò, sulle prime sorrisi; ma poi so che le donne sono un poco incoscienti e perciò dicono alle volte grandi verità; e ricordando e ripensando gli scritti del socialista, che vuole? egregio collega, mi sono accorto che quella signora non aveva mica pronunciato una sciocca eresia. Non v’ha dubbio che il Turati è un grande scrittore; ed Ella sa benissimo com’egli sia anche uno dei più arditi e originali creatori di parole nuove. E il purismo? Evidentemente esso è una qualità secondaria del bello scrivere.... Ma non parliamone più. Anzi, non ciarliamo più.

Prof. G. B. MARCHESI.



.... Eccola qua, piena, calda, entusiastica, la mia adesione all’opera sua e ai criterii fondamentali cui essa s’inspira. Io ho, anni addietro, condotta su riviste milanesi e fiorentine una campagna per la «libertà di parola» nel senso filologico dell’espressione (che, del resto, non è se non il complemento naturale della stessa libertà nel senso concettuale); ed ho polemizzato un bel poco, per dimostrare che come i dialetti, senza scomparire, si espandono e si integrano nella lingua, così, senza perdere nulla della loro individualità, le lingue tendono a permearsi l’una nell’altra e a convergere lentamente verso un linguaggio universale; io, caro collega, non posso vedere nella sua opera ardita e simpaticissima, se non un felice contributo all’attuazione di questo mio sogno d’internazionalismo linguistico, sintomo e simbolo d’altro e più intimo e più profondo internazionalismo, quello dei cuori e delle coscienze.

Ne dico, con questo, che Ella porti così, semplicemente una pietra, per quanto fondamentale, all’edificio d’una sublime utopia; dico anzi che il suo «Dizionario Moderno», soddisfacendo ad un bisogno che nell’animo suo, squisitamente evoluto e sensibile, era divenuto insistente, impellente, fattivo, risponde pure ad un bisogno non altrettanto vibrante, forse, in tutte le anime italiche, ma in esse largamente largamente diffuso; ed in molte, fra le quali pure la mia, molto intenso, quasi irrequieto, e che lo diviene ora assai più, in presenza del mezzo che Ella ci offre di soddisfarlo.

Le dirò, anzi, che io vagheggiavo (non per accingermi io all’impresa, s’intende, non avendoci la minima competenza), e da molti anni, l’idea di un vocabolario sul tipo di quello che fa parte dei manuali Hoepli, col titolo di «Nuovo dizionario universale delle lingue italiana, tedesca, inglese e francese disposto in un unico alfabeto»; ma lo immaginavo universale davvero, cioè contenente i vocaboli di tutte le lingue più diffuse del mondo civile, e quindi anche dello spagnuolo, del russo, dell’arabo, del turco, e (perchè no?) del giapponese, disposti essi pure in un’unica serie alfabetica indistintamente, come se si trattasse d’una lingua sola; e con questo in più, rispetto al dizionario tetraglotto dell’Hoepli, che alle parole meno ovvie e comuni seguisse una breve e chiara spiegazione, come ora fa Lei del suo «Dizionario moderno».

Del quale, intanto, io applaudo vivamente il titolo stesso, in cui è già implicita l’affermazione che altra è la lingua oggi, altra fu ieri, altra sarà domani; e che la lingua d’ogni nazione è qualcosa di vivo che si trasforma e si trasfigura per intimo lavorio alimentare, proprio come un organismo animale o vegetale, in cui ogni giorno molte cellule vecchie e logore muoiono, si decompongono, vengono eliminate, mentre altre cellule, poichè l’organismo si nutre assimilando sostanze alimentari che prima gli erano eterogenee (e Lei riferisca tutto questo anche alla lingua), mentre altre cellule, dico, si formano, crescono, si riproducono (ed ecco gl’innumerevoli derivati di una radice linguistica) e formano interi e vasti e complessi tessuti nuovi.

Ella vede: come dall’unità della materia organica che trapassa per gli organismi individui senza arrestarvisi, senza fissarvisi stabilmente, noi assurgiamo ad un alto e nuovo concetto della vita e dell’essere, così dall’unità della materia verbale (non [p. 575 modifica]è questo che va dimostrando il nostro Trombetti?) la quale circola per i tessuti linguistici senza immobilizzarsi, cioè senza morire, anzi con un continuo processo di assimilazione e di disassimilazione, noi perveniamo alla conclusione ben luminosa e filosofica, che una, anzi sempre più chiaramente una, nella sua essenza, rimanendo l’anima umana, pur nella infinita varietà dei suoi atteggiamenti, una ne sia sostanzialmente l’espressione, pure modificandosi per lenti trapassi nell’estensione enorme non dello spazio soltanto, ma, forse più ancora, del tempo.

E che diventa, allora, la timida, l’ingenua domanda, del «si può dire?» e del «non si può dire?’» Essa sembra presupporre e sottintendere un’autorità superiore, cui spetti sentenziare e rispondere; mentre della sentenza e della risposta, non è arbitra se non la collettività anonima in mezzo alla quale la parola e la frase dubbia viene a cadere: se essa vi è compresa ed accetta, si può dire: se no, no; precisamente come una moneta, che abbia o non abbia corso (non importa se legale, purchè vada) in un dato paese e in un dato periodo.

Nè con questo Ella, vede bene, io mi fo paladino del parlare e dello scrivere sciatti e trasandati; anzi! Io dico infatti, che parole e frasi, dovunque vengano, hanno da essere non solo comprese, ma accette, o per esserle accette, cioè grate, cioè simpatiche, hanno da essere chiare, espressive, armoniose, intonate con le altre a cui si associano, insomma belle; e quando parole e frasi, vecchie o nuove, paesane o forestiere, auliche o popolari che siano, sono belle, sono buoni strumenti, vivi colori per l’arte del dire, che cosa si può onestamente pretender di più?

