Commedia (Buti)/Purgatorio/Canto XXXI
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(Commento di Francesco Da Buti) (XIV secolo)
Canto trentunesimo
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C A N T O X X X I.
1O tu, che se’ di là dal fiume sagro,
Volgendo suo parlar a me per punta,
Che pur per tallio m’era paruto agro,
4Ricominciò, seguendo senza cunta,
Dì, dì se questo è vero: a tanta accusa
Tua confession convien esser congiunta.
7Era la mia virtù tanto confusa,
Che la voce si mosse, e pria si spense
Che dalli organi suoi fusse dischiusa.
10Pogo sofferse; poi disse: Che pense?
Risponde a me, che le memorie triste
In te non sono ancor dall’acqua offense.1
13Confusion e paura insieme miste
Mi pinser un tal Sì fuor de la bocca,
Al qual intender fur mistier le viste.2
16Come balestro frange, quando scocca
Per troppa tesa, la sua corda e l’arco,
E con men foga l’asta il segno tocca;
19Sì scoppia’ io sottesso grave carco,
Fuori sgorgando lagrime e sospiri,
E la voce allentò per lo suo varco.
22Ond’ella a me: Per entro i mie’ disiri,
Che ti menavan ad amar lo Bene,
Di qua dal qual non è a che s’aspiri,3
25Quai fossi attraversati o quai catene4
Trovasti, per che del passare inanzi
Dovessiti così spolliar la spene?
28E quali agevolezze e quali avanzi
Ne la fronte delli altri si mostraro,
Per che dovessi lor passeggiar anzi?
31Di po’ la tratta d’un sospiro amaro
A pena ebbi la voce che rispuose,
Che le labbra a fatica la formaro.
34Piangendo dissi: Le presenti cose
Col falso lor piacier volser mie passi,5
Tosto che ’l vostro viso si nascose.6
37Et ella: Se tacessi, o se negassi
Ciò che confessi, non fora men nota
La colpa tua: da tal giudice sassi;
40Ma quando scoppia da la propria gota
L’accusa del peccato, in nostra corte
Rivolge sè contra ’l tallio la rota.
43Tuttavia, perchè me’ vergogna porte7
Del tuo errore, e perchè altra volta
Odendo le Sirene sia più forte,
46Pon giù ’l seme del pianger, et ascolta:
Sì udirai, com’in contraria parte
Muover dovieti mia carne sepolta.8 9
49Mai non t’appresentò natura o arte10
Piacer, quanto le belle membra en ch’io
Rinchiusa fui, e che so ’n terra sparte;11
52E, se ’l sommo piacer ti si fallio
Per la mia morte, qual cosa mortale
Dovea poi trarre te nel suo disio?12
55Ben ti dovevi, per lo primo strale
De le cose fallaci levar suso
Di rieto a me, che non era più tale.13
58Non ti dovea gravar le penne in giuso
Ad aspettar più colpi, o pargoletta,
O altra novità con sì breve uso.
61Nuovo augelletto du’ o tre aspetta;14
Ma dinanzi dall’occhio dei pennuti
Rete si spiega indarno, o si saetta.15
64Qual i fanciulli vergognando muti,
Colli occhi a terra stannosi ascoltando,
E sè ricognoscendo e ripentuti;
67Tal mi stava io; et ella disse: Quando
Per udir se dolente, alza la barba,
E prenderai più dollia riguardando.
70Con men di resistenza si dibarba
Robusto cerro, o vero al nostral vento,
O vero a quel de la terra di Giarba,
73Ch’io non levai al suo comando il mento;
E quando per la barba il viso chiese,
Ben cognovi ’l velen dell’argomento.
76E come la mia faccia si distese,
Posarsi quelle prime creature
Da lor apprension l’occhio comprese;16
79E le mie luci ancor pogo sigure
Vidder Beatrice volta ’n su la fiera,
Che è una sola persona in du’ nature.17
82Sotto ’l suo velo, et oltre la rivera
Vincer pareami più sè stessa antica
Vincer, che l’altre qui, quando ella c’era.18
85Di pentir sì mi punse ivi l’ortica,
Che di tutte altre cose qual mi torse
Più nel suo amore, più si fe nimica.19
88Tanta ricognoscenzia il cuor mi morse,
Ch’io caddi vinto, e quale allora femmi,
Salsi colei che la cagion mi porse.20
91Poi quando il cuor di fuor virtù rendemmi,21
La donna, ch’io avea trovato sola,
Sopra me viddi, e dicea: Tiemmi, tiemmi.22
94Tratto m’avea nel fiume in fin la gola,23
E tirando me, dritta se ne giva24
Sovr’esso l’acqua, lieve come spola.25
97Quando fui presso a la beata riva,
Asperges me sì dolcemente udissi,
Che io nol so rimembrar, non ch’io lo scriva.26
100La bella donna ne le braccia aprissi:
Abbracciòmi la testa, e me sommerse,
Onde convenne ch’io l’acqua inghiottissi;
103Indi mi tolse, e bagnato m’offerse
Dentro a la dansa delle quattro belle,
E ciascuna col braccio mi coperse.27
106Noi siam qui Ninfe, e nel Ciel semo stelle:28
Pria che Beatrice descendesse al mondo,
Fummo ordinate a lei per sue ancelle.
109Merrenti alli occhi suoi; ma nel giocondo29
Lume, che è dentro, aguzzeran li tuoi30
Le tre di là che miran più profondo.
112Così cantando cominciaro; e poi
Al petto del Griffon seco menarmi,
Ove Beatrice stava volta a noi.31
115Disser: Fa che le viste non rispiarmi:
Posto t’avem dinanzi a li smiraldi,
Unde Amor già ti trasse le suo armi.
118Mille disiri più che fiamma caldi
Strinsermi li occhi alli occhi rilucenti,
Che pur sovra ’l Griffone stavan saldi.
121Come in sul specchio Sol, non altrementi32
La doppia fiera dentro vi raggiava
Or con altri, or con altri reggimenti.33
124Pensa, Lettor, s’io mi meravilliava,
Quando vedea la cosa in sè star queta,
E sè ne l’idul suo si trasmutava.34
127Mentre che piena di stupor e lieta
L’anima mia gustava di quil cibo,
Che saziando sè, di sè asseta,
130Sè dimostrando di più alto tribo
Nelli atti, l’altre tre si fero avanti,
Danzando al loro angelico garibo.
133Volgi, Beatrice, volgi li occhi santi,
Era la sua canzona, al tuo fedele,
Che per vederti à mosso passi tanti.
136Per grazia fanne grazia che disvele35
A lui la bocca tua, sì che discerna
La seconda bellezza che tu cele.
139Ahi splendori di viva luce eterna,36
Chi pallido si fece sotto l’ombra
Sì di Parnaso o beve in sua cisterna,
142Che non paresse aver la mente ingombra,
Tentando a render te, qual tu paresti
Là dove armonizzando il Ciel t’adombra,
145Quando nell’aire aperto te solvesti?
