Commedia (Buti)/Purgatorio/Canto VIII
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(Commento di Francesco Da Buti) (XIV secolo)
Canto ottavo
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C A N T O VIII.
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1Era già l’ora che volge il disio
Dei naviganti, e intenerisce il core1
Lo di’ che àn ditto ai dolci amici: Addio;
4E che lo novo peregrin d’amore
Punge, se ode squilla di lontano,
Che paia il giorno pianger che si more;
7Quand’io incominciai a render vano
L’udir, et a mirar una dell’alme
Surta, che l’ascoltar chiedea con mano.
10Ella giunse e levò ambe le palme,
Ficcando li occhi verso l’oriente,
Come dicesse a Dio: D’altro non calme.2
13Te lucis ante sì devotamente
Li uscì di bocca, e con sì dolci note,
Che fece me a me uscir di mente.
16E l’altre poi dolcemente e divote
Seguitar lei per tutto l’inno intero,
Avendo li occhi a le superne rote.
19Aguzza ben, Lettor, qui li occhi al vero:
Chè il velo è ora ben tanto sottile,
Certo che il trapassar dentro è leggero.
22Io viddi quello esercito gentile
Tacito poscia riguardare in sue,3
Quasi ammirando, pallido et umile.4
25E viddi uscir de l’alto, e scender giue
Du’ Angeli con du spade affocate,
Tronche e private de le punte sue.
28Verdi, come folliette pur mo nate,
Erano in veste, che da verdi penne
Percosse eran di rieto e ventilate.
31L’un poco sovra noi a star si venne,
E l’altro scese all’opposita sponda,
Sì che la gente in mezzo si contenne.
34Ben discernea in Jor la testa bionda;
Ma ne le facce l’occhio si smarria,
Come virtù che al troppo si confonda.
37Ambo vengon del grembo di Maria,
Disse Sordello, a guardia de la valle,
Per lo serpente, che verrà via via.
40Ma io che non sapea per qual calle,
Mi volsi intorno, e stretto m’accostai
Tutto gelato a le fidate spalle.
43Sordello allora: Or valichiamo omai5
Tra le grandi ombre e parleremo ad esse;
Grazioso fi’ lor vederte assai.
46Solo tre passi credo ch’ io scendesse,
E fui di sotto, e viddi un che mirava6
Pur me, come cognoscer me volesse.
49Tempo era già che l’aire serenava;7
Ma non sì, che tra li occhi suoi e’ miei
Non dichiarasse ciò che pria serrava.8
52Ver me si fece, et io ver lui me fei:
Giudici Nin gentil, quanto mi piacque,
Quando te viddi non esser tra’ rei!
55Nullo bel salutar tra noi si tacque;9
Poi dimandò: Quant’è, che tu venisti
A piè del monte per le lontane acque?
58Io dissi a lui: Per entro i luoghi tristi
Venni stamane, e sono in prima vita,
Ancor che l’altra sì andando acquisti.
61E come fu la mia risposta udita,
Sordello et elli indietro si ricolse,
Come gente di subito smarrita.
64L’un a Virgilio, e l’altro ad un si volse,
Che sedea lì, gridando: Su Currado,
Vien a veder che Dio per grazia volse.
67Poi volto a me: Per quel singular grado,
Che tu dèi a colui, che si nasconde
Lo suo primo perchè, che non v’è guado,10
70Quando serai di là da le larghe onde,
Dì a Giovanna mia, che per me chiami
Là dove all’innocenti si risponde.
73Non credo che la sua madre più m’ami,
Poscia che trasmutò le bianche bende,11
Le quai convien che misera ancor brami.
76Per lei assai di lieve si comprende
Quanto in femina foco d’amor dura.
Se l’occhio e il tatto spesso noll’accende.1213
79No li farà sì bella sepultura13
La vipera che il Melanese accampa,
Come avria fatto il gallo di Gallura.
82Così dicea segnato de la stampa
Nel suo aspetto di quel dritto zelo,
Che smisuratamente il core avvampa.
85Li occhi miei ghiotti andavan pur al Cielo,
Pur là dove le stelle son più tarde,
Sì come rota più presso a lo stelo.
88E il Duca mio: Filliuol, che lassù guarde?
Et io a lui: A quelle tre facelle,
Di che il popul di qua tutto quanto arde.14
91Ond’elli a me: Le quattro chiare stelle,
Che vedemmo staman, son di là basse,15
E queste son sallite ov’eran quelle.
94Com’ei parlava, Sordello a sè ’l trasse,
Dicendo: Vedi là ’l nostro avversaro,
E drizzò il dito, perchè in la guatasse.
97Da quella parte, onde non à riparo
La picciola valletta, era una biscia,16
Forse qual diede ad Eva il cibo amaro.
100Tra l’erba e i fior venia la mala striscia,
Volgendo ad or ad or la testa al dosso,17
Leccando come bestia che si liscia.
103Io nol viddi, e però dicer nol posso,
Como mosser li astori celestiali;
Ma viddi ben poi l’un e l’altro mosso.18
106Sentendo fender l’aire a le verdi ali,
Fuggì il serpente, e li Angeli dier volta,19
Suso a le poste rivolando eguali.
109L’ombra che s’era a Giudici raccolta,20
Quando chiamò, per tutto quell’assalto
Punto non fu da me guardare sciolta.21
112Se la lucerna che ti mena in alto,
Trovi nel tuo arbitrio tanta cera,
Quanta è mistiero infine al sommo smalto,
115Cominciò elli: se novella vera
Di Valdimagra, o di parte vicina
Sai, dillo a me, che già grande là era.
118Chiamato fui Currado Malaspina:
Non son l’antico; ma di lui discesi:
Ai miei portai l’amor che qui raffina.
121Oh! dissi lui, per li vostri paesi
Giammai non fui; ma dove si dimora
Per tutta Europa, che non sian palesi?
124La fama che la casa vostra onora,
Grida i signori e grida la contrada,22
Sì che ne sa chi non vi fu ancora.
127Et io vi giuro, se di sopra vada,
Che vostra gente ornata non si fregia23
Del pregio de la borsa e de la spada.
130Uso e natura sì la privilegia,
Che, perchè capo reo lo mondo torca,24
Solo va ritta, e il mal cammin dispregia.
133Et elli: Or va, che il Sol non si ricorca
Sette volte nel letto, che il Montone
Con tutti quattro piè cuopre et inforca,
136Che cotesta cortese opinione
Ti fie chiavata in mezzo de la testa
Con maggior chiovi che d’altrui sermone,
139Se corso di giudicio non s’arresta.25
- ↑ v. 2. C. A. A naviganti,
- ↑ v. 12. C. A. Quasi dicesse
- ↑ v. 23. C. A. Tacito tutto
- ↑ v. 24. C. A. aspettando,
- ↑ v. 43. C. A. E Sordello anche: Ora avvalliamo omai
- ↑ v. 47. C. A. Ch’i fui tra lor, e
- ↑ v. 49. C. A. n’annerava;
- ↑ v. 51. C. A. discernesse
- ↑ v. 55. Bel; bello, qui vale amorevole, affettuoso. E.
- ↑ v. 69. C. A. gli è guado,
- ↑ v. 74. Le bianche bende. Il bianco tra gl’ Italiani fu colore di lutto per insino al secolo xiv, e così eziandio presso i Chinesi. E.
- ↑ v. 78. C. A. o il tatto spesso noi raccende.
- ↑ 13,0 13,1 vv. 78-79. C. M. non l’accende. - Non li farà
- ↑ v. 90. C. A. Di che il polo di
- ↑ v. 92. C. A. Che vedevi
- ↑ v. 98. C. A. vallea,
- ↑ v. 101. C. A. la testa e il dosso,
- ↑ v. 105. C. A. vid’io ben e l’uno e
- ↑ v. 107. Dier; diero, dierono, voci tutte create dalla terza persona singolare dè, congiuntovi il ro o rono, ed interpostovi l’i E.
- ↑ v. 109. C. A. al Giudice
- ↑ v. 111. C. A. guardar disciolta.
