Commedia (Buti)/Paradiso/Canto XV

Paradiso
Canto quindicesimo

../Canto XIV ../Canto XVI IncludiIntestazione 16 maggio 2015 75% Poemi

Paradiso - Canto XIV Paradiso - Canto XVI
[p. 443 modifica]

C A N T O     XV.





1Benigna voluntà, in che si liqua
     Sempre l’amor che drittamente spira,
     Come cupidità fa ne l’iniqua,
4Silenzio puose a quella dolce lira,
     E fece quietar le sante corde,
     Che la destra del Cielo allenta e tira.
7Come saranno ai iusti preghi sorde
     Quelle sustanzie che, per darmi vollia
     Ch’io le pregasse, a tacer for accorde?1
10Ben è che senza termine si dollia
     Chi, per amor di cosa che non duri
     Eternalmente, quello amor si spollia.
13Quale per li seren tranquilli e puri
     Discorre ad or ad or subito foco,
     Movendo li occhi che si stan sicuri,2
16E pare stella che tramuti loco,
     Se non che da la parte, onde s’accende,
     Nulla si perde, et esso dura poco;3
19Tale dal corno, che ’n destro si stende,
     Al piè di quella Croce corse un astro
     Della costellazion che lì risplende;

[p. 444 modifica]

22Nè si partì la gemma dal suo nastro;
     Ma per la lista radiai trascorse,
     Che parve foco dentro ad alabastro.4
25Sì pia l’ombra d’Anchise si porse,
     ( Se fede merta nostra maggior Musa )
     Quando in Elisio del figliuol s’accorse
28O sanguis meus, o super infusa
     Gratia Dei, sicut tibi, cui
     Bis unquam Caeli janua reclusa!
31Così quel lume; ond’io attesi a lui,5
     Poscia rivolsi a la mia donna il viso,
     E quinci e quindi stupefatto fui:
34Chè dentro alli occhi suoi ardeva un riso6
     Tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo
     De la mia grazia e del mio paradiso.
37Inde, ad udire e vedere iocondo,
     Iunse lo spirto al suo principio cose,
     Ch’io nolle ’ntesi: sì parlò profondo.7
40Nè per elezion mi si nascose;
     Ma per necessità: chè ’l suo concetto
     Al segno de’ mortal si soprapuose.
43E quando l’arco dell’ardente affetto
     Fu sì sfogato, che ’l parlar discese8
     In ver lo segno del nostro intelletto,
46La prima cosa che per me s’intese,
     Benedetto sia Tu, fu, trino et uno,
     Che nel mio sangue se tanto cortese.9 10

[p. 445 modifica]

49E seguio: Grato e lontan digiuno
     Tratto, leggendo del maggior volume,11
     U’ non si muta mai bianco, nè bruno,
52Soluto ài, fillio, dentro a questo lume,
     In che ti parlo, mercè di colei,
     Ch a l’alto volo ti vestì le piume.
55Tu credi che a me tuo pensier mei
     Da quel ch’è primo, così come raia
     Dall’un, se si cognosce, il cinque e ’l sei;12
58E però ch’io mi sia, nè perch’io paia
     Più gaudioso a te, non mi dimandi,
     Che alcun altro in questa turba gaia.
61Tu credi ’l vero, che i minori e i grandi13
     Di questa vita miran ne lo spellio
     In che prima, che pensi, il pensier pandi.
64Ma perchè ’l sacro amor, in che io vellio14 15
     Con perpetua vita, e che m’asseta
     Di dolce disiar, s’ adempia mellio,
67La voce tua sicura, balda e lieta
     Suoni la voluntà, suoni ’l disio,
     A che la mia risposta è già decreta.16
70Io mi volsi a Beatrice; e quella udio
     Pria ch’io parlassi, et arrisommi un cenno,17
     Che fece crescer l’ali al voler mio;
73Poi incominciai così: L’affetto e ’l senno,
     Come la prima qualità n’apparse,18
     D’un peso per ciascun di voi si fenno:

[p. 446 modifica]

76Però ch’al Sol, che v’allumò et arse19
     Col caldo e co la luce, en sì equali,20
     Che tutte simillianze sono scarse.
79Ma vollia et argomento nei mortali,
     Per la cagion ch’a voi è manifesta,
     Diversamente son pennute l’ali.21
82Ond’io, che son mortal, mi sento in questa
     Disagguaglianza; e però non ringrazio,
     Se non col cuore a la paterna festa.
85Ben supplico io a te, vivo topazio,
     Che questa gioia preziosa ingemmi,
     Perchè mi facci del tuo nome sazio.
88O fronda mia, in che io compiacemmi
     Pur aspettando, io fui la tua radice:
     Cotal principio, rispondendo, femmi.
91Possa mi disse: Quel da cui si dice
     Tua cognazione, e che cent’anni e piue22
     Girato à ’l monte a la prima cornice,
94Mio fillio fu, e tuo bisavo fue:23
     Ben si convien che la lunga fatica
     Tu li raccorci co l’ opere tue.
97Fiorenza dentro da la cerchia antica,
     Onde ella tollie ancora Terza, e Nona,24
     Si stava in pace sobria e pudica.
100Non avea catenelle, non corona,25
     Non donne contigiate, non cintura,26
     Ch’a veder fusse più che la persona.

[p. 447 modifica]

103Non faceva nascendo ancor paura
     La fillia al padre, chè ’l tempo e la dote
     Non fuggian quinci e quindi la misura.
106Non avea case di famiglia vote,
     Non v’era iunto ancor Sardanapalo27
     A mostrar ciò che ’n camera si puote.
109Non era vinto ancora Montemalo
     Dal vostro Uccellatoio, che come vinto28
     Fu nel montar; così sarà nel calo.29
112Bellincion Berti vidd’io andar cinto
     Di cuoio e d’osso, e venire a lo specchio30
     La donna sua senza il viso dipinto.
115E viddi quel dei Nerli e quel del Vecchio
     Esser contenti a la pelle scoperta,
     E le suo donne al fuso et al pennecchio.
118O fortunate! e ciascuna era certa
     De la sua sepultura, et ancor nulla
     Era per Francia nel letto deserta.31
121L’una veghiava a studio della culla,32
     E consolando usava l’idioma,
     Che pria li padri e le madri trastulla;
124L’altra, traendo a la rocca la chioma,
     Favoleggiava co la sua famillia
     De’ Troiani e di Fiesole e di Roma.
127Serea tenuto allor tal meravillia33
     Una Cinghella, un Lapo Saltarello,34
     Qual or serea Cincinnato, e Cornillia.35

[p. 448 modifica]

130A così riposato, a così bello
     Viver dei cittadini, a così fida
     Cittadinanza, a così dolce ostello
133Maria mi diè, chiamata in alte grida;
     E ne ’l antico vostro Batisteo
     Insieme fui cristiano e Cacciaguida.
136Moronto fu mio frate et Eliseo;
     Mia donna venne a me di Val di Pado,
     E quinci il sopra nome tuo si feo.36
139Poi seguitai lo ’mperador Currado,
     Et ei mi cinse de la sua milizia:
     Tanto per bene oprar li venni in grado.
142Dietro li andai incontra a la nequizia
     Di quella gente, il cui popul usurpa,37
     Per colpa dei pastor, nostra iustizia.
145Quivi fu’io da quella gente turpa38
     Disviluppato dal mondo fallace,
     Il cui amor molte anime deturpa,
148E venni dal martiro a questa pace.