- ↑ v.12. C. A Non sono ancora in te dall’
- ↑ v. 15. C. A. mestier
- ↑ v. 24. C. A. a che sospiri,
- ↑ v. 25. C. A. fosse attraversate
- ↑ v. 35. Mie; miei, terminato in e per la consueta legge di parità, come altre, parecchie ec. v. T. II, pag. 655. E.
- ↑ v. 36. C. A. il viso vostro
- ↑ v. 43. C. A. mo vergogna
- ↑ v. 48. C. M. doveati
- ↑ v. 48. Dovieti; dovie te, e così anche il singolare dell’imperfetto per uniformità cadde in e. E.
- ↑ v. 49. C. A. od arte
- ↑ v. 51. C. A. e che in terra son sparte;
- ↑ v. 54. C. A. Doveva poi trar te
- ↑ v. 57. C. A. Dietro a me,
- ↑ v. 61. C. M. Nuovo angioletto
- ↑ v. 63. C. A. Indarno si tende arco, o
- ↑ v. 78. C. A. Da loro apersion
- ↑ v. 81. C. A. Che è sola una persona in due
- ↑ v. 84. C. A. Veppiù, che l’
- ↑ v. 87. C. A. più mi si fè
- ↑ v. 90. C. A. la ragion
- ↑ v. 91. C. A. il cor virtù di fuor
- ↑ v. 93. C. A. Sopra mi vidi,
- ↑ v. 94. C. A. infino a gola,
- ↑ v. 95. C. A. E tirandosi me dietro sen giva
- ↑ v. 96. C. A. come stola.
- ↑ v. 99. C. A. Che nol so
- ↑ v. 105. C. A. del braccio
- ↑ v. 106. C. A. siamo stelle:
- ↑ v. 109. Merrenti; meneremo te, ove l’r doppia dimostra la contrazione, all’esempio dei Trovatori. E.
- ↑ v. 110. C. A. aguzzeranno i tuoi
- ↑ v. 114. C. A. volta stava a noi.
- ↑ v. 121. C. A. Come allo specchio il Sol,
- ↑ v. 123. C. A. Ora con altri e altri
- ↑ v. 126. C. A. E nell’idolo suo
- ↑ v. 136. C. A. fa noi grazia
- ↑ v. 139. C. A. O isplendor
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C O M M E N T O
O tu, che se’ di là ec. Questo è lo xxxi canto, nel quale lo nostro autore finge come1 elli ebbe dovuta contrizione del suo peccato e del suo errore; e come poi fu lavato nel fiume Lete; e, come lavato nel fiume, fu presentato a Beatrice. E dividesi questo canto principalmente in due parti: imperò che prima finge come Beatrice dirissò lo suo parlare inverso lui, riprendendolo del suo errore e come lo confessò n’ebbe debita contrizione; ne la seconda parte finge come, avuta la contrizione, fu imbagnato da Matelda nel fiume Lete, e come poi lavato fu presentato da le virtù inanti a Beatrice, e cominciasi la seconda quive: E come la mia faccia ec. La prima, che serà la prima lezione, si divide2 tutte in sei parti: imperò che prima finge come Beatrice dirissò lo suo parlare inverso di lui, parlando in seconda persona sì, come avea prima parlato di lui parlando in terzia persona, dimandando la sua confessione sopra le cose ditte nel precedente canto; ne la seconda finge come elli confessò co lagrime e sospiri lo suo peccato, et incominciasi quive: Confusion e paura ec.; ne la tersa finge come Beatrice lo dimandò la cagione del suo sviamento, et incominciasi quive: Ond’ella a me ec.; ne la quarta finge come elli adiunse la sua confessione, et incominciasi quive: Di po’ la tratta ec.; ne la quinta parte finge come Beatrice replica contra di lui e riprende la ditta cagione, et incominciasi quive: Tuttavia ec.; ne la sesta parte finge come ella, per darli maggior dollia, li comandò che alsasse lo volto a riguardarla, et incominciasi quive: Qual i fanciulli ec. Divisa la lezione, ora è da vedere lo testo co l’esposizioni litterali, allegoriche e morali.
C. XXXI — v. 1-12. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come Beatrice dirissò lò suo parlare inverso lui, per farli confessare ciò ch’avea ditto di lui nel precedente canto, e però dice così: O tu; cioè Dante, che se’ di là dal fiume sagro: imperò che anco non avea passato lo ditto fiume Lete, Volgendo suo parlar; cioè Beatrice, a me; cioè Dante, per punta; cioè per diritto, parlandomi in seconda persona u’ e prima avea parlato di me in tersa persona, Che; cioè lo quale parlare, pur per tallio; cioè parlando pure in tersa persona, m’era paruto agro; cioè aspro; e fa anco similitudine compresa sotto lo colore che si chiama significazione: imperò che s’intende, come lo colpo che si dà di punta co la spada più penetra et offende, che quel che si dà di tallio; così le parole ditte riprensorie d’inanti a la persona più li vanno al cuore, che le ditte in assenzia o in tersa persona, Ricominciò; cioè Beatrice al modo che ditto è, seguendo; cioè lo primo parlare, senza cunta; cioè sensa dimoransa, Dì, dì; cioè tu, Dante, che se’ di là ec.; e volendo ordinare le parole si dè incominciare così: E Beatrice, seguendo sensa cunta, ricominciò: tu, che se’ di là dal fiume sagro, Dì, dì; cioè risponde, risponde, et è qui conduplicatio — , se questo; che io abbo ditto di te, è vero, volgendo suo parlar ec. a tanta accusa; cioè a sì grande accusa, come abbo fatto di te, Tua confession convien esser congiunta: imperò che ’l peccato non si può purgare, se non si confessa prima. Et adiunge che, volendo rispondere, li venne meno la parola, e però dice: Era la mia virtù; dice l’autore di sè ch’era sì indebilito che non3 puote rispondere, e però dice: Era la mia virtù; cioè la virtù naturale di me Dante, tanto confusa; da la vergogna, ch’io avea del fallo commesso, Che la voce; cioè mia, si mosse; dal pulmone, e pria si spense; cioè la voce prima venne meno, Che dalli organi suoi; cioè da la canna del pulmone, del gosso4 e da la bocca, fusse dischiusa; cioè missa fuori. Pogo sofferse; poi; cioè Beatrice poi che ebbe ditto le parole ditte di sopra, disse; Beatrice a me Dante: Che pense; cioè tu, Dante, che non rispondi? Risponde a me; a quil ch’io t’abbo ditto, che le memorie triste; cioè dei peccati che fanno l’omo tristo; cioè aver tristizia e dolore quando se n’arricorda, In te; cioè Dante, non sono ancor dall’acqua; cioè di Lete offense; cioè mandate via et annullate.