- ↑ v. 125. C. A. Gridi i signori e gridi
- ↑ v. 128. C. A. sì sfregia
- ↑ v. 131. C. A. il capo
- ↑ v. 139. Giusta quello che osserva il Gioberti nella Protologia, presso i nostri Classici l’uso o costume si contrappone alla natura. La natura è la potenza; l’usanza è l’atto moltiplicato, e diventato abituale, come essa potenza. E.
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C O M M E N T O
Era già l’ora cc. Questo è lo canto ottavo nel quale l’autore 1 segue ancora la suprascritta materia, trattando de li stati negligenti a la penitenzia per le signorie temporali; e dividesi questo canto in due parti: imperò che prima l’autore descrive lo tempo e lo canto dell’anime di quello luogo, e l’avvenimento di due angiuli; e come ne cognove alcuna, e parlò con loro. Ne la seconda fìnge l’avvenimento d’uno serpente e lo combattimento delli angiuli con lui, e lo parlamento che ebbe con uno dei marchesi Malaspina, quive: Li occhi miei ghiotti ec. La prima si divide in cinque parti: imperò che prima descrive lo tempo, e finge lo canto che feceno l’anime del ditto luogo; ne la seconda finge l’avvenimento di due angiuli c descriveli come erano fatti, quive: Aguzza ben, Lettor, ec.; ne la tersa finge quel che feceno quelli due angiuli, e che Sordello li dicesse unde venivano e perchè, e quel che elli fe, quive: L’un poco ec.; ne la quarta finge come Sordello li guidò giuso tra l’anime, e come ne ricognove alcuna, quive: Sordello allora: ec.; ne la quinta finge come venne a parlamento con uno di quelli signori, quive: E come fu la mia ec. Divisa la lezione, ora è da vedere lo testo co la esponizione litterale, e co le allegorie o vero moralitadi.
C. VIII. — v. 1-18. In questi sei ternari lo nostro autore descrive lo tempo lo quale finge che fusse, quando una di quelle anime che erano ne la valle dei signori temporali, finge che si levasse a cantare l’inno che si dice a Compieta, dicendo così: Era già l’ora; quando Sordello ci mostrava quelli signori, de’ quali fu ditto di sopra, che volge il disio; cioè lo desiderio, Dei naviganti: li marinai e marcatanti che vanno per mare, quando montano la mattina in sul navilio desiderano d’andare oltra a suo cammino tostamente; ma quando viene la sera in sul tramontare del Sole si muta lo desiderio, arrieordandosi de le loro famillie e dei loro amici coi quali si sono trovati la sera dinansi ne le case loro, e vorrebbensi trovare con loro, e intenerisce il core; cioè ànno teneressa nel cuore, e dolliansi d’essersi partiti, Lo di’ che àn ditto ai dolci amici: Addio; cioè che si sono accummiatati da le famillie e da li amici, dicendo: Addio, che s’intende: A Dio t’accomando o ti lasso. E notevilmente dice ai dolci amici: imperò che niuna cosa è tanto dolce a l’animo quanto l’amicizia: questa teneressa viene loro pur lo di’ che sono montati in navilio; ma poi per l’usansa indura loro lo cuore e non ànno più tale stato 2; e per questo modo à descritto che era sera. E che lo novo peregrin; anco descrive questo tempo per un altro modo; cioè era l’ora, che; cioè la quale, lo novo peregrin; cioè colui che novamente è indutto in peregrinaggio; cioè pur lo di’ medesimo, d’amore Punge; cioè li dà puntura d’amore facendoli venire ascaro 3 de la città sua, de la casa, de la famillia c de li amici, se ode squilla; cioè campana piccula, di lontano; cioè da lunge, Che; cioè la quale campana, paia il giorno pianger; cioè che paia col suono suo dolersi e lamentarsi del giorno, che viene meno; e però dice: che si more; cioè che viene meno: la sera e la notte fanno le campane più chiuso sono 4 che ’l di’, perchè l’aire è tenebroso; e lo di’ fanno chiaro per la chiaressa dell’aire. Quand’io; cioè io Dante, incominciai a render vano L’udir; cioè incominciai ad avvedermi che quelle anime stavano chete: imperò che aveano finita l’orazione che finse di sopra ch’elle dicesseno; cioè Salve Regina ec.— , ed a mirar; cioè incominciai a poner mente, una dell’alme; cioè di quelle anime ch’erano ne la valle, Surta; cioè levata suso in piè: imperò che àe finto che stesseno a sedere tutte prima, che l’ascoltar chiedea con mano; cioè la quale facea cenno co la mano che ogni uno stesse cheto, et ascoltasse quello ch’ella volea dire. Ella giunse; cioè insieme, ambe le palme; come fa l’omo quando vuole pregare Iddio, e levò; cioè su alto a Dio, Ficcando li occhi verso l’oriente; come dè fare Forno quando adora Iddio, che si dè volgere all’oriente; e però tutte le chiese antiche ànno volto li altari a l’oriente; ma ora, quando non si può commodamente fare, non v’è cura: imperò che Iddio è in ogni luogo, Come dicesse a Dio; quest’anima: D’altro non calme; cioè io non abbo altra cura, se non di pregarti. E questo finge l’autore per quelli del mondo che, quando vanno ad adorare Iddio, denno andare e stare sì disposti co la mente a Dio, che altro pensieri non vi sia, levando li occhi de la mente et anco del corpo al cielo, acciò che altra cosa veduta non levi la intenzione: imperò che l’orazione è, come diceno li santi Dottori de la Chiesa, elevatio mentis in Deum. Te lucis ante; cioè quello inno che si canta la sera a Compieta, Te lucis ante terminum, Rerum Creator ec. — sì devotamente Li uscì di bocca; cioè cantando a quell’anima che s’era levata, e con sì dolci note; cioè con sì dolce canto, Che fece me a me uscir di mente; cioè che io Dante dimenticai me medesimo: spesse volte avviene che l’omo è sì attento a cosa ch’elli vede o oda, ch’elli di sè non à memoria. E l’altre; cioè anime, poi; cioè di po’ questo principio, dolcemente e divote Seguitar lei; cioè quell’anima che avea incominciato l’inno cantando, per tutto l’inno intero; cioè per tutto l’inno compiuto infine a la fine, Avendo li occhi a le superne rote; cioè al cielo dove si dè sempre avere l’animo, quando si prega Iddio: dice rote, perchè li cieli sempre rotano e girano intorno. Et apertamente si dimostra che l’autore finge queste cose essere state di là, intendendo allegoricamente di quelli del mondo, che sono 5 in stato di penitenzia, come ditto è di sopra.
