Dal Trentino al Carso/La titanica lotta nel Trentino/Il baluardo ripreso

Il baluardo ripreso

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IL BALUARDO RIPRESO.

Vicenza, 25 luglio sera.

La vetta del Monte Cimone è riconquistata.

Se non si fossero visti i nostri alpini salire, inerpicarsi, scalare e assaltare quell’imponente castello di rocce a picco che costituisce la sommità del monte, non si riuscirebbe a capire come si sia potuta espugnare una posizione isolata da pareti immani. La vista della montagna spaventa. Da Arsiero essa appare come un torrione massiccio, grigiastro, tormentato, maestoso, erompente con truce possanza da precipitosi declivi impellicciati di boscaglia. L’attacco doveva balzare sull’inaccessibile. Non v’era altra via. Bisognava andar su per una muraglia, in pieno giorno, di viva forza, sotto la grandine delle granate a mano.

Questo si è fatto. E anche dopo avere assistito all’azione, rimane un non so quale dubbio assurdo, l’impressione di un inganno di sensi, di una gloriosa allucinazione, tanto la verità appare inverosimile. È stata una visione di guerra indimenticabile, uno di quegli spettacoli che rimangono vividi nella memoria per tutta la vita, e che ad ogni momento si ricompongono avanti allo sguardo assorto. L’occhio che ha fissato una gran luce, abbacinato, continua a vederla quando [p. 75 modifica] si è spenta, la porta con sè, se ne è riempito; così chi ha visto la battaglia del Cimone ha nelle pupille l’immagine persistente di una confusione di rocce, di uomini e di fumo.


Il Cimone è una montagna dalla parte nostra ma non dalla parte del nemico. È simile a certe rive dirupate, che presentano ai navigatori profili di vette precipitose e che non sono altro che il bordo di vaste pianure. Il verde altipiano di Tonezza scende dalla cresta rocciosa dello Spitz Tonezza, forma una conca, risale e finisce bruscamente ad un ciglione. La sommità di questo ciglio è il Cimone. Gli alpini che si sono arrampicati sulla grande parete, giunti alla sommità hanno visto avanti a loro un pianoro pittoresco, un dolce declivio di prati e di boschi, filari d’alberi, casette dai tetti rossi circondate da campi. Hanno ritrovato lassù i molti aspetti di una vallata chiusa, in fondo, al nord, da altri monti: lo Spitz Tonezza, il Campomolon, il Coston d’Arsiero.

L’altipiano di Tonezza, che finisce al salto del Cimon, è sottile e lungo. È una lingua di terra, un’angusta penisola circondata dall’abisso, serrata fra due spaccature profondissime, la valle dell’Astico a oriente, la gola del Rio Freddo a occidente. Immaginate uno strano giardino pensile portato da un lungo sperone di roccia, inaccessibile. La punta estrema, il [p. 76 modifica] Cimone, sovrasta la confluenza delle due valli laterali, le due spaccature dell’Astico e del Rio Freddo. Il Cimone è come la prora di una nave. Quando gli austriaci, stretti ai fianchi dalla manovra di Cadorna, si sono ritirati, hanno tenuto il Cimone, saliente formidabile, inattaccabile, vero mastio di fortezza avente il precipizio per fossato. Esso penetrava profondamente sulla nostra linea, era in mezzo a noi, dietro di noi, come una sentinella avanzata del nemico postata nel vivo della nostra occupazione. Vedeva tutto quello che facevamo nella valle del Posina, in quella dell’Astico, in quella del Rio Freddo, nel basso corso dell’Assa, stava eretto e insolente nel nodo di tutte le vallate, dominava i nostri fianchi e le nostre spalle, dirigeva il tiro delle artiglierie austriache sulle nostre retrovie, paralizzava le operazioni sul Seluggio, sul Majo, sulla Punta Corbin, di cui vedeva i rovesci.

