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tica; dall’altra l’avventata prontezza di innumerevoli italiani nell’accogliere le espressioni di modo nuova, per quanto irragionevole e spuria, e il loro quasi compiacimento nell’usare la frase forestiera in luogo della nostrana. Son l’uno e l’altro costumi servili, da cui non può guarirci se non la sana consapevole libertà dei tempi nuovi. Ma quali sono i limiti di questa libertà? Nessuno può determinarli, dice il Panzini, e ha ragione. Nessun areopago di grammatici può legiferare in questa materia senz’essere disobbedito o deriso. «La discrezione e il limite potrebbero essere dati dalla necessità, ma più da un nobile senso individuale di italianità, per cui l’uso, quando è inutile, di parole straniere dovrebbe ripugnare come ad una persona pulita ripugna il compiere un atto sudicio, anche se è sola e non vista.... Se uno scrupolo continuo ci deve perseguitare nello scrivere e nel parlare, l’italiano l’impareremo a cinquant’anni. Poche e sicure norme grammaticali, fede nella parlata natia, un po’ di amore e di conoscenza della tradizione letteraria, e il resto affidatolo alla divina natura».
Non altrimenti, in fondo, sentiva il Leopardi, il quale, vide e previde questi dubbi nostri, e li risolse, almeno in teoria, con moderna indipendenza di pensiero. «Conviene — si legge in un suo frammento opportunamente ricordato come decisivo, a questo proposito, da Romualdo Giani — conviene proclamar lo studio profondo e vasto della lingua, e nel tempo stesso la libertà che ciascuno scrittore, impadronitosi bene di essa e conosciutane a fondo l’indole, usi il suo giudizio nell’introdurre e impiegare e spendere la novità necessaria, anche straniera».
Appunto così. La lingua buona non è, non può essere oggi quella de’ grammatici, ma quella degli uomini di buon senso e di gusto sinceramente, educatamente italiano, i quali sappiano secondo il bisogno sciegliere l’espressione opportuna, conciliando con avveduta temperanza il vocabolario della Crusca e.... il Dizionario moderno di Alfredo Panzini.
.....A dare (com’Ella mi chiede) un giudizio serio e pensato «intorno allo stato presente della lingua italiana», mi abbisognerebbero qualità competenza meriti e tempo che non ho. A ciò avrebbe potuto giovarmi l’esame di tutto il Dizionario che con tanta geniale fatica ha compilato; ma sfortunatamente non ne ho qui dinanzi che poche pagine. Le scrivo perciò senza l’ombra di pretensione.
Non v’ha dubbio che la nostra lingua viva che generalmente parliamo e scriviamo, è più ricca (o, forse meglio, diversa) di quella che è raccolta nei comuni dizionari, e che il popolo italiano, colto ed incolto, non ha scrupoli ad accettare ed usare le più svariate forme linguistiche di espressione, senza chiedere loro la nazionalità e la origine; il suo dizionario sarà ed è un curiosissimo ed utilissimo libro di storia. Tra cento, tra mill’anni, i nostri posteri, se vorranno sapere come si parlava, nell’anno di grazia 1904 (chi sa se allora qualcuno troverà tempo ancora di fare il filologo!?), dovranno di necessità prendere in esame, oltre agli altri comuni dizionari nostri, anche il suo «Supplemento». Quanto poi a determinare se le espressioni da Lei raccolte siano utili o necessarie, possano essere oggi usate, o siano per essere un giorno accolte nei dizionari della nostra lingua pura, questa è un’altra questione ch’io non saprei definire. Solo il nostro futuro lontano filologo potrà saperne la soluzione. A noi, per ora, non resta altro, mi pare, che star a sentire quel che il popolo dice, il popolo che, a dispetto di tutti noi, (ci chiamassimo anche Manzoni o Tommaseo) fa, rispetto alla lingua (e il resto) tutto quello che gli pare e piace. Noi staremo da principio, un po’ dispettosi, arcigni, riservati, prima di deciderci a introdurre nella nostra purgata prosa questa o quella paroletta nuova od impura, ma se il popolo ci si intesterà, dopo dieci o vent’anni, per forza, se vorremo farci intendere, useremo anche noi la paroletta, anche se sarà di origine giapponese, e goffa ed aspra e non necessaria.
Credo per altro che non bisogna scendere ad esagerazioni, riguardo a codesta invasione di parole nuove o barbare: e non è giusto che noi ci calunniamo. Non è vero che oggi gl’Italiani scrivano molto male; certo è che, cinquant’anni fa, in generale, scrivevano peggio. E poi bisogna distinguere neologismi da neologismi. Alcuni di essi resteranno, perchè saranno riconosciuti necessari ed efficaci, ma altri molti