  1. v. 9. C. A. fur concorde?
  2. v. 15. C. A. che stavan
  3. v. 18. C. A. sen prende,
  4. v. 24. C. A. dietro ad
  5. v. 31. C. A. io m’attesi
  6. v. 34. C. A. occhi tuoi
  7. v. 39. C. A. io non intesi:
  8. v. 44. C. A. che per l’aer discese
  9. v. 48. C. M. nel mio seme sei
  10. v. 48. Se; persona seconda dall’infinito sere, ed oggi meglio se’ o sei. E.
  11. v. 50. C. A. del magno
  12. v. 57. C. A. conosce
  13. v. 61. C. A. che minori e grandi
  14. v. 64. C. M. amor io vellio
  15. v. 64. C. A. in cui
  16. v. 69. Decreta; decretata, giusta il decretus latino. E.
  17. v. 71. C. M. avisommi — C. A. arrosemi
  18. v. 74. C. A. equalità v’
  19. v. 76. C. A. n’allumò
  20. v. 77. C. A. con la luce, e sì eguali,
  21. v. 81. C. M. C. A. pennuti in
  22. v. 92. C. A. ben cent’
  23. v. 94. C. A. bisavol
  24. v. 98. Il Cod. Palat. — Ond’ella coglie
  25. v. 100. C. A. catenella
  26. v. 101. II Muratori nella xxiii Dissert. delle Antichità ec. ne offre questa variante: Non gonne contigiate; e gonne aveva già l’Antaldino.
  27. v. 107. C. A. giunto
  28. v. 110. C. A. come è
  29. v. 111. C. A. Nel montar su,
  30. v. 113. C. A. venir dallo
  31. v. 120. C. A. diserta.
  32. v. 121. C. A. vegghiava
  33. v. 127. C. A. Saria
  34. v. 128. C. A. Cianghella, un Lapo Salterello,
  35. v. 129. C. A. o Corniglia.
  36. v. 138. C. A. quindi il sovrannome
  37. v. 143. C. A. legge, il cui popolo
  38. v. 145. Turpa, configurato in a come altri nomi feminili sostantivi ed aggettivi: loda, enorma, fina ec. E.




C O M M E N T O


Benigna voluntà ec. Questo è lo xv canto de la terzia cantica, nel quale lo nostro autore finge come tra quelli beati spiriti, che 1 rappresentano nel corpo di Marte, elli trovasse e parlasse con messer Cacciaguida padre d’Allighieri, bisavo suo di Dante; e come li dicesse de’costumi che allora erano in Fiorenza; cioè al tempo ch’elli visse. E dividesi questo canto in due parti principali: [p. 449 modifica]imperò che prima dimostra come lo detto spirito descese dal destro corno della detta croce, che elli àe finto essere nel corpo di Marte, al piè a parlare con lui, e come lo invitò che elli parlasse; ne la seconda come, avuto licenzia da Beatrice, incominciò a parlare con lui, et incominciasi quine: Io mi volsi a Beatrice ec. La prima, che sarà la prima lezione, si divide tutta in cinque parti: imperò che prima finge come quelli beati spiriti, che si rappresentavano in quella croce che detta è, puoseno silenzio al 2 suo canto per parlamentare con Dante; ne la seconda, come uno di quelli beati spiriti trascorse per la croce del corno destro al piè, per parlare con lui, et incominciasi quine: Quale per li seren ec.; ne la terza finge come quella ombra il fece grazioso cenno, e come si rivolse a lui et a Beatrice, et incominciasi quine: Sì pia l’ombra ec.; ne la quarta finge come quello spirito incominciò a parlare con lui. et incominciasi quine: Inde ad udire ec.; ne la quinta finge come poi quello spirito continuando la sua orazione, indusse lui a dimandare, et incominciasi quine: E seguio ec. Divisa adunqua la lezione, ora è da vedere l’esposizione del testo coll’allegorie e moralitadi.

C. XV — v1-12. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come quelli beati spiriti, che si rappresentavano in Marte che prima cantavano, tacettono per dare a lui vollia di pregare loro; et adiunge invezione contra li amatori de le cose mondane, dicendo così prima: Benigna voluntà; cioè la voluntà buona, che desidera e vuole lo bene, in che; cioè nella quale, si liqua 3; cioè si manifesta: questo è vocabulo grammaticale, che 4 viene a dire quello che detto è, Sempre l’amor; cioè l’amore diritto, santo e buono sempre si manifesta ne la buona voluntà, che drittamente spira; cioè lo quale dirittamente mette dentro nell’anima e nella mente li buoni e diritti pensieri, e voluntadi, Come cupidità; cioè come l’amore disordinato, fa; cioè 5 manifesta, ne l’iniqua; cioè ne la ria voluntà; e fa l’autore similitudine per contrarie cose, dicendo che, come ne la buona voluntà si manifesta l’ordinato e perfetto amore; così ne la ria voluntà si dimostra lo disornato 6 et imperfetto amore, lo quale l’autore chiama cupidità, Silenzio; cioè tacimento, puose; cioè la benigna voluntà che vuole sempre bene, a quella dolce lira; cioè a quello dolce canto, che cantavano li beati spiriti detti di sopra: lira è istrumento di corde che si nomina chitarra, che toccata suona, e però si pone qui per quelli beati, che lodando Iddio, rendevano lo suono, e per lo canto dolcissimo, secondo la [p. 450 modifica]congregazione dei beati, fusse come una chitarra a sonare e cantare lode a Dio, e ciaschedun di quelli beati spiriti fusse come una corda de lo istrumento; e però dice: E fece quietar; cioè riposare e stare chete, le sante corde; cioè quelli santi spiriti, che erano come corde a dare quello dolce suono di lode a Dio, Che; cioè le quali corde, la destra del Cielo; cioè lo Spirito Santo che è quello, per cui virtù lo cielo fa le sue operazioni, come l’omo fa co la sua destra, allenta e tira: imperò che la grazia dello Spirito Santo è quella che tira le nostre menti ad amare, lodare e pensare d’Iddio 7; e quando s’allenta, si raffredda tale amore in noi. Et adiunge ora l’autore una invezione contra li amatori de le cose mondane, inducendo quello colore che si chiama espolizione, quando si fa trattando per 8 commozione, dicendo così: Come saranno ai iusti preghi sorde Quelle sustanzie; quasi dica: Non saranno sorde ai iusti preghi; cioè a chi iustamente le pregherà, quelle beate anime, che; cioè le quali, per darmi; cioè per dare a me Dante, vollia; cioè desiderio, Ch’io le pregasse; cioè che io Dante pregasse loro, a tacer for accorde? cioè furno concordevili a stare chete, per dare a me vollia che io le pregasse; dunqua bene seranno attente ad esaudire li iusti preghi. Ben è; cioè iusto è, che senza termine si dollia; cioè che abbia perpetuo dolore, Chi; cioè colui lo quale, per amor di cosa che non duri Eternalmente; cioè del mondo che non dura a l’omo, se non per alcuno tempo, e similmente li suoi beni, quello amor; cioè ordinato e perfetto, si spollia; cioè sè medesimo priva di tale amore 9 ch’el potrebbe avere; cioè l’amore diritto, ordinato e perfetto, s’elli volesse. E così riprende li mondani amatori del bene fallace e non durabile.