La nostra avanzata salì subito le prime pendici del Cimone e prese il Caviojo, che è una sfaldatura del Cimone, una vetta formata dalle franatane dello sperone. Si annidò sotto alla parete e dovette fermarsi. Continuò invece ai fianchi, si insinuò nelle spaccature laterali, penetrò come un’onda intorno ad uno scoglio, risalì l’Astico, risalì il Rio Freddo, cercando di isolare il Cimone, di tagliarlo fuori. Ma si vide subito che era ancora più difficile assalirlo sui [p. 77 modifica] fianchi che attaccarlo di fronte. Perchè la parete di roccia è ininterrotta, e il tiro delle artiglierie nemiche batteva assai meglio i fianchi che non la punta avanzata. Anzi la punta estrema, per la sua penetrazione nella nostra fronte, formava un angolo morto, era irraggiungibile dal bombardamento nemico.

Sui fianchi non potevamo muoverci dal fondo dei burroni angusti senza trovarci allo scoperto sotto a tutte le batterie. La nostra occupazione in certi punti aveva, ed ha ancora, del fantastico. Non si può immaginare niente di più strano, di più assurdo, di più favoloso della situazione nel Vallone del Rio Freddo: noi siamo giù nella gola orrida e tenebrosa, e gli austriaci ci occupano i ciglioni dalle due parti. Però le pareti sulle quali sta il nemico sono così alte e così a picco che per spararci addosso gli austriaci dovrebbero abbassare perpendicolarmente le canne dei fucili, far fuoco ai piedi stessi delle rocce, e non possono affacciarsi. I colpi tirati dalle rocce di destra vanno contro le rocce di sinistra. Il nemico spara alla cieca, e la spaccatura mostruosa risuona tutta di un miagolio di pallottole che rimbalzano. Ma ruzzolano giù macigni e granate a mano, quando gli austriaci credono di indovinare un movimento di truppe, e alla notte il rombo dei camions attira tempeste di bombe. [p. 78 modifica] Era evidente che l’attacco risolutivo al Cimone doveva salire frontalmente, sul grande sperone dirupato della punta, difeso da reticolati intessuti sul ciglio della muraglia e da trincee blindate che bordavano il precipizio. Un primo tentativo fu fatto il quattro di luglio.

La scalata mancò. Nella notte si erano appoggiate delle lunghe scale a piuoli alla roccia per raggiungere qualche primo pianerottolo cespuglioso da dove si sperava di poter continuare l’ascensione per le anfrattuosità degli scogli. Non fu possibile. Si arrivò a passi insuperabili. Ma ventisei uomini, quasi tutti guide del Corpo di Finanza, che avevano trovato un canalone accessibile dalla parte dell’Astico, giunsero in cima. Furono massacrati ad uno ad uno fra sghignazzamenti e scherni. Nessun quartiere hanno dato i feroci jäger dell’imperatore. E nessun quartiere è stato chiesto.

I ventisei italiani andavano su, come se fossero stati legioni, incontro alla morte. Dal Caviojo si udivano gli austriaci gridare in italiano: «Perchè non venite qui sopra? Venite in tanti! Ah! Ah; Eccone uno! Che ne facciamo? Buttiamolo giù! Eh, attenti in basso!...» Dalle trincee nostre i soldati urlavano: «Vigliacchi! Vigliacchi! Verremo, verremo, non dubitate! Assassini!»

Quelli che non erano potati salire fino alla [p. 79 modifica] cima rimanevano attaccati come mosche alle rocce, e perchè essi si prostrassero, gli austriaci facevano cader giù dall’alto grosse pietre gridando: «Ecco un sasso, uno, due, tre!». Nel movimento istintivo di guardare in su, i nostri si scostavano dalla parete e in quell’istante erano visti da tiratori scelti annidati fra i massi. Quando non potevano sparare su nessuno, i tiratori nemici bersagliavano i feriti. Anche ieri, durante il combattimento, dei feriti nostri sono stati presi di mira e massacrati sulle loro barelle nella sella del Caviojo.

