Dal Trentino al Carso/La titanica lotta nel Trentino/Come fu conquistato il Passo di Rolle

Come fu conquistato il Passo di Rolle

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Come fu conquistato il Passo di Rolle
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COME FU CONQUISTATO IL PASSO DI ROLLE.

Zona di guerra, luglio.

La conquista del Passo di Rolle ha richiamato la nostra attenzione verso un settore della fronte del quale ben poco si è parlato finora, ma che in compenso, forse, farà ancora parlare di sè. Il Passo di Rolle ci apre una delle porte naturali che difendono la via di Cavalese, cioè sul fianco del nemico, e le operazioni che si svolgono in quelle meravigliose regioni, minacciando le comunicazioni austriache del Trentino, hanno assunto da pochi giorni una importanza insospettata, che potrà aumentare in un prossimo avvenire.

È in questa zona che la nostra invasione, a grandi balzi silenziosi, con rapide azioni, ha [p. 97 modifica] fatto un più lungo cammino oltre le antiche frontiere. Ai primi giorni della guerra, salendo da sud a nord per la strada di Fonzaso, lungo la pittoresca vallata del Cismon, occupammo la conca verdeggiante di Fiera di Primiero. Una seconda spinta in avanti ci condusse a Valmesta. Poi un altro slancio ci portò a San Martino di Castrozza, sotto i torrioni dolomitici delle Pale di San Martino. Oltre Fiera trovammo tutti i villaggi deserti e bruciati. Erano luoghi famosi di villeggiatura, centri di ascensioni sportive, infestati nella stagione estiva da masse disciplinate di gitanti tedeschi che germanizzavano coscienziosamente quelle terre italiane con la modica spesa di sei fiorini a testa al giorno, vini esclusi; e degli enormi alberghi tedeschi, distrutti dal nemico in ritirata, ergevano per tutto la loro stupida mole da caserma teutonica.

Gli austriaci sfuggendo la nostra avanzata si erano fermati al Passo di Rolle, a 34 chilometri dal confine. Avevano solidamente fortificato il monte Cavalazza, che domina la valle del Cismon da noi occupata, che la sorveglia, la scopre tutta, la fronteggia e par che la chiuda, come il Biaena sembra chiudere la valle dell’Adige, il Panarotta quella del Brenta e il Col di Lana quella del Cordevole. Gli austriaci hanno saputo bene scegliere per tutto le loro posizioni di sbarramento. [p. 98 modifica]

Alla testata della Valle del Cismon che sale da sud a nord, la strada si inerpica tortuosamente alle pendici del Cavalazza, alto 2326 metri, e volge a ponente, verso Cavalese, verso Bolzano, incastrandosi fra i declivi bruschi del Cavalazza e quelli del monte Castellazzo, alto 2333 metri, più al nord. L’angusto varco fra queste due montagne costituisce il Passo di Rolle, oltre il quale ascende e si allarga la boscosa vallata del Travignolo che la strada segue. Il Cavalazza e il Castellazzo formano come i due stipiti di una porta.

Il Castellazzo era già in nostre mani. Ma il nemico sul Cavalazza ci impediva ogni tentativo di infiltrazione nella valle del Travignolo. Eravamo riusciti, per i sentieri che girano intorno al Castellazzo, ad arrivare a Paneveggio, villaggio ridotto in un mucchio di rovine annerite, che si trova al di là del passo, ma era difficile tenervisi e impossibile inoltrarsi. Bisognava espugnare il Cavalazza per essere padroni della soglia, conquistare una montagna fortificata.

Come tutte le alte montagne dolomitiche, il Cavalazza, al di sopra dei fianchi ammantati di folte pinete, eleva una vetta nuda dall’apparenza inaccessibile, un immane castello di roccia. Sulle cime, le trincee nemiche, tutte a muricciuoli, con reticolati a molteplici ranghi e [p. 99 modifica] «cavalli di Frisia», con innumerevoli posti di vedetta e annidamenti di tiratori a guardia dei pochi passaggi praticabili. Soltanto un’azione arditissima e risoluta di sorpresa poteva riuscire. La sorpresa è stata facilitata dal fatto che le linee avversarie non erano a contatto, e nemmeno vicine.

Per oltre un anno, italiani e austriaci si erano guardati da lontano, cannoneggiandosi, noi nella valle, loro sulla montagna, e soltanto le esplorazioni delle pattuglie arrivavano a sfiorare le fronti come dei tentacoli. Era una guerra di piccole sorprese, di scontri minuscoli su per i dirupi e nella selva, di imboscate, ed è qui che nei primi tempi i nostri esploratori poterono catturare dei nemici che non erano austriaci e che portavano delle uniformi familiari in altre fronti della guerra europea. Costoro figuravano di essere dei volontari stranieri.