C. XXXI — v. 13-21. In questi tre ternari lo nostro autore finge come, confortato che dovesse rispondere da Beatrice, ancora rispuose confessando. Dice così: Confusion; cioè de la mente, che venia da vergogna, e paura; che procedea da la pena, che merita la colpa del peccato, insieme miste; cioè insieme meschiate, Mi pinser un tal Sì; cioè una tale affermazione; cioè sì debilmente proferta, fuor de la bocca; cioè mia, Al qual; cioè Sì, intender; cioè acciò che fusse inteso, fur mistier le viste; cioè fu bisogno ch’io chinasse lo capo, che è segno d’affermazione. Come balestro frange; cioè rompe, quando scocca Per troppa tesa; cioè che scocca per sè, che non può sostenere la sua tesa, la sua corda e l’arco; et a questo modo scocca, cioè rompendo, E con men foga; che non farebbe, se non si rompesse, l’asta; cioè de lo stralo, il segno tocca; cioè la mira, dove si balestra, Sì scoppia’ io; ecco che adatta la similitudine; cioè così scoppiai io Dante, sottesso grave carco; cioè sotto lo grave carco, ch’io avea del mio fallo et errore, Fuori sgorgando lagrime e sospiri; cioè mandando fuori delli occhi lagrime, e sospiri de la bocca: le lagrime descendeno dal celebro, e li sospiri vegnano dal cuore, che sono li principali membri l’uno de la vita, e l’altre de lo intelletto e del senso, E la voce; cioè mia quando rispondea, allentò per lo suo varco; cioè per lo luogo unde valicava sì, che venne meno; e però fu bisogno l’atto di menare lo capo. Ecco che5 ben è dimostrato che avesse grande contrizione del suo peccato.
C. XXXI — v. 22-30. In questi tre ternari lo nostro autore finge come, di po’ la sua confessione, Beatrice subiunse la riprensione del suo sviamento, dicendo così: Ond’ella; cioè per la qual cosa ella, cioè Beatrice disse, s’intende, a me; cioè Dante: Quai; cioè quali, fossi; cioè rompimenti di vie, attraversati; per traverso de la via: imperò che li fossi da lato a le vie non rompeno le vie; ma sì quelli da traverso, o quai catene; cioè ritenimento6 che ti tenesseno impacciato e legato, Per entro i mie’ disiri; cioè per mezzo dei miei desidèri, cioè desidèri che avei inverso me, Che; cioè li quali desidèri, ti menavan ad amar lo Bene; cioè sommo e perfetto, Di qua dal qual: cioè bene, non è a che s’aspiri; cioè non è cosa, a la quale si vada col desiderio quietato, per che; cioè per li quali fossi e catene, Dovessiti così spolliar la spene; cioè la speranza, del passare inanzi; cioè d’andare oltra come avei incominciato; quasi dica: Dimmi, tu Dante, quando tu eri inamorato di me Beatrice, quale impaccio, quali ritenimenti ti tenneno che tu non perseverasti, anco te ne tirasti adrieto et intrasti ad amare lo bene imperfetto? E quali agevolezze e quali avanzi Ne la fronte; cioè nell’apparenzia prima, delli altri; cioè beni mondani et imperfetti, si mostraro; cioè a te Dante, Per che; cioè per le quali agevilesse et avansi, dovessi lor passeggiar anzi; cioè dovessi passeggiando farti lor incontra? E però bene appare in queste parole che Beatrice lo riprende de lo sviamento e de l’errore suo, quando abbandonò la religione e tornò al mondo.
C. XXXI — v. 31-42. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come elli rispuose al dimando fatto di sopra da Beatrice; e come ella, continuando lo suo parlare, commenda la sua confessione dimostrando quanto è utile quando esce de la propria bocca, dicendo così: Di po’ la tratta d’un sospiro amaro; cioè ch’ebbi messo fuori uno amaro sospiro, A pena ebbi la voce; cioè io Dante a pena io potei avere la voce, che; cioè la quale, rispuose; a la dimanda di Beatrice fatta di sopra, Che; cioè la quale voce, le labbra; cioè mie, a fatica; cioè con malagevilessa, la formaro; cioè la ditta voce: le labbra sono ultimo istrumento atto a compiere e formare la voce; 6 sono l’istrumenti che formano la voce; cioè lo pulmone, lo gosso, lo palato, la lingua, li denti e le labbra. Piangendo dissi; io Dante: Le presenti cose; cioè le mondane che ci sono presenti: imperò che le cose celesti sono avvenire, Col falso lor piacier: falso e decettivo è lo piacere de le cose mondane, volser mie passi; cioè mi feceno tornare adrieto et uscire de la religione, Tosto che ’l vostro viso si nascose; cioè altresì tosto come voi moriste, ch’io non viddi più lo vostro volto; e dèsi intendere allegoricamente lo morire di Beatrice, e non secondo la lettera: imperò che la santa Scrittura non muore mai: allora more la santa Scrittura all’omo, quand’elli si parte da lei; e perchè Dante si partitte de la religione, ne la quale la Teologia sempre vive, però dice ch’ella moritte quanto a lui; e lo suo viso, cioè la sua visione si nascose et appiattossi a lui: imperò che più non si esercitava in essa. Et ella; cioè Beatrice rispuose a Dante, Se tacessi; cioè tu, Dante, o se negassi Ciò che confessi; cioè tutto quello, che tu ài ora confessato di sopra, non fora men nota; cioè non serebbe meno manifesta, La colpa tua; ch’ella sia per la tua confessione: da tal giudice sassi; cioè di sì fatto iudice che è Iddio, al quale niente si può appiattare. Ma quando scoppia da la propria gota; cioè quando esce la colpa de la propria bocca del peccatore per la confessione; e però dice: L’accusa del peccato, in nostra corte; cioè nel foro divino, Rivolge sè contra ’l tallio la rota; usa qui lo colore ditto di sopra significazione per similitudine: come quando la rota si volge sotto ’l tallio del coltello in fuora, l’assottillia e fallo mellio talliare, e quando si volge incontra ’l tallio lo ingrossa e levali lo tallio; così la rota del tempo assottillia il tallio della divina spada, cioè della7 Divina Iustizia contra lo peccatore che non si pente e non confessa lo peccato suo: imperò che quanto più indugia, più cresce l’offesa; ma quando si confessa e pentesi, si mitiga la iustizia di Dio e la misericordia relassa che la iustizia non punisca, se non di qua dal condigno e merito.