C. XV — v. 13-24. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come uno di quelli beati spiriti, che erano nel destro corno de la croce, che àe finto essere nel corpo di Marte, discorse al piè de la croce per approsimarsi a lui e parlare con lui; et a dimostrare tale discorso arreca una similitudine de’ vapori, che accesi vicini a la terza regione dell’aire discorreno per l’aire, che paiano pure stelle, dicendo così: Quale per li seren tranquilli e puri; cioè quando è sereno e puro l’aire e riposato che non sia vento, e puro che non sia mischiato con nebbie; ecco che tocca tre cose: imperò che qualunqua cessasse, non si vedrebbono li vapori, e però si richiede che sia l’aire sereno e puro; che non vi sia mesculanza di nebbie: imperò che impaccerebbono la vista; e riposato: imperò che, se vento fusse, risolvrebbe li vapori e non si potrebbono 10 accendere, Discorre [p. 451 modifica]ad or ad or; cioè di notte spesso e spesso: imperò che di di’ non si levano li vapori sì alto: imperò che ’l Sole risolve; et anco, se pur si levasseno et accendessensi, non si vedrebbono per lo grande splendore del Sole, subito foco; questo fuoco sono li vapori terresti, secchi e vescosi, che si levano infine a la terza regione dell’aire, secondo che dice lo Filosofo ne la sua Metaura, e quine s’accendono e discorreno per l’aire e paiano stelle che caggiano 11, Movendo li occhi; cioè umani, che; cioè li quali, si stan sicuri: l’uomo si sta sicuro, e vedendo andare questi vapori ascesi per l’aire si muove per ammirazione, parendoli che siano stelle che caggino, E pare stella; cioè quel fuoco che discorre, che; cioè la quale stella, tramuti loco; cioè che vada da uno luogo a stare ad uno altro. Et ecco la pruova che non sia stella, quando dice: Se non che da la parte, onde s’accende; cioè incomincia esso fuoco, Nulla si perde: imperò che quella stella, unde si pare che si parta quel fuoco, stella si rimane come ella era; e però dice che Nulla si perde, et esso; cioè fuoco, dura poco: imperò che incontenente si spegna: e se fusse stella, unde si parte 12, non rimarrebbe lo splendido corpo come rimane, e durerebbe poi lo corpo lucido e non si spegnerebbe. Tale; cioè sì fatto fuoco, dal corno; cioè da la croce, che è nel pianeto Marte, che’n destro si stende; cioè lo quale corno si stende in verso la destra parte, Al piè di quella Croce; de la quale è detto, corse un astro; cioè uno di quelli beati spiriti, che stavano in quella croce, come le stelle stanno in cielo; così corse come correno li detti vapori per l’aire: è astro congregazione di molte stelle; ma qui si pone per una stella, e però dice: Della costellazion; cioè di quella congregazione di beati spiriti, che a modo delle costellazioni che risplendeno in cielo, risplendevano in quella croce: costellazione è congregazione di molte stelle. Nè si partì la gemma dal suo nastro; ecco che sempre seguita lo colore che si chiama permutazione, trasumendo lo spirito beato a la gemma che è messa ne l’anello, e la croce a la 13 stella; e però dice che, ben che lo spirito discorresse dal corno destro de la croce al piè della croce, non uscitte della croce, e però dice: Ma per la lista radial; cioè 14 de la croce che radiava, trascorse; cioè lo detto spirito, Che parve foco dentro ad alabastro; cioè parve che discorresse per la croce scintillando e splendendo, come se la croce fusse d’alabastro, e lo spirito fusse stato come uno fuoco che vi fusse discorso per entro: alabastro è spezie di marmo bianchissimo e purissimo: e, posto dentro in uno vasello d’alabastro uno lume, riluce come [p. 452 modifica]una lanterna d’osso Et ora, veduto la lettera, debbiamo vedere l’allegorico intelletto de l’autore, nel quale appare la ragione de la fìzione de l’autore, sicchè l’autore non fa queste fizioni in vano, nè per ornamento di suo poema, come molti credeno; ma per dimostrare del suo allegorico intelletto, lo quale in questa fizione è questo; cioè che in questa croce, che è per l’autore figurata in Marte che significa passione, ne la suprema parte risplendeva Cristo, la cui passione fu per pena sopra tutte le passioni, pensando la persona che patio e ’l modo; e per efficacia: imperò che diede salute a tutta l’umana spezie, e diede efficacia e valimento a tutte l’altre passioni de’martiri che sparseno lo sangue per la fede di Cristo, li quali l’autore finge che si rappresentino di sotto a Cristo per lo gambo della croce, e finge che si movesseno da su in giù: imperò che la grazia, che li faceva costanti a sostenere le loro passioni, descese da cielo. Et a significare questo, l’autore fìnge sì fatto movimento; et anco a significare unde ebbe efficacia la loro passione, cioè de la passione e del sangue di Cristo, lo quale solo fu sofficiente a sodisfare per la colpa del primo uomo, et a ricomperare tutta l’umana spezie; et a dar valimento a tutti sangui sparti dei martiri che a ciò fussono valevili, che per loro quello non arebbono valuto. Et anco figura questo descenso, a dimostrare che ogni passione per rispetto di quella di Cristo è di minore grado, et a sì fatto grado nessuno può, nè potette 15 montare mai. Ancora finge che nel destro corno fusseno quelli martiri, che sono morti per acquistare la terra santa e reducere 16 a la fede di Cristo, siccome apparrà di sotto nel suo terzo avo; cioè messer Cacciaguida che morì militando sotto lo imperadore Currado contro l’infedeli; e nel sinistro corno, coloro che sono stati in vita solitaria combattendo col dimonio, col mondo e co la carne, li quali ànno alfine avuto vittoria. E perchè questi ànno fatto questo combattimento pur co la mente e non co la vista di fuora, però li mette dal sinistro corno che significa l’opere mentali; e perchè li altri ànno combattuto co la mente e col corpo, però li mette dal destro corno: imperò che la mano diritta è operativa più che la manca. E finge che si movessono dall’uno corno all’altro, a dimostrare che nel mondo dell’uno stato s’è passato nell’altro: imperò che dal combattere corporale molti si sono ritratti e passati al mentale, e così e contrario; et anco perchè l’una parte è stata confortamento all’altra; et anco perchè l’una è stata di pari merito coll’altra e di pari grado; e che descendano giuso per lo gambo, figura per mostrare che siano [p. 453 modifica]di pari grado costoro, che sono stati poi con coloro che furno ne la primitiva chiesa. E ch’elli finga che messer Cacciaguida trascorresse dal destro corno per la lista de la croce giuso al gambo de la croce a parlamentare con lui, figura che Dante non fu di sì fatto stato, nè di sì fatto merito, e però non finse sè essere ine la croce; ma giù a basso; unde se voleva fingere che messer Cacciaguida parlamentasse con lui, conveniva, per fare verisimile la sua fizione, ch’elli figurasse che descendesse a lui. Et ancora perchè dovea dire con lui delle cose del mondo e de le condizioni di Fiorenza, degnamente finse che venisse a lo estremo de la croce, e non uscisse della croce, a significare che nessuno beato è mai, nè può essere senza suo premio. Seguita.