C. VIII — v. 19-30. In questi quattro ternari pone l’autore una bella finzione, come apparrà ne la sua allegorica esposizione; e fa prima lo lettore attento, dicendo: Aguzza ben, Lettor, qui li occhi; cioè de la mente; la ragione e lo intelletto, al vero; cioè a la verità ch’io ti mostro sotto figura: Chè il velo; cioè lo coprimento di questa finzione, è ora ben tanto sottile; cioè è sì trasparente, che agevilmente si potrà comprendere lo intelletto allegorico; e però dice: che il trapassar dentro; cioè ad intendere quello che significa, Certo; cioè certamente, è leggero; e cusì permette 6 agevilessa. Io viddi; cioè io Dante: ecco che pone la sua finzione, quello esercito gentile; cioè di quelli signori che erano ne la valle, Tacito; perchè avea finito l’inno ditto di sopra, poscia; che ebbe cantato, riguadare in sue; cioè in verso lo ciclo unde aspettava l’aiuto, come dice lo Salmista: Levavi oculos meos in montem, unde veniet auxilium mihi. — Quasi ammirando; cioè meravilliandosi di quello che vedea; cioè del soccorso che aspettava che non venìa sì tosto, pallido; perchè avea paura del serpente che aspettava, et umile: imperò che con umile cuore dimandava soccorso e l’aiuto di Dio. E viddi uscir; io Dante, de l’alto; cioè di cielo, e scender giue; a la valle, Du’ Angeli con du’ spade affocate; cioè rovente di fuoco, Tronche e private de le punte sue; e per questo nota ch’erano spontate. Verdi, come folliette pur mo; cioè pure a vale, nate; le frondi, quando sono nate di fresco, sono più verdi che quando sono state, Erano in veste; cioè li ditti angiuli erano vestiti di verde, che da verdi penne Percosse eran di rieto; cioè le ditte vesti verdi erano percosse da l ali verdi di rieto, e ventilate; cioè dimenate e dibattute dal vento de le ditte ali, che faceano li angiuli quando descendeano volando. Veduto lo testo, ora è da vedere l’allegorica esposizione, intendendo quello che l’autore àe volsuto dimostrare per questo. Come ditto è, lo nostro autore parlando di quelli del purgatorio, secondo la lettera; secondo l’allegoria intende di quelli del mondo che sono in stato di penitenzia, o in apparecchiamento d’essa; e perchè, mentre che siamo nel mondo, siamo tentati dal dimonio, dal mondo, e dalla carne, ecci bisogno per guardarci de le tentazioni la grazia di Dio, sensa la quale non ci potremmo da esse difendere; e però, poi che l’autore àe fìnto che per la notte approssimata si dipartiva lo Sole, che significa che per lo peccato si parte la grazia, e noi continuamente pecchiamo, e così perdiamo la grazia, unde c’è bisogno di dimandarla comunqua noi pecchiamo; e però finse di sopra, che cantasseno l’inno: Te lucis ec., nel quale si dimanda la grazia di Dio che ci guardi da le tentazioni, a le quali non si può resistere s’ella non v’è. E perchè siamo tentati in due modi; cioè o di negligenzia lassando quello che si dè fare, cioè li atti meritori; o di suggestione inducendoci ai vizi e peccati et abbominevoli operazioni, però finge l’autore che vegnano due angiuli dal cielo, che significano la grazia di Dio la quale ci preservi e guardici da queste due tentazioni. E però finge di sotto che l’uno si pogna a guardia de la valle in sul fianco ritto, per guardarci de la negligenzia; e l’altro in sul fianco sinistro, per guardarci da la suggestione: finge che siano con spade affocate e spuntate, per significare che ogni operazione di Dio è con smisurata carità, Con iustizia e misericordia: lo fuoco significa la carità: la spada tronca significa la iustizia co la misericordia. Mandaci Dio la sua grazia per lo smisurato amore, ch’Elli creatore àe a noi sue creature, fatte da lui a sua imagine e similitudine; e mandacela con iustizia: imperò che ce ne fa degni co la grazia preveniente, che ci fa dimandare la grazia illuminante et operante e conservante; e mandacela con misericordia: imperò che ce ne manda più abbondantemente che noi non meritiamo per lo nostro dimando. Finge che siano vestiti li angiuli di verde co l’ali verdi, per significare la vigorosità de la grazia di Dio, che mai non viene meno a chi la sa mantenere: la verdura significa la vigorosità.
C. VIII — v. 31-42. In questi quattro ternari lo nostro autore seguita la figura incominciata di sopra, dicendo: L’un; dei ditti due angiuli discesi dal cielo, poco sovra noi; cioè un poco più in sul fianco de la valle che noi; cioè Sordello, Virgilio et io Dante fussemo 7, a star si venne; per guardare la valle, come fa lo falcone quando sta in posta, E l’altro; cioè angiulo de’ du ditti di sopra scese; cioè dal cielo, all’opposita sponda; cioè all’altro fianco de la valle, incontra a l’altro, Sì che la gente; che aveano a guardare, in mezzo si contenne; cioè dei ditti due angiuli sì, che bene erano guardati. Ben discernea; cioè io Dante, in lor; cioè nei ditti due angiuli, la testa bionda; cioè io potea ben vedere che ì capo loro era biondo; e questo finge, per mostrare la loro bellessa, Ma ne le facce; cioè loro, l’occhio; cioè mio, dice Dante, si smarria; cioè venia meno, che la vista non sofferia: tanto era lo splendore de le loro facce; e però dice; Come virtù; cioè dei sensi nostri umani, che al troppo si confonda: ogni nostra virtù sensitiva richiede l’obietto contemperato a sè, altramente viene meno, come veggiamo de la virtù visiva che non sofferisce di vedere la rota del Sole. Ambo vengon del grembo di Maria, Disse Sordello; cioè a Virgilio et a me Dante, che amburo quelli angiuli veniano da Cristo nostro Signore che fu contenuto nel grembo de la Vergine Maria; et è colore che si chiama denominazione, quando la cosa che tiene si pone per quella che è tenuta; et anco si può intendere che vegnano per mezzo de la Vergine Maria, che sempre è nostra avvocata dinanzi al suo filliuolo. a guardia de la valle; ne la quale sono li sopra detti signori, secondo la lettera; ma, secondo l’allegoria, a guardia di quelli che sono nel mondo in stato di penitenzia e di umiltà: imperò che la valle significa umilità, Per lo serpente; questo serpente che 8 l’autore finge che vegna ad assalire quelli che sono ne la valle, come dirà di sotto, significa lo dimonio che viene a tentare coloro che sono in stato di penitenzia, quando sente che la grazia di Dio sia partita per alcuno peccato; e farebbe l’omo cadere in peccato co le sue tentazioni, se l’omo non fusse preservato da la nuova grazia sopra venuta; e però dice: che verrà via via; cioè lo quale serpente verrà incontenente. Ma io; cioè Dante, che non sapea per qual calle; cioè per quale via dovesse venire questo serpente, Mi volsi intorno; per vedere, s’io lo vedesse, e stretto m’accostai Tutto gelato; per la paura del serpente, che avea udito nominare a Sordello, a le fidate spalle; cioè a Virgilio che significa la ragione. E per questo dà ad intendere l’autore che molte sono le vie, per le quali lo dimonio ci assalisce co le suoe tentazioni: tentazione è quando lo dimonio cerca in che peccato elli possa fare cadere l’omo; e quando elli à preso esperienzia de l’omo e vede che elli è meno forte 9 in uno peccato che in uno altro, et elli li dà la battallia battendoli 10 li mali pensieri, dandoli abilità et acconcessa a quel peccato, e farebbelo cadere: tanto è la forsa sua, se non fusse la grazia di Dio che ’l difende. E co la grazia di Dio conviene all’omo operare quello che può, per difendersi et accostarsi a la ragione, che grida sempre contra ogni peccato e vizio, e non à paura quando si sente accompagnata co la grazia di Dio che la guarda.
