Compendio storico della Valle Mesolcina/Capitolo XXII

Capitolo XXII

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Capitolo XXI Capitolo XXIII

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CAPITOLO XXII.


(dal 1700 al 1795.)


Guerra civile di religione; fazioni pretista e fratista; sanguinosi fatti; mortalità; sostituzione di titolo; riconciliazione; altre contrarietà colle Missioni; avvenimento; rifiuto d’una nuova legge; fatto d'amicizia; lesione di territorio; straordinario Tribunale.





In sull'incominciar del secolo XVIII le calmate contrarietà che già esistevano fra il Clero [p. 157 modifica]secolare e le Missioni insorsero di nuovo all’occasione della proposta per l’introduzione d’una Missione nella Comune di Roveredo, e produssero quelle sanguinose guerre civili che desolarono la Valle durante lungo tempo.

Verso la fine del 1703, Antonio Riva di Roveredo intenzionato di voler instituire a proprie spese un perpetuo pio legato, propose alla sua Comune di voler a tal effetto introdurvi due Cappuccini coll’unico obbligo ai medesimi di far gratis la scuola ai figliuoli della parrocchia, esibizione che fu generalmente accolta provvisoriamente per la durata di dieci anni nella Radunanza del 25 novembre, ed a perpetuità anche come Missione in quella del 27 dicembre dell'istess’anno.

In un’apposita Radunanza Comunale tenuta in gennajo 1704, si produssero per l’accettazione le condizioni proposte dal Padre Vice-Prefetto, colle quali i due cappuccini dovevano esser ammessi in Roveredo, però solo come semplici Missionari; ma essendo queste state troppo esigenti da parte della Missione, la quale pretendeva che la Comune le cedesse assolutamente ed a perpetuità quel locale dimandato, ed ove potesse indipendentemente e con libertà funzionare a suo beneplacito, il Vicario foraneo Giovanni Tini allora Curato di Roveredo con tutta [p. 158 modifica]la Degagna di Guerra si protestò contro simili da sua parte inammissibili condizioni, le quali furono ciononostante tumultuosamente accettate con qualche modificazione dalla maggioranza dei votanti, la quale nominò alcuni deputati per estenderne la scrittura che sotto la data del 27 aprile venne poi firmata ed approvata dal partito aderente, ma non messa in esecuzione che dopo essere, le questioni state appianate: e d’allora la già agitata popolazione di Roveredo si divise in due partiti, chiamati l’uno pretista, e l'altro fratista, nei quali prese poi parte il restante della Mesolcina.

Al 30 aprile i membri patrizj componenti il Clero secolare, il quale si trovava allora in numero più che sufficiente per coprire tutte le parrocchie vallerane, si riunirono nella terra di Nadro per risolvere sul modo il più regolare da prendersi affine di rimuovere i cappuccini dalle Cure che occupavano a loro danno, nel qual Congresso si risolse d'incominciar la lite contro le Missioni; e per esporre e difendere le sue ragioni sì in iscritto, che in stampa, davanti la Sacra Gongregazione ed altre autorita competenti, il Clero secolare nominò una commissione composta di Bernardino Carletti allora Preposto della Collegiata di s.Vittore, del curato Giovanni Tini, e d'un certo dottore Nicolao Cos[p. 159 modifica]sonio abitante in Roveredo, uomo quanto dotto, altrettanto antipatico ai frati; i quali venivano similmente sostenuti e difesi dal loro procuratore Padre Bernardino di Saluzzo.

Nel giorno 25 maggio si tenne in Roveredo una Radunanza popolare, nella quale i pretisti pervenuti a far la maggioranza, rivocarono quanto era stato antecedentemente deliberato per l’ammissione d'una Missione nella loro Comune, e si ordinò di riclamare presso il Vescovo diocesano e presso la Dieta delle Tre Leghe, istando affinchè le Cure vallerane occupate dalle Missioni venissero date a’ preti patrizi in forza del già emanato decreto della Dieta; al qual effetto si nominarono con ampia autorità Tommaso Tini di Roveredo e Francesco Giovanelli di Castaneta, i quali si fecero i primi fautori secolari della causa pretista contro il partito fratista, primi Capi del quale erano l’allora reggente Ministrale Antonio Viscardi di s.Vittore e Galeazzo Bonalini di Roveredo.