C. XXXI— v. 43-63. In questi sette ternari lo nostro autore finge come Beatrice, continuando lo suo parlare, dimostra a lui acciò che più si vergogni del fallo, che per la sua assenzia più tosto dovea ricognoscere l’errore suo, dicendo così: Tuttavia; questo vulgare alcuna volta importa tempo, che viene a dire sempre, come quando si dice io ti servia e tutta via mi diservivi, alcuna volta importa avversazione come al presente che viene a dire ma, come se dicesse: Ma perchè; cioè ma a ciò che, me’; cioè mellio, vergogna porte: imperò che la vergogna lava lo peccato, come altrove dice l’autore: Maggior difetto men vergogna — , Del tuo errore; cioè che m’abbandonasti e destiti ai diletti mondani, e perchè altra volta; cioè et acciò che altra volta, Odendo le Sirene sia più forte; di queste Sirene fu ditto di sopra; ma qui si pone transuntive; cioè udendo le invitazioni et allettazioni, che fanno li beni mondani, ingannevili e fallaci, come le Sirene, Pon giù ’l seme del pianger; lo seme del piangere sono le lagrime sì come dice lo Salmista: Qui seminat in lacrymis, in exultatione metet, e però vuole dire: Pon giù le lagrime, et a questo modo s’intende lo seme che è produtto dal piangere: e come lo seme produtto dall’erba, caduto in terra produce simile erba; così lo piangere produce lagrime, e le lagrime produceno lo piangere, et ascolta; cioè ode et attende: ascoltare è aures cultare; cioè li orecchi operare. Sì udirai; tu, Dante, com’in contraria parte; cioè a quella, a la quale tu ti movesti, Muover dovieti mia carne sepolta; cioè, secondo la lettera, la mia morte: quando l’omo è morto, la carne, cioè lo corpo si mette nel sepolcro, sì che qui è quil colore che si chiama significazione ex consequentia, ti dovea muovere al contrario di quello a che tu ti movesti; et assegnarà la ragione: imperò che se tu vedevi me, che tanto ti piacea secondo la carne, esser venuta meno, dovei imaginare che anco l’altre cose mondane che piaceno vegnano meno, e così non ti dovei muovere in verso li beni corporali e temporali che vegnano meno; ma inverso li spirituali et eterni che mai non vegnano meno. E secondo l’allegoria, la carne de Beatrice sipolta8 si dè intendere lo intelletto letterale e morale de la santa Scrittura, prima piaciuto a l’autore, e poi lassato da lui: imperò che sepelire è appiattare lo corpo morto nel sepulcro, e così a Dante s’appiattò lo intelletto litterale e morale della Teologia, quando si partì da essa, lo quale prima li era tanto piaciuto. Mai non t’appresentò natura o arte Piacer; cioè mai non pillasti piacere di cosa9 produtta da la natura, o vero dall’arte, tanto, quanto; piacere, s’intende, le belle membra: cioè ti rappresentonno, en10 ch’io; cioè ne le quali io Beatrice, Rinchiusa fui; secondo la lettera pare che Beatrice fusse una donna la quale Dante molto amasse; ma elli intese de la santa Scrittura, de la quale fortemente fu inamorato mentre che fu ne la puerizia; e però, per servare la fizione, sempre parla come di cosa corporale, intendendo sotto questo parlare l’allegorico intelletto. Ecco secondo l’allegoria per le belle membra, in che fu rinchiusa Beatrice, sono li libri e li testi de la santa Scrittura li quali contegnano la santa Scrittura, come le membra corporali dell’omo contegnano l’anima; e questi libri e testi piacqueno nel ditto tempo più a l’autore, che niuna altra cosa naturale o artificiale che mai avesse veduto. e che; cioè e le quali membra, so ’n terra; cioè sono in terra, sparte; cioè, secondo la lettera, sepolto; ma allegoricamente sono libri e li testi de la santa Scrittura sparti per lo mondo in diverse parti; ancora si può intendere del divino officio che canta la santa Chiesa, nel quale la santa Scrittura è divisa sì, che ne’ luoghi convenienti sono appropriate le suoe parti. E, se ’l sommo piacer ti si fallio; cioè e se quel sommo piacer, che tu avei de le mie membra, ti venne meno, Per la mia morte; cioè imperò che lo studio, che tu pilliavi ne’ miei libri, morì e venne meno come11 venne meno l’omo ne la morte, qual cosa mortale; come sono tutti li beni mondani: imperò che tutti vegnano meno e muoiono a l’omo, o almeno ’l omo muore a loro, Dovea poi trarre te; cioè Dante, nel suo disio; cioè nel suo desiderio? Quasi dica: Nulla. Ben ti dovevi; cioè tu, Dante, per lo primo strale; cioè per lo primo colpo, che dato t’avea la fortuna col suo strale, De le cose fallaci; cioè dei beni temporali e mondani: questo strale significa in questa parte la privazione: quando la fortuna ti tolle una cosa che ti piace, ella ti percuote col suo strale; questo vocabulo è grammaticale12, cioè stratile, e viene da sterno, nis, che sta per abbattere: tutte le cose temporali sono fallaci; lo piacere de lo intelletto letterale e morale de la santa Scrittura è cosa temporale: imperò che dura a tempo e però è cosa fallace; lo spirituale intelletto è perpetuo, e però è vero bene, e però dice, levar suso. Seguita lo parlare incominciato, intendendo sempre a la similitudine, cioè come l’uccelatore per avere l’uccello lo saetta, e l’uccello se non è percosso si leva e fugge suso in aire; così dovei fare tu, Dante, che avei già veduto uno colpo ch’era tolto via lo piacere del mio intelletto letterale e morale, ben ti dovei levar suso come fa l’uccello, Di rieto a me; cioè seguitando lo intelletto spirituale, cioè allegorico et anagogico di me Beatrice, che; cioè la quale, non era più tale; cioè non era a te più carnale; ma spirituale. Non ti dovea gravar le penne in giuso; seguita la similitudine: l’uccello che à grave penne è tardo a levarsi, e però alcuna volta se non è invenuto col primo strale è invenuto col secondo; e così tu, Dante, non ti dovei co li tuoi pensieri atterrare: come le penne levano in alto l’uccello; così li pensieri levano suso e gravano giuso la mente umana, Ad aspettar più colpi: quando l’uccello si leva non aspetta più colpi; ma quando non si leva aspettane ancora; così l’omo, se non si leva col pensieri da le cose del mondo, aspetta anco dei colpi de la fortuna; s’elli se ne leva, non n’aspetta più, o pargoletta; cioè o pargulità e disavvedimento per tenera età non ti dovea gravare le penne in giuso aspettar più colpi, O altra novità con sì breve uso; cioè o altra novità che fusse in te Dante, che d’età e di tempo, con sì breve uso; come fu l’uso del sommo piacer che tu avesti di me. Et arreca la similitudine: Nuovo augelletto; lo quale non à ancora esperienzia de le cose, du’ o tre; cioè tirate d’arco o di balestro, aspetta; che non fugge, Ma dinanzi dall’occhio dei pennuti; cioè de li uccelli, che ànno tempo che sono esperti: l’uccello quando à tempo è pennuto, l’uccellino à le calugine e non le penne, Rete si spiega; per tirare e coprire l’uccello, indarno: imperò che nollo aspetta, o si saetta: imperò che fugge, come vede tirare l’arco o lo balestro; e cusì dovei fare tu, Dante, che non eri sì nuovo, che tu non ti dovessi accorgere de la falsità di questi beni mondani.