E passo a quanto Ella dice nella seconda parte della sua prefazione, quella che riguarda lo stato presente della lingua italiana, per dirle che qui pure io sono, in massima e nelle linee generali, pienamente d’accordo con Lei, cominciando dall’affermazione che oggi noi attraversiamo, anche nel linguaggio, una vera crisi di crescenza, appunto come nel pensiero, nell’arte, nell’industria, nella politica sociale, nella vita collettiva, insomma; crisi così rapida, estesa, profonda, tumultuosa, da dare quasi all’evoluzione l’aspetto minaccioso d’una rivoluzione: fenomeno magnifico, e che a me, estetista, e che quindi lo contemplo come spettacolo, non solo non fa minimamente paura, ma suscita meraviglia grata e festosa ammirazione. Io sono di tempra ottimista, del resto, e serbo, anche attraverso ai passeggeri disastri, la fede incrollabile nel galantomismo del tempo e nelle promesse dell’avvenire; per intanto, mi contento dei piccoli acconti del presente; ed anche in arte, anche in letteratura, trovo più spesso da godere ingenuamente e da schiettamente applaudire, che non da censurare, da biasimare, da protestare; così, io non credo, con Lei, che «di buoni scrittori oggi ce ne sian pochi»; non passo anzi mai un anno intero, senza aver la rivelazione d’un poeta, d’un romanziere, d’un pensatore nuovi, di prim’ordine a mio parere; vale a dire, degni di figurare accanto a quei classici dei secoli passati, dei quali è data la biografia e son riportati saggi di prose e di versi in tutte le antologie; faccia il conto, e son cento forti scrittori, dal più al meno, in un secolo, cioè quanti non ne può vantare sicuramente nessun altro anteriore.

Lei forse mi dirà, a questo punto, che il mio è un apprezzamento personale, enormemente dubbio e discutibile; ed io ne convengo: ma le faccio osservare che di fatto, se non venissero imposti ufficialmente nelle scuole, i signori classici non si ristamperebbero quasi più, e sarebbero pochissimo letti; mentre i contemporanei, quelli che incontrano il gusto generale, s’intende, vedon succedersi rapidamente le edizioni, a migliaia di esemplari, dei loro libri. Che importa se i posteri, alla lor volta, li dimenticheranno? Per buoni scrittori, noi viventi, non dobbiamo naturalmente intendere quelli che piacquero ai nostri progenitori che ci guardano dall’alto in basso dai vecchi ritratti anneriti, nè quelli che piaceranno ai figli di quei marmocchi che succhiano ora, con tondo faccetto di bestioline, i morbidi seni delle nostro donne.

E su questo punto soggiungo una cosa sola, con lo stesso parole sue, caro collega: «Non faccio nomi nè cito esempi, perchè sembrerebbe ch’io volessi lodare opere od autori, poco noti od ignoti»: il che vuol dire, che entrambi riconosciamo che di scrittori, non solo buoni, ma ottimi, ce n’è oggi assai più di quelli che sono generalmente riconosciuti per tali.

Ella poi rileva come tra persone di media coltura (le quali, noti, costituiscono appunto la grande massa della borghesia oggi dominante) appaia sempre più chiaro «un vero compiacimento nell’usare il vocabolo e la frase forestiera», fino a credere d’affrettare per tale mezzo l’avvento di un linguaggio unico, universale. [p. 576 modifica]

Ebbene, "a parte l’esagerazione, per ora utopistica, un poco lo credo anch’io, che pure non uso, se non con molta parsimonia, parole nè modi stranieri; ma li ascolto però con piacere, lo confesso; e senza temere, com’Ella teme, che ciò accada senza reciprocità da parte dei popoli più forti e dominatori: ci rifletta, Lei che conosce bene questa materia, e vedrà che anche gli inglesi e i tedeschi importano i nostri vocaboli e le nostre frasi certamente in non meno larga misura di quel che non ne esportino dei loro fra noi.

Si rammenta Lei la risposta graziosamente spavalda della piccola padroncina di trattoria andalusa nella «Spagna» del De Amicis, al nazionalista feroce, che, alludendo ad Amedeo di Savoia, diceva, in tono di patriottico sdegno:

«Ahora tenemos un rey estranjero!»

«A mi me gusta!» ribatte lei, cui piaceva infatti, un poco anche appunto perchè idealizzato da un’aureola di lieve esotismo, il re giovane e bello, galante e cavalleresco. Dopo tutto, meglio questo che un tirannello paesano, tisicuzzo e bacchettone, formalista, ed insignificante.

E lo stesso dico io dell’infiltrazione linguistica forestiera: «A mi me gusta!>> E «gusta» anche al popolo minuto, che anzi (lo dice Lei stesso), dai giornali, dai cataloghi, dai viaggiatori di commercio, dalle modiste, raccoglie avidamente e fa sua e serba ogni voce forestiera, specialmente francese, che gli accada di leggere o d’ascoltare. Gli è che il popolo in generale, ed il nostro in particolare, è per natura sua ospitale e cosmopolita, e che campanilista ed esclusivista non diviene se non artificialmente, per opera di malvagi e d’interessati, che l’ingannino, lo suggestionino, l’aizzino contro il fratello che vive e lavora pacificamente al di là d’un fiume, d’un monte, d’un mare; il nostro in particolare, ho detto, appunto perchè accampato da secoli e secoli nel bel centro del mondo civile, su questo magnifico molo europeo, che si protende tra il mite Mediterraneo verso l’Africa e l’Asia, e avvezzo a veder passare per la sua terra ogni sorta di gente, e a sentire e a comprendere, come il buon Giusti nel «Sant’Ambrogio», che anche quando essa era strumento di tirannia e di prepotenza, lo era per forza ed a malincuore, costretta da pochi ambiziosi predoni gallonati o coronati, ma, per se stessa plasmata in fondo con la medesima pasta, di cui noi pure, noi latini, noi italiani, siam fatti.

Popolo equilibrato e sano, il nostro, espansivo e bonario, e, com’Ella dice splendidamente in fine, dotato d’un senso inalterabile di libertà, di tolleranza, di gentilezza; lasciamolo dunque fare a suo modo, e trattare degli altrui popoli, come le persone, così pur le parole; anche con la casa piena di forestieri, rimarrà sempre lui, rimarrà sempre italiano.



.....Trovo che la pubblicazione del suo Dizionario moderno è pienamente giustificata, e che essa riescirà di grande utilità a tutti.

Mi congratulo con lei che lo ha compilato, e con l’editore che lo ha pubblicato. G. SERGI.


.....Indubbiamente molte verità si contengono nella gustosissima e italianissima prefazione al suo Dizionario moderno. Dissento però in alcuna parte.