Non essendovi contatto di posizioni, era presumibile che la vigilanza del nemico non fosse continuamente tesa. Si attese per agire una notte di burrasca. Delle truppe che erano già da qualche tempo annidate nel bosco alle falde del monte, salirono nella nebbia e sotto una pioggia scrosciante. Sorpassarono la zona boschiva, entrarono nel caos delle rocce, inerpicandosi per i canaloni, senza un sentiero, in regioni orride nelle quali le sentinelle avanzate avevano spesso veduto, durante la lunga tregua, [p. 100 modifica] qualche camoscio profilarsi per brevi istanti, agile, sottile, timido, sopra sporgenze erbose. Ascendevano fra le nubi, i nostri soldati, con lo zaino in spalla, carichi di viveri, di munizioni e di esplosivi.

Dovettero percorrere così quasi sei chilometri fra i dirupi, guidati dagli esploratori che riconoscevano ogni macigno. Arrivarono così ad appiattarsi ad un centinaio di metri dal nemico, senza che nessun rumore, nessuna voce dessero l’allarme. Erano poco sotto alle prime difese, a poche centinaia di metri dalla vetta. Intanto, dalla parte del Cimon della Pala, altre truppe si avvicinavano da oriente, nei boschi, a destra; e a sinistra pure dei reparti avanzavano verso il Colbricon che è come una continuazione del Cavalazza. Dal Castellazzo al Colbricon era dunque un cerchio di forze che si andava stringendo su tre lati intorno al formidabile baluardo nemico.

Prima dell’alba le fanterie erano giunte ai posti stabiliti. Il resto della notte è passato nell’immobilità e nel silenzio, sotto la pioggia gelata e nel vento che faceva correre la nebbia. Ogni tanto qualche colpo di fucile echeggiava, il colpo regolamentare delle vedette austriache le quali debbono dimostrare così di non dormire, e un razzo illuminante, regolamentare anche quello, accendeva ogni cinque minuti la lattiginosa densità delle brume. All’aurora, tutti i [p. 101 modifica] telefoni delle nostre batterie hanno trasmesso una parola: «Paganini».

Era la parola d’ordine stabilita dal Comando. Naturalmente era sinonimo di «musica». L’esercito dei mandolinisti stava per offrire un concerto pieno di «trilli del diavolo». I tiri delle artiglierie erano da tempo aggiustati, il programma aveva avuto delle prove spicciole, ogni batteria conosceva il suo compito, la sua parte nel concerto. Vi erano i bassi da 280, gli acuti da 75, i mezzi toni da 110. Il vento aveva dissipato la nebbia, e al motto «Paganini» fu un uragano di boati. Dopo pochi colpi di assaggio il tiro si concentrò con una esattezza spaventosa sulle posizioni austriache che scomparvero nel fumo rossastro.

Una batteria era stata issata a forza di braccia fra dirupi fantastici, e da lassù prendeva d’infilata i rifugi nemici, sconvolgeva i parapetti, svelleva i «cavalli di Frisia», scavava, demoliva, colmava. Il giorno intanto si era fatto chiaro, limpidissimo. Quando l’artiglieria, improvvisamente, ad un segnale, ha cessato il fuoco, nel silenzio s’è visto il luccichio delle baionette sulle rocce soleggiate.

I primi plotoni salirono all’assalto appena visibili fra le anfrattuosità delle scogliere, poi il brulichìo azzurrastro, sparso e lento della massa si agitò nella luce. Un gridìo vago, confuso, lontano, uno stridore di fucileria, un crepitìo re[p. 102 modifica]golare di mitragliatrici: l’assalto avanzava a sbalzi, dei gruppi d’uomini si formavano, si dissipavano, si riformavano a ridosso delle sporgenze, e ad ogni sosta lo scrosciare del fuoco diveniva più alto.


Ad un tratto, al di là di una zona battuta dalla grandine delle pallottole, sulla selletta del dorso, presso la vetta, i nostri vedono avanzare un soldato italiano, solo, che chiama i compagni: «Venite su, avanti, svelti, svelti!». Lo riconoscono era con loro, lo chiamano per nome. Come è arrivato solo lassù?

Semplicissimo. Girando non visto intorno ad un roccione è riuscito ad arrivare dal di dietro all’ingresso di un rifugio pieno di austriaci. Questo eroe da romanzo, un certo D. M., si è presentato sulla soglia gridando: «Arrendetevi! Vi prometto salva la vita!» — e voltandosi indietro ha urlato a delle truppe immaginarie: «Compagnie avanti! Non uccidete i prigionieri!» — Intanto gesticolava per farsi capire dai compagni lontani.