Dopo l’attacco mancato del 4 luglio, si è resa più intensa l’azione sul Seluggio, a occidente del Cimone, e alla confluenza dell’Assa, a oriente, per penetrare più addentro ai fianchi della posizione inaccessibile. Si è riusciti a passare l’Assa a Pedescala, cioè proprio dove l’Assa si getta nell’Astico, in un minuscolo delta chiuso fra enormi rocce come un cañon del Colorado. Gli austriaci erano alle spalle, sul Cimone, di fronte, sulle pendici dell’Erio e del Campolongo, sul fianco, lungo il ciglio orientale dell’altipiano di Tonezza. Tutte le strade erano distrutte dalle mine. La riva destra dell’Assa, che bisognava risalire, si presentava come un immenso spalto di roccia alto duecento metri sulla cui cornice si profilavano le trincee austriache. Avanti alle trincee si snodavano sette linee di reticolati. Non si poteva salire che [p. 80 modifica] per fila indiana, allo scoperto, sotto fuochi che si incrociavano da tutte le parti. I nostri sono saliti.

Sono saliti, e dagli osservatori si possono vedere i nostri reparti aggrampati sotto i reticolati, non si sa come, dominati dal ciglione insuperabile. Non si va più avanti per ora. Se la caduta del Cimone poteva dipendere da un progresso della nostra linea sui fianchi, non era meno vero che per progredire sui fianchi era necessaria la conquista del Cimone. Le posizioni nemiche, tutte a gradini, sono incatenate, dipendono una dall’altra, si appoggiano da tutti i lati.

Arrivati agli estremi limiti possibili lungo i fianchi del Cimone, si è ritornati all’attacco diretto del monte. Una grande attività offensiva, ostinata, persistente, alla nostra destra, sull’Altipiano di Asiago, ha costretto il nemico a portare su quel lato minacciato tutta la sua attenzione. Abbiamo descritto gli attacchi furibondi dei nostri allo Zebio, al Mosciagh, all’Interrotto, e su al nord verso il massiccio della Cima Dodici. Grandi concentrazioni di artiglieria italiana hanno provocato concentrazioni di artiglieria austriaca. Lottavamo pure con accanimento alla sinistra, nella zona del Pasubio e lungo la Vallarsa, verso le pendici del Col Santo e verso il Passo della Borcola. La battaglia tuonava alle ali. Sembravamo rassegnati [p. 81 modifica] alla situazione creatasi al centro. Qui il nemico si sentiva sicuro sull’alto dei dirupi, ed è alle ali che esso ha spostato una parte rilevante delle sue batterie.

Nello stesso giorno in cui doveva cominciare il nostro fortunato attacco del Cimone, un bombardamento intenso si è svegliato alla destra. Alle prime ore del 22 tutte le nostre batterie postate sull’altipiano d’Asiago hanno aperto il fuoco. Veniva da lassù un rombo continuo e cupo. Dalla vetta del Cengio si vedevano nembi densi di fumo scendere sui fianchi azzurrastri del Mosciagh, come se i boschi bruciassero. Il fumo calava a lunghe striature diafane nelle valli. A mezzogiorno, un gran silenzio. Gli austriaci che aspettavano l’assalto hanno allora iniziato raffiche di arresto per fermare nella selva le fanterie che credevano in moto. A dieci, a venti per volta scoppiavano gli shrapnells sulle cime degli alberi; il panorama era punteggiato di bianco. Sull’Astico invece, sul Posina, sul Rio Freddo, una quiete profonda, una immobilità di morte sotto al sole cocente, una tranquillità pesante, assoluta, sinistra.

A mano a mano che si avvicinava l’ora fissata per l’azione, il silenzio pareva farsi più grave, più truce, pieno di minaccia, come quelle calme plumbee e soffocanti che precedono i [p. 82 modifica] grandi uragani e nelle quali tutto sembra fermarsi in una attesa di spavento.