A reprimere certi abusi e la consuetudine di certo gergo barbarico non credo niente affatto inutile l’opera della scuola. Molti vocaboli e costrutti riprovevoli — volere o non volere, cioè volere o volare — furono e sono implacabilmente sbanditi da una valorosa falange d’insegnanti, che con eroica perseveranza combattono a difesa di quella sacra italianità che non si spense dopo fatta l’Italia, ma rifiorì «rinnovellata di novelle fronde», prima per influsso del Manzoni richiamante al toscanesimo vivo, di poi per l’autorità del Carducci richiamante alla tradizione, da ultimo per efficacia della scuola estetica richiamante al culto della forma bella. La più parte delle parole che Ella enumera — escluse le scientifiche, che debbono esser usate e in senso proprio e in senso metaforico, ed escluse altre poche, degne di vita letteraria — non sono notate già, secondo quello ch’io penso, «a memoria di ciò che [p. 577 modifica]è oggi l’italiano dell’uso», come Ella afferma, sì bene a documento di un certo uso, vale a dire dell’uso degli «improvvisatori, degli spensierati, dei dilettanti di letteratura», che poco frequentarono la scuola o la frequentarono senza profitto. La gente colta, la gente seria — o ch’io m’inganno — evita gran parte de’ vocaboli e de’ modi da Lei segnalati. Mia moglie, per esempio, — milanese di Milano e non professoressa (Vede? uso questo vocabolo che alcuni miei confratelli in purismo respingerebbero inorriditi) — mia moglie, dunque, quando parla in italiano (il che fa quasi sempre), non adopera mai verza per cavolo, nè farne vedere a uno per tormentarlo, e neppure, come dicono a tutto pasto gli incolti nella città egemonica d’Italia, so niente per non so niente o disfo per disfò o disfaccio. Forse che per la legge del minimo sforzo, dev’esser lecito ignorare, oltre all’uso de’ vocaboli e delle metafore tradizionalmente italiani, anche la grammatica? Ella, a dimostrare l’inutilità de’ professori d’italiano e la vanità dei loro filologici amori, cita il catechistico insegnamento della storia letteraria; ma perchè dimenticare la correzione dei così detti componimenti?

Ancora. Non mi par vero che «il disputare di voci pure od impure, nostrane o barbare, sia antico ozio accademico degli Italiani». Nella prefazione alla mia «Teorica di francesismi», che ebbe lodi dal Fornaciari dal Pascoli, io smentivo questa opinione citando l’opera letteraria dei Decadenti e la maestà dell’imperatore Guglielmo, il quale con pubblico bando ordinò che nella lingua militare del suo popolo alle parole straniere fossero sostituite parole germaniche. Ora aggiungo che in Germania appunto si pubblica una rivista a difesa della purità, dal solenne titolo Allgemeiner deutscher Sprachverein, e che il gran Littré nel suo Dictionnaire alla voce préoccuper nota: — «C’est une faute fort commune aujourd’hui d’employer se preoccupèr pour s’occuper. Tous nos ministres à la Chambre des députés, quand on signale une difficulté, disent qu’ils s’en préoccupent ou qu’ils s’en sont préoccupès et tous les journaux répètent cette mauvaise locution».

Anche Giulio Cesare da buon Latino, non ostante l’affermazione contenuta nel passo ch’ella cita a pag. XX, fu intinto nella stessa pece. Dice infatti di lui Cicerone nel Brutus: — «Caesar, rationem adhibens, consuetudinem vitiosam et corruptam pura et incorrupta consuetudine emendat» — .

Del resto io non credo punto dannoso il suo Dizionario moderno, il quale dà sì genialmente ragione di tanti vocaboli e modi e costrutti, non dell’uso, ma — insisto — di un certo uso, di una certa — per dirla cesarianamente — consuetudine viziosa e corrotta che può e dev’essere emendata in gran parte. Il suo poi s’avvantaggia sugli altri, oltrechè per altri pregi notevoli, per la quasi sempre chiara e precisa definizione di vocaboli finora vaganti incertamente su labbra e fogli insubri e dei termini scientifici più comuni, finora non dichiarati o mal dichiarati in dizionari che vanno per la maggiore. Dico quasi sempre, e non sempre, perchè qualche volta il buio rimane. Infatti, quando leggo: — «Vertigine, come termine medico è sindrome determinata specialmente dal senso della instabilità nello spazio rispetto alle cose circostanti» — io profano, io che ignoro il valore scientifico della voce sindrome1, ne so quanto prima.

Altre osservazioni pedantesche.

Alle parole: — «Va sans dire è locuz. fr. usata per vizio» — aggiungerei: specialmente dall’aristocrazia o da chi la frequenta ed imita. Gli Italiani ignobili dicono in generale alla buona: s’intende, si capisce. La stessa aggiunta si potrebbe faro per altri modi stranieri consimili. È bene risulti da che parte il vizio provenga.

Vasel d’ogni froda non credo sia modo entrato nell’uso comune. Lo stesso direi di Vecchio della montagna, di Versiscioltaio, di Pastorelleria. O forse queste parole sono da ascriversi tra le non registrate? Ma pastorelleria, almeno, è nel Dizionario Rigutini-Fanfani.

Similmente, non dev’esser lecito notare e non condannare velodrómo per velódromo. L’ortoepia è parte della grammatica, e, quando si tratta di grammatica, bisogna essere conservatori feroci. Ma questo sono minuzie e quisquiglie da rètori che [p. 578 modifica]non scemano pregio alla geniale originalità dell’opera, la cui lingua e il cui stile è in felice contradizione con le affermazioni eroicamente ed argutamente sostenute nella prefazione.

Dottor ALBERTO ALLAN

prof. nel R. Istituto tecnico di Lodi.


Disporre in modo agevole per la ricerca tutti quei vocaboli e quei modi di dire (siano essi approvabili o no), che sono entrati nell’uso italiano, è far cosa utile a molte categorie di persone, è fissare forme, spesso transitorie, che potranno riuscire curiose al glottologo, allo psicologo, allo storico.

Sembrami, quindi, che debba essere accolto con plauso da tutti gli intelligenti il Dizionario moderno di Alfredo Fanzini, il quale contribuirà assai, per ciò che concerne l’Italia, alla miglior cognizione di quella che i Tedeschi chiamano Umgangssprache.

Prof. RODOLFO RENIER, dell’Università di Torino.


La sua prefazione al Dizionario moderno mi dette tale godimento intellettuale che volli fare dividere la mia gioia a coloro che non poterono ancora leggere il suo scritto.