Sotto il 14 settembre la Dieta generale che si trovava in quel tempo riunita in Tavate, sui reclami del partito pretista della Mesolcina, confermò appieno il decreto del 1691 concernente il licenziamento dei cappuccini dalle Cure vallerane, ordinandone l’esecuzione. [p. 160 modifica]Nei susseguenti Ire mesi dopo la pubblicazione del sopraccennato decreto, insorsero in alcune Comuni della Valle diverse particolari e generali sanguinose risse derivanti dalla tentativa per effettuare tale ordinazione della Dieta.

Al principio del 1705, l'incoata lite si trovava fortemente impegnata fra i due Cleri presso la Sacra Congregazione, la quale sotto li 3 marzo ordinò la provvisoria sospensione d’una Missione in Roveredo, rimettendo le altre contestazioni a decisioni ulteriori.

Nel giorno 25 aprile per combinati maneggi non ebbe luogo l’ordinaria annua Centena per così evitare i sanguinosi disordini già stati combriccolati da alcuni malevoli che volevano prevalersi degli esistenti torbidi per isfogare le loro particolari passioni. Nulladimeno il non esser quella popolare Riunione generale stata pubblicata, fu motivo che in quasi tutte le Comuni della Valle insorgessero violente speziali dispute, in alcune anche con spargimento di sangue.

Nel mese di maggio il soprannominato Cossonio fu spedito a Roma, ove colla favorevole assistenza dell’accreditato medico Viscardi di Mesocco, e di Federico Mazio di Roveredo colà domiciliati, potesse viemmeglio agire io favore dei preti vallerani. [p. 161 modifica]Sotto gli undici agosto la Sacra Congregazione scrisse alla Reggenza di Valle che poteva niente determinare riguardo le Missioni della Mesolcina, finchè avesse inteso il rapporto del Vescovo diocesano sull’esatta situazione delle Cure.

Intanto li caporioni del partito pretista si riunirono in Leggia nella casa d’Antonio Camone, ove nominarono tre deputati che furono l’istesso Camone, Francesco Giovanelli e Gasparo Righettone per portarsi all'imminente Dieta generale, la quale dovea riunirsi in settembre, affine di nuovamente istare per il totale licenziamento delle Missioni che occupavano le Cure della Valle a pregiudizio dei preti patrizj.

Una delle prime operazioni di quella Dieta fu l’ordinare, sotto il 7 settembre, la riconferma dell’apposito decreto del 1691 coll’appendice non solo dell’esclusione da ogni Consiglio, beneficio ed onore della comune patria, ma anche l’applicazione di due cento scudi a quelle Comuni della Mesolcina, le quali non l’avessero prontamente messo in esecuzione.

Tostochè tal rigoroso decreto fu divulgato nella Mesolcina, il partito pretista che si credeva di far a quell’epoca la maggioranza in Roveredo, s’accinse di rimuovere tutti i cappuccini dalle Cure vallerane; al qual fine im[p. 162 modifica]maginò di convocare in prima un nuovo Vicariato per nominare altri membri del magistrato, giacchè quelli che si trovavano allora in carica erano quasi tutti del partito contrario.

La convocazione di tal’Assemblea venne inaspettatamente annunciata la vigilia del primo di ottobre, nel qual giorno doveva aver luogo il nuovo Vicariato. Subito che Antonio Viscardi integro difensore delle Missioni intese tali recenti intrighi del partito pretista, si portò senza indugio in Mesocco per consultarsi con quelle Autorità e risolvere su quanto dovea accadere in Roveredo. Verso la sera di quella vigilia, i consoli della Giurisdizione di Mesocco ricevettero l’ordine di prevenire i loro popoli per la convocazione d’una straordinaria Centena nel giorno susseguente primo ottobre affine di risolvere in proposito. Gli invitati popoli comparvero di buon mattino ed armati in Lostallo; ove ad istanza dei Capi magistrali di Roveredo si determinò di portarsi colà sotto la direzione del Ministrale Viscardi per impedire quella concertata sediziosa Assemblea d’un nuovo illegale Vicariato.

Arrivati gli armati in Grono, il loro condottiero, supponendo che quel Vicariato fosse ancora radunato, spedi subito a Roveredo una protesta su quanto quell’illegittima Riunione poteva risolvere, comunicando nell’istesso tempo [p. 163 modifica]la determinazione presa dalla Centena per mettere il buon ordine, ed intanto gli armati, senza andar più oltre, occuparono diverse posizioni sulla sinistra della Calancasca. Durante queste disposizioni, tutti quei che ritrocedevano dall’ultimato Vicariato, venivano ostilmente respinti.