Non un colpo di fucile arrivava dalle trincee. Le posizioni parevano deserte. Si udiva salire dalle valli solitarie un lontano gracidare di cicale. Anche le centurie dei soldati lavoratori, incaricate di falciare le messi e di raccogliere le biade dove la popolazione è fuggita, le belle centurie di territoriali grigi che coltivano i campi di battaglia, avevano lasciato l’opra. Solo nell’ombra dei boschi, al rovescio di certi monti, intorno ai cannoni nascosti entro il fogliame si muovevano alacremente gruppi di artiglieri intenti a trasportare granate. Diverse centinaia di cannoni di ogni calibro, dai 305 mastodontici ai pezzi da montagna, si preparavano. Ve ne erano in basso, in alto, verso le cime, nelle gole, imbucati fra le rocce, annidati fra gli alberi, così invisibili da lontano che bisognava arrivare a due passi da un pezzo per scorgerlo.

Il piano d’operazione aveva stabilito che alle tre del pomeriggio tutte le batterie della zona aprissero il fuoco sul Cimone e sull’estremità dell’altipiano di Tonezza. Decine di migliaia di proiettili dovevano tempestare e sconvolgere quella vetta in dodici ore di fuoco. Neppure sull’Isonzo avevamo mai preparato finora un bombardamento così intenso, con una così vasta concentrazione di mezzi. Le posizioni [p. 83 modifica] nemiche del Cimone stavano per essere martellate da tre lati. L’artiglieria aveva un programma sapientemente studiato, che regolava ogni fase dell’azione, ora per ora, e le centinaia di cannoni erano poste sotto un comando unico, docili e pronte come gli strumenti di una orchestra infernale. Ogni batteria aveva il suo còmpito, il suo obbiettivo, il suo piccolo spazio ove picchiare.

Gli ultimi minuti di attesa erano grevi di ansia e di ebbrezza. Una leggera foschia metteva un velo lievissimo sulla posizione nemica, era una bruma diafana sorta dopo mezzogiorno, e pareva che il Cimone terribile, con le sue balze vertiginose e cineree, fosse subitamente impallidito.

Qualche secondo prima delle tre si è udito il primo colpo di cannone verso il Cengio. Un altro subito ha echeggiato nella valle. La quiete prodigiosa era rotta.

Cominciava una delle più grandi tempeste di fuoco della nostra guerra.

Il bombardamento che ha preparato la conquista del Cimone è durato tredici ore e mezzo, dalle ore quindici del giorno 22 alle quattro e mezzo del giorno 23.

In certi momenti il fuoco ha raggiunto l’intensità di mille colpi al minuto. Abbiamo restituito agli austriaci uno di quei cannoneggiamenti che essi hanno prodigato [p. 84 modifica] nell’offensiva. Vendicavamo il martirio del Novegno, del Lèmerle, dello Zovetto, dove le nostre fanterie erano rimaste ferme in veri cataclismi che minavano le vette e divoravano battaglioni.

Ogni cannonata aveva nelle vallate il lungo scroscio assordante di uno scoppio di folgore, l’eco rimandato da balza a balza non aveva fine, un fragore mostruoso scuoteva l’aria violentemente e la terra tremava. Fino oltre lo sbocco dell’Astico, fino quasi a Thiene, negli accampamenti lontani dall’azione, in tutti i paeselli che hanno cominciato da poco a rivivere dopo la minaccia nemica, nessuno ha dormito nella notte del 22, percorsa dal pauroso tumulto senza requie, piena di un boato immane e squassante che pareva prodotto da un crollo di montagna, da un urtarsi di vette, da una tempesta di rocce. Su tutte le alture dalle quali il Cimone poteva essere scorto si adunavano gruppi silenziosi di ufficiali. Assistevano ad un fantastico e tremendo spettacolo.

Il profilo del monte era vividamente illuminato dalle vampe violastre degli scoppi che palpitavano fra dense nubi di fumo, e le montagne intorno si accendevano del balenìo delle cannonate nei boschi. Di tanto in tanto un lampo bianco, accecante, infiammava per qualche secondo la vetta tempestata, uno sprazzo di luce più alto la impennacchiava. Era prodotto [p. 85 modifica] dall’esplosione di granate contenenti una miscela luminosa, che servivano a verificare il punto di caduta e a controllare così l’esattezza dei tiri. Sulla boscaglia fitta che riveste la punta del Cimone verso occidente, cadevano proiettili incendiari che facevano sprizzare fiammate gigantesche e nembi enormi di fumo, simili a getti di eruzione, e nel riflesso sanguigno e violento si vedevano macigni lanciati in aria, così illuminati da sembrare incandescenti e alberi stroncati che balzavano su e ricadevano roteando con lentezza.