C. XXXI — v. 64-75. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come per la riprensione fatta di sopra da Beatrice elli, rimaso come mutolo per la vergogna, fu ammonito da lei che levasse suso lo volto, acciò che più avesse dolore del suo errore. Dice così: Qual i fanciulli; ecco che fa una similitudine di sè ai fanciulli, vergognando muti; cioè mutuli, Colli occhi a terra stannosi ascoltando; la riprensione, E sè ricognoscendo; avere errato, e ripentuti; del loro fallo, Tal mi stava io; cioè Dante, et ella; cioè Beatrice, disse: Quando Per udir; la riprensione che io t’abbo fallo, se dolente; dell’errore e del fallo commesso, alza la barba; cioè lo volto, ponendo la parte per lo tutto, E prenderai più dollia; tu, Dante, riguardando; cioè me Beatrice: più dolore genererà lo vedere quale io sono che tu abbandonasti, che non à generato la riprensione che tu ài udita. Con men di resistenza; cioè con minore parte di forza e di contrasto, si dibarba; cioè si tronca da le barbe e da le radici, Robusto cerro; cioè lo forte cerro: questo è uno arbore molto forte e de le specie de le quercia, o vero al nostral vento; cioè a vento che vegna da le parti nostre sì, come la tramontana, O vero a quel de la terra di Giarba; cioè al vento australe: lo re Iarba signoreggiò Africa in quella parte dove fu Cartagine, sì come appare per Virgilio che dice che la reina Dido comprò da lui tanto terreno per edificare la città, quanto potesse circundare con uno cuoio d’uno toro; sicchè, fatto filare li peli e talliare lo coio in minutissime parti, circundò tanto quanto occupò poi la città, chiamata Cartagine dal nome del cuoio: imperò che Cartago in quella lingua viene a dire cuoio, Ch’io; cioè Dante, non levai al suo comando; cioè di Beatrice, il mento; cioè mio; ecco che à fatto la comparazione in questa forma; cioè che meno resiste lo cerro, quando si schianta da le radici, ai venti che ’l fanno dibarbare, che non resistè lo capo di Dante a levarsi suso: ben mostra che grande fatica li fusse a levare su alto lo volto, lo quale teneva a la terra per la vergogna. E quando per la barba il viso chiese; cioè Beatrice: imperò che volendo alsassi lo volto disse: Alsa la barba, Ben cognovi ’l velen dell’argomento; cioè ben m’avviddi ch’ella argomentava sottilmente e latentemente, come corre lo veleno al cuore; tu non se’ fanciullo, che tu ti possi scusare per non cognoscere per pogo tempo: imperò che tu se’ barbuto. Seguita l’altra lezione del canto xxxi.
E come la mia faccia ec. Questa è la seconda lezione del canto xxxi, ne la quale l’autore finge come fu lavato da Matelda nel fiume Lete, e trasportato di là, e presentato a Beatrice. E dividesi questa lezione in parti sei: imperò che prima finge, come vedendo Beatrice meravilliosamente trasformata, li venne una fervente contrizione, sicchè cadde giù vinto; ne la seconda finge come fu preso da Matelda e messo nel fiume e sommerso, sicchè beve dell’acqua, e portato di là, et incominciasi quive: Poi quando il cuor ec.; ne la tersa finge come Matelda bagnato lo presentò a le quattro virtù cardinali, e come elle lo presentonno a Beatrice, et incominciasi quive: Indi mi tolse. ec.; ne la quarta finge come, posto dinansi a Beatrice vedendola fatta rilucentissima, molta ammirazione prese, et incominciasi quive: Mille disiri ec.; ne la quinta finge come le tre virtù teologiche pregano Beatrice che si manifesti col parlare a Dante, et incominciasi quive: Mentre che piena ec.; ne la sesta fine come nessuno serebbe sofficiente a descrivere Beatrice quale si fece allora, et incominciasi quive: Ahi splendori di viva ec. Divisa la lezione, ora è da vedere la sentenzia litterale co la esposizione allegorica e morale.
C. XXXI — v. 76-90. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come, levato su13 faccia, vidde li angiuli e vidde Beatrice molto eccellente; e come allora li venne tanta contrizione che cadde giù vinto, dicendo così: E come la mia faccia; cioè di me Dante, si distese; cioè levata su alto, l’occhio; cioè mio, dice l’autore, comprese; cioè s’avvidde, quelle prime creature; cioè li angiuli che funno le prime creature, che Iddio creasse, Posarsi Da lor apprension; cioè riposarsi e non stare più attenti ad udire Beatrice, e così si riposavano da l’apprensione loro, che prima avevano avuto in udire Beatrice; e questo fu segno a l’autore che Beatrice non dovea più parlare allora. E le mie luci; cioè de’ miei occhi, ancor pogo sigure; cioè che ancora non s’assiguravano di ragguardare Beatrice; ma pur avvisando in su, Vidder Beatrice; cioè quella che prima avea ripreso Dante, volta ’n su la fiera; cioè in sul griffone ditto di sopra che figura Cristo, e però dice, Che; cioè la quale fiera, è una sola persona: imperò che sola la persona del Filliuolo prese carne umana, e non lo Padre, non lo Spirito Santo, solamente lo Verbo Divino, in du’ nature; cioè in natura divina et umana, sicchè due nature sono coniunte insieme et unite, sicchè fanno una persona. E per questo dà ad intendere che infine a qui Beatrice è occorsa ne la mente sua sì, come riprenditrice e castigatrice del suo errore; ora li occorse sì come contemplatrice del Verbo Divino incarnato, nel quale atto ella è più bella che in ciascuno altro, e però finge che fusse volta in su la fiera, dove prima era stata volta sopra lui. Sotto ’l suo velo; che significa la fede, de la quale è velata la Teologia: imperò che la fede conviene essere principio e primo adornamento de la Teologia, et oltre la rivera; cioè di là da la ripa del fiume Lete, che significa che ella sta sempre di là dal purgamento de la innocenzia: imperò che ella è di quelli che sono in stato d’innocenzia. E ben che questi due impacci vi fusseno; cioè lo velamento e la distanzia; niente di meno comprendea l’autore la sua bellezza, e però dice: Vincer pareami più sè stessa antica; cioè ora, che mi parea antica mi parea vincere in bellezza sè medesima quand’ella era iovana14, Più che Vincer l’altre qui; cioè in questa vita mondana, quando ella c’era; secondo la lettera, quand’ella era iovana nel mondo mi parea vincere tutte l’altre donne in bellessa, et ora antica; ma15 parea vincer sè iovana in bellessa. Et allegoricamente intende che quando la studiò carnalmente, secondo la lettera e moralità, ne la sua puerizia li parve più bella che tutte l’altre scienzie, et ora che la considerava secondo lo intelletto allegorico et anagogico spiritualmente, nel quale ella si mostra antica: imperò ch’ella è fatta e creata da la Sapienzia increata, li parea molto più bella che quando la studiò secondo la lettera. Di pentir; cioè d’averla lassata et essermi dato a le vanità del mondo, sì; cioè per sì fatto modo, mi punse; cioè punse me Dante, ivi; cioè in quello luogo, et allegoricamente in quella considerazione, l’ortica; cioè lo rimordimento de la coscienzia che cuoce, come fa l’ortica quando punge, Che di tutte altre cose qual; cioè quella la quale, mi torse Più nel suo amore; cioè qualunqua cosa più m’inchinò al suo amore, più si fe nimica; cioè più l’ebbi allora in odio. Tanta ricognoscenzia; cioè del mio errore, il cuor mi morse: imperocch’io n’ebbi pentimento e dolore, Ch’io caddi vinto; dal dolore e privato dei sentimenti, e quale allora femmi; cioè caento io diventai, Salsi colei; cioè Beatrice, che; cioè la quale, la cagion mi porse; cioè mi diede di sì dolermi: imperò che la riprensione de la santa Scrittura, che li occorse ne la mente, li fe avere tale contrizione, e questa nolli serebbe occorsa se non mediante la Grazia Divina; dunqua Iddio li diè la cagione, nè di sì fatta contrizione, et elli sa come allora diventò fatto, et a lui se ne dè rendere loda.