Pervenuta tal novella in Roveredo, quegli abitanti si misero in all’arme, tanto più essendosi sparsa la calunniosa voce che gli armati erano discesi, per distruggere Roveredo, per cui al tocco di campana la maggior "parte di quei comunisti, alla testa dei quali si misero i due nuovi eletti Ministrali di Roveredo e Calanca Pietro Bono e Francesco Giovanelli, muniti, di diverse armi accorsero nei prati di Vera per incontrare i supposti nemici. Due ore circa durò la vituperevole pugna, in cui rimasero d’ambe le parti dei morti e feriti. Finalmente all’imbrunire della nebbiosa giornata il combattimento cessò, ritirandosi i così detti fratisti sulla loro primiera posizione per esser così vicini al paese di Grono, ed i pretisti accamparono tutta la notte sulla destra della Calancasca.

All’alba dei due ottobre li fratisti che bivaccarono durante la notte in numero di venti uomini, passarono il ponte dell’Aramo coll’intenzione d’attaccar da soli i Roveredani, i quali trovandosi in più gran numero, li rispinsero con [p. 164 modifica]perdita d'un uomo e d'alcuni feriti d'ambe le parti. Allorché poi li due opposti corpi si trovavano separatamente riuniti per ricominciare le ostilità, un certo Gabriele Gabrielli probo Roveredano montato sul suo cavallo ventolando un fazoletto bianco, percorreva coraggiosamente da ogni parte, inculcando la sospensione d’un nuovo attacco; e pervenuto sul detto ponte, invitò ad alta voce i Capi dei due partiti di rendersi colà, ai quali propose li seguenti articoli di pace: che si deponessero le armi; perdono generale; la cassazione degli ufficiali nominati nel nuovo Vicariato solamente fatto dai pretisti, abilitando solo gli antecedenti legalmente eletti; e riguardo le Missioni da rapportarsi a quanto sarebbe su di ciò deciso in Roma. Articoli che vennero accettati dalle due parti, anche per influenza di quell'umida e fredda giornata; e così ognuno ritornò alle sue case.

Tal pace durò però poco tempo particolarmente in Roveredo perchè tutte quelle Radunanze che si tennero in seguito entro l'anno non andarono esenti da instigate risse.

In una sera degli ultimi giorni di dicembre fu ammazzato sulla strada chiamata dei Morti in Roveredo l'Alfiere Tommaso Tini, uno dei primi fautori del partito pretista, ciocché irritò vieppiù i suoi aderenti sulla supposizione che [p. 165 modifica]quell’omicidio derivasse per istigazione del partito opposto. In memoria di quella catastrofe, si vede oggigiorno sull'istesso luogo ove fu commesso l'assassinio una croce di sasso, la quale porta il nome d’Alfiere, stata subito dopo il funesto caso costrutta e piantata per ordine della Comune.

Il 1706, fu per la Mesolcina come l'antecedente un anno di torbidi, e già in quei primi giorni il partito pretista ricorse ai Capi delle Tre Leghe riguardo la morte dell’Alfiere Tini, incolpandone il partito fratista. Rilevando quel Governo che alcuni Ufficiali del Magistrato di Roveredo venivano imputati d’aver avuto parte nell'assassinamento del detto Tini, senz’altro inquisire decretò che si abilitassero i membri di quel Magistrato stati nominati fuori di tempo nel primo scorso ottobre.

In quell'intervallo l'intrepido difensore delle Missioni Antonio Viscardi dovette, per suoi pressanti particolari affari, portarsi a Genova, ciocché riuscì di grande aggradimento a’ suoi avversari, i quali poterono cosi più facilmente pervenire ai loro disegni.

I membri di quell’illegale Magistrato vedendosi abilitati per ordine superiore, s’accinsero senza ritardo in procedere con rigore contro le persone fratiste sospettate complici dell’assassinamento di Tommaso Tini, o delle sanguinose [p. 166 modifica]risse insorte più volte causa le Missioni, inquisizioni che durarono due mesi circa, nel qual tempo molte persone furono con forti tasse bandite per un dato tempo, od a perpetuità, come lo fu Antonio Viscardi, il quale sentendosi a torto condannato da un parzial Magistrato che si era da solo arbitrariamente usurpatole autorità del Criminale di Valle, si portò con segretezza in patria credendo di trovar ricovero ed assistenza presso i suoi amici: ma questi intimoriti della tirannica sentenza che pendeva sopra di lui, lo esortarono a ricoverarsi altrove. L’integro Viscardi si rifuggì per alcuni giorni nella Comune di Soazza, indi si portò presso la Dieta delle Tre Leghe che trovavasi allor riunita, dimandando energicamente giustizia e protezione contro tanta oppressione di sè. La Dieta, dopo le debite informazioni, spedì a Roveredo tre probi deputati con ampia autorità di decidere sui processi costrutti dall’ultimo abilitato Magistrato.