C. — XV v. 25-36. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come 17 lo spirito, disceso che fu messer Cacciaguida, rincominciò a parlare, dicendo cosi: Sì pia; cioè sì pietosa, l’ombra d’Anchise; cioè troiano, padre d’Enea del quale fu detto nella prima cantica, si porse; cioè si mostrò ad Enea; (Se fede merta nostra maggior Musa; cioè se si debbe dare meritevilmente fede a la maggior nostra Musa, cioè a Virgilio et al poema suo che è lo maggiore che sia apo 18 li Latini: quasi dica: Se si dè credere a Virgilio, che si 19 li debbe credere che’l merita); e dice nostra maggior Musa: imperò che appresso li latini Poeti Virgilio è lo maggiore. Quando in Elisio; questo è lo nono cerchio, che finge Virgilio che sia di sotto nella terra, nel quale Enea trovò Anchise suo padre, secondo che finge Virgilio che sia di sotto ne la terra, e chiamasi et interpetrasi luogo de’ pietosi, del figliuol s’accorse; cioè d’Enea che era disceso a lui, secondo che finge Virgilio nel vi de la sua Eneide. Osanguis meus; lo nostro autore finge che quello beato spirito, che era disceso al piè de la detta croce, parlasse con lui et incominciasse come detto è, che è posto da l’autore in Grammatica 20, per innovare lo suo modo del parlare, che viene.a dire: O sangue mio: imperò che Dante era disceso da lui, che era stato suo terzo avo, sicchè ben si conveniva che lo chiamasse sangue suo, o super infusa Grata Dei; tutto questo ternario l’autore àe posto in Grammatica, e questo viene a dire: O grazia d’Iddio venuta di sopra e messa in Dante da Dio; e desi tenere detto per esclamazione, a dimostrare ammirazione de la virtù de l’autore e della grazia a lui conceduta da Dio, sicut tibi, cui Bis unquam Caeli janua reclusa! Anco questo viene con ammirazione, e [p. 454 modifica]viene a dire: A cui fu mai la porta del cielo aperta due volte, sì come a te, mio sangue, che ora aperta la porta del cielo è a te una volta, che vai di cielo in cielo, secondo la lettera, corporalmente; ma, secondo l’allegorico intelletto, mentalmente e poeticamente fingendo; al quale modo non si truova che mai v’andasse niuno: imperò che santo Paulo v’andò ratto da Dio, et Enea poeticamente, cioè secondo fizione, andò pure a li infernali; ma Dante andò suso in cielo, secondo la sua fizione, et un’altra volta profeta che vi debbia andare, cioè veramente quando l’anima si partirà dal corpo. E sopra questa parte potrebbe altri dubitare, benchè l’autore finga che lo suo terzo avo dicesse le dette parole di lui, la verità è che elli le disse. È adunqua licito a l’uomo di lodarsi, come si loda l’autore, cioè che mai niuno non ebbe simile pensieri a questo che ’l mettesse ad esecuzione, come egli? A che si può rispondere che licito è a l’uomo di dire la verità di sè dicendola per manifestare, et anco a fine di averne loda: imperò che gli eccellenti, come era l’autore, cercano loda; ma non li perfetti, siccome dice Boezio nel secondo de la Filosofica Consolazione: Tum ego: Scis, inquam, ipsa minimum 21 nobis ambitionem mortalium rerum fuisse dominatam. Sed materiam gerendis rebus optavimus, quo ne virtus tacita consenesceret. At illa: Atqui hoc unum est, quod praestantes quidem natura mentes; sed nondum ad extremam manum virtutum perfectione perductas allicere possit gloriae scilicet cupido, et optimorum in rempublicam fama meritorum. Ecco che pone Boezio che la Filosofia dica che lo desiderio della gloria può allettare le menti eccellenti per natura; ma non perfette, sicchè bene è licito a l’autore di lodarsi di quel che è vero, e massimamente di questa comedia, che non la fece ad altro fine che per acquistar fama. O vogliamo dire mellio che l’autore in ciò non loda sè; ma ricognosce la grazia da Dio, quasi dica: A cui fu fatta mai tanta grazia da Dio, che due volte li fusse aperta la porta del cielo, come a me Dante! E questa è la prima volta, e della seconda mostrò d’avere ferma speranza per la grazia d’Iddio, siccome debbe avere ogni fidele cristiano, sperando ne la misericordia d’Iddio. Così quel lume; cioè così parlò quel lo splendore, del quale è detto di sopra, cioè messer Cacciaguida, dicendo le parole dette di sopra, cioè: O sanguis meus, — ond’io; per la qual cosa io Dante, attesi a lui; cioè puosi la mia attenzione a quello beato spirito. Poscia rivolsi; cioè io Dante, a la mia donna il viso; cioè rivolsi il volto a Beatrice, E quinci; cioè da Beatrice, e quindi; cioè dal detto messer Cacciaguida mio terzo avo, udendo lo suo parlare, fui stupefatto;'Testo in corsivo cioè diventai stupefatto, meravigliandomi [p. 455 modifica]di quello che io vedeva. Ecco che rende la cagione, per che si meravigliava di Beatrice: Chè; cioè imperò che, dentro alli occhi suoi; cioè a li occhi di Beatrice, ardeva un riso; cioè risplendeva una allegrezza: nelli occhi ridenti, cioè allegri, si dimostra 22 allegrezza, Tal; cioè sì fatto riso, ch’io; cioè che io Dante, pensai co’miei; cioè occhi, toccar lo fondo; cioè l’ultimo fine, De la mia grazia; cioè 23 de la mia beatitudine, che io per grazia d’Iddio debbo ricevere, e del mio paradiso; cioè e de la mia felicità, che io debbo avere vedendo Iddio. E questo è secondo la lettera; secondo l’allegoria si dè intendere ch’elli ragguardò l’uno e l’altro intelletto de la santa Scrittura; nei quali intelletti, cioè litterale e spirituale, vidde tanto d’ardore di carità e di letizia essere stato nei martiri e nei combattitori per la santa fede, che a lui si mosse uno ardore e fervore di carità in verso Iddio, che a lui parve essere nella beatitudine eterna e ne la beata vita.

C. XV — v. 37-48. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come lo detto spirito adiunse a quello, che di sopra aveva incominciato, cose parte non intelligibili da lui e parte sì, dicendo: Inde; cioè di poi, lo spirto; cioè predetto, iocondo ad udire: imperò che diceva cose dilettevili e piacevili, e vedere: imperò che era risplendente e pieno 24 di fervore di carità e de la luce de la beatitudine, Iunse al suo principio; cioè a quello che fu detto di sopra, cioè: O sanguis meus ec., — cose; quali fussono quelle cose che elli iunse al suo principio, ogni sottile ingegno le può imaginare per lo antecedente e per lo susseguente: imperò che l’autore adiunge: Ch’io; cioè che io Dante, nolle ’ntesi; cioè le dette parole, sì parlò profondo; così profondo si pone per alto; et adiunge 25, Nè per elezion; cioè nè studiosamente, nè voluntariamente, mi si nascose; cioè s’appiattò a me lo detto spirito nel suo parlare, Ma per necessità; cioè ma si soprapuose al mio intelletto necessariamente; et assegna la cagione: chè ’l suo concetto; cioè imperò che ’l suo concetto, cioè lo pensieri del suo intelletto, Al segno de’mortal; cioè a la possibilità de lo intelletto umano, si soprapuose 26: l’umano intelletto è limitato e terminato, et oltra li suoi termini non può andare. Puote l’umano intelletto comprendere le creature e le cose create [p. 456 modifica]da Dio con mezzo; ma le cose create da lui senza mezzo e lo creatore Iddio non può perfettamente comprendere, nè l’operazioni ch’elli fa senza mezzo. Noi non possiamo intendere perfettamente che cosa iddio ene, nè che cosa sia la luce e che fu la prima materia, nè che cosa è l’umana anima, perchè sono cose fatte immediatamente da Dio, se non quanto Iddio n’à volsuto rivelare alli amici suoi; ma de li elementi e de le cose elementate bene ànno compreso li Filosofi col loro ingegno quello che sono. Però disse quello libello 27, che si legge ai fanciulli ne la scuola: Mitte arcana Dei coelumque inquirere quid sit: Cum sis mortalis, quœ sunt mortalia cura. Adunqua che fu quello che lo beato spirito disse, che Dante finge che non intendesse, per dare ammaestramento a noi che noi non ci stendiamo più 28, che allo intelletto umano sia possibile? Fu la predestinazione d’Iddio, de la quale nessuno può rendere vera ragione nè intenderla, perchè lo nostro intelletto non adiunge a comprendere la providenzia d’Iddio. E la cagione, per che non vi giuuge l’umano intelletto, si è perchè non siamo capaci de la divina intelligenzia; e però pare a noi che la predestinazione contradica a la libertà de l’arbitrio, unde molti errori occorreno ne le menti umane; e però farebbe bene l’uomo di queste cose non parlare nè pensare, e chiamarsi vinto dall’altezza de la materia, siccome fa in questa parte l’autore nostro. E che questo sia quello, di che 29 l’autore intese, comprendesi per lo detto di sopra, quando disse: O sangue mio, o grazia di sopra mandata, a cui fu mai due volte aperta la porta del cielo, siccome a te, Dante! Unde possiamo intendere e pensare che lo beato spirito di ciò rendesse ragione, secondo la fizione dell’autore, la quale per noi non si può intendere: imperò che l’uomo direbbe: Perchè a Dante Iddio à dato questa grazia 30 più che ad uno altro? E se dicesse: Per li meriti de la sua virtù, si risponderebbe: E con ciò sia cosa che nessuno possa avere virtù senza la grazia d’Iddio, perchè Iddio diede quella grazia più a lui che ad uno altro? A che si conviene rispondere, por non andare più là: Perchè li piacque e volse; perchè più oltra non possiamo comprendere. E questa fizione àe fatto l’autore, per mostrare che li beati spiriti vedono et intendono in Dio ogni cosa. E quando l’arco dell’ardente affetto; cioè lo fervore de l’ardente sua carità, che aveva in Dio, Fu sì sfogato; commendando la sua provvidenzia e la sua predestinazione, secondo che per li beati debbiamo pensare che si vegga et intenda; e però dice: Quando lo fervore in ciò dire fu sì mostrato fuore co le parole a ciò [p. 457 modifica]convenienti, ch’elli venne a la rengraziazione, la quale è cosa che si debbe potere intendere; e però dice: che ’l parlar 31; cioè suo, cioè di quel beato spirito, discese; cioè da la sua alta materia di prima, In ver lo segno del nostro intelletto; cioè inverso quello che a noi è possibile d’intendere, La prima cosa che per me s’intese; cioè per me Dante fu questa ringraziazione che seguita: imperò che l’altre cose non aveva inteso, Fu; cioè questo. Benedetto sia Tu; cioè Iddio, trino; cioè essente in trinità di persone, cioè del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, et uno; cioè essente in unità di sustanzia e di deità: sono le dette tre persone uno Iddio et una sustanza, Che; cioè lo quale Iddio, nel mio sangue; cioè in Dante, che è disceso del mio sangue, se tanto cortese; che li ài donato tanto di grazia per la tua cortesia, non per suoi meriti 32. E questo s’intende d’Iddio: imperò che Iesu Cristo ce l’à manifestato ne’ suoi Evangeli, et anco lo Spirito Santo ne revelò ai Discepoli et alli Apostoli come è uno Iddio in tre persone et una sustanza.