C. XXXI — v. 91-102. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come elli fu preso da Matelda, e bagnato et immerso nel fiume Lete, e portato di là dal fiume, dicendo così: Poi quando il cuor; cioè mio, di fuor virtù rendemmi; cioè che la virtù vitale e sensitiva, ch’era corsa col sangue al cuore, tornò di fuori a le membra, La donna; cioè Matelda, ch’io; cioè la quale io Dante, avea trovato sola; di là dal fiume, quando io giunsi a la riva di qua, Sopra me viddi; venuta dì qua dal fiume, e dicea: cioè ella a me: Tiemmi, tiemmi; cioè attienti attienti a me; e rende la cagione, per che sì dicea: Tratto m’avea nel fiume; cioè la ditta donna m’avea tirato; cioè me Dante, nel fiume Lete quando io caddi, in fin la gola; cioè infine a la gola mi trovai nel fiume, quando io mi risentitti e viddi sopra me Beatrice, et ella dissemi: Tiemmi, tiemmi, E tirando me; cioè Dante, che m’era afferrato ai panni suoi, si dè intendere, dritta se ne giva Sovr’esso l’acqua; cioè Matelda dritta andava sopra l’acqua, tirando me tutta via, lieve come spola: la spola è lo istrumento da tessere che si gitta tra lo stame e va leggermente sì che non rompe le fila, e cusì lieve andava Matelda sovra l’acqua si che non si bagnava pur le piante. Quando fui; io Dante, presso a la beata riva; cioè all’altra ripa del fiume Lete, di là da la quale stanno li beati che sono in stato d’innocenzia, Asperges me; cioè: Domine, asperges me hyssopo et mundabor: lavabis me, et super nivem dealbabor. Questo è uno verso del salmo Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam ec., lo quale si canta la domenica mattina nel coro, quando lo sacerdote viene ad aspergere lo coro, per cacciare via l’immundi spiriti; e così finge l’autore che cantasseno li angiuli, quando si dovea aspergere nel fiume Lete, sì dolcemente udissi; cioè cantare delli angiuli per Stazio e per me, Che io; cioè che io Dante, nol so rimembrar; cioè non so arricordare, non ch’io lo scriva; ora qui la dolcessa di quil canto. La bella donna; cioè Matelda, ne le braccia aprissi; cioè aperse le braccia, Abbracciòmi la testa; cioè a me Dante, per tirarmi fuor dell’acqua ne la quale io era in fin la gola, e presemi poi in balia, e me sommerse; poi nell’acqua col capo, attuffulandomi nell’acqua, Onde; cioè per la quale summersione, Convenne ch’io; cioè che io Dante, l’acqua inghiottissi; cioè inghiottissi dell’acqua di Lete, secondo la sentenzia di Virgilio che dice: Animæ quibus altera fato Corpora debentur curarum oblivia potant Fluminis in ripa ec. Benchè l’autore in questa fizione seguitassi Virgilio; niente di meno ebbe in ciò allegorico intelletto: imperò che l’autore intese che, poi ch’elli ebbe la debita contrizione dell’errore suo, Matelda, che significa l’autorità sacerdotale: imperò che Matelda si può interpetrare, mathesim laudans; cioè lodante la divinazione, o vero la scienzia d’Iddio, l’assolvesse: imperò che al sacerdote s’appartiene di predicare e lodare la scienzia divina, e co la sua dottrina menare lo peccatore per l’acqua de la mundazione, e co la sua autorità sacerdotale assolverlo. E però àe finto l’autore che Matelda lo mettesse nell’acqua infine a la gola, a significare che lavò tutte le membra corporali, nei quali era stato l’atto del peccato, o mentali, ne’ quali era stata la volontà del peccato; e poi la testa ne la quale sta la memoria del peccato, e così lo rendè tutto mondo lavando dall’una ripa, cioè da quella di qua, la volontà e l’atto del peccato, e dall’altra ripa la memoria: imperò che dall’uno lavamento si viene all’altro. E così si rende l’anima a lo stato de la innocenzia e trovasi nel paradiso delitiarum, dove li nostri primi parenti funno innocenti e stettenovi tanto, quanto durò loro la innocenzia, poi ne funno cacciati; e però finge lo nostro autore che a cusì fatto stato venisse elli inanti, che potesse sallire a vedere lo paradiso terrestre prima, e poi lo celeste.