In aprile i tre deputati arrivarono alla loro destinazione, ma non poterono effettuare l'incombenza ricevuta, perchè il Magistrata di Roveredo non ha mai voluto consegnar loro i richiesti processi, adducendo per ragione che le operazioni e sentenze state emanate dall’istituito Criminale non potevano essere in nissuna maniera assog[p. 167 modifica]gettate a revisioni; nulladimeno i tre deputati prima di partire fecero affiggere un perdon generale a tutti i banditi condannati dal Tribunale di Roveredo dopo il primo giorno di quell’anno: i quali però non si fidarono di rientrare per il momento alle lor case, aspettando essi bensì più opportune occasioni.

Causa le esistenti dissensioni di partiti, anche in quell’anno non ebbe luogo l'ordinaria Centena.

La tardanza delle risoluzioni sugli affari delle Missioni che si aspettavano sempre con ansietà da Roma, determinò il partito pretista in una Conferenza tenuta in Nadro dai suoi Capi, di scacciare violentemente i cappuccini dalla Valle per così mettere in esecuzione il decreto della Dieta dello scorso 7 settembre; ma primieramente si stimò convenevole e prudente consiglio d'invitare con apposite circolari quelle Comuni che avevano Missioni, a mandare esse stesse ad effetto il sopraccennato decreto; circolare che fu segnata sotto la data del 1 maggio da Francesco Giovanelli a nome del suo partito.

L’esecuzione di tal in segreto combinata tentativa venne sospesa sino al 15 agosto, in qual giorno il detto Giovanelli sotto il pretesto di voler come Capo del Magistrato di Calanca adempiere una volta in tutta la sua Giurisdizione il decreto della Dieta, si portò con tamburro bat[p. 168 modifica]tente alla teste di: cento cinquanta uomini armati in Santa Maria, da dove, finite le funzioni antemeridiane di quella solennità, e già convenuto cogli altri suoi complici, obbligò quei due Missionari ad abbandonar entro la giornata la casa parrocchiale e la Cura senza che le intimorite persone dei partito contrario si fossero opposte a tale violenzà.

Nel susseguente giorno la maggior parte di quegli armati condotti dal loro Capo costrinsero similmente i Missionari di Rossa e di Santa Domenica a partirsi dalle loro Cure. In quest’ultima Comune all’atto che quei religiosi se ne andavno, insorsero forti lamenti contro simili subitanei usati rigori, che occasionarono fra il debole partito delle Missioni e gli armati dispute gravi, nelle quali una donna rimase uccisa; ma gli esecutori ebbero la vittoria.

Incoraggiato dal desiderato esito dell’impresa del suo collega Giovanelli, Pietro Bono reggente Ministrale di Roveredo si impegnò di rimandare similmente sotto l'istesso fine i Missionari dalla sua Giurisdizione, facendo a tal scopo riunire un buon numero d'armati suoi aderenti, i quali sotto la direzione del magistrale Tenente Serri si portarono all'improvviso nel giorno 24 agosto in Cama per espellere quei due Missionari curati, ciocchè seguì senza il minimo impedimento da parte di quella inerme popolazione. [p. 169 modifica]

Affinchè il decreto della Dieta concernente il licenziamento dei cappuccini venisse totalmente effettuato nelle due Giurisdizioni di Roveredo e Calanca, non mancava più che di farlo eseguire anche nella Cura di Grono, intrapresa che si temeva però di maggiore difficoltà, giacchè la più parte dei Gronesi era in quel tempo del partito fratista. Ciononostante nel giorno 27 dello stesso agosto i Capi del Magistrato di Roveredo alla testa d’un’inebriata armata turba si portarono in Grono per l’esecuzion del decreto; ma per mediazione d’alcuni bene pensanti, i quali cercavano d’impedire un’inevitabile spargimento di sangue, non si fece violenza alcuna a’ due Missionari, i quali abbandonarono però la Cura due giorni dopo.

Durante l’espulsione dei cappuccini dalle accennate due Giurisdizioni, non si mancava nel medesimo tempo di brigare affinchè anche in quella di Mesocco si facesse lo stesso, ma essa restò passiva in simili turbolenze, per influenza ed attività dei suoi primi Magistrati.