C. XV — v. 49-69. In questi sette ternari lo nostro autore finge come quello beato spirito seguitò nel suo parlare et invitò lui a parlare, diicendo così: E seguio, cioè lo detto beato spirito: O fillio; cioè o Dante, che se’ mio figliuolo per descensione: imperò che io sono tuo terzo avo, Soluto ài; cioè tu ài sciolto, dentro a questo lume; cioè ne la mia mente, che è dentro a questo splendore che tu vedi. In che; cioè nel quale lume, ti parlo; cioè io Cacciaguida, tuo terzo avo, parlo a te Dante, e che ài sciolto, Grato; cioè grazioso, e lontan; cioè lungo, digiuno; cioè desiderio: lo digiuno cagiona desiderio di mangiare, e però si pone qui per lo desiderio, cioè: Tu ài sazio lo mio lungo e piacente desiderio, che io aveva di vederti venire a questo modo; e dice unde li venne questo desiderio, secondo che finge l’autore, Tratto; cioè cavato questo desiderio, leggendo del maggior volume; cioè d’Iddio, nel quale si vedeno da’ beati tutte le cose; e dice per similitudine, cioè che, come l’uomo leggendo cava del libro ch’elli legge; così li beati ragguardando, come si vede nel libro scritto la scrittura, ch’è, in Dio vedono ogni cosa, e quinde cavano ogni cosa ch’elli sanno. E così vuole l’autore che s’intenda che messer Cacciaguida vedesse in Dio che Dante dovea fare questa opera e che per questo modo desiderava che venisse a perfezione, sicchè dice ora lo suo desiderio sazio; e chiama Iddio maggior volume: imperò ch’elli è la maggior cosa che sia, et è come libro in che li beati vedono ogni cosa; et adiungne: U’; cioè nel quale [p. 458 modifica]volume, non si muta mai bianco, nè bruno; cioè in Dio mai non si muta nulla: imperò che in lui riluceno tutte le cose create. E seguita la similitudine; cioè che, come nel libro che è scritto non si muta la scrittura, se non si muta lo bianco de la carta e lo nero de lo inchiostro; così vuole dire che in Dio niente, si muta come nel libro scritto, nè non si muta lo bianco ne ’l nero: in Dio riluce ogni cosa certa, sicch’elli è come scrittura immutabile, mercè di colei; cioè per merito di Beatrice, Ch’a l’alto volo ti vestì le piume; cioè ti vestitte le penne, co le quali potessi volare in cielo. Queste penne sono le sentenzie de la santa Scrittura, che Dante imparò leggendola, e la virtù che quinde prese; unde si misse a fare questa fizione, che senza la santa Scrittura non Farebbe potuto fare verisimile, come elli àe fatto. Tu credi; cioè tu, Dante, che a me: cioè beato spirito, dice messer Cacciaguida, tuo pensier mei; cioè scorra e vegna lo tuo pensieri ne la mia mente, Da quel ch’è primo; cioè da Dio, che è principio d’ogni cosa; cioè: Tu credi che io, guardando in Dio, vegga lo tuo pensieri, e credi lo vero: imperò che così è che in Dio riluce ogni nostro pensieri, inanti che noi abiamo 33, come dirà incontenente; et arreca una similitudine: così come raia 34; cioè come risplende, Dall’un; cioè dall’unità, il cinque e ’l sei; come lo raggio deriva da la luce e da quella è fatto splendido; così dall’uno si deriva lo cinque e ’l sei, e dall’uno è dato cognoscimento al cinque et al sei: perchè è cinque? Perchè in esso è cinque volte uno; e così, perchè è sei? Perchè sei volte uno, se si cognosce: imperò che, non cognosciuto 35 l’unità, non si cognoscerebbe lo avere 36 aggregato; e cognosciuta l’unità, si cognosce lo numero aggregato che nasce quinde, e così da Iddio viene ogni nostro buono pensieri, et in lui si vedeno. E però; cioè perchè tu pensi che io vegga lo tuo pensieri, che è di sapere chi io sia e perchè ti faccio tanta festa, non mi dimandi di questo, non mi dimandi; cioè tu, Dante, non dimandi me beato spirito, ch’io mi sia; che parlo teco, nè perch’io; cioè nè perchè io Cacciaguida, paia Più gaudioso a te; cioè perchè io mostri maggiore allegrezza a te Dante, Che alcun altro; cioè spirito, in questa turba gaia; cioè in questa moltitudine allegra. Tu; cioè Dante, credi ’l vero: imperò che così è come tu credi; et assegna la cagione, che i minori; cioè spiriti, che sono di minor grado, e i grandi; cioè quelli beati spiriti, che sono di maggior grado, Di questa vita; cioè di vita eterna, ne la quale siamo, miran; cioè ragguardano, ne lo spellio; cioè in Dio, in che riluce ogni cosa come in uno specchio, le cose [p. 459 modifica]che li sono apposte, In che; cioè nel quale specchio, cioè Iddio, tu: cioè Dante, pandi 37; cioè manifesti, il pensier; cioè tuo, prima, che pensi; cioè inanti che tu abbia lo pensieri: Iddio ab eterno vidde e seppe cioè, che ogni uno debbe avere in pensieri et in voluntà, siccome dice Boezio nel quinto de l’allegata opera: Quare si ab aeterno, non facta hominum modo; sed etiam consilia, voluntatesque praenoscit ec. — . Ma perchè ’l sacro amor; cioè ma acciò che lo santo amore, cioè la carità santa, in che; cioè nel quale, io vellio; cioè vegghio, Con perpetua vita; cioè ne la quale carità io vivo perpetualmente; e bene pone vegghiare per vivere: imperò che ’l dormire è mezzo tra la vita e la morte, e che m’asseta; cioè mi fa crescer la sete, Di dolce disiar; cioè di dolce desiderio: imperò che sempre cresce la carità de’ beati, s’adempia mellio; cioè più cresca, La voce tua 38 sicura, balda e lieta; cioè colla voce tua sicura, ardita et allegra, Suoni la voluntà; cioè col suono suo manifesti la voluntà tua, suoni ’l disio; cioè manifesti lo tuo desiderio, A che; cioè a la qual voluntà e desiderio, lo quale io so inanti che ’l dichi, la mia risposta è già decreta; cioè è già determinata et ordinata; quasi dicesse: lo so ]o tuo desiderio e veggo quello che ài voglia di sapere et one apparecchiato la risposta; ma io non veggo come ciò sapessi manifestare co la tua loquela. E però parla come io t’ò ammonito, a ciò che, veduta la tua virtù, io t’ami più ferventemente e cresca in me la carità in verso Iddio, che t’à donato tanto di grazia. E tre cose toccò che debbe avere 39 lo parlatore nella sua voce; cioè che debbe essere ferma e non tremante, che significa timore; e debbe essere ardita, cioè alta e non bassa, che significa diffidenzia; e debbe essere lieta e non piangulosa, che significa tristizia; e, veduto in lui queste tre cose, crescerà l’ardore de la carità. E qui finisce la prima lezione del canto xv, et incominciasi la seconda.