C. XXXI — v. 103-117. In questi cinque ternari finge lo nostro autore come, poi che fu lavato e beve dell’acqua di Lete che significa dimenticagione del peccato e del fomite del peccato e stato d’innocenzia, fu menato così bagnato tra le quattro donne che dansavano da la sinistra rota del carro, in sul quale era Beatrice, dicendo così: Indi; cioè di quil luogo, da quella ripa, mi tolse; cioè me Dante la ditta donna, cioè Matelda, e bagnato m’offerse Dentro a la dansa delle quattro belle; cioè donne che ballavano da la sinistra rota del carro, de le quali fu ditto di sopra; e per questo dà ad intendere che, poi che la dottrina et autorità sacerdotale àe mundificato e levato l’omo da l’atto e dal fomite del peccato sì, che l’à renduto innocente, così lavato lo mette dentro da la dansa de le quattro virtù cardinali, acciò ch’elli vegga lo tripudio e l’allegressa loro, e come elle serveno a la santa Teologia; e così finge che Matelda facesse a lui. E ciascuna; cioè di quelle quattro donne, col braccio; cioè suo, mi coperse; cioè coperse me così bagnato, offerto loro da Matelda; per lo quale coprimento dà ad intendere che ciascuna promesse di difenderlo dal vizio contrario, la iustizia da la iniustizia, la prudenzia de la stoltia, la fortessa de la fragilità, la temperansa de la intemperanzia; e così è che chi è in stato d’innocenzia le ditte virtù lo cuopreno col braccio suo, cioè co la potenzia sua. Noi siam qui Ninfe; come è stato ditto di sopra, Ninfe sono le die dell’acque, et alcuna volta si pognano per l’acque, e però diceno queste donne a Dante: Noi; cioè quattro virtù siamo quivi, cioè nel mondo: imperò che lo paradiso delitiarum, secondo la sua fizione, è in sul monte del purgatorio che àe finto che sia nell’altro emisperio: imperò ch’elle sono a lavare lo mondo dai vizi e da le brutture dei peccati, e nel ciel semo stelle: imperò che quive siamo per adornamento: imperò che quive non ànno a tollere vizio, nè peccato: imperò che quive è solamente virtù; e però si può dire che nel mondo sono in atto, et in cielo sono in abito. Pria che Beatrice descendesse al mondo: allora discese Beatrice al mondo, che li componitori del vecchio testamento inspirati da Dio lo scrisseno, e che discese Cristo: imperò ch’elli fu insegnatore del testamento nuovo et accordatore del vecchio col nuovo, et ab eterno fu questa scienzia co la divinità del Verbo, che si dice sapientia patris — , Fummo ordinate; cioè noi quattro virtù da Dio, a lei; cioè a Beatrice, per sue ancelle; cioè per sue servigiali, e bene fu prima: imperò che ab eterno Iddio ordinò ogni cosa; e poi che noi siamo sue ancelle, Merrenti alli occhi suoi; cioè di Beatrice, cioè a lo intelletto carnale che àe due occhi; cioè intelletto letterale e morale, et alle virtù cardinali s’appartiene di guidare l’omo allo intelletto carnale de la santa Teologia: imperò che per la dottrina et esercizio di quelle si viene poi a la dottrina et a l’esercizio de la santa Teologia, ma nel giocondo Lume; cioè nello intelletto spirituale, anagogico cioè et allegorico, che è; cioè lo quale è, dentro; cioè alli occhi di Beatrice: imperò che sotto la lettera e moralità sta appiattato, aguzzeran li tuoi; cioè occhi, Le tre; cioè virtù teologiche, di là; cioè che sono da la destra rota del carro, che; cioè le quali, miran più profondo; che non facciamo noi: imperò che la fede, speransa e carità vedeno mellio le cose spirituali de la santa Teologia, che le virtù cardinali che non vedeno se non le carnali. Così cantando cominciaro; cioè quello ch’è detto di sopra infin a quive: Noi siam qui Ninfe ec.; e poi Al petto del Griffon; del quale fu ditto di sopra e verso ’l quale era volta Beatrice, seco menarmi; cioè le quattro virtù cardinali, le quali conduceno l’omo a vedere lo Verbo incarnato et alla sua presenzia: imperò che chi è guidato da esse si può ben presentare inanti a Cristo, Ove; cioè nel quale luogo, Beatrice stava volta a noi: imperò ch’ella stava in su la sinistra coscia del carro, volta verso ’l griffone e lui ragguardava, sì che chi era inanti al griffone era inanti a lei. Disser; cioè le ditte donne a me Dante: Fa che le viste; cioè li occhi che si pognano qui per la ragione e per lo intelletto, bene che secondo la lettera s’intenda dei corporali, non rispiarmi; cioè opera ora li occhi e nolli risparmiare. Posto t’avem; cioè noi quattro donne te Dante, dinanzi a li smiraldi; cioè alli occhi lucenti di Beatrice, come smiraldi: come detto è, le virtù cardinali conduceno l’omo all’intelletto de la santa Teologia, Unde; cioè dai quali occhi, Amor già ti trasse; cioè t’arcò, le suo armi; cioè le suoe saette, che ti fece inamorare di lei: da lo intelletto carnale; cioè letterale e morale, fu incitato Dante a l’amore de la santa Teologia.
C. XXXI — v. 118-126. In questi tre ternari lo nostro autore finge come, posto dinansi a Beatrice, stava colli occhi suoi fermi alli occhi di Beatrice; e come vidde mirabile cosa. Dice così: Mille disiri; cioè mille ferventi desidèri, più che fiamma caldi; cioè più ardenti che la fiamma del fuoco, Strinsermi li occhi; cioè strinseno li miei occhi di me Dante, alli occhi rilucenti; cioè di Beatrice, Che; cioè li quali occhi, pur sovra ’l Griffone stavan saldi: sempre la Teologia ne le suoe sentenzie e nei suoi intendimenti sta ferma sopra ’l Verbo Divino umanato. Et arreca una similitudine molto propria: Come in sul specchio Sol; s’intende raggia e risplende e riflette li suoi raggi fuora dello specchio, così e, non altrementi; che ditto è del Sole e de lo specchio, La doppia fiera; cioè lo griffone, cioè Cristo che era rappresentato in essa come ’l Sole ne lo specchio; Iddio et omo, e però finse di sopra che ’l griffone fusse mezzo d’oro e mezzo bianco, misto con vermiglio, dentro vi raggiava; cioè nelli occhi di Beatrice, Or con altri, or con altri16 reggimenti: imperò che la Santa Scrittura, parlando di Cristo, ora parla di lui sì come d’omo, ora parla di lui sì come di Dio, ora lo figura agnello, ora lo figura leone; e così sono molte e varie figurazioni fatte di Cristo ne la Santa Scrittura. Pensa, Lettor; ora parla Dante al lettore del suo libro, dicendo: Pensa, Lettor; cioè tu, che leggi lo mio libro, s’io mi meravilliava, Quando vedea la cosa; cioè lo griffone, in sè star queta: imperò che in sè nulla mutazione avea, E sè ne l’idul suo; cioè ne la imagine e figurazione, che si rappresentava nelli occhi di Beatrice come ’l Sole ne lo specchio, si trasmutava; ora d’una figura, ora d’un’altra: imperò che, quando Dante leggeva la Santa Scrittura e vedeva varie figurazione di Cristo, niente di meno intendeva pure una medesima cosa; ma meravilliavasi dell’alto intendimento che quive era.