Le cinque Comuni alle quali si aveano colla forza levati i loro Curati Missionari non vollero eleggere od accettare altri parrochi sintantochè la lite che già da lungo tempo si agitava tra il Clero secolare e le Missioni non fosse ultimata; [p. 170 modifica]esse venivano però provvisoriamente soccorse per cura del Preposto Cadetti: e le cose restarono così pel rimanente di quell’anno senz’altro rimarchevole avvenimento.

Nei 1707 al 16 gennajo si tenne in Roveredo per opera dei Capi del partito pretista una straordinaria Radunanza generale delle due Giurisdizioni, nella quale si ordinò di castigare senza remissione in cento scudi, oltre i due cento già stati fissati dalla Dieta, tutte quelle Comuni, o particolari dei due Vicariati che avessero in avvenire proposto di ricondurre nel paese i cappuccini, dato loro ricovero, ajuto, o in qualunque siasi modo assistenza.

La Comune di Santa Maria vedendosi irregolarmente servita dal Clero secolare, ad onta delle esistenti severe disposizioni contrarie, ordinò quasi all’unanimità d’instare presso i superiori ecclesiastici sul richiamo dei suoi espulsi Missionari, inviando a tal fine una deputazione presso il Vescovo diocesano.

Nella notte del 10 marzo i Capi del partito fratista si congregarono in occulto in Grono per risolvere sulla voce sparsa che il Magistrato avrebbe quanto prima agito severamente contro la Comune di Santa Maria per aver essa contrafatto agli ordini della Radunanza generale. Nel qual segreto abboccamento si decise di disporre per [p. 171 modifica]impadronirsi anche colla forza dei delegati esecutori, ciocche seguì due giorni dopo, il 13 marzo, mentre Francesco Giovanelli accompagnato da due giudici della fazione e da tre altri armati individui si portavano nella detta Comune per costruire il processo. Durante che il detto Ministrale Giovanelli, audace solo in suscitare e fomentar quelle discordie, veniva arrestato, egli vigliaccamente esclamò: Ho finito i miei giorni! Senza il minimo ostacolo i ritenuti furono da un più forte numero di congiurati con prontezza condotti nella terra di Santa Maria, ove entro quella giornata il numero dei fratisti s’accrebbe sino a due cento cinquanta uomini ben armati e disposti d’agire ostilmente in sostegno della loro causa.

La novella dell’arresto di Giovanelli e suoi compagni fu tosto saputa in Roveredo e contorni, per cui con campana a stormo quel popolo si radunò subito in general Vicinanza, nella quale si ordinò sotto pena di venticinque scudi che tutti gli abili a portar le armi dovessero nella susseguente mattina rendersi in Castaneta, ove avrebbe avuto luogo la generale Riunione pretista delle due Giurisdizioni per così di concerto portarsi in Santa Maria affine di liberare gli arrestati, e chiamar all’ordine quella Comune. [p. 172 modifica]Castaneta è situata un quarto d'ora al disotto della Comune di Santa Maria, che erta giace sopra un’alta collina, sulla sommità della quale s’innalza quell’antica torre.

Prima d’incominciar l’intrapresa, si spedì un distaccamento d’alcuni armati verso il ponte di Sorte, sul timore d’una qualche discesa di fratisti dalla Giurisdizione di Mesocco, i quali fra tutti quei disordini si tennero tranquilli.

A mezza mattina del 14 marzo l'armata turba riunita in Castaneta s’inviò con tamburro battente per eseguire il di lei disegno; ma arrivata alla fontana Breden venne assalita da tali fucilate e lanciate di pietre che T obbligarono a retrocedere con perdita d’alcuni e con gravi ferite di molti altri. In quella e nella susseguente giornata gli assedianti tentarono in diverse guise l’attacco, ma sempre indarno.

Allorché, dopo due giorni d’inutile accampamento, svergognati gli assedianti erano in procinto di ritornarsene alle lor case, ricevettero una lettera dell’arrestato Giovanelli, il quale li supplicava di levar l’assedio, che altrimenti egli con li suoi compagni sarebbero stali gettati dalla torre. Prima che gli armati abbandonassero Castaneta, insorse fra essi una forte disputa che produsse spargimento di sangue e fu causa di un total saccheggio di quella Comune. [p. 173 modifica]Il distaccamento destinato per vegliar sui confini della Giurisdizione di Mesocco, e che trovavasi accampato in Norantola, ebbe pure delle dispute con quegli abitanti a motivo della sua prepotenza. Dopo d’aver egli fra le altre saccheggiata anche la casa d’un certo Forello primo possidente di quella terra, gli armati lo assalirono altresì perchè creduto del partito fratista; il che vedendo la di lui moglie, con coraggio si lanciò sopra il loro Capo, ed abbrancatolo pei capelli, lo gettò a terra con intenzione di levargli la vita se altri non fossero corsi in suo ajuto.