Quando i primi plotoni sono arrivati fino a lui, hanno visto nell’ombra del rifugio una folla immobile con le braccia levate. Gli austriaci si erano arresi. Da ogni parte altri plotoni sopraggiungevano. L’artiglieria era riuscita a sconvolgere ma non ad aprire i reticolati. I soldati hanno gettato sulla siepe di ferro le loro coperte, [p. 103 modifica] i loro mantelli, le loro tende, e hanno creato dei ponti sui quali sono passati aiutandosi gli uni con gli altri.

La difesa disgregata cedeva a poco a poco da ogni parte, la fucileria s’infiacchiva. Da settentrione l’assalto era arrivato ad espugnare un cardine della resistenza, la quota 2207 che corona una speronata del monte, e avanzava verso la vetta principale, verso lo «Spitz». Avanti a tutti un soldato si slanciava affannosamente. Era un genovese. Aveva portato con sè e stringeva sul petto una bandiera italiana. Quando è giunto alla vetta egli è corso alla stazione radiotelegrafica che il nemico vi aveva eretto, e si è arrampicato sull’asta alla cui punta, poco dopo, la nostra bandiera sventolava.

È scoppiato un urlo di entusiasmo. L’evviva si allargava. La bandiera era vista da lontano, e dalle valli, dall’abisso, dalla spianata di San Martino di Castrozza biancheggiante di rovine saliva un vocìo rauco. Il cannone tuonava contro il Colbricon.

La resistenza ostinata si prolungava qua e là per opera di piccoli gruppi e di tiratori annidati, mentre già i primi nuclei di prigionieri scendevano fra le baionette. Un ufficiale mitragliere, sulla vetta, intanato in un appostamento blindato, seguita a far fuoco sui nostri spazzando il terreno sopra un largo raggio. Impossibile affrontare quel ventaglio di morte. Delle [p. 104 modifica] rocce proteggono la mitragliatrice sui fianchi, chiusa in un block-house. Ma un nostro sergente maggiore riesce ad arrampicarsi da dietro sul tetto di larice del block-house, rimuove i sacchi di terra, e con un pezzo di macigno comincia a picchiare furiosamente.

La mitragliatrice si è zittita. Il sergente percuote sempre. Il tetto scosso cigola. Si ode allora dal disotto una voce cavernosa che grida: «Boni taliani!». L’ufficiale è preso.

Tutte le altre mitragliatrici nemiche sono ridotte al silenzio. I rifugi sono invasi, splendidi rifugi pieni di ogni comodità. Un capitano atletico degli Alpenjäger non vuole arrendersi e si avventa contro un nostro minuscolo sottotetente. I due si avvinghiano. Il nostro ufficiale vacilla, un capitano sopraggiunge, l’atleta è atterrato e chiede grazia. Si rialza, si spolvera, e chiede il permesso, prima di esser portato via, di cambiarsi gli abiti. Accordato. «Boni taliani». E da lì a poco egli esce dal suo ricovero vestito in alta uniforme, fumando.

Si formano quattro colonne di prigionieri, mentre i nostri, esultanti ma affamati, si mettono alla ricerca di vettovaglie. Ecco la mensa degli ufficiali austriaci. C’è sul tavolo dell’insalata fresca sopra un candido tovagliolo. Si trovano i condimenti, e l’insalata, annaffiata da buona birra Pilsen, è trovata squisita. Birra, vino, acqua minerale, latte condensato, carne, [p. 105 modifica] piselli, caffè, c’è ogni ben di Dio. In ultimo si trova anche il cuoco.

Il cuoco della mensa austriaca, madido di spavento, esce ad un tratto da un buco insospettato, accolto da una risata omerica, e si arrende, balbettando. E lo portano giù, vestito ancora del suo grembiale, col classico berretto bianco, mentre stringe ancora sbadatamente nella mano destra un ciuffo di sedano.

Il settore è in festa. Nulla può dire l’entusiasmo e l’ardimento dimostrato dalle truppe in questa azione, e, se i nostri bollettini citassero come quelli russi i nomi degli eroi, molti nomi sarebbero oggi resi popolari per la battaglia del Passo di Rolle. Nomi di ufficiali superiori che hanno saputo infondere nelle truppe la loro volontà di vincere e che si sono slanciati alla testa dell’assalto, nomi di comandanti di compagnia sempre primi nella lotta, nomi di subalterni e di soldati che hanno compiuto prodigi di eroismo.

«Con soldati come voi tutto si può osare e tutto si può ottenere» — ha detto l’ordine del giorno comunicato alle truppe, dopo aver ricordato che questa vittoria è il frutto di un anno di preparazione, e dopo avere espresso la più grande ammirazione per la scalata delle pareti impervie, per l’assalto impetuoso.

Il Passo di Rolle in nostre mani ci offre nuove possibilità. II 21 luglio è forse una delle [p. 106 modifica] grandi date della nostra guerra. Il bollettino odierno intanto annunzia che in Val Travignolo la nostra avanzata continua.