Improvvisamente, per lunghi minuti, la montagna appariva tutta candida e accesa, strana, irreale, percossa dal raggio lunare dei proiettori che da tutte le parti concentravano su di lei il loro sguardo fosforescente. Si rivelava precisa, con la sua forma di lunga terrazza rocciosa circondata dal precipizio, e le masse di fumo che si svolgevano su di lei avevano come una densità di neve, formavano una convulsione soffice e bianca, una convulsione molle e opaca di cumuli squarciata da lampi.

In certi momenti pareva che l’assalto fosse imminente. I proiettori si spegnevano e le artiglierie allungavano il tiro; creavano al di là delle posizioni una cortina di interdizione, spostavano il fuoco come quando la fanteria sta per avanzare. Allora si manifestava un risveglio del nemico. Esso usciva dalle sue tane, [p. 86 modifica] dalle sue caverne, dai suoi rifugi per rioccupare le trincee, e lanciava a decine i suoi razzi illuminanti che solcavano il cielo per crearvi abbaglianti costellazioni mobili ed effimere, meteore oscillanti sotto alle quali tutte le vette intorno apparivano diafane e chiare. Ma dopo una mezz’ora, tutto ad un tratto la bufera delle cannonate si riabbatteva sulle trincee. Il tiro si riavvicinava di colpo; si udivano i piccoli calibri fondere le loro voci come se fossero state delle enormi mitragliatrici a far fuoco, e nel nuovo fumo scintillavano gli shrapnells con una frequenza di faville sotto il martello.

Le truppe destinate all’attacco erano state ritirate dalla vicinanza delle rocce da scalare, per proteggerle dalla grandine di schegge che scendeva sibilando dall’alto. Frantumi di acciaio e di pietre ricadevano dal ciglione. Per distruggere i reticolati molti colpi dovevano battere proprio sul margine della terrazza, alla sommità della parete, e ogni cannonata faceva crollare macigni nella gola del Caviojo. Si udiva da lontano lo scroscio lungo delle frane. Pareva alle volte che non finisse mai la scivolata dei sassi, col suo rumore cupo di ciottoli scaricati a valanga.

Tutti i soldati guardavano in su, contenti. Commentavano con voci di entusiasmo le varie fasi del bombardamento. Presentivano la [p. 87 modifica] vittoria. La voce dei propri cannoni ha la più grande virtù di persuasione. La truppa si preparava all’assalto con una decisione irresistibile. Ed era l’assalto di un muro. In questa regione le montagne somigliano tutte un po’ al Cimone; sono fatte a trampolino; si presentano a dolce declivio al nemico e oppongono a noi gradini inaccessibili.

Gli ufficiali rinnovavano le loro istruzioni ai plotoni di punta, e i soldati, nel lampeggiare delle cannonate e nella luce dei proiettori, percorrevano e ripercorrevano con lo sguardo la via vertiginosa tracciata all’attacco sui dirupi a picco. Nella notte precedente erano state messe le scale. L’esperienza del giorno 4 aveva dimostrato che le scale di legno erano insufficienti, e si erano preparate lunghe scale di corda con pioli rigidi. Nella notte del 21 alcuni di quei nostri alpini rampicatori che sanno arrivare ovunque vi sia uno spazio dove ficcare la punta delle dita, erano saliti scalzi ad attaccarle.

Avevano portato con loro soltanto delle corde sottili. Arrivati a sporgenze adatte per fissarvi le scale avevano calato le cordicelle, alle cui estremità i compagni rimasti in basso avevano annodato le scale che erano state issate così. Gli austriaci si erano accorti che qualche lavoro si compiva, ma non potevano affacciarsi, la conformazione della parete non [p. 88 modifica] permetteva loro di sporgersi. Incominciarono però a lanciare granate a mano. I proiettili rotolavano giù rimbalzando sulle anfrattuosità, la miccia accesa, e scoppiavano qua e là sui dirupi. Il lavoro continuò fra le detonazioni e il fumo; le scale furono assicurate, e dei tiratori si appostarono per difenderle. Per queste scale l’assalto frontale doveva salire.