Frattanto i fratisti vedendosi liberi dell’assedio, e non trovando più necessario di restar accampati, risolsero di rientrare alle lor case, convenuti primieramente di dar una generosa libertà ai detenuti, e di prestare pronto soccorso alla Comune di Santa Maria qualora venisse in qualunque maniera molestata.

Dopo queste ultime non successero entro l’anno altre rimarchevoli azioni, se non che di tempo in tempo insorgevano particolari contese che mantenevano vive le animosità fra i due partiti, per cui anche in quell’anno l’ordinaria Centena non ebbe luogo.

La giurisdizion di Mesocco non mancava per mezzo de’ suoi Magistrati d’adoperar tutti i mezzi [p. 174 modifica]per riconciliare una volta i partiti delle altre due, e quelle Comuni alle quali erano state levate le Missioni invocavano per il loro richiamo, come pure gli esiliati instavano presso il Governo della Repubblica per ottenere la loro liberazione.

In queir anno l’intera Mesolcina fu immersa in una profonda afflizione cagionata da una violente febbre maligna, la quale particolarmente entro i tre mesi di quell’estate, la indebolì d’un decimo della popolazione.

Al principio del 1708 le Comuni fratiste vedendo che niente si risolveva sulle Missioni e sugli esiliati, delegarono in segreto due deputati per ciascuna alfine di progettare un termine a tanta longaggine.

La Commissione nel giorno otto gennajo si radunò in Soazza, ove decise all’unanimità di richiamar le Missioni e mantenerle nelle Cure anche colla forza.

Intanto che il partito fratista agiva per pervenire ai suoi intenti, quello dei preti convocò nel giorno 25 febbrajo il popolo di Roveredo e Calanca in Assemblea generale per decidere sulla presa risoluzione dei fratisti. In quella numerosa Radunanza prima di passare ad altre determinazioni, si nominarono alcuni deputati per liquidar i conti delle spese generali criminali, indi si agitò la questione sugli esiliati, su di che [p. 175 modifica]si ordinò alla maggioranza la loro liberazione, mediante ch'essi pagassero, o garantissero le tasse stategli applicate, e riguardo alla prima esposizione, si risolse pure alla maggioranza di sospendere qualunque ostilità contro le Comuni partitanti delle Missioni, ma aspettare le decisioni superiori, giacché il Vescovo diocesano aveva prevenuta la Mesolcina che per ordine di S.S. sarebbe entro l’anno venuto in Valle per accomodare le contestazioni di religione già da lungo tempo esistenti.

Al 25 aprile si convocò l'ordinaria Centena che già da tre anni non aveva avuto luogo, nella quale con patriottiche e pacifiche parlate si cercò di consolidare le incaminate buone disposizioni di riconciliazione fra le opposte fazioni,

Nell'istessa Centena si sostituì ai due Capi dei Magistrati di Mesocco e di Roveredo il titolo di Landama a quello di Ministrale, per così distinguersi dal Capo della Calanca che ritenne l'antico.

All'ultimo Monsignor Vescovo arrivò in Valle verso la fine di Luglio, e recatosi in s. Vittore, appianò tutte le vertenze che esistevano fra il Clero secolare e le Missioni, approvandole a quelle cure, dietro l'instanza delle Comuni e per mancanza anche di disponibili preti nazionali, tali come si trovavano alla sua prima vi[p. 176 modifica]sita fatta sedici anni addietro. La sola parrocchia di Sta. Domenica si separò in quell'occasione dalle Missioni a motivo che essa aveva allora per curato un prete patrizio.

Così cessarono quelle discordie di religione che per quasi cinque anni continui avean desolata la Patria.

Insorsero nuovi imbrogli nel 1735 causa la Missione di Mesocco che dovette in quell’anno litigare con li suoi Curati canonici, pretendendo questi che s.Rocco, oggigiorno chiesa della Missione, fosse di diritto figliale della parrocchia, e producevano che indebitamente la Comune l’aveva donata alla Missione nel tempo dell’introduzione della medesima. L’istessa lite venne, sei anni dopo, agitata anche a nome dell’intero Capitolo contro la detta Missione. Il fatto si è che quella chiesa chiamata in principio Oratorio, è stata fabbricata molti anni dopo la fondazione del Capitolo a spese del benefattore Rocco Nigris per comodità della comunale dispersa popolazione, e verso la metà del XVII secolo essa fu aggrandita coll’aggiunta del contiguo ospizio a spese della Comune e d’alcuni suoi particolari per insinuazione ed anche contribuzione del Padre cappuccino Giovanni Grisostomo Guggia, il quale si trovava ritirato in seno della sua famiglia per passare gli ultimi suoi [p. 177 modifica]giorni; più tardi poi, all’introduzione dei cappuccini missionari, tutto quel recinto, unitovi anche un giardino, venne destinato dalla Comune di Mesocco, coll’approvazione del Vescovo, ad essere il locale di detta Missione.