C. XXXI — v. 127-138. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come, presentato elli Dante da le 4 virtù cardinali a Beatrice, contemplando e vedendo come Cristo ne la Santa Scrittura si rappresenta sotto varie figure, vennero le 3 virtù teologiche cantando e raccomandando lui a Beatrice, dicendo così: Mentre che piena di stupor; cioè di meravillia per la cagione ditta dinanti, e lieta: imperò che niuna cosa fa più lieta la mente, che lo pensamento de le cose di Dio, L’anima mia gustava; cioè assaggiava, di quil cibo; cioè divino, Che; cioè lo quale, saziando sè; cioè essa anima, asseta; cioè fa crescere la sete, di sè; cioè d’esso cibo divino: quanto più l’anima assaggia de le cose d’iddio, tanto più liene cresce lo desiderio, l’altre tre; cioè virtù teologiche, Sè dimostrando di più alto tribo; cioè dimostrandosi di più alta schiatta, che de le quattro virtù cardinali: imperò che intendeno a maggior cose, cioè a le divine, Nelli atti; cioè loro: imperò che sono in cose divine esercitate, si fero avanti; a raccomandare Dante a Beatrice, secondo la lettera; ma secondo l’allegoria, venneno nella mente dell’autore esercitandosi ne’ loro atti, Danzando; cioè facendo festa, al loro angelico garibo; cioè al loro angelico modo: garibo è a dire garbo, e garbo è lo modo. Era la sua canzona; cioè de le ditte tre virtù teologiche: Volgi; Beatrice, volgi li occhi santi; cioè tuoi, al tuo fedele; cioè a Dante, Che per vederti; cioè per vedere te, cioè per vedere, secondo l’allegoria, come la Teologia beatifica l’omo che la studia perfettamente et intendela, à mosso passi tanti; cioè è ito di grado in grado considerando come si viene ad abominazione del peccato, poi come se ne purga, poi come si viene a stato d’innocenzia, et a l’ultimo vede Beatrice quando l’anima si beatifica. Per grazia fanne grazia; cioè a noi per grazia preveniente fa grazia illuminante, cooperante e consumante, sicchè si beatifichi, che disvele; cioè che manifesti e scuopri, A lui; cioè a Dante tuo fedele, la bocca tua; cioè la tua sentenzia litterale e morale per sì fatto modo; e però dice: sì che discerna; cioè cognosca, La seconda bellezza; cioè lo spirituale intelletto, che; lo quale, tu; cioè Beatrice, cele; cioè appiatti sotto la lettera e moralità. E quanto a la lettera si può intendere: Scuopreli lo volto tuo, ponendo la parte, cioè la bocca per lo tutto, cioè per lo volto che sta appiattato sotto il bianco velo, acciò ch’elli vegga lo volto tutto, che non à veduto infine a qui se non li occhi tuoi. E potrebbe essere in queste parole questa allegoria: Manifesta a lui la intenzione tua litterale e morale che sta appiattata sotto lo velame de la fede per sì fatto modo, che elli comprenda la intenzione allegorica et anagogica; la quale intenzione è la seconda bellezza de la Teologia; l’una bellezza è la intenzione letterale ne la quale sta la moralità poco latente, la seconda bellezza è la intenzione allegorica et anagogica che sta appiattata molto sotto la lettera.
C. XXXI — v. 139-145. In questi due ternari et uno versetto lo nostro autore finge come Beatrice al prego de le ditte tre virtù teologiche si scoperse e mostrò lo volto suo a lui, lo quale, come fusse fatto, impossibile serebbe ad ogni ingegno a narrare, e però dice così: Ahi; questa è interiezione che significa ammirazione, splendori di viva luce eterna; cioè funno quelli che allora Beatrice dimostrò, scoprendosi lo volto suo; e bene funno splendori di viva luce eterna: imperò che funno de la divinità, che è luce che sempre vive et è eterna, Chi pallido si fece sotto l’ombra Sì di Parnaso: Parnaso, come è stato ditto di sopra, è uno monte in Grecia posto in una isula che si chiama Delo, o vero Delfo, et à due altezze, che in su l’una che è chiamata Elicon è Cirra consecrata ad Apolline, et insù l’altra chiamata Citeron è Nisa consecrata a Baco; e giù ne la valle, dove fa ombra lo ditto monte di verso Cirra, è lo tempio d’Apolline, e di verso Nisa è lo tempio di Baco, et èvi lo bosco e la fonte in mezzo consecrate a le Muse, e giù a piè del monte è la città Focis. E perchè in quella valle nel bosco stavano li studianti, per stare solitari, e stavano sobri, e pertanto diventavano pallidi, però dice: chi pallido si fece sotto l’ombra Sì di Parnaso; chi più continua lo studio, più diventa pallido; e per tanto vuole dire: chi à tanto studiato nello studio di Parnaso, o beve in sua cisterna; cioè o à tanto bevuto de la fonte de le Muse, Che non paresse aver la mente ingombra; cioè occupata et impacciata, Tentando a render te; cioè se tentasse di descrivere te Beatrice; cioè tale, qual tu paresti; cioè tu, Beatrice, Là dove; cioè in quel luoco nel quale, il Ciel t’adombra; cioè ti cuopre sì, che non vi sia altra copertura che quella del cielo, armonizzando; cioè cantando e sonando dolcemente, cioè in quello luogo dove tratti de le cose del cielo dolcemente e dilettevilmente; e questo è adombrare, cioè colorare, quasi dica: Nullo serebbe che ’l sapesse descrivere, qualunqua fusse più ammaestrato e più scientifico, Quando solvesti te nell’aire aperto; cioè quando ti mostrasti aperta, non sotto velame di fede? Per questo dà ad intendere che nessuno potrebbe dire la bellessa de la santa Teologia, quand’ella parla apertamente de le cose del cielo: imperò che niuno diletto è pari a quello. E qui finisce il canto xxxi, et incominciasi lo xxxii.
Note
- ↑ C. M. elli confesso lo suo errore e lo suo peccato et ebbe
- ↑ C. M. tutta
- ↑ C. M. poteo
- ↑ C. M. dal gozzo
- ↑ C. M. bene à dimostrato
- ↑ C. M. ritenimenti
- ↑ Da — lo ingrossa — infino — Divina — è racconciamento dal Magliab. E.
- ↑ C. M. di Beatrice sepolta
- ↑ C. M. cosa perduta
- ↑ En per in talora adoperavano gli antichi, ad esempio delle lingue romanze. Ciullo d’Alcamo cantava «En paura non mettermi Di nullo manganiello » E.
- ↑ C. M. come viene meno
- ↑ Grammaticale; pertinente a Grammatica, alla lingua latina. E.
- ↑ C. M. su la faccia,
- ↑ C. M. giovana
- ↑ C. M. mi parea più vincere
- ↑ Reggimenti è in senso di atti, gesti, come S. Antonio Abate, c. viii. «facendo strepito, o salti o reggimenti di garzoni dissoluti, o di ladroni». E.