Un battaglione alpino, composto in gran parte di piemontesi, era destinato a questo attacco. Era un vecchio, superbo battaglione, fatto d’uomini maturi, di atleti baffuti, provati in innumerevoli combattimenti, quasi tutti tornati al fuoco dopo essere stati feriti una, due, tre volte, gente che ha lasciato un po’ di sangue sulle nevi, sui ghiacci e sulle rocce di decine di vette. Mentre gli alpini dovevano attaccare la vetta, dei reparti più numerosi di fanteria dovevano attaccare i fianchi del Cimone, dalla parte dell’Astice a oriente e dalla parte del Rio Freddo a occidente.

Dal Rio Freddo si può salire al Cimone per due sentieruoli tortuosi, scoscesi, che si trasformano in vere scalinate in certi punti, e sui quali non si passa che uno alla volta. Dall’Astico invece, con infinite giravolte, sale all’altipiano la strada carrozzabile che conduce a Tonezza, tutta a tourniquets; ma il nemico l’ha distrutta con le mine, e i serpeggiamenti bianchi della via appaiono tagliati dalle frane, [p. 89 modifica] inaccessibili. Ad onta della strada, il lato dell’Astico è quindi più difficile a scalare di quello del Rio Freddo.

Alle due del mattino l’artiglieria che batteva la punta estrema del Cimone ha di nuovo allungato il tiro. Questa volta lo spostamento del fuoco preannunziava definitivamente l’attacco. La pioggia delle schegge si è allontanata, e nella selletta del Caviojo si è ammassata la truppa. Alle quattro e mezzo è cominciata la scalata della roccia. La parete è alta in quel punto trenta metri.

Incominciava il primo schiarirsi dell’alba e sul grigiore plumbeo dei dirupi gli uomini erano quasi invisibili. Salivano uno dietro all’altro, lentamente, col fucile gittato dietro alle spalle, senza zaino ma con un sacco pieno di granate a mano, il tascapane ben fornito di viveri, le cartuccere colme, e un mozzicone di tubo esplosivo infilato nel sacco. Assalivano come nelle antiche guerre dei castelli, quando si appoggiavano le scale alle torri. Si fermavano e si ammassavano nei pianerottoli erbosi, e abbrancati agli sterpi, sospesi sul precipizio, si avvicinavano per i crepacci al ciglione. La roccia è composta di grandi strati, è simile ad una catasta di giganteschi libri pietrificati, e fra uno strato e l’altro vi sono dei bordi, delle cornici inclinate, solcate da canaloni, rotte, [p. 90 modifica] cespugliose, nelle quali il piede di un alpino sa trovar presa.

Non si sa come, gli alpini comparivano ad ogni momento più in su, passavano da una cornice all’altra. Sembravano dei grossi insetti sopra un sasso cinereo. Le scale erano servite a superare la prima balza perpendicolare. Da lì si inerpicavano per le sporgenze e nei crepacci. Nessuna voce. Salivano in profondo silenzio. Ma il nemico li ha sentiti, o li ha indovinati, e ha cominciato a gettar giù granate.

Un fumo nero, filaccioso che rimaneva per lungo tempo come abbarbicato alle rocce, si sprigionava dagli scoppi, e al suo dissiparsi riappariva il formicaio grigio degli assalitori impassibili che continuavano l’ascesa, così adagio che sembravano senza moto. Alle otto del mattino erano sotto la cresta. Nell’ombra diafana della montagna si scorgevano appena, ma sopra le loro teste oscillavano, simili a bandiere, delle macchie chiare, i segnali per l’artiglieria, alla quale indicavano il limite dell’avanzata. Poi, sopra una punta a destra si è profilato sul cielo un uomo in piedi, un ometto che pareva una statua minuscola sopra un immenso piedistallo. Egli ha fatto delle segnalazioni a qualche osservatorio, ed è scomparso.