Successivamente anche in altre Comuni della Valle insorsero alcune altre contrarietà colle Missioni, ma meno importanti.

Nel 1744, successe al mio avo Landama Giuseppe a Marca un fatto che credo degno di memoria, già commemorato però alquanto alterato nella Storia Grigione di Lehman1. Nella mattina del 18 febbrajo ritornando il sopraccennato mio antenato dalla chiesa, chiamatovi per assistere ad un battesimo, ed arrivato sulla porta di suo casa, vi si fermò per contemplare l'insorto torbido e rigido tempo. Or ecco improvvisamente avventarglisi un furioso e grosso lupo! Egli senza sbigottirsi getta la sua canna che teneva in mano, ed avanzandosi con intrepidezza a due passi contro il feroce ed affamato animale, nel mentre che questo lo assale, il coraggioso sessagenario lo afferra pel collo, il getta a terra, e lo strangola.

Davanti l’ordinaria Centena del 1773, si produssero per l’accettazione i Capitoli e Statuti [p. 178 modifica]d'una nuova legge civile e criminale, basati però su quelli di Martinone, qual legge quantunque meglio circostanziata e più addattata ai tempi, e già stata stampata in molti esemplari per cura dei Capi delle tre Giurisdizioni, fu rigettata dalla maggioranza di quella Riunione, conservando in vigore solo la legge di Martinone.

Nello stesso sopraccitato anno morì in Leggia M.a Maddalena Sultore, la quale fu origine di scoprire la più rara, fedele e sincera amicizia che reciprocamente esisteva fra due giovini Mesolcinesi l’uno di Leggia, e l'altro di Cama, chiamato il primo Giuseppe Sultore, e l'altro Clemente Maffioli, fatto d’amicizia che può essere paragonato all’antico tanto rinomato di Tito e Gisippo. Allorché Maria aveva ventun’anni, era al pari amata dai due amici, ma essa segretamente inclinava più a Clemente, mentre i di lei genitori preferivano di dar la loro figlia in matrimonio a Giuseppe perchè era dell’istesso loro parentado; ambi erano però della medesima indole, e circa d’egual età e fortuna. I due amici niente si tenevano celato, anzi a vicenda si confidavano i loro più segreti pensieri, e spesso senza la minima gelosia si trattenevano sul loro tenero amore che nutrivano per Maria, e reciprocamente si esortavano a chiedere la di lei mano; ma al pensiere che uno [p. 179 modifica]di essi dovea pur restarne privo, non sapevano mai a ciò risolversi. Alla fine si determinarono di tirar la sorte a chi dei due avesse per l'altro da chiedere Maria in isposa. Puntualmente convenuti sull'esecuzione, la sorte toccò a Giuseppe, il quale col suo amico si portò in casa dell’amata, e dopo le solite conversazioni, Giuseppe dimandò ai genitori di Maria se erano contenti di darla in matrimonio a Clemente, ed essi risposero che vi acconsentivano se tale era la vocazione della loro figlia, la quale trovandosi presente, senz’esitare rispose che accettava la mano di Clemente, il quale agitato dall’amore e dall’amicizia, non seppe al momento cosa dire, ma tutto confuso se ne partì, lasciando così sorpresi l'amico, Maria ed i di lei genitori, che pur non seppero che pensare di tal subitaneo ritiro. Dopo la partenza di Clemente, Giuseppe cercava in differenti maniere di scusare l'amico; ma Maria ed i suoi genitori dall’agire di Clemente dedussero che fosse stato piuttosto un formale rifiuto, di cui al momento la più dolente ed offesa era Maria. Nella mattina seguente ad insinuazione della figlia, la di lei madre fece prevenire Clemente che d’allora in avanti non dovesse più comparire in sua casa, avendo Maria scelto un’altro sposo a lei più caro. Sentito questo, e non dubitando Cle[p. 180 modifica]mente che il felice scelto sposo sarebbe stato il suo amico, corse subito da lui a riferirgli la ricevuta ambasciata, Giuseppe che non aveva per anche veduto il suo amico dopo il successo della sera, gli rimproverò la sua tenutavi condotta, ma molto più si afflisse nel sentire quanto gli veniva riferito, e senza ritardo si rese alla casa di Maria, la quale unitamente ai di lei genitori gli confermò ciò che aveva già inteso. Giuseppe per di nuovo persuadere che Clemente amava Maria con affetto, raccontò quanto si era fra loro due convenuto, ma nulla potè distorre quella famiglia dalla presa risoluzione, per cui rammaricato, ritornò dal suo amico narrandogli l'inutile suo avuto abboccamento. Clemente assai più contento del suo amico perchè sperava di vederlo felice sposando Maria, lo scongiurava a non dilazionare in dimandarla per isposa, giacché egli era corrisposto nel suo amore, ed anche per così impedire le dicerie che avrebbero potuto divolgarsi nel paese. Veduta la ferma risoluzione d'ambe le parti, Giuseppe chiese Maria in matrimonio, e l’ottenne, e visse così felicemente con lei sino alla morte. Clemente intervenne bensì alle dette funzioni nuziali, ma con sorpresa se lo vidde in quell’occasione assai mesto, alcuni giorni dopo le quali improvvisamente si risolse di rendersi in Francia ad [p. 181 modifica]esercitare l'arte di vetraro. Dopo un’anno circa d'assenza, Clemente caduto in malattia di consunzione, ripatriò, ma neppur giovandogli l’aria nativa, volle ritornare in Francia, ove in quell'istesso anno finì i rammaricati suoi giorni. Sentendosi egli vicino al morire, fece scrivere all’amico gli ultimi suoi teneri addio, e che avrebbe di cuore desiderato che il giovine suo fratello Carlo sposasse col tempo la figlia di Maria, la quale aveva allora un’anno, per cosi conservar almeno in famiglia la rimembranza della reciproca loro fedele amicizia: brama che non potè venir effettuata causa impreveduti avvenimenti.