C. VIII — v. 43-60. In questi sei ternari lo nostro autore finge come Sordello guidò lui e Virgilio giuso ne la valle tra li signori; e come ne ricognove alquanti, dicendo così: Sordello; cioè lo mantovano che li avea menati a la valle dei signori, allora; che li angiuli che erano discesi di cielo a la guardia della valle per lo serpente, disse a Virgilio et a Dante: Or; questo vulgare or usiamo a confortare, come deh a pregare, valichiamo omai; cioè giuso ne la valle, Tra le grandi ombre; cioè tra li signori: però che tutti erano stati signori nel mondo, che ditto è di sopra, e parleremo ad esse; quando saremo con loro, Grazioso fi’ lor vederle assai; cioè elli aranno assai a grado di vederti. Solo tre passi credo ch’io; cioè Dante, scendesse; da la costa del monte giù ne la valle. Questo finge secondo la lettera, per mostrare quanto più era bassa la valle, che la costa del monte; ma secondo l’allegoria l’autore nostro ebbe altro intendimento: imperò che, come ditto è, montare lo monte del purgatorio significa in del nostro autore lo montamento che elli facea all’altessa de la purità co la fatica de la penitenzia; a la quale altessa sempre montava con tre passi; cioè con la contrizione del cuore, co la confessione de la bocca, e co la satisfazione dell’opera. E questi tre passi avea sempre fatto in ogni specie di negligenzia, la quale avea passato infine a quella de’ signori che è l’ultima, et anco in quella àe l’ultimo; ma perchè non li era bisogno, che non avea peccato in tale specie di negligenzia, però fatto similmente, purgandosi con questi tre passi d’ogni macula di negligenzia commessa, ora dice che scese, secondo lo suo credere, solamente tre passi, perchè lassò le tre sopra dette cose che si richiedeno a la perfezione de la penitenzia tanto, quanto elli pensò di fingere di parlamentare con quelli signori dei quali fa menzione nel testo: e veramente fu descendere de l’altessa de la penitenzia, e però aggiunge: E fui di sotto; cioè ne la valle, quanto a la lettera; ma, quanto airallegoria, s’intende, e fui di sotto da l’altessa de la purità la quale acquistava co la fatica de la penitenzia, e viddi; cioè io Dante, un; di quelli signori, che mirava Pur me; cioè Dante, come cognoscer me volesse; cioè che già m’avea veduto. Tempo era già che l’aire serenava; cioè faceva sereno come fa la notte; e così significa che già era venuta la notte, Ma non sì, che tra li occhi suoi e’ miei; cioè di colui che mi volea cognoscere, e di me Dante, Non dichiarasse; cioè lo sereno, ciò che pria serrava; cioè tenea ascoso; cioè la cognoscenzia di me a lui, e la cognoscenzia di lui a me; e nota, lettor, che sereno s’intende chiaressa sensa Sole: imperò che col Sole si chiama splendore. Ver me; cioè in verso di me, si fece; cioè venne verso me colui che m’avea cognosciuto, et io; cioè Dante, ver lui me fei; cioè andai in verso di lui. Giudici Nin gentil; ora l’autore finge che, scrivendo questo canto e venendo a questo passo, in loda del nominato elli volgesse lo suo parlare a lui e nominasselo, come detto è di sopra, et adiungesse, quanto mi piacque Quando te viddi non esser tra’ rei; cioè tra i dannati; ma coi salvati; cioè quanta allegressa n’ebbi, quasi dica, infinita. Nullo bel salutar tra noi si tacque; ora ritorna l’autore a riferire quello che fe allora che si trovò con lui, dicendo che l’uno salutò l’altro con quel saluto 11, che fanno bell’e conveniente a le persone: allora è bello lo salutare, quando è conveniente a la persona. Questi che introduce l’autore in questo luogo fu Visconti 12 di Pisa Giudici Nino de l’iudicato di Gallura di Sardigna; e fu molto gentile d’animo e di costumi, et ardito e galliardo; e fu filliuolo, o vero nipote, di messer Ubaldo di Visconti di Pisa, lo quale fu bellissimo e galliardissimo omo de la sua persona; e fu lo primo che acquistasse in Sardigna. Unde si conta di lui che, quando venne l’imperadore Federigo a Pisa, lo detto messer Ubaldo essendo in Pisa, venendo a ragionamento co lo imperadore de la galliardia de l’Italiani e de’ Tedeschi, lodando lo imperadore li Tedeschi, e biasimando l’Italiani, messere Ubaldo disse che tre Italiani voleano prendere a combattere con 100 Tedeschi. E fermato lo patto, messere Ubaldo mandò per lo marchese di Monferrato e per Scarpetta de li Ubaldini, li quali elli cognoscea galliardissimi omini, et elli fu lo terzo, et intronno in sul campo in uno prato che si chiama ora lo Ganghio del conte, da tre parti ciascuno di per sè et aspcttonno cento Tedeschi scielti da lo imperadore di tutta la sua gente, e combattenno con loro e vinseno li tre Italiani li cento Tedeschi co le mazze ferrate: imperò che come s’accostava lo Tedesco, lo feriano co la mazza in sul capo et ad ogni colpo n’uccideano uno; e volendo sapere lo imperadore chi erano stati li compagni, nol potette sapere se non per nuovo modo, che mandò una bella spada a messer Ubaldo per dono, siccome al più valente omo del mondo; et elli noll’accettò, anco disse che la mandasse al marchese. E mandata al marchese, similmente la rifiutò e disse che la mandasse a quello delli Ubaldini, o a messere Ubaldo che n’era più degno di lui; e mandata a quello delli Ubaldini, anco la rifiutò e rimandolla a messere Ubaldo et a lui rimase; e così seppe lo imperadore chi erano stati tutti e tre, et ebbeli molto cari et onorolli molto. Questo Giudici Nino ebbe per donna madonna Beatrice marchesotta da Esti, et ebbe di lei una filliuola che ebbe nome madonna Gioanna, e fu donna di messere Riccardo 13 da Camino di Trivigi; e morto Giudici Nino, la ditta sua donna Beatrice si rimaritò a messer Azo de’ Visconti da Melano. E per questa donna ebbeno li Visconti da Melano le case de le taverne 14 di Pisa et altre possessioni che sono in quello 15 di Pisa, che funno di Giudici Nino: imperò che madonna Gioanna moritte inanti a madonna Beatrice sua madre sensa fìlliuoli; unde l’eredità sua venne ala madre la quale ebbe filliuoli di messere Azo di Melano, e così cadde l’eredità ai Visconti di Melano. Poi dimandò; cioè Giudici Nino a me Dante: Quant’è, che tu; cioè Dante, venisti A piè del monte; del purgatorio, s’intende, per le lontane acque; cioè per lo mare oceano, come finse di sopra l’autore al principio di questa cantica, che l’angiulo portasse l’anime al purgatorio in su la nave? E per questo si mostra ch’elli credesse che Dante fusse morto. Io dissi; cioè Dante, a lui; cioè a Giudici Nino: Per entro i luoghi tristi; cioè per lo inferno, Venni stamane; cioè stamane uscitti de lo inferno in questo emisperio, intratovi de l’altro, come ditto è di sopra; e così si nota che già l’autore finge che sia stato un di’ in purgatorio, e sono in prima vita; cioè io Dante sono ancor vivo, Ancor che l’altra; cioè ben che l’altra vita; cioè l’eterna, sì andando acquisti. E per questo dimostra l’autore che per la composizione di questa comedia elli si sforzava d’acquistare vita eterna, pilliando abominazione dei peccati e penitenzia dei commessi, e dirizzandosi all’opere virtuose.