E allora, dalle trincee silenziose del Caviojo che parevano deserte, dalla valle di Arsiero, [p. 91 modifica] da tutti i punti dove della gente guardava piena di ansia, un grido di entusiasmo si è levato: Sono arrivati! Sono arrivati! — Sulla vetta del Cimone è cominciata a scoppiettare la fucileria. Subito lo scrosciare del combattimento si è esteso verso il Rio Freddo.

No, non erano arrivati ancora. Il ciglio della parete rocciosa allo sperone del monte non costituisce la vera vetta. Sorpassato il ciglio dell’abisso si è di fronte ad un cucuzzolo sterposo e scosceso: quello è la cima della montagna. La prima trincea austriaca era sul pendio del cucuzzolo, formata da un muro di sassi coronato da sacchi a terra, preceduta da due reticolati profondi. A chi guardava dal basso questo muro appariva eretto quasi sul ciglio, come la merlatura sopra una parete di castello, e la sua linea seghettata dai sacchi si disegnava sul cielo.

I nostri avevano il precipizio alle spalle, e dovevano tenersi rannicchiati sopra un bordo angusto e precipitoso, sovrastati dalle siepi di filo di ferro, dominati dalla trincea. Appena si mostravano, scrosciava la fucileria. Una sottile linea di tiratori alpini appostata fra i macigni rispondeva al fuoco nemico. Ogni tanto si vedevano gli uomini balzare in piedi e fare i gesti di chi lancia sassate, nembi di fumo nero passavano. Si combatteva con granate a mano. Delle esplosioni più forti sollevavano [p. 92 modifica] cumoli densi e grandi: scoppi di tubi esplosivi lanciati nei reticolati.

Il bombardamento non aveva distrutto le difese. Gli alpini si sono trovati davanti ad ostacoli insormontabili. Dovevano lavorare a dieci metri dal nemico per aprirsi il varco. Si servivano delle granate per costringere gli austriaci a tenersi nascosti, mentre arditi volontari andavano avanti, scoperti, per strappare i «cavalli di Frisia» dal loro ancoraggio e svellere i reticolati.

Intanto dietro ai combattenti si organizzava l’assalto. Da pianerottolo a pianerottolo, da sporgenza a sporgenza, si vedevano salire dei carichi faticosamente issati con delle corde: erano mitragliatrici. La truppa si riuniva a gremire le ultime cornici. L’artiglieria, che temeva di colpire i nostri, batteva lontano. I cannoni austriaci sferravano raffiche un po’ per tutto, sui fianchi del monte, sul Caviojo, su Arsiero, e le grosse granate scoppiavano nel fondo della valle provocando sulla strada che costeggia il torrente un sinistro precipitare di macigni, uno scorrere di frane scroscianti con un rumore cupo di cateratte.

L’avanzata laterale delle fanterie era paralizzata. Sull’Astico, prese d’infilata dalle posizioni del Castelletto, erano state fermate a mezza costa. Sul Rio Freddo avevano potuto raggiungere nelle prime ore del giorno il margine [p. 93 modifica] dell’altipiano, ma lassù avevano trovato un folto bosco, ogni sentiero, ogni passaggio, sbarrato da reticolati, difeso da trincee. Le nostre granate incendiarie non erano riuscite ad appiccare il fuoco alla selva per snidarvi il nemico. Qualche albero bruciacchiato, un po’ di fumo e basta. L’attacco languiva. Non aveva più che un valore di minaccia. Si era sperato che questa azione laterale potesse riuscire ad isolare i difensori della vetta, ma era aspettata, trovava il nemico munito, e le difese celate dalla foresta inestricabile avevano mantenuto tutto il loro valore.