Io mi volsi a Beatrice. ec. Questa è la seconda lezione del canto xv, ne la quale l’autore finge come, avuta la licenzia da Beatrice, incominciò a parlare con messer Cacciaguida suo terzo avo, lo quale faccendo menzione del tempo ch’elli fu nella vita, loda lo frugale stato e vivere che fu al suo tempo ne la città di Fiorenza. E dividesi [p. 460 modifica]questa lezione in sei parti: imperò che prima finge come pigliasse licenzia di parlare da Beatrice e come incominciasse a parlare con messer Cacciaguida; ne la seconda finge come messer Cacciaguida rispondesse a la sua dimanda e narrasseli lo suo parentado, et incominciasi quine: O fronda mia ec.; ne la terza finge come, continuando lo detto spirito lo suo parlare, dice de le condizioni di Fiorenza e del temperato vivere dei cittadini in generale, et incominciasi quine: Fiorenza dentro da la cerchia ec.; ne la quarta parte finge come spezialmente incominciò a nominare de’ cittadini del suo tempo, dimostrando la loro onesta e frugale vita, et incominciasi quine: Bellincion Berti ec.; ne la quinta finge come narrò lo detto spirito la sua natività et unde ebbe origine sopra ’l nome di Dante, et incominciasi quine: Serea tenuto ec.; ne la sesta finge come lo detto spirito narrò lo stato suo e la morte, et incominciasi quine: Poi seguitai ec. Divisa la lezione, ora ene da vedere lo testo co l’esposizioni allegoriche e morali.

C. XV — v. 70-87. In questi sei ternari lo nostro autore finge come egli, presa licenzia da Beatrice poi che ebbe udito parlare lo beato spirito detto di sopra, rispuose a lui e dimandò del suo nome, dicendo così: Io mi volsi a Beatrice; cioè volsi me a ragguardare Beatrice, poi che io uditti così parlare lo detto spirito, per prender licenzia da lei se voleva che io respondesse; e questo finge, per dimostrare che conveniente fu, secondo la santa Teologia, ponere qui questa fizione del suo terzo avo, considerato che morì combattendo per la fede contra l’infideli. e quella udio; cioè Beatrice udio, cioè intese me Dante quello che io voleva dire, Pria ch’io; cioè innanti ch io Dante, parlassi; cioè rispondessi al predetto spirito, et arrisommi; cioè dimostrommi ridendo, un cenno; cioè uno atto, Che; cioè lo quale, fece crescer l’ali; cioè fece inalzare e crescere la potenzia, al voler mio; cioè a la mia voluntà, cioè fece la mia voluntà col desiderio; cioè, vedendo che io m’accordava ne la mia sentenzia co la Teologia, mi crebbe la voluntà del dire. E questa fizione pone qui l’autore, per dimostrare che, innanti ch’elli volesse ponere la sentenzia, ch’elli porrà di sotto dei beati, elli volse lo iudicio e lo consiglio de la santa Teologia e vidde quello che diceva; e, che ella innanti che parlasse lo intendesse, significa che questa sentenzia era stata già determinata per li santi Teologi inanti che elli n’avesse dubbio; che ella li ridesse et accennasselo, figura ch’ella fu intesa da lui con diletto: imperò che elli ebbe diletto, vedendo sè in questa sua sentenzia accordarsi co la santa Teologia. Poi incominciai così; cioè poi che io ebbi lo consentimento de la santa Teologia, io Dante cominciai così, come seguita, a rispondere al detto beato spirito. E qui pone la detta sua sentenzia, parlando in questa forma: L’affetto; [p. 461 modifica]cioè la volontà, e ’l senno; cioè l’apprensione che si fa in noi per li sentimenti, e ne’ beati per la contemplazione mentale che ànno in Dio infine che staranno senza li corpi, e poi che saranno coi corpi aranno la contemplazione mentale e la visione corporale; sicchè vuole dire: La voluntà vostra e l’apprensione, che avete avuto di me et in verso di me, Come la prima qualità n’apparse; cioè altresì tosto come prima mi vedeste; e questo dice, perchè li sentimenti in noi apprendeno per le qualitadi obiette di fuori, come dice Boezio nel v de la preallegata opera, quando dice: Quod si in corporibus sentiendis, quamvis afficiant instrumenta sensuum extrinsecus obiectae 40 qualitates, animique agentis vigorem passio corporis antecedat, quae in se actum mentis provocete excitetque interim quiescentes intrinsecus formas, si in sentiendis, inquam ec. — D’un peso per ciascun di voi si fenno; cioè in ciascheduno di voi beati: come mi vedeste, tanto apprendeste di me quanto voleste, e tanto mi poteste mostrare di carità, quanto voleste: imperò che in voi lo potere risponde al volere; et assegna la cagione: Però ch’al Sol; cioè Iddio, che è sole e fonte di luce e di splendore, che v’allumò; cioè vi diede la virtù del cognoscermi, et arse; cioè riscaldòvi in verso di me col caldo della sua carità; e però dice: Col caldo; cioè della sua carità; e dèsi recare all’arse— , e co la luce; cioè co la virtù del cognoscere; e dèsi referire all’allumò — ; en sì equali; cioè sono sì equali l’affetto e’l senno; cioè lo volere e l’operare: Iddio così fa come elli vuole, e così li beati come vogliano così operano: però che sono illuminati da Iddio in quello che debbono volere, e sono infiammati di carità da lui ad amare come volliano, Che tutte simillianze sono scarse; cioè difettive e con 41 mancamento: in tanto in Dio è simile lo volere e l’operare, che nessune cose sono sì perfettamente simili. Ma vollia; cioè voluntà, et argomento; cioè operazione, nei mortali; cioè nelli omini, che sono mortali, che sono nel mondo che viveno, Per la cagion ch’a voi è manifesta; cioè per la cagione, che è manifesta a voi beati, Diversamente son pennute l’ali; cioè non sono equali e non si possano parimente stendere: imperò che l’uomo non può tanto operare, quanto può volere; e la cagione è che la voluntà è puro atto libero de l’anima, e così amare: [p. 462 modifica]ma li atti, che sono de l’anima per mezzo delli sentimenti corporali, sono limitati e terminati sicchè non si può terminare in essi quanto la voluntà vorrebbe, sicchè bene sono queste due ali pennute diversamente: imperò che le penne de la voluntà sono libere, e quelle delli atti dependenti dalli istrumenti corporali sono limitati e terminati, et in essi non può l’uomo quanto vorrebbe. Ond’io; cioè per la qual cosa io Dante, che son mortal; cioè che sono ancora col corpo mortale, mi sento; cioè sento me, in questa Disagguaglianza; cioè in questa disequalità, cioè che io non posso quanto io vollio: io vorrei potere co le parole ringraziarvi di questa festa, che m’avete mostrato, tanto quanto la mente àe conceputo, et io non posso, e però non ringrazio, Se non col cuore a la paterna festa: imperò che co la lingua non potrei tanto, quanto la mente àe concetto e la voluntà s’è stesa a volere, nè con alcuno altro segno, e però ringrazio col cuore a la carità, che m’avete mostrato co l’ardore e col fiammeggiare, come padre e principio de la mia generazione e schiatta. Ben supplico io; cioè Dante con ogni reverenzia m’inchino, a te, vivo topazio; cioè a te beato spirito, che risplendi più che uno topazio: imperò che se’ spirito vivente, e lo topazio è pietra morta; e pertanto la similitudine non è di pari 42, Che; cioè lo quale, questa gioia preziosa; cioè questo segno de la croce, che è in questo pianeto, ingemmi; cioè adorni come fa la gemma la corona, o l’anello nel quale è, Perchè mi facci; cioè perchè tu facci me Dante, del tuo nome sazio; cioè che tu mi dichi lo nome tuo, del quale io òne desiderio di sapere.