C. VIII — v. 61-84. In questi otto ternari lo nostro autore finge come Sordello e Giudici Nino si meravillionno de la sua risposta;
cioè ch’elli fusse col corpo; e come Giudici Nino li impone ch’elli
lo raccomandi a la filliuola che preghi per lui, dicendo così: E come fu la mia risposta udita; cioè poiché Sordello e Giudici Nino
ebbeno udito la risposta di me Dante, Sordello et elli; cioè Giudici Nino, indietro si ricolse; cioè si tironno a rieto, come chi si
ineravillia, Come gente di subito smarrita; cioè levata del sentimento
subitamente. L’un a Virgilio; cioè Sordello si volse a Virgilio, e l’altro; cioè Giudici Nino, ad un si volse. Che sedea lì; cioè in quil
luogo, gridando: Su Currado; cioè sta su, Vien a veder; cioè quello,
che Dio per grazia volse; cioè per singulare grazia à volsuto concedere a costui che co la carne sia venuto nel purgatorio. Questa è
conveniente finzione, secondo la lettera; ma allegoricamente si dè
intendere, com’è stato ditto di sopra, che singulare grazia di Dio è
che Dante col suo ingegno fingesse sì alto poema, come è questo, e
di sì alta materia. Questo Currado fu marchese Currado Malaspina,
del quale si dirà di sotto. Poi volto; cioè Giudici Nino, a me; cioè
Dante: Per quel singular grado; cioè per quella singulare grazia,
Che tu dèi; cioè che tu se’ tenuto di rendere e di ricognoscere, a colui, che si nasconde; cioè appiatta a noi omini, Lo suo primo perchè; cioè la sua prima cagione, che non v’è guado; cioè che non
vi si può passare a comprenderla. Iddio è prima cagione di tutti li
movimenti corporali e spirituali e di tutte le cose che si fanno; li
angiuli, li cieli co le loro influenzie, li omini, li dimoni sono cagione
seconde de le cose che si fanno nel mondo, come dice santo Agostino:
Voluntas Dei est prima et summa causa omnium corporalium et spiritualium motionum: nihil enim visibiliter aut sensibiliter fit, quod non de illa invisibili, ac intelligibili aula summi Imperatoris aut iubeatur, aut permittatur, ec.; e Boezio in . de la Filosofica Consolazione dice:
Sive igitur famulantibus quibusdam providentiœ divinis spiritibus, factum exerceatur, seu anima, seu tota inserviente natura, seu cœlestibus syderum motibus, seu angelica virtute, seu dœmonum varia solertia seu aliquibus eorum, seu omnibus fatalis series texitur. E questa
prima cagione Iddio la tiene in sè, sicché li omini nolla possano
comprendere col suo ingegno, se Dio non la rivelasse per la sua grazia. E massimamente intende questo l’autore nostro de le grazie
date alli omini da Dio che non si può vedere per niuno, perchè
Iddio dà più grazia ad uno omo che non fa a uno altro; e così finge
l’autore che Giudici Nino lo sconiuri per Dio, descrivendolo per lo
modo che ditto è. Quando serai; cioè io ti prego, Dante, che, quando
serai nel mondo; e però dice: di là da le larghe onde; cioè di là da
l’oceano, néll’altro emisperio: imperò che àe finto che il purgatorio
sia in isula ne l’oceano, nell’emisperio opposito al nostro, come appare ditto di sopra, Dì; tu, Dante, a Giovanna mia; cioè alla filliuola,
de la quale fu detto di sopra, che per me chiami; cioè dimandi grazia per me a Dio, Là dove all’innocenti si risponde; cioè in quello
luogo dove Iddio esaudisce li preghi de’ iusti: imperò che li preghi
dell’iniusti Dio non esaudisce. Lo luogo dove Dio risponde alli
preghi de’ iusti si è la Chiesa: imperò che Cristo disse: Domus mea domus orationis vocabitur; e santo Agostino dice: Quia veri sacrificii extra catholicam Ecclesiam non est locus. E non si dè intendere
questo grossamente pur de la chiesa materiale, che è di mura e di
legname; ma dèsi intendere che l’omo dè pregare et offerire a Dio
quello che promette la santa Chiesa, e non altro. Bene è anco da
attendere che la chiesa materiale è più atto luogo a l’orazione
che niuno altro: imperò che a quel fine è costituto. Non credo;
dice Giudici Nino a Dante, perchè non si meravilli ch’elli l’impone
che lo raccomandi alla filliuola e none 16 a la moglie, che la sua madre; cioè Beatrice mia donna, madre di Giovanna mia filliuola,
più m’ami; cioè me Gudici Nino, Poscia che trasmutò le bianche bende; cioè poi ch’ella si rimaritò a messer Galeasso Visconte, come,
ditto fu di sopra; et allora trasmutò le bianche bende, le quali portava prima quando era vedova, Le quai; cioè bende bianche,
convien che misera ancor brami; cioè convien che ancor desideri
d’essersi stata 17 vedova, come era innanti che si maritasse. E
questo dice per lo malo stato ch’ella arà col secondo marito; e
questo pare che predìchi innanti che avvegn,a perchè quando
l’autore finge che avesse questa visione 18, questo non era ancora
avvenuto; ma poi che ebbe a scrivere la sua visione, innanti che
scrivesse, avvenne; e però finge l’autore che Giudici Nino lo predica. Per lei 19 assai di lieve si comprende Quanto in femina foco d’amor dura; cioè pogo, Se l’occhio; cioè se non si vede spesso la
cosa amata, e il tatto; cioè l’atto venereo, spesso noll’accende; cioè
il foco de l’amore lo quale tosto si spegne, se queste due cose
non vi sono. No li farà sì bella sepultura; questo si dè intendere
quanto a la fama et a l’onore; cioè che nolli serà sì onore vile
a morire donna di messer Galeasso, come esser morta donna di
Giudici Nino; e però dice: La vipera; cioè lo biscione che è l’arme dei Visconti, che il Melanese accampa; cioè che quelli di Melano tegnano per maggiore insegna, quando s’accampano in nessuno luogo per cagione di guerra, Come avria fatto il gallo di Gallura; cioè l’insegna del giudicato di Gallura che è uno gallo.
E questo dice, perchè usansa è che ai sepulcri de le signore si
pogna l’arme del marito o dipinta o scolpita; e questo finge l’autore, per mostrare che era più onorevile lo giudicato di Gallura
che la signoria di Melano, perchè lo giudicato è signoria ragionevile costituta da lo imperadore e dal papa; e la signoria di Melano era allora violenta, sensa iusto titolo. Così dicea; Giudici Nino,
segnato de la stampa; cioè de la forma: la stampa è una forma
di ferro che, percossa in sul conio 20, lassa la sua forma in esso; e
qui intende l’autore per la forma, Nel suo aspetto; cioè ne la sua
apparenzia, di quel dritto zelo; cioè del diritto amore; cioè questo
dicea per diritta carità ch’avea in verso la ditta Beatrice sua donna, non già per invidia: imperò che nel purgatorio non può essere
se non virtù; come ne lo inferno non può essere se non vizio; e
però questo fìnge l’autore, Che smisuratamente il core avvampa;
cioè che sensa misura incende lo cuore umano: la stampa di questo
amore è lo Spirito Santo, che cagiona ogni diritto zelo ne le nostre
menti. Finita la prima lezione del canto ottavo, seguita la secunda.
Li occhi miei ghiotti ec. In questa seconda lezione del canto ottavo lo nostro autore finge l’avvenimento del serpente, e lo combattimento de li angiuli con lui, e lo parlamento che ebbe con messere
Currado Malaspina marchese. E dividesi questa lezione in 5 parti,
perchè prima finge come Virgilio lo dichiarò de la costellazione che
vedea in cielo, e come Sordello mostra a Virgilio lo serpente; ne la
seconda parte finge come vidde l’avvenimento del serpente, e lo
combattimento de li angioli con lui, quine: Da quella parte ec.; nella
terza parte finge che lo marchese Currado lo dimandi di novelle di
Lunigiana, quive: L’ombra che s’era ec.; ne la quarta finge l’avvicendevile parlamento ch’ebbe con lui, e la risposta ch’elli fece al
marchese in onore de la casa sua, quive: Oh! dissi lui, ec.; ne la
quinta finge che ’l marchese li predicesse l’onore, che Dante dovea
ricevere da’ suoi, quive: Et elli: Or va, ec. Divisa la lezione, ora è
da vedere la lettera co l’esponizione 21 litterali, allegoriche e morali.