Ogni speranza era dunque riposta nell’azione frontale, in quegli uomini che agivano sul bordo di un abisso, nell’assalto sull’inaccessibile. Le ore passavano nella immobilità, e la vetta crepitava di colpi. Le mitragliatrici erano arrivate e martellavano irose, per tener fermi gli austriaci, per togliere loro ogni velleità di un contrattacco. Si stava intanto regolando il tiro delle artiglierie per battere la trincea a pochi metri dai nostri. Da lontano i colpi si venivano accostando adagio adagio, e su per i sentieruoli dirupati del Caviojo delle carovane affannate issavano lentamente una batteria di bombarde da piazzarsi ai piedi della parete del Cimone per lanciare dal basso in alto, al di sopra degli alpini, masse di esplosivo. Il bombardamento è ridivenuto intenso. Tutte le valli hanno ripreso l’urlo della notte. Ad un tratto, silenzio. [p. 94 modifica]

Erano le tre e mezzo del pomeriggio. Nella quiete subitanea è passato un lacerante scoppiettìo di fucilate. Poi un grido sovrumano, come un ululato di tempesta è sceso dalla vetta, e pareva che scendesse dal cielo. L’assalto.

Si è visito un brulichìo confuso lassù, e il fuoco è cessato. La prima trincea era presa.

È stata presa in meno tempo di quello che ci vuole per dirlo. Gli alpini sono andati su in un balzo, e sono comparsi nettamente sul profilo della montagna. E subito hanno cominciato a lavorare per rafforzarsi. Con una calma superba, lentamente, muovendosi con la pesantezza possente del montanaro, il fucile infilato alla spalla per avere le mani libere, trasportavano pietre, erigevano muri, creavano parapetti, in mezzo agli scoppi delle granate a mano, avvolti ogni tanto dal fumo. Si vedevano gli ufficiali eretti e immobili, la mano tesa, dare degli ordini, curvarsi al passaggio di una bomba sulla loro testa e risollevarsi senza nemmeno guardare dove la bomba era scoppiata. Il cielo si era annuvolato. Tutto si era fatto oscuro, grigio. La montagna così fosca pareva più grande, più imponente e sinistra, aveva assunto una maestà terribile, e gli uomini non erano più che delle ombre nere che sembravano muoversi sul parapetto di una torre titanica.

Nel combattimento gli alpini avevano esaurito [p. 95 modifica] le munizioni. Per qualche ora non hanno avuto altre armi che la baionetta, ma erano tranquilli. I loro messaggi portavano un soffio di serenità e di certezza ai comandi. Nessuno li avrebbe più scacciati da lì. Del resto, grandi quantità di munizioni, di materiale da fortificazione, e dei rinforzi salivano già verso di loro. I boschi del Caviojo brulicavano di carovane.

La conquista della prima trincea ha permesso ai nostri di operare uno spostamento sul fianco, lungo il ciglione, per attaccare la vetta anche sui lati. La vetta è unita all’altipiano da un piccolo collo, da una specie di istmo largo appena un centinaio di metri. La posizione degli austriaci diveniva critica se essi si ostinavano nella difesa. Nella mattina i cannoni nemici avevano fatto un fuoco a shrapnells proprio sull’istmo: era un avvertimento ai difensori. Il cannone e la mitragliatrice servono spesso all’esercito austriaco per dar forza agli ordini. Quei colpi volevano dire che la ritirata si sarebbe dovuta effettuare sotto il fuoco delle proprie artiglierie. Ma di fronte alla decisione dei nostri alpini l’avvertimento non ha giovato a lungo. Presi fra le baionette italiane e gli shrapnells fraterni, gli austriaci, dei Kaiserjäger, hanno optato per gli shrapnells. Non si fidavano nemmeno della resa, sentendo forse di meritare, per quello che avevano fatto il giorno 4, una discesa piuttosto violenta dell’alta rupe. [p. 96 modifica]

Quando dopo quaranta ore di veglia e di fatica, all’alba del 24, i nostri alpini hanno sferrato l’assalto alla cima, il nemico è fuggito. La vetta del Cimone definitivamente nostra, è scomparsa poco dopo nelle nubi. Le sue rocce tetre si immergono nel cielo e sembrano senza fine.

Quando si pensa che sono state prese d’assalto, passa avanti agli occhi l’immagine di un gran volo d’aquile.