C. XV — v. 88-96. In questi tre ternari lo nostro autore finge come quello beato spirito rispondesse a la dimanda sua et al prego suo, dicendo cosi: O fronda mia; per due respetti finge che lo suo terzo avo lo chiamasse sua fronda; prima, perchè era nato di lui come la fronde de l’arboro; poi, perchè come la fronde è adornamento de l’arbore; così Dante era adornamento di tutti li suoi passati e descendenti per la sua virtù, in che; cioè ne la quale fronde, io compiacemmi; cioè io Cacciaguida ebbi compiacimento e diletto, Pur aspettando; cioè solamente aspettandoti, io fui la tua radice; ciò Cacciaguida fui lo principio de la tua schiatta, come la radice è principio de la vita dell’arbore. Cotal principio, rispondendo, femmi; cioè a me Dante lo mio terzo avo, dando risposta a quello che io aveva addimandato, incominciò così: Possa mi disse; cioè poi disse a me Dante. Quel da cui si dice Tua cognazione; cioè colui, unde è detto lo cognome del tuo parentado, cioè Allighieri; e chi dice Aldighieri: questo fu lo comune nome della casa di Dante [p. 463 modifica]poi: imperò che tutti furno chiamati Allighieri, o vero Aldighieri. quelli del casato suo, e che cent’anni e piue Girato à ’l monte; cioè che più di cento anni àne circuito lo monte, cioè del purgatorio. a la prima cornice; cioè nel primo giro del purgatorio, dove finge che sia una cornice che lo gira intorno, siccome appare nella seconda cantica del canto ix.; e, per quello che dice qui, dà ad intendere che Allighieri, del quale fa menzione qui, fusse dei superbi che purgano la sua superbia in sul primo giro del purgatorio sotto gravissimi pesi; e, perchè dice cento anni e più, mostra che vi fusse stato più di cento anni: imperò che più di cento anni erano passati, poi che moritte, infine a questo di’: et anco mostra che avesse anco a stare lungo tempo 43 a girare lo monte, perchè non era ancora purgato del peccato della superbia, Mio fillio fu; dice messer Cacciaguida a Dante, secondo la sua fizione, che colui del quale è detto di sopra, cioè Allighieri, fu suo filliuolo unde messer Cacciaguida veniva terzo avo a Dante, come appare per questo che dice: e tuo bisavo fue; cioè fu padre del padre di tuo padre. Ben si convien che la lunga fatica; cioè di girare lo monte 44, Tu; cioè Dante, li raccorci; cioè l’abbrevi, co l’opere tue; cioè co l’orazioni e co le lemosine e coll’altre sante e buone operazioni, che si fanno per L’anime de’ morti: imperò che se’ suo parente e non à altri nel mondo che faccia bene per lui. E per questo, che dice che gli raccorci la lunga fatica, pare che Allighieri, che era stato in su la prima cornice del purgatorio a purgarsi d’esso, v’avesse anco a stare molto tempo più. Et anco si può intendere che avesse a stare 45 per li altri sei giorni a purgarsi de li altri peccati, sicchè Dante li poteva mancare 46 questa fatica, che era lunga, co le orazioni et elemosine. E ciascuno è tenuto a pregare per li suoi, s’elli vuole avere perfetta carità.

C. XV — v. 97-111. In questi cinque ternari lo nostro autore finge che lo suo terzo avo, messer Cacciaguida, continuando lo suo parlamento, dicesse de le condizioni de la sua città di Fiorenza al tempo suo nel quale ella era 47, in stato virtuoso, dicendo così: Fiorenza; cioè la città nostra, dentro da la cerchia antica; cioè non dentro dal muro antico, cioè dentro al quale fu edificata prima da’ Romani grande e bella città, secondo che dice Ioanni Villani, che la edificorno quattro Romani, cioè Albino, Macrino, Gneo Pompeio [p. 464 modifica]e Marzio insieme con Iulio Cesare, che aveva disfatto Fiesoli, anni 682 48 dopo l’edificazione di Roma, et anni 70 innanzi la natività del nostro Signore; e Pompeio fu colui che fece fare le mura con molte torri tonde, distanti l’una dall’altra 20 gomiti 49, con ponti e con fortezze; ma dentro al muro fatto ne la seconda redificazione 50: imperò che, poi che la distrusse Totile 51 a’ di’ 28 di giugno ne l’anni Domini 450 e 500 52; da la sua edificazione, prima fatta per li quattro cittadini romani suddetti, insieme con Iulio Cesari; e rifatto Fiesoli per lo detto Totile fu rifatta ancora per li Romani co l’aiuto del re Carlo Magno 53 e per lo solicitamento dei cittadini e contadini di Fiorenza rimasi dopo la detta destruzione, non grande come prima; ma piccola città con quattro porte e divisa con quattro quartieri; ma poi s’accrebbe tanto, che fu divisa in sei sesti e con più porte; e del tempo di quella redificazione seconda parla qui messer Cacciaguida, secondo che finge Dante. E perchè s’intenda de la seconda redificazione, adiunge: Onde; cioè da la qual cerchia antica, ella; cioè Fiorenza, tollie ancora Terza, e Nona: imperò che lo muro della città ne la seconda redificazione fu fatto derivato d’una badia di monaci che si chiama la badia, e suona ancora al tempo d’oggi terza e nona, et al suono di quella badia entrono et esceno li artisti ine loro lavori 54; e chiama l’autore questa la cerchia antica: imperò che de la grandezza de la prima edificazione non si truova certezza; ma sì di questa seconda, Si stava in pace; cioè Fiorenza, populata dei Romani che v’erano stati mandati ad abitare e dei cittadini antichi, sparti per lo contado, che ritornorno a la città, e non de’ Fiesolani: imperò che poi anco li Fiorentini non avevano disfatto un’altra volta Fiesoli, che l’aveva rifatto Totile: imperò che non guerreggiava coi suoi vicini e non curava di sottometterseli, come fa oggi; e però dice Si stava in pace, sobria; cioè temperata in suo vivere: non intendevano li suoi cittadini allora a la gola, come l’anno oggi, e pudica; cioè casta: imperò che non erano lussuriosi: chi tempra la gola tempera la gola e l’appetito carnale. Non avea; cioè Fiorenza, catenelle; cioè quelli adornamenti, che solevano portare le donne intorno al collo et a le maniche de’ bottoncelli d’ariento inorato infilati a varie guise, non corona; cioè adornamento di capo che portano le donne, come li re e le reine, fatte con follie d’ariento inorato con gemme preziose e con perle, Non donne contigiate; cioè non aveva donne Fiorenza, che allora portasseno contige, come à avale: contigie si chiamano calze [p. 465 modifica]solate col cuoio stampato intorno al piè, non cintura; cioè non aveva Fiorenza scaggiali, nè cintole d’ariento fatte a diverse maniere, come à oggi, Ch’a veder fusse; cioè la cintura e gli altri adornamenti, più che la persona; questo dice: imperò che alcuna volta è la femina sì adornata, ch’ella s’avvisa più per li adornamenti che per la bellezza de la persona; ma questo non era al tempo di messer Cacciaguida. Non faceva nascendo ancor paura La fillia al padre; come fa oggi: imperò che allora si davano sì piccole dote, che lo padre non temeva di non poterla maritare 55; et ecco che assegna la cagione: chè ’l tempo: imperò che si maritavano tutte quando erano oltre 15 anni, e non si maritavano alli undici anni, o a’ 10, come si fa oggi, e la dote; cioè che si dava allora dal padre a la sua figliuola, Non fuggian quinci; cioè da la parte de la dote, e quindi; cioè da la parte del tempo, la misura; cioè la possibilità e lo dovere, come si fa oggi: maritansi oggi di 10 anni et anco di meno, che è fare scempio e strazio de la natura: con ciò sia cosa che la femina innanzi a li 14 anni non sia atta a concipere, e dannosi li quattrocento fiorini et oltre per dote, come se fussono fave o lupini; le quali dote non si possano acquistare in sì poco tempo, se non usureggiando o rubbando e male acquistando. Non avea case; cioè Fiorenza allora, di famiglia vote; come àe avale: imperò che non cacciava l’una setta l’altra, nè l’uno cittadino l’altro, come fa avale. Non v’era iunto ancor Sardanapalo; cioè in Fiorenza non era venuto ancora nessuno cittadino lussurioso e lascivo, come fu Sardanapalo re delli Assiri, ultimo della schiatta di Belo e di Semiramis, lo quale fu tanto lascivo che stava in camera vestito a modo di femina tra le meretrici e filava con loro et ogni atto di lussuria illecito con loro operava; unde dà ad intendere qui l’autore che non era ancora intrato in Fiorenza l’abominevile e maladetto vizio illicito e contra natura, A mostrar; cioè ad insegnare alli altri, ciò che ’n camera si puote; cioè fare d’atto lussurioso e disonesto. Non era vinto ancora Montemalo; questo Montemalo è uno monte così chiamato presso a Roma a due millia per la via che si viene da Viterbo a Roma, e di quinde si vede tutta Roma e li suoi grandi edifici, li quali dice essere stati vinti da li edifici fiorentini che si vedono di su l’Uccellatoio: e però dice che allora, Non era ancora vinto Montemalo; in mostrare la grandezza di Roma, Dal vostro Uccellattoio; questo è uno monte nel contado di Fiorenza presso a Fiorenza a quattro millia o vero cinque; e per lo monte Uccellatolo si va da chi vuole [p. 466 modifica]ire a Bologna e nelle terre che furno delli Ubaldini, e però dice messer Cacciaguida, secondo che finge Dante, che al tempo suo, non era ancora vinto Montemalo; che era dimostratore della magnificenzia di Roma a chi veniva verso Roma, come l’Uccellatolo è dimostratore della magnificenzia di Fiorenza a chi viene di verso Bologna a Fiorenza dall’Uccellatoio che era de’ Fiorintini, come fu poi che li Fiorentini accrebbono la città e feceno li grandi edifici: stavano contenti li Fiorentini allora a quello che avevano e non tollievano ai loro vicini le loro tenute, come fanno, che; cioè lo quale Montemalo, come vinto Fu; cioè dal vostro Uccellatoio, nel montar; cioè nel montare de la prosperità di Fiorenza, così sarà nel calo; cioè cosi sarà vinto nell’abbassamento de la prosperità dei Fiorentini; cioè di quinde si mosterrà anco più abbassata Fiorenza, che non si mostra ora Roma da Montemalo, sicchè li Fiorentini fumo e saranno ancora più abbassati dall’Uccellatoio, che li Romani si mostrano ora da Montemalo: come sono ora più inalzati, che non è Boma abbassata; così più abbassi 56 si mosterranno ancora a chi verrà dall’Uccellatoio li Fiorentini, che non si mostra ora Roma a chi viene da Montemalo. E così induce l’autore a profetare messer Cacciaguida dell’abbassamento di Fiorenza, benchè questo non è anco avvenuto: sarà quando Iddio vorrà abbattere la superbia fiorentina che è tanta, che non volliano vicino; ma ogni uno sottomettersi. E questo fu infine al tempo dell’autore, sicchè ben poteva indivinare l’autore: imperò che Iddio superbis resistit, humilibus autem dat gratiam; et a presso veggiamo che tutte le cose terrene e mondane ànno mutamento.