Ella mi fa poi troppo onore domandando il mio giudizio. Io, della lingua italiana so quel poco che mi basta per esprimermi male, e il genere dei miei studi, — strettamente scientifico — avendomi insegnato a stimare l’idea più della forma, mi son trovato a scivolare talmente per quel pendìo che — a cuore sincero — molte volte mi sorprendo a dare alle mie ideo una forma semplicemente disastrosa.

Ma se è vero che l’uomo, anche se non sa fare l’uovo, — come la gallina, — sa però riconoscere se un uovo è fresco o no, — così, anche non sapendo maneggiare la lingua che Ella conosce a perfezione, le dirò ciò che penso sulla questione linguistica che Ella agita nella Prefazione.

Le esporrò dapprima un fatto personale (vede come credo all’eloquenza dei fatti!) al quale Ella darà il valore che crede. Una decina d’anni fa nel mio volume che studiava le leggi psicologiche e sociologiche che regolano l’evoluzione del gergo (dalla coppia alle associazioni e da queste alle classi sociali) mi intestardii ad affermare, non so più a quale pagina, che i gerghi o modi di dire di gergo muojono se escono fuori dal buio ove furono creati e se pretendono mettersi liberamente in circolazione, in mezzo al turbinio delle parole della lingua officiale.

Da quel tempo — assai giovanile — il mio concetto mutò, sotto la sferza continua ed efficace dell’esame dei fatti. Mutò tanto, che mi accorsi d’aver detto proprio il contrario — o quasi — di ciò che rispondeva alla verità. E la sua Prefazione mi giunse proprio quando la mia conversione era fatta, e da un pezzo. Ben venga il suo Dizionario.

Poichè, se non mi sbaglio, due sono le concezioni che lo studioso può farsi della lingua parlata.

O è la splendida e intatta vetrina di museo, ermeticamente chiusa, — adorabile, purissima, — e intangibile, o è l’essere vivo, che non vuol sentire odore di stantio e che si getta nella vita moderna, agitata, vibrante, tumultuosa, — qualche volta anche disforme, ma pur sempre viva, balzante, calda, — come sangue che circoli gorgogliando, nelle vene e nei polsi dell’uomo sano.

Queste due concezioni hanno i loro campioni, che battagliano con eguale valore. Per gli uni la lingua ha da conservare gelosamente le sue antiche bellezze e — essendosi chiusa entro alla cittadella d’avorio — non deve farsi contaminare da alcun nuovo elemento. Essa compiacesi nella finezza meravigliosa del suo interminabile esercito di parole, scintillanti come armata in campo, e le offre intatte e intangibili, allo sguardo dell’ammiratore, come i musei, — dietro i vetri — offrono all’ammirazione del devoto visitatore i medaglieri ove si allineano le antiche e belle monete del più alto valore. Per gli altri, al contrario, la lingua, nella sua qualità di organismo in formazione continua, non è cristallizzato miracolo di bellezza, non è [p. 579 modifica]medagliere, nè torre d’avorio, ma donna viva e robusta che maternamente accoglie le nuove formazioni che a lei si volgono.

Ella, che ha un cuore di purista classico, amante della bellezza antica, e un cervello di uomo moderno, adatto a comprendere il mondo nuovo che ci fiorisce d’intorno, ella a ragione di questo dualismo della sua coscienza, — ha scelto la via di mezzo — e la giusta via di mezzo — tra gli uni e gli altri. Non le dico: ha fatto bene. La mia approvazione non avrebbe nessun valore. Soltanto le dico che la concezione vivente di un linguaggio in continua via di formazione, e per ciò accogliente quei barbarismi che più rispondono alla necessità della nuova vita è, secondo me, la concessione giusta e veramente scientifica. La parola segue la vita — Ella ha scritto — ebbene, lasciate passare la vita!

ALFREDO NICEFORO.


Tornato appena da Roma, trovo qui il saggio che Ella si compiacque mandarmi chiedendomi il mio parere. M’affretto a rispondere per dirle che la sua fatica mi sembra non solo bella, ma eccellente, sopratutto pratica. Trovare in un dizionario la spiegazione di voci e modi di dire in uso e in abuso del linguaggio corrente, è certo una grande facilitazione a chi intenda, senza fraintendere, muoversi fra gl’impacci delle parole del nuovo stile. E servirà sopratutto a chi voglia con sicurezza tenersi lontano da ogni abuso.

Plaudo toto corde a quanto Ella scrive a pag. XXI della sua prefazione. Anch’io vo picchiando da un pezzo sullo stesso chiodo, e chissà se altri ci aiuta, non si riesca a mettere in fuga questa letteratura ch’Ella chiama floreale perchè fatta sopratutto di spine.


Un sincero plauso anzitutto per l’opera bella ed utile, ch’Ella ha coraggiosamente intrapreso. Un lavoro di tanta mole, che, per natura sua, non si può dir mai compiuto, (una vera fabbrica del Duomo, come diciamo noi milanesi) basta a riempire la vita di un uomo, anche il più erudito e laborioso ed a farne il nome lungamente chiaro ed onorato.

Quanto all’importante questione della lingua, ch’Ella sottopone alle persone autorevoli, se io credessi di poter contarmi tra queste, direi che due sono i punti di vista dai quali può esser trattata: quello degli uomini di lettere e quello dei profani, degli orecchianti.

I primi non la risolveranno mai. Per essi vi sono troppi argomenti pro e contro, troppe care tradizioni e convincimenti troppo radicali in dotti studii da conservare e da difendere; ed Ella per il primo ne dà un eloquente esempio con la sua larga, bellissima e profondissima dissertazione.

I secondi, ed io son tra questi, la risolvono forse troppo in fretta. Considerato il fenomeno linguistico alla stregua degli altri fenomeni naturali, pare ovvio ch’esso passi per quelle fasi di evoluzione e di dissoluzione, per cui passano tutti gli altri e che formano il ritmo della vita. Ed allora che vale preoccuparcene?

Può darsi che la lingua italiana, come organismo, sia entrata nel periodo di senescenza (ha avuto uno stupenda giovinezza ed una non meno ammirabile virilità!). Ora si trasforma e diventerà qualche altra cosa, non meno bella e non meno grande. Se Cicerone avesse preveduto il corrompersi della sua aurea lingua, chissà in quale disperazione sarebbe entrato. Avrebbe avuto torto. Questa corruzione ci ha dato la prosa e la poesia del trecento e della rinascenza.

Lodevolissimo dunque mi pare il tentativo, che Ella fa, di dare libero corso ai nuovi elementi linguistici, e non meno lodevole trovo la sua fedo nel gonio della nostra razza, in quella energia nascosta ed inesauribile, che, come ha già fatto tanti miracoli, altrettanti o maggiori ne potrà compiere in avvenire.

Fede e serenità: ecco il segreto di ogni savio convincimento filosofico. Intanto lavoriamo con buona volontà, seguendo quei nostri segreti istinti, che ne sanno più della nostra ragione.


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.....Non ho potuto leggere prima d’oggi il Saggio del suo Dizionario moderno. Le dico subito che mi rallegro per l’opera sua, non di letterato soltanto, ma in quanto è rappresentazione d’un fatto umano, opera anche d’artista. E quale fatto umano e naturale merita più, letterariamente e storicamente, d’esser notato di questo della lingua, tentando di vedere, e di porre quasi sott’occhio, il punto a cui ella oggi è arrivata nella espressione d’ogni ordine di persone? L’impresa è ardua e infinita, ma il suo discorso preliminare dimostra che Ella non vi s’accinse senza l’ingegno, gli studi, l’acume, e quella preparazione di pensiero proprio e di osservazioni necessari non a correre tutto, che è impossibile, ma, a avanzarsi assai, e quanto basti, in quel mare. Nel suo Dizionario ce ne sarà, mi sembra, per ogni gusto. I puristi certo non l’approveranno, ma potranno essi pure trovarvi, in mezzo ai neologismi, la loro valletta claustrale, col loro più bel fiore della favella. Ora il suo Dizionario dimostrerà, tra le altre cose, quanto oltre quei termini purissimi, trascorremmo, di quanti sterpi, se non fiori, si abbellì l’Italiano, ormai, nell’uso più generale, non più chiaro fiume, circoscritto alle rive d’Arno, ma torbida fiumana ingrossata dal sorgere e progredire di tante cose che mancarono all’aureo Trecento, e mancano ai testi aurei della Crusca. Bella idea la sua e geniale! Tentare di ritrarre, in un certo modo, una specie dì gran Babele mondiale, da cui uscirà fuori, come dal caos, la luce nuova, cioè quelle maravigliose opere d’arte in cui la lingua trasformata diviene architettura e pensiero, quando il Genio non manchi, e non manchi una qualche fede feconda. Altrimenti, non voglio far pronostici, e non presumo, ma la Babele, o la barbarie, durerà lunga e brutta, per quanto in mezzo alla «giornaliera luce delle gazzette» e della scienza. Ma ella forse vede più roseo di me, e me ne compiaccio. Solo che Dio ci mantenga un po’ d’eleganza, caro e buon Signore, non dico quella dei letterati che avremo sempre in alcuno, purchè non preziosa; ma l’altra che il popolo ha sempre spontanea e quasi improvvisa, quando non manchi troppo di quel senso di onestà, di verità, di semplicità e di gentilezza, a cui si debbono le più belle opere d’arte e di cultura.

Con queste parole molto frettolose non volli che rispondere al suo cortese invito, solo per quel tanto che io ne penso e ne so: ad altri ben più dotti le discussioni erudite.


....Alla stessa maniera che i dizionari, dirò così, ufficiali, della lingua italiana, registrano i modi e le parole che vivono già da tempo, e quei modi e quelle parole che stanno per morire, e i modi e le parole che sono già morte, anzi già fossili, il di Lei dizionario moderno registra e documenta e talvolta ricerca le origini di modi e di parole che le relazioni commerciali, industriali, politiche, letterarie, ecc., portano continuamente fra il materiale della nostra lingua. Di questi modi di recente importazione alcuni non trovando l’ambiente favorevole avranno vita breve; altri potranno adattarsi all’ambiente e si fonderanno colla lingua ufficiale, talvolta anche a danno di altri modi meno vitali. È bene aver registrato questo momento nella lingua italiana.

· · · · · · · · · · ·

I puristi non registrano le parole nei vocabolari quando quelle parole nascono, ma solo quando sono già vecchie, e magari quando stanno per morire.

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Nella di Lei mente il suo Dizionario moderno si è formato come un libro scientifico. — Ella ha dovuto concepire il suo dizionario colla forma metodica, riunendo in capitoli separati ciò che la moda, la cucina, il teatro, ecc., portano ciascuno di loro contributo. Riducendolo così come Ella ha fatto all’ordine alfabetico, il suo libro riesce più pratico, più utile, più facile a consultarsi per chi non ha il «buon tempo» a cui accenna nella sua prefazione.

Ho già capito che anch’io ogni giorno avrò bisogno di consultarlo, ma siccome, senza avere il «buon tempo» mi piaciono le cose belle, voglio anche leggerlo da un capo all’altro come si legge un libro di storia naturale, e sono certo che vi ritroverò il piacere da me provato già leggendo una parte della lettera V, piacere reso più vivo dalle sorprese talvolta inaspettate che la sorte dell’ordine alfabetico procura.



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.....Il Dizionario di cui si compiace mandarmi, colla prefazione, un foglio di saggio, mi pare frutto di un’idea geniale e coraggiosa per la difficoltà dell’esecuzione.

Sulla questione dello stato presente della lingua italiana. Ella lascia ben poco da dire perchè previene e combatte vittoriosamente tutte, o quasi, le possibili obbiezioni. D’altra parte la sua prosa, che concilia meravigliosamente l’eleganza classica colla decorosa spigliatezza moderna, è il più valido sostegno delle sue ragioni.

Solamente sono meno pessimista di Lei sul giudicare dell’efficacia della scuola la quale, da un po’ di tempo, mi par che vada migliorando, malgrado l’aperta negligenza di chi la dovrebbe curare. E anche sarei un po’ più indulgente coi nuovi puristi come Lei chiama i manzoniani, non foss’altro perchè sono ridotti a picciola schiera come i patriotti dell’età aurea.

Ma, giacchè Ella desidera qualche impressione più determinata. Le dirò che mi pare che il Dizionario meriti un pochino l’accusa di troppo ospitale, da Lei così argutamente fatta a questa terra d’Italia. — Trovo, per concretare il mio pensiero — che certi vocaboli prettamente francesi di cui abbiamo il corrispondente nostrano potranno bensì essere usati dai Dodi e dalle Dodine, ma non credo meritino l’ospitalità del suo dizionario.

Così lascierei di registrare in un dizionario che dev’esser dell’uso per eccellenza certe citazioni latine che sono rarissimamente usate, (v. vestis virum facit).

E tralascierei del tutto le parole già registrate negli altri dizionari di cui il Suo è un supplemento (v. viabilità, vidimare, vertenza).

Prof. A. BUTTERI ROLANDI.


.....Poichè Ella chiede anche a me — incompetente — una risposta alla questione trattata nella prefazione al suo interessantissimo «Dizionario Moderno», eccomi a compiacerla.

Il popolo italiano ha oggi ancora una limitatissima coscienza di sè, del suo avvenire, delle sue forze intime e latenti, dei progressi che ha già compiuto, di quelli che un giorno potrà conseguire. Questo fatto è comune, a tutti, o quasi, i campi di una attività, che è pure feconda, svariata, incessante; e della quale si possono già vedere risultati più che notevoli.

Una diretta conseguenza si è: che a quel modo che ai nostri prodotti, agricoli e manifatturieri noi imponiamo spesso nome e marca estera per accrescere il loro credito sul mercato internazionale; a quel modo che i nostri lavori scentifici non sono «serii» se non hanno un pianterreno di note, rimpinzate di bibliografia straniera, preferibilmente tedesca o inglese; così il linguaggio usuale è pieno di parole, di modi, di costrutti esotici; e il cadere, anche consapevolmente, in questo difetto, sembra proprio caratteristica delle persone colte.

Il rimedio? Ella vede che bisognerebbe fare lungo discorso.

Certamente però la strada più sicura, per quanto non sembri la più breve, è quella di risvegliare e rinfrancare il sentimento nazionale, migliorando le condizioni economiche, morali, intellettuali del Paese. Quando l’Italia sarà più sana, più colta, sopratutto più ricca di quello che ora non sia, la parto patologica, com’Ella dice, di questo fenomeno tenderà ad attenuarsi sempre più. (Se scomparisse anche la parto fisiologica sarebbe grave danno: Ella, credo, ne è persuasa quanto me).

Non nego che sull’argomento si possano dire moltissime altre cose, da altri punti di veduta: ma la ragione da me accennata non mi sembra proprio tra le ultimo per ispiegare il fenomeno che Ella studia con tanta sapiente diligenza e con tanto amore.

ARNALDO AGNELLI, avvocato, professore di Economia Politica.


.....La ringrazio di avermi mandato le pagine di saggio del suo Dizionario Moderno d’imminente pubblicazione e mi congratulo con lei d’aver pensato e fatto un’opera la quale — per l’affidamento che ne danno la coltura e la genialità del suo autore — sarà, un dì, eminentemente interessante, nonchè — per il vivo bisogno che se ne sente, o almeno, che se ne dovrebbe sentire in Italia — riuscirà certo fra le più utili e feconde di bene. [p. 582 modifica]

Quante volte non ho io invocato un dizionario come quello ch’Ella sta per dare alle stampe! Epperò immagini con quale piacere ne saluterò la comparsa: lo leggerò lo studierò, lo consulterò spessissimo e così mi auguro faranno i miei colleghi.

Perchè il suo dizionario — a giudicarne dal saggio che ho sott’occhi — penso che gioverà sopratutto a noi giornalisti e che diventerà, come si suol dire, uno dei ferri del nostro mestiere.

Io me ne riprometto, anzi, due vantaggi immediati.

Anzitutto esso servirà ad incoraggiare e sussidiare il proposito che ognuno di noi dovrebbe avere a cuore, di ricercare, cioè, e mettere in uso espressioni italiane anche per molte cose moderne di origine e di ricorrenza straniera.

Ella scrive argutamente e giustamente — «Vi sono parole italiane così belle, alate, luminose, che qualche volta danno delle feroci stoccate alle loro consorelle franco o anglo-italiane: voglio dire che se si scrive con un po’ d’amore esse ricorrono spontanee ove la penna ecc. — ». Ma vede, nel caso nostro, non è l’amore che manchi talvolta, è il tempo: onde — non avendo sotto mano un libro di consultazioni che, appunto, manca finora — ci succede spesso, come al sarto del Manzoni, di tendere invano a tutta forza l’intelletto senza trovare, lì per lì, sul momento, l’espressione o la parola italiana pura, bella, efficace, che si sa che esiste e che si vorrebbe ben usare invece del modo di dire straniero o barbaramente italianizzato che ci viene alla penna.

L’altro vantaggio che, spero, deriverà dalla pubblicazione, o — dirò meglio — dallo studio del suo dizionario sarà quello di vedere una buona volta nei nostri giornali parole, frasi e modi di dire stranieri — quando siano necessariamente conservati nell’originale — trascritti con correttezza e citati... a proposito: che una delle specialità della parola o della frase straniera la quale invade il nostro bel paese, è certo quella di essere spesso maneggiata da noi senza alcun rispetto alle sue ortografie e nemmeno al suo vero significato!

MARIO BORSA (publicista).


..... Da un pezzo mi sentivo in debito di una risposta al saggio speditomi del suo Dizionario Moderno, ma il ritardo ebbe oneste ragioni.

Io mi sentiva cioè tentato di rispondere a lungo ad alcuno almeno dei quesiti da lei sollevati, a lungo come meritava l’invito e l’importanza della cosa, ma cecidere manus non solo perchè travolto da altri studi, ma perchè all’atto mi accorsi quanto ardua fosse l’impresa di scendere male armato in un campo ove l’uso, l’autorità, il buon senso, libri e volgo combattono da tanto tempo e con sì diversa fortuna.

E anche ebbi paura di far vedere troppo — in fatto di teoriche di lingua — il mio codino manzoniano — dico del Manzoni artista più che trattatista, — non vedendo io senza qualche adombramento la rinascente invadenza dei dialetti regionali a danno della più salda unità che ha sua base nel fiorentino: fenomeno che ella mi parve invece considerare con maggiore indulgenza e simpatia.

Tutto considerando, preferii un po’ da poltrone sottoscrivere a molte cose buone da lei dette bene, e approvare senza condizioni l’opera da lei promessa, ormai necessaria nelle presenti condizioni della lingua, alle quali nulla gioverebbe il querulo pianto dei puristi.

Prof. ATTILIO DE MARCHI.


.... Il saggio che Ella mi invia del suo «Dizionario moderno» e gli intendimenti da Lei esposti nella prefazione promettono che l’opera riuscirà utile soddisfacendo a una necessità della presente coltura.


.... Sulla grave questione della lingua io sono — come nella vita — un ottimista, vale a dire ho fede nel buon senso italiano e, sopratutto, in quella suprema legge naturale per cui l’evolversi e il tramutarsi degli esseri e delle cose è irrevocabile e avviene sempre per il meglio. [p. 583 modifica]

E come io non sono un letterato puro (poeta o romanzatore) ma un modesto studioso del fenomeno geniale, cerco sempre, scrivendo, di esprimermi con chiarezza pur di essere subito inteso.

Non repudio quindi nè i barbarismi, nè i neologismi quando sono indispensabili all’immediata e completa manifestazione del pensiero.

Tocca a voi: poeti, novellatori, romanzatori, commediografi, di ravvivare il culto della lingua; di purgarla dall’inquinamento dei vocaboli esotici, di rimettere nel gran circolo della vita le voci obliate, maturate o sepolte, affinchè risorgano vive e spiranti e tornino dell’uso.

Del resto i puristi hanno torto di lamentare la profanazione e gli sciatti di proclamare la libertà assoluta: reazionari gli uni, rivoluzionari gli altri. Il buon senso sta nel mezzo e cerca di conciliare la purezza con la modernità, la regola con l’uso.

Chi scrive di scienza o di filosofia ha da esser chiaro, evidente, conciso, anche a costo di offendere le ombre severo di Antonio Cesari, Basilio Puoti, Gianfrancesco Galeani e tutti i cruscanti testerecci.

ADOLFO PADOVAN.


.... Pei Dizionari ebbi sempre predilezione. Essi m’insegnarono non solo il valore ed il senso delle parole, ma un mondo di cose; e mi furono come uno spiraglio per vedere distinto e illuminato ciò che m’era incerto ed oscuro.

Quel passaggio da una ad altra voce, spesso fra loro disparate di significato, trasporta la mente a svariatissime cose e snoda l’intelletto e lo rafforza. Quello studio di vocaboli ci fa penetrare non soltanto nel linguaggio di un popolo, ma nella sua storia, nella sua vita; e frammezzo, e accanto, alla filologia vi trovai l’arte.

Pensaci e dimmi se m’inganno.

Ma se amai sempre i Dizionari, ora li amo ancor più perchè tu, mio caro, me ne presenti uno nuovo, originale e, aggiungerò, necessario, giacchè oggi siamo, in fatto di lingua, in un labirinto intricato e scuro e tu ci dai il filo per uscirne e per rivedere la luce.

Io sono ben convinto del tuo libro, ma se non lo fossi, la tua Prefazione nitida, stringente per argomentazione, mi avrebbe condotto a darti piena ragione.

A te dunque mando il mio consenso e la mia lode.

FERDINANDO GALANTI.


.... Ho ricevuto il saggio del suo Nuovo Dizionario, e mi affretto a fargliene i miei più sinceri rallegramenti e ringraziamenti: è un libro di cui mi sono augurato cento volte la comparsa e che, d’altra parte, temevo non potesse comparir così presto, attesa la speciale difficoltà e la grande fatica del lavoro. Lode a Lei e all’Editore! Nessuno vorrà pretendere che in questa prima edizione il volume sia scevro da lacune, da ridondanze ed anche da inesattezze. Quello sì che avrei voluto già ora — perchè cosa necessaria, come lo hanno visto gli autori tedeschi nei loro «Fremdwörterbücher e nei loro lessici — si è l’indicazione della pronuncia, sia delle parole straniere che delle italiane, e la (pure indispensabile) indicazione del genero (masch., femm., sing., pl.; dei nomi e degli aggettivi. Senza questo indicazioni il volume è assai spesso di poca utilità pratica, come Ella potrà farne esperienza se vorrà far leggere, p. es., Weihnachtsbaum a chi non sa di tedesco e se questi dovesse applicarvi l’articolo (masch.? femm.?). Inoltre occorre assolutamente che sia indicato in quale lingua è scritta la parola o la frase dell’articolo (come è fatto già in alcuni punti). Se l’Editore mi favorirà un esemplare io lo ingombrerò certo con molte note per mio uso e consumo. Intanto godo che finalmente sia stato vinto l’indirizzo meschino e pernicioso degli Ugolini e dogli altri puristi.

Prof. Dott. LUIGI POLACCO.


..... il vocabolario (a parto qualche giudizio, del resto non necessario, che turba, secondo me, la serenità del libro) mi piace, e riesce una lettura gradita, certo, più di [p. 584 modifica]quella del dizionario vero e proprio, consigliata dal De Amicis. Di qualche sovrabbondanza o difetto ti sarai accorto tu stesso; ma come evitare le une e gli altri, se il criterio che ti ha guidato nell’accogliere le varie voci, doveva necessariamente essere del tutto soggettivo?

Certamente chi legge ha diritto di domandarsi se codesto tuo criterio è fondato su ragioni buone, od almeno plausibili; ed io, per mio conto e per quello che posso giudicar dal saggio offertomi, mi sono risposto senz’altro che sì.

È inutile: in Italia noi abbiamo due lingue: una più solenne, più aristocratica, più togata, che ci si fa innanzi ne’ discorsi accademici, nelle scritture, diciam così, ufficiali, nei libri scolastici, e (non par vero!) talvolta nei componimenti degli alunni; ed una che ci serve per i discorsi familiari, per le lettere private, per le «pratiche» d’ufficio, per il giornale politico, per quello pseudo letterario a due soldi il numero, e via via. C’è chi crede (tu stesso, se ho inteso bene) che a lungo andare esse si comporranno in una lingua sola, rispondente al movimento multiforme del pensiero italiano moderno; io non lo credo. La seconda di tali lingue è troppo capricciosa, troppo insofferente di freno, da un secolo e mezzo in qua, troppo sbrigliata. Alcuno vorrebbe farle intendere la ragione, darle qualche buon consiglio. Ah! è tempo perso. Perchè non dire «rapportatore» invece di quello sgarbato e inarmonico «reporter»? sembra domandarle il Carducci, autorevole se altri mai; e la ribelle fa orecchi da mercante e continua a compiacersi del suo inglesismo. Io stesso poi, che vado raccogliendo dal giornale quotidiano le espressioni ed i vocaboli novissimi, lo trovo tanto moderato in politica quanto giacobino in materia di lingua, nè vedo segno alcuno di resipiscenza.

Aggiungi che la smania di riuscir «veri» spinge scrittori, anche eminenti, a far buonviso al provincialismo, anzi ad usare senz’altro per intere pagine il dialetto di una regione; ed il pubblico naturalmente, applaude.

O dunque che s’ha a fare? Concedere tutto e non tentare nemmeno più di fare argine alla corrente che va via via ingrossando? No certo, ma almeno mostrare coll’esempio che la parola italiana, prettamente italiana, talvolta c’è, ed aspetta solo di esser rimessa in onore; opporre al linguaggio incomposto e capriccioso del pubblico quello decente e composto della tradizione, non colla velleità di sopraffare o distruggere il primo, che sarebbe contro ragione, ma affinchè quest’ultimo quasi vi si specchi entro, e, sentendosi come tenuto d’occhio, non s’abbandoni a tutti i capricci della sua spensierata ed esuberante giovinezza.

Prof. FRANCESCO FOFFANO.


..... Garzonetto ginnasiale, ebbi sentore della trovata d’un popolare nostro scrittore, esaltante il divertimento della lettura del vocabolario. Ne risi allora e sino a ieri ne risi. Io credeva che lo scorrere di proposito un dizionario potesse impiegarsi unicamente come un «sostitutivo» degli ipnotici nella disgrazia dell’insonnia, o esser tavola di salvataggio nei casi — immaginati — di deportazione perpetua, colla licenza di recar seco non più d’un volume. Dicevo: solo il dizionario, in fondo al quale non è supponibile che mai giunga lettor vivo, solo il dizionario darebbe l’assicurazione di bastare per tutta l’esistenza!

Il suo assaggio di Dizionario moderno mi fa ricredere e mi fa disdire. Esso promette di diventare un archivio prezioso, quale i Geflügelte Worte, di giovare al par di certi dizionari tecnici, di adempiere in parte all’ufficio d’un Conversation’s Lexicon e d’un rapido manuale di Istituzione di bella letteratura.

Un libro da grammatico, che erudisca e insieme diletti, parmi quasi l’avvento delle cose impossibili. Dunque?..... Omne tulit punctum.

M. L. PATRIZI.


Ci voleva certo un dizionario che fosse Supplemento ai Dizionari italiani; cioè, che contenesse, non diciamo tutte, ma una gran parte di quelle voci dell’uso moderno, che i Dizionarii i quali insegnano come si deve scrivere piuttosto che come [p. 585 modifica]si scrive, non registrano. Il Signor Prof. Panzini ha inteso colmare questa lacuna e, per quanto posso giudicare da questo breve Saggio, vi si è accinto con intelligenza e diligenza.

Sembrami per altro ch’egli abbia abbracciato troppe e troppo svariate cose, tanto che il suo Dizionario somiglia assai a quelli che si vuol chiamare Dizionari di conversazione, de’ quali vi sono già degli esempi nella nostra e più in altre moderne lingue. Qui infatti si trova quasi una piccola enciclopedia di storia, poesia, scienza, geografia ecc. Mi sarebbe sembrato miglior cosa l’essersi ristretti alla lingua comune ne’ suoi molteplici casi non comunemente registrati, ed anche, se volevasi, ne’ principali proverbi e dicterii, senza entrare in cose troppo speciali od erudite, come Vasel d’ogni froda, Vecchio stile, Venere di Milo, Veneree malattie, Vera incessu patuit Dea, Vil maggioranza, e tante altre simili. I confini del Dizionario restano, se non erro, male determinati, nè si può scansare il troppo od il poco. Lodo bensì il distinguere che vi si fa del merito di ciascuna voce, anche secondo l’approvazione o la disapprovazione de’ puristi, verso i quali l’Autore non si mostra ingiusto, e fa bene.

La Prefazione contiene molte verità, e attesta nell’Autore un criterio sano ed imparziale, ma non sempre ben determinato e un po’ cedevole alle transazioni, tanto che ora dice di sì, ora di no; senza venire ad una conclusione netta. Lo stile la pretende troppo allo spiritoso e all’umorista, e si riveste di troppe frasi del moderno gergo scientifico; se pure l’Autore non l’ha fatto apposta per parere scrittore di gusto moderno, e conformarsi al titolo della sua opera.

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.... Anch’io però non oso dire che si scriva bene dai troppi che pur senza aver nulla da dire, fan professione pennaiuola; ma la lingua, per chi ha idee o fantasmi nel cervello e nell’anima, in Italia c’è, e ricca e bella e più che adatta, se conosciuta intera, a descrivere e significare mirabilmente qualunque aspetto tangibile della materia e imagine dello spirito. Ma noi ignoriamo il nostro patrimonio comune, perchè fin da bambini preferiamo i romanzi illustrati ai dizionari, e andiamo nelle scuole a parlare di grammatica e stilistica, costruzione cioè e ornamentazione, senza prima conoscere i materiali da impiegarsi. Lo stato odierno della nostra lingua mi pare tuttavia soddisfacente per il conveniente uso di pochi ma dignitosi scrittori; e sebbene nessun altro organismo abbia, per il suo stesso rigoglio, più parassiti di essa e nessun’altra sostanza sia rimaneggiata da una caterva maggiore di guastamestieri che ne minacciano l’integrità nativa e la libertà di funzione, io non credo che possa totalmente falsificarsi o impoverire e decadere. Certo nè il purismo fossile potrà giovarle più del normale sviluppo evolutivo, nè l’eclettismo dei giornalisti nuocerle più della burocrazia ufficiale e commerciale, ecclesiastica e letteraria. Qui veramente è la morta gora dove la nostra favella si incancrenisce e si consuma per idropisia e per tisi! Lì, lì, lì è il marcio! Non badiamo dunque con troppo rigore alle voci sane che di contrabbando s’infiltrino nel nostro non più vergine idioma. Il flusso e riflusso è un fenomeno naturale che si manifesta ancor più nella selezione universale di tutti i destini e subordina ogni vitalità alla suprema legge del moto. Tradizione quindi e reazione in natura, in arte, in politica, in letteratura, in tutto ciò che non ha da perire.

LUIGI DONATI.

  1. La parola sindrome è spiegata a suo posto. (Nota dell’Autore).