C. VIII — v. 85-96. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come, guardando in cielo, vidde tre stelle sallite u’ erano state vedute da lui la mattina le quattro; e come Virgilio lo dichiara di quelle; e come Sordello mostra a Virgilio lo serpente, dicendo: Li occhi miei; cioè di me Dante, ghiotti; cioè desiderosi di vedere lo cielo, andavan pur al Cielo; cioè a ragguardarlo, Pur là dove le stelle son più tarde; cioè al polo antartico, Sì come rota più presso a lo stelo; cioè al suo perno 22. Fa qui similitudine che, come la rota presso al perno à più tardo movimento che a la sua circunferenzia; così lo cielo presso al polo à più tardo movimento che di lungi: imperò che in tanto tempo fanno le stelle di lungi la sua grande revoluzione, in quanto quelle stelle che sono presso fanno lo suo picculo giro. E il Duca mio; cioè Virgilio disse a me Dante: Filliuol, che lassù; cioè in cielo, guarde? Dimanda Virgilio a Dante quello che avvisa in cielo; unde Dante lie dichiara. Et io; cioè Dante, a lui; cioè a Virgilio dissi: A quelle tre facelle; cioè stelle che risplendeno come fiaccule piccule 23 ragguardando, Di che il popul di qua, cioè questo che è in questo emisperio, nel quale fìnge che fusse allora, tutto quanto arde; cioè risplende. Intendendo di quelli del purgatorio si dè intendere che ardono e risplendeno de l’ardore de la carità che ànno perfetta, e de la speranza che ànno certa; ma non anco riposata, e dei meriti de la fede ch’ebbeno nel mondo; ma intendendo di quelli del mondo che entrano a la penitenzia, è vero che denno risplendere de le dette virtù sensa le quali niuno si può salvare, et a quelle avere ardente desiderio et essere in esse fervente. Queste tre stelle, che l’autore finge vedere presso al polo dell’altro emisperio montare suso, venutane la notte, significano le tre virtù teologiche; cioè fede, speranza e carità, le quali funno eognosciute dalli omini, poi che Cristo venpe che le manifestò al mondo: imperò che innansi viveano li omini secondo le quattro virtù cardinali; cioè iustizia, prudenzia, fortessa e temperansa, e con quelle si governavano. E le sopra ditte tre nel Vecchio Testamento da pochi funno cognosciute, e perciò fìnge l’autore che le quattro fusseno suso la mattina, che significa lo tempo passato innanti; e le tre la sera, che significa lo tempo del Nuovo Testamento, seguitato poi; e però finge che Virgilio, che significa la ragione, li risponda dicendo così: Ond’elli; cioè Virgilio, a me; cioè Dante rispuose: Le quattro chiare stelle; che significano le virtù cardinali, Che vedemmo staman; questo appare nel primo canto di questa cantica sudetta 24; et allegoricamente significa che funno innanti cognosciute dalli omini, son di là basse: però che ànno fatto la sua revoluzione, quanto a la lettera; e secondo l’allegoria finge questo, per mostrare che a quelli del mondo che sono in stato di penitenzia, sono già in abito le suprascritte quattro virtù, e sono meno in esercizio che le tre. E queste son sallite; cioè le tre teologiche virtù, ov’eran quelle; cioè le quattro cardinali: imperò che sono in atto. Quanto a la lettera è verisimile finzione che, se intorno al polo per alcuna distanzia fusseno in una parte quattro stelle, e ne l’opposita fosseno le tre; quando le quattro fosseno venute su, le tre serebbeno calate giù, e così e converso. Ma lo nostro autore fìnge questo per mostrare allegoricamente quello che ditto è de le virtù cardinali, che prima funno note alli omini che le teologiche; e però finge quelle apparite la mattina e queste la sera, perchè la mattina è innanti che la sera. Com’ei; cioè Virgilio, parlava; a me Dante le parole ditte di sopra, Sordello a sè ’l trasse; cioè Virgilio, Dicendo; cioè a lui: Vedi là ’l nostro avversaro 25; cioè lo serpente ditto di sopra, che significa lo dimonio che assalisce li omini che sono nel mondo in stato di penitenzia, che di quelli del purgatorio non si dè intendere, che sono finite le loro tentazioni; e però l’autore finge secondo la lettera quello, che vuole che s’intenda secondo l’allegoria. E drizzò il dito; siccome fa chi dimostra, perchè in là; cioè in verso quella parte dove dimostrava, guatasse; Virgilio. Che l’autore finga che Sordello dica a Virgilio che li angiuli venisseno da Cristo, per scacciare lo serpente, et ora li dimostri l’avvenimento del serpente non credo che sia sensa cagione; anco penso che Sordello abbia posto nel suo Tesoro questa sentenzia, e però finge l’autore ch’elli sia lo manifestatore e dimostratore.
C. VIII — v. 97-108. In questi quattro ternari lo nostro autore finge l’apparimento del serpente, e la difensione delli angiuli che stavano a le poste, dicendo così: Da quella parte, onde non à riparo La picciola valletta; finge che la valle ditta di sopra fosse piccula et aperta da la parte di sotto, come sono le valli, era una biscia; cioè uno serpente, Forse qual diede ad Eva il cibo amaro; dice dubitativamente che era quello che ingannò Eva, la nostra prima madre, che li fece mangiare lo pomo; e quale si dè intendere posto o per sustanzia, o per qualità: imperò che facendo similitudine non arebbe posto l’avverbio dubitativo, se non in uno di questi due modi. E de l’effige serpentina intende, non del dimonio: imperò che quello fu lo Lucifero, lo quale fu legato ne la passione di Cristo sì, che di quello l’autore non intese; ma delli altri dimoni che si diceno pilliare la forma del serpente, perchè vegnano sempre a tentare con fraude. Tra l’erba e i fior; che erano nel prato descritto di sopra, venia la mala striscia; cioè quel serpente che andava strisciando 26, quando si strissinava su per l’erbe, Volgendo ad or ad or la testa al dosso, Leccando; cioè lo dosso suo, come bestia che si liscia; cioè come fa la bestia, quando si pulisce il dosso co la lingua. Questa finzione è tutta allegorica, come fu ditto di sopra: questa piccula valletta intese l’autore per questo mondo, nel quale si sta poco, e però finge che sia piccula, o perchè è molto picculo a rispetto del cielo; e finge che da la parte di sopra abbia riparo da quella di sotto, non perchè così è: chè dal cielo viene la grazia che è nostro riparo: da la parte di sotto che è aperta, che significa le cose terrene, viene lo serpente; cioè la diabolica fraude a tentarci et a ingannarci. E forsi che quelli che viene ai santi omini che sono in stato di penitenzia, come intende qui l’autore, è di maggiori come fu lo Locifero ai primi nostri padri; e viene tra l’erba e tra i fiori: imperò che sempre si ficca tra le sante e buone operazioni; e viene leccandosi e lisciandosi: però che sempre entra con apparenzia di bene per ingannare li santi omini, che altramente nolli potrebbe ingannare; e da questo tentatore ci difende la grazia di Dio, la quale come si muova per noi non si vede; ma bene si vede quando ella è mossa: imperò che sentiamo in noi la resistenzia a la tentazione. E lo dimonio come sente la resistenzia fugge, perchè si 27 vede vinto e sdegnoso, e superbo non può patire la sua confusione; e la grazia di Dio si ritorna a stare a le poste, a la guardia dei santi omini, parimente quella che ci difende da la negligenzia del bene come quella che ci difende dall’operatore 28 del male; e però seguita: Io; cioè Dante, nol viddi; cioè quello che dirà di sotto, e però dicer nol posso; cioè quello che seguita, Come mosser li astori celestiali; cioè li due angiuli ditti di sopra, li quali come astori stavano a le poste; non viddi io Dante come si mosseno, Ma viddi ben poi l’un e l’altro mosso; io Dante viddi bene che elli erano mossi. Sentendo fender l’aire a le verdi ali; cioè sentendo volare per l’aire li angiuli che aveano l’ali verdi, come ditto fu di sopra, Fuggì il serpente; per paura di loro fuggitte lo serpente che venia, e li Angeli dier volta, Suso a le poste; ove prima erano, rivolando eguali; cioè tornando di pari: questo è stato esposto di sopra.
C. VIII — v. 109-120. In questi quattro ternari lo nostro autore finge che lo marchese Currado Malaspina li dimandasse novelle de le contrade suoe, dicendo così: L’ombra che s’era a Giudici raccolta; cioè l’anima che s’era accostata a Giudici Nino, che era stata chiamata da lui; e però dice: Quando chiamò; cioè Giudici Nino e disse: Su Currado — , per tutto quell’assalto; cioè del serpente ditto di sopra, Punto non fu da me guardare sciolta; cioè non si levò da guardare me Dante. Se la lucerna; cioè lo lume; e per questo intende la grazia di Dio illuminante, la quale menava lo ingegno di Dante a considerare l’altessa di questa materia di questa comedia; e però dice: che ti mena in alto; cioè in altessa infine ai cieli, e sopra i cieli infine a Dio, Trovi nel tuo arbitrio; cioè ne la tua volontà, nel tuo iudicio, tanta cera; cioè tanto ingegno, Quanta è mistiero; cioè quanto bisogna, infine al sommo smalto; cioè in fine al summo 29 cielo lo quale chiama smalto per similitudine eccessiva: imperò che riluce più che ogni smalto: lo smalto di che si smalta l’ariento si fa di vetro et è molto relucente. Ecco che marchese Currado Malaspina sconiura Dante per quello che crede che li sia più a grado; e finge la grazia di Dio essere come suggello, e lo ingegno umano come cera; e così la grazia illuminante informa lo intelletto umano, come lo suggello la cera. Cominciò elli; cioè marchese Currado: se novella vera Di Valdimagra; questa è la contrada vicina a uno fiume che è termine di Toscana di verso ponente, che si chiama Magra, o di parte vicina; cioè de la Lunigiana che è vicina a Valdimagra: questa Lunigiana è detta da Luni, antica città; ora è disfatta e posta a la marina incontra a Sarzana, e questa èquella contrada che appo li autori si chiama Umbria, Sai; tu, Dante, dillo a me; marchese Currado, che già grande là era; questo dice: imperò che fu dei marchesi Malaspina. Chiamato fui Currado Malaspina; ecco che si nomina, Non son l’antico; per questo mostra che ve ne fusse uno antico, nominato così; ma di lui discesi; cioè da l’antico Currado. Ai miei; cioè consorti e sudditi, portai l’amor che qui raffina; cioè la carità la quale in purgatorio è maggiore che non è nel mondo 30: imperò che nell’anima, separato 31 dal corpo è più perfettamente l’amore di Dio e del prossimo, che coniunta, se non quando fi’ coniunta col corpo glorificato; col quale coniunta, l’arae 32 più perfettamente che separata. Et è da notare che la carità mai non viene meno ai beati; ma sì la fede: imperò che sono certificati di quello ch’ànno creduto, et anco la speransa viene meno: imperò che ottegnano quello che ànno desiderato; e però finge l’autore che Currado dica le suprascritte parole, per mostrare la detta verità.
C. VIII — v. 121-132. In questi quattro ternari finge l’autore come elli rispuose al marchese Currado, lodando la sua gente; e come lo marchese afferma quello che Dante àe ditto; e come Dante aggiunge al detto suo con iuramento una grande loda, dicendo così: Oh! dissi lui; cioè io Dante dissi al marchese Currado, per li vostri paesi Giammai non fui; cioè io Dante; e questo è vero che, quando l’autore finge ch’avesse questa fantasia, elli non v’era anco stato; ma quando questo scrisse, sì; et avea ricevuto dai marchesi Malaspina molto beneficio, e però li loda e finge quello che seguita di sotto, ma dove si dimora Per tutta Europa: Europa è la tersa parte del mondo, quanto a nominazione; ma secondo quantità, sarebbe la quarta: imperò che Asia sola è tanto, quanto amburo; Affrica et Europa: e tiene Europa di verso l’occidente da l’oceano in verso l’oriente, in fine al mare Mediterraneo, che divide lei dall’Asia in verso settentrione co le palude Meotide e col Tanai; e per larghessa dell’oceano 33 settentrionale in fine al mare Mediterraneo di verso mezzodi’; e però significa l’autore che per tutta questa parte sia nota la fama dei marchesi, e però dice: che non sian palesi; cioè li vostri paesi? Ora confermando lo marchese quello che Dante àe ditto, dice così: La fama che la casa vostra onora, Grida; cioè publica e fa manifesto, i signori; cioè che sono in Lunigiana e ne la vostra casa, e grida; cioè publica e manifesta, la contrada; cioè la Lunigiana, Sì che ne sa chi non vi fu ancora; e per questo vuole dimostrare che, ben che non vi sia stato, elli ne può sapere quello ch’è ditto di sopra. E perchè l’autore vi fa una grande addizione, però l’afferma coniurando, dicendo: Et io; cioè Dante, vi giuro; ecco che con ossecrazione afferma quello che dè dire, pregando quello che più desidera, dicendo: se di sopra vada; cioè s’io vada al cielo, dove desidero d’andare, Che vostra gente; cioè quelli di casa vostra, ornata non si fregia; cioè ella è adornata; ma non di denari, nè di violenzia, come sono molti signori che sono nominati per molto ricchi, dicendosi che elli ànno molti millioni di fiorini; e per molto violenti, dicendosi che elli ànno sotto di sè cotante cittadi prese per forsa; la quale cosa non si può dire de la vostra casa, e però dice: non si fregia; cioè non s’adorna, Del pregio; cioè de la loda, de la borsa; cioè d’avere molti denari, e de la spada; cioè di violenzia, cioè d’occupare la libertà altrui per forsa di spada. Uso e natura; dimostra che per natura ella sia virtuosa e per uso: natura è in du’ modi; cioè natura naturante, e questo è Iddio; e natura naturata, e questa è le cose create. Se intese l’autore di Dio la sentenzia è verissima: imperò che ogni bene che noi abbiamo è da Dio; se intendiamo de la natura naturata, come credo che intendesse l’autore, questa si è una virtù messa da Dio ne le cose creanti di cose simili. E per questo vuole dare ad intendere che li antichi di questa casa Malaspina funno per la grazia di Dio virtuosi, et ànno creato poi di sè simillianti fìlliuoli; e così la virtù è connaturata in loro. Appresso, l’uso e la consuetudine molto vale nel nostro vivere, e però diventa l’omo virtuoso o vizioso, secondo ch’elli s’avessa 34; e però bene disse vero lo Savio; A convictu formantur mores; e cusì vuole dire che costoro avvessati 35 a le virtù, vivendo coi virtuosi, sono rimasi sempre virtuosi; e però dice: Uso; cioè lo vivere coi virtuosi, et 36 avvessarsi di picculo a le virtù, e natura; cioè la virtù 37 governativa e produttiva di simile a sè, sì la privilegia; cioè dota la vostra gente e falla differente dalli altri: privilegio è privata legge, cosa data singularmente ad uno, o a più di grazia, e però privilegiare è dare di grazia, e così si dè intendere; cioè li dà di grazia sì la virtù a la vostra gente per sì fatto modo, Che, perchè capo reo; cioè lo dominio 38 del mondo, che dovrebbe essere esemplo di virtù che è capo di male e di vizio, lo mondo torca; cioè faccia andare lo mondo per la via torta e non per la via ritta; che elli intenda de le signorie del mondo, appare di sotto nel canto xvi. Sola 39 va ritta; cioè per la via de le virtù cammina la vostra gente sola dall’altre gentili case, e non seguita la mala condotta dei signori altri del mondo, che danno malo esempio e guastano lo mondo, e il mal cammin; cioè quello dei vizi, dispregia; cioè sola la vostra 40 gente. Questa è grande loda de la casa Malaspina, e possi verificare lo detto dell’autore, intendendo lo suo parlare discretivo 41 dei gentili omini e non delli altri; sicché dicendo Sola, s’intende sola la vostra gentile casa da tutte l’altre gentili.
C. VIII — v. 133-139. In questi due ternari et uno versetto lo nostro autore fìnge che ’l marchese Currado li predìca eli’elli ricevrebbe 42 cortesia da’ marchesi Malaspina, e così fu: imperò che, poi che l’autore finge che avesse questa fantasia, avvenne ch’elli andò in Lunigiana e fu molto onorato da’ marchesi Malaspina; ma fu innanti che scrivesse questa parte, e però finge che li sia detto innanti. Dice adunqua così: Et elli; cioè lo marchese Currado disse a me Dante: Or va; cioè tu, Dante, al tuo cammino, che il Sol non si ricorca Sette volte; cioè non si riposerà in Ariete, come fa ogni anno: per sette volte s’intendeno sette anni: imperò che ogni anni lo Sole si entra e sta in ogni segno 30 giorni, come sono 30 gradi: imperò che in ogni di’ naturale; cioè in 24 ore v’àe uno grado, quando verso l’occidente e quando verso l’oriente; benché sia rotato verso l’occidente, e ritorni all’oriente; e dice corica, cioè si riposa e sta; et è questo verbo transuntivo 43, e per seguire la transunzione, dice: nel letto; parla secondo lo vulgare, che dice che ’l Sole si leva e corica, et a levare e coricare si richiede letto; ma quanto a la verità s’intende nel sito e luogo, che il Montone; questo è quel segno dei 12 segni del zodiaco che li Astrologi chiamano Aries, lo quale si dipinge in forma di montone co le suoe stelle, che lo figurano che avvisi col capo volto a rieto, quando dal lato ritto, e quando dal manco: imperò che ’l Sole da l’equinozio vernale infine a l’autunnale va per lo lato ritto del zodiaco, et allora sì dice Aries guardare dal lato ritto a rieto lo Sole che si diparte da lui; e dall’autunnale in fine al vernale ritorna lo Sole dal lato manco del zodiaco, et allora si dice Aries guardare a rieto lo Sole che ritorna a lui dal lato manco. Di questo segno fingeno li Poeti questa finzione; che Giove generò Neifile d una ninfa filliuola di Caco e suore di Io, la quale Atamante re di Tebe ebbe per mollie, de fa quale ebbe due filliuoli; cioè Frisso et Elle; lo primo maschio, e lo secondo femmina. E morta Neifile prese una altra donna; cioè Inoe filliuola di Cadmo, la quale come usansa è de le matrigne, ebbe in odio li filliastri intanto, che li cacciò di casa; li quali partendosi di Grecia venneno al mare Mediterraneo che divide l’Europa dall’Asia ad uno grande seno di mare nel quale è l’isola Colco, et in verso settentrione si stringe ad uno stretto che si chiama Eusino, e poi più in là si chiama Propontis; et in verso mezzo di’ si stringe ad uno stretto che è otto stadi, dove lo re Serse fece lo ponte per passare d’Asia in Europa co l’esercito; e quive dove notava Leandro quando passava di notte da Abido, che era in Europa, a Sesto all’amante sua Ero che era in Asia. Unde Giove apparve a questi suoi nepoti e diede loro uno montone che avea lo vellio dall’oro, acciò che con esso passasseno lo mare; e montativi suso; cioè Frisso da la parte d’inanti, et Elle di rieto, quando funno in mezzo del passo, Elle non si seppe tenere e cadde in mare et annegò, e però fu chiamato quello mare lo mare Ellesponte 44. E questa finzione feceno li Poeti, per mostrare che Giove fusse iddio, come aveano finto; ma la verità fu che prestò loro, o vero donò una galea armata che v’era per insegna lo montone fatto 45 ad oro. E perchè Elle ne cadde et annegò che non se ne avviddeno, tornonno a rieto per vedere se la vedesseno e potessenla campare, e però fìnseno che lo montone volse lo capo a rieto, per vedere Elle quando annegò, c però lo dipingono col capo a rieto; e quando Frisso fu passato nell’isola di Colco, scorticò lo ditto montone et empiette lo cuoio di pallia e consecrolle a Marte nel tempio suo. E questo finseno, perchè Frisso quello bello sendale 46 del montone dell’oro offerse nel tempio di Marte; e queste altre cose aggiunscno che sono impossibili, per mostrare che fusse iddio; cioè che Giove prese lo corpo del montone e puoselo in cielo in quello forma nel zodiaco; e però dice l’autore: Con tutti quattro piè cuopre et inforca: lo cerchio del Sole ò molto distante dal zodiaco; ma quando è 47 nel suo stato l’Ariete, lo Sole nel suo cerchio, allora si dice essere coperto dall’Ariete et inforcato, e questo non può essere se none una volta l’anno, e però per sette volte s’intendono sette anni, si ch’elli vuole dire che non passeranno sette anni, Che cotesta cortese opinione; cioè che tu, Dante, ài de la casa mia la quale fu detta di sopra, Ti fie chiavata in mezzo de la testa; cioè fie fermata nel tuo cerebro, dov’è la sedia dello intelletto umano, Con altri, o vero, Con maggior chiovi; cioè con maggiore, o vero altra fermessa, che d’altrui sermone; cioè che di parlare d’altrui: però che il vedrai per effetto e per opera quello, che tu ne credi e che se ne dice: Se corso di giudicio; cioè se lo corso de le costellazioni, unde si pillia lo iudicio di quello che dè venire da li Astrologi, non s’arresta; cioè non si ferma, sicché non compia lo suo effetto; e così dimostra che le influenzie del cielo possano essere impedite da la volontà di Dio. E qui finisce lo canto ottavo, et incomincia lo nono.
Note
- ↑ C. M. l’autore finge
- ↑ C. M. tale ascaro; e per questo modo à descritto lo tempo che era sera.
- ↑ Ascaro vale forse dolore, fastidio, noia, e potrebbe derivare da ἀσχαλάω; dolersi, rattristarsi. E.
- ↑ C. M. suono
- ↑ C. M. sono stati in penitenzia,
- ↑ C. M. così permette
- ↑ Fussemo; voce primitiva, conformata al fuissemus latino, e risultante dalla terza singolare fusse. E.
- ↑ C. M. che l’altro re finge
- ↑ C. M. forte a contenersi in un peccato
- ↑ C. M. battallia mettendoli li mali pensieri,
- ↑ C. M. quelle salute, che funno belle
- ↑ C. M. de’ Visconti
- ↑ C. M. messere Rizzardo
- ↑ C. M. delle taverne, o vero beccarie di Pisa
- ↑ Pongasi mente a questa maniera ellittica, non infrequente nei Classici nostrali: in quello di Pisa; in quello contado o territorio. E.
- ↑ None; non, colla giunta dell’e per comodità di pronunzia, come tuttodì’ usa il popolo toscano, marchigiano ed umbro. E.
- ↑ C. M. essersi fatta vedova,
- ↑ Da - questo - a - la sua visione - si è tolto dal Cod. Magliab. E.
- ↑ C. M. Per lei; cioè per Beatrice mia donna, assai di lieve; cioè assai leggiermente, si comprende
- ↑ C. M. in sul cuoio lassa
- ↑ C. M. esposizioni
- ↑ C. M. perno; cioè pollego.
- ↑ C. M. stelle piccole ragguardo, Di che
- ↑ C. M. cantica seconda; et allegoricamente
- ↑ Tanto nel verso, quanto nella prosa gli antichi levavano l’i dal corpo di alcune parole, dicendo: avversavo, manera, Tarquino, varo, per avversasario, maniera, Tarquinio, vario. E.
- ↑ C. M. strisciando, cioè gridando, quando si strefinava, o fregava su per l’erbe, Volgendo
- ↑ C. M. si sente vinto et isdegnoso,
- ↑ C.M. da l’operazione del male;
- ↑ C. M. al supremo cielo,
- ↑ C. M. nel mondo: però che l’anima separata dal corpo à più perfettamente
- ↑ C. M. però che, l’anima separata dal
- ↑ Arae; avrà, terminazione comune alle antiche Scritture e al domestico ragionare. Questo e viene aggiunto per cagione di uniformità, essendosi detto àe, avie ec. E.
- ↑ C. M. larghezza dall’oceano
- ↑ C. M. s’avezza e sè ausa; e però
- ↑ C. M. avezzati et usati a le
- ↑ C. M. et ausarsi da piccolo
- ↑ C. M. virtù generativa e produttiva
- ↑ C. M. lo dimonio del mondo,
- ↑ La cortesia dè Lettori ci vorrà condonare l’errore di Solo per Sola, sfuggitoci nel testo, v. 132. E.
- ↑ C. M. vostra casa e gente.
- ↑ C. M. discrettivo
- ↑ Ricevrebbe; riceverebbe. Simili contrazioni derivano dalla trasposizione dell’r all’ultimo, innanzi all’e nell’infinito, come adoperavano i Trovatori. Così dicevan essi defendr, respondr, e defender, responder. Non tutte però codeste sincopi sarebbero oggi approvate, mentre invece in alcuni verbi sono le sole acconsentite: potrò, saprò, ec. E.
- ↑ C. M. transumptivo,
- ↑ C. M. Ellesponto.
- ↑ Fatto ad oro. Pongasi mente con quanta leggiadria i nostri Classici con la particella a esprimono il termine di forma; cioè aspetto o maniara d’un oggetto. E.
- ↑ C. M. stendale
- ↑ C. M. nel sito sotto l’Ariete,