La nuova della morte di Clemente afflisse profondamente Giuseppe. Questi allora narrò alla sua moglie l'intrinsichezza che esisteva fra loro prima del matrimonio che sin qui le aveva mai affatto disvelata; ed essa si sentì risvegliare un’inutile vecchia fiamma, e conobbe troppo tardi di aver ella perduto chi l'amava del più tenero e sincero amore, come il di lei marito perduto avea il più fedel degli amici.

Dopo l'accennata sentenza Tschudi del 1511, concernente i confini col Contado di Bellinzona, insorsero di quando in quando forti particolari questioni fra gli abitanti di Roveredo e di s.Vittore, e quei di Lumino riguardo al diritto di pascolare, ed il Governo di quel Con[p. 182 modifica]tado pretendeva sempre che il suo alto dominio s’estendesse sino Monticello. Tutte le negoziazioni sovente state intavolate per un'amichevole ultimazione su tal affare, riuscirono infruttuose per cui le Tre Leghe, e li tre Cantoni Sovrani del detto Contado remisero la faccenda alla decisione di cinque scelti Cantoni imparziali, quali per mezzo dei loro Deputati, con i due nominati delle Tre Leghe, esclusa ingiustamente l'interessata Mesolcina, con sentenza del 9 agosto 1776, emanata in Bellinzona, giudicarono che i contrastati termini venissero diffiniti ove si trovano oggigiorno irregolarmente piantati. La Mesolcina con ragione reclamò senza ritardo contro tale evidente parziale sentenza di lesione; ma la Dieta Generale delle Tre Leghe approvò il giudizio della Commissione a ciò stata incaricata.

La Mesolcina spedì nell'aprile del 1794, per ordine governativo otto deputati a Coira, ove unitamente a quelli delle altre Comuni dovevano comporre una Dieta straordinaria, destinata, in que’ critici tempi di sconvolgimenti politici, a provvedere e decidere sopra diversi importanti negozj riguardanti la comune patria. Quella Dieta dopo d’aver risolto sugli esposti oggetti, scelse dal suo seno un proporzionato diviso numero di membri, fra i quali due di Mesolcina, per com[p. 183 modifica]porre un Tribunale di punizione, affine di processare i supposti colpevoli di delitti di Stato, e ricevere qualunque fosse reclamo che avrebbe potuto essere avanzato sì da’ nazionali, che dai sudditi di Valtellina e Contadi, per poi castigarne i colpevoli. Durante i sei mesi di sua gestione, quello spaventevole Tribunale, sotto differenti risultati ed accuse, condannò molti denunziati Griggioni, altri in forti somme di danaro, ed altri al bando.

  1. Tomo 11 p.376.