C. XV — v. 112-426. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come messer Cacciaguida suo 57 terzo avo, seguitando lo suo ragionamento, dice de la temperanza de li antichi Fiorentini che furno al suo tempo in Fiorenza, dicendo: Bellincion Berti; questi fu uno gentile uomo di Fiorenza e fu de’Ravignani, cavaliere e potente cittadino, e furno sue le case 58, quella che si chiamò a porta San Piero, le quali per retaggio della contessa Gualdrada sua figliuola, che fu moglie del primo conte Guido, rimasono ai conti Guidi, perchè discesono di lui e fecenosi cittadini di Fiorenza, vidd’io; cioè viddi io Cacciaguida, andar cinto Di cuoio e d’osso; con tutto che fusse cavalieri. Ecco che erano allora temperati li cittadini di Fiorenza ne li adornamenti: non portavano li cavalieri le cintole d’ariento e di perle, come portano al tempo d’oggi; ma di cuoio e d’osso, e venire [p. 467 modifica]a lo specchio; cioè a vedere se 59 ben s’imbendava, La donna sua; cioè del detto messer Bellincione, senza il viso dipinto; cioè senza aversi messo o biacca o bambacello; e così tocca l’onestà de le donne di quel tempo, per confundere la disonestà de le moderne. E viddi; cioè io Cacciaguida, quel dei Nerli; li Nerli furno antiqui gentili omini di Fiorenza, e quel del Vecchio; questi anco fu di grande casato gentile uomo, che si chiamavano li Vecchietti, Esser contenti a la pelle scoperta; cioè portavano indosso le pelli senza panno di sopra: non si facevano le guarnacce, nè i mantelli di scarlatto foderati di vaio, come si fa oggi, E le suo donne; cioè di quello dei Nerli e de’ Vecchietti vidd’io Cacciaguida esser contente, al fuso et al pennecchio; cioè essere contente di filare e fare quello esercizio che s’appartiene a le femine. Unde congratulando esclama: O fortunate; cioè avventurate e felici sì fatte donne! e ciascuna era certa De la sua sepultura; cioè di essere sotterrata a la chiesa sua, e non aveva paura d’essere cacciata di Fiorenza et andare per lo mondo e morire per le terre altrui, et ancor nulla; cioè de le donne fiorentine, Era per Francia nel letto deserta; cioè era abbandonata dal marito, per andare a stare in Francia a mercatantare, come si va oggi: imperò che li Fiorentini incominciorno ad andare in Francia dopo la sconfitta che ebbono li guelfi a Monte Aperti, poi che furno accumiatati e cacciati di Lucca dove erano ricoverati gli guelfi di Fiorenza, e fu questo nelli anni Domini 1263. l’una; cioè de le donne fiorentine che erano allora, veghiava a studio della culla; cioè del ghieculo dove teneva lo fanciullo, E consolando; cioè la fanciullino suo, ghieculandolo, usava l’idioma; cioè lo parlare che si fa da’ padri e da le madri ai suoi fanciulli, cioè: Nanna, nanna fante ec. Che; cioè 60 lo quale parlare, pria; cioè prima, li padri e le madri trastulla; cioè che li padri e le madri prendono diletto 61, procantando li loro figliuoli e pronosticando loro bene. L’altra: cioè de le donne fiorentine, traendo a la rocca la chioma; cioè tirando lo pennecchio a la rocca e filando, Favoleggiava; cioè parlava, co la sua famillia; cioè coi figliuoli e colle figliuole e co le nuore, De’ Troiani; cioè come vennono in Italia sotto lo guidamento d’Enea loro duce, e di Fiesole; che fu antica città, posta presso a Fiorenza in sul monte che si chiama Fiesuli, che fu disfatta per li Romani dopo la sconfitta di Catellina, perchè li Fiesulani li dierno aiuto, e di Roma: imperò che quelli Romani, che disfeceno Fiesuli, feceno Fiorenza dove [p. 468 modifica]ella è, che v’erano due ville, che l’una si chiamava Camarti 62, e l’altra Arnina. Seguita.

C. XV — v. 127-138. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come 63 lo spirito detto di sopra, messer Cacciaguida, continuando lo suo parlare, li manifestò l’origine sua e lo nome suo e lo sopranome, dicendo così: Serea tenuto allor tal meravillia; cioè al tempo detto di sopra, quando li cittadini di Fiorenza erano sì modesