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si può star certi che avranno vita effimera. Vi son parole che sorgono perchè un individuo le crea, perchè un fatto le provoca; ma, passato l’individuo, spentasi l’eco del fatto, scadon di moda, scompaiono; hanno servito pel bisogno del momento: cessato il bisogno, muoion da sè. Or di queste parole e frasi ve n’ha moltissime, e ogni giorno ne nascon di nuove. Tutte quelle che, in questi ultimi anni, molti o pochi hanno usato ed usano, Ella ha raccolte nel dizionario; ma chi sa se avranno vita? Alcune già vedo moribonde; altre mi sono parse nuove e le ho lette per la prima volta — il che vuol dire che non sono dell’uso comune — ; altre sono usate da una ristrettissima cerchia di persone per loro singolari bisogni, spesse volte giochi di effimera moda; e perciò non si può asserire che tutte facciano veramente parte della nostra lingua. Le lingue mi pare siano simili a grandi fiumi che scorrono. La corrente si muove e perciò si muta; ma non bisogna confondere la gran massa dell’acqua colle foglie secche e coi fiori che vi possono cader sopra e che per un po’ stanno a galla e magari luccicano al sole, ma poi sono giù travolti e scompaiono. Certo che s’Ella avesse voluto prendersi la briga di distinguere i neologismi necessari, efficaci, belli, forti e ormai consacrati dall’uso, da quelli già morti o moribondi o presumibilmente morituri, si sarebbe messa in un ginepraio anche più aspro di quello nel quale coraggiosamente si è messa; ma forse un po’ di discrezione bisognava usare, e, se non erro, Ella è stata un po’ troppo largamente ospitale. Coi larghissimi indefiniti criteri coi quali Ella ha condotto il suo lavoro, io penso che, tra un anno, se vorrà continuarlo, troverà duplicata, triplicata la materia, e ogni mattina alzandosi, Ella avrà in casa sempre una invasione di nuove parole: sarà una disperazione, caro collega. E intanto io dubito che anche le 500 pagine del suo dizionario attuale possano trarre in inganno (come già un po’ Lei stessa) qualche altro studioso, e fargli credere che tutte quelle migliaia e migliaia di voci e frasi siano proprio lingua viva o vitale in Italia. No, le forze conservatrici che dominano le lingue, sono molto più forti delle forze innovatrici. Dai grandi fiumi secolari delle lingue consacrate dall’uso e dalle letterature, noi non ci possiamo scostare; e, in verità, con tanta vita nuova che ci ferve d’attorno, ci conserviamo più puristi di quello che comunemente si crede; anzi, col progredire della vita civile, avviene che aumentano, è vero, i neologismi, ma, d’altra parte, cresce anche e maggiormente si diffonde la cultura, e questa ci lega più strettamente alle tradizioni della nostra lingua, al purismo; la cultura vince la moda: passano le foglie, resta la corrente regale.
Io credo ormai che (come già gli studi scientifici dell’Ascoli ebbero la virtù di far cessare la famosa «questione della lingua») anche adesso la scienza un’altra volta ci risparmierà di tornare sopra la medesima o sopra una simile questione; e credo che il buon senso trionferà, il buon senso italiano che, nel suo eccletismo giudizioso, in pochi anni da che l’Italia è fatta, ha già posto (checchè si dica) solide basi di una lingua nazionale viva, bella, vigorosa ed efficacemente espressiva. Noi abbiam lasciato discutere a lor piacimento cruscanti e non cruscanti, siamo stati via via manzoniani, carducciani, d’annunziani, e poi?... e poi, tratto vantaggio dagli ottimi esempi dei maestri che furono che sono e che saranno, noi non resteremo nè manzoniani, nè carducciani, nè d’annunziani, ma più generalmente italiani, e useremo quella lingua che, senza fisime, ci viene fuori dal cervello e dal cuore, allorchè vogliamo esprimere quello che dentro sentiamo: lingua antica ma sempre nuova, ma rinsanguata dal giovino sangue di mille parole nitide e vigorose che le necessità del nuovo pensiero e della vita nuova avranno potuto accogliere e creare.
Com’Ella vede, io son dunque un poco ottimista, nel giudicare «dello stato presente della nostra lingua», e le cinquecento pagine di neologismi ch’Ella offre alla considerazione degli studiosi, non mi pare ci debbano far paura. E pur dai giornali traggo conforto al mio ottimismo. Ciò ch’Ella scrive, che «la lingua usata dal giornale è di solito deplorevole» non trovo sia giusto giudizio; è una vecchia condanna che non dovrebbe essere più ripetuta. Io so che tutti i nostri ingegni migliori, più o meno, al giornalismo hanno collaborato o collaborano, e molti di essi esercitano professione di giornalista; e so che ogni giorno io leggo su pei giornali, articoli d’arte, di scienza, di politica, e persino affrettate corrispondenze dal campo di battaglia, dal tribunale, dal teatro, dalla borsa, così chiare e vivaci ed efficaci da far impallidire le pagine di molti professori. E poi è una malignità anche questa mia: da qualche tempo scrivono bene anche i professori, pur dettando quei lor ponderosi e noiosi volumi che son costretti a comporre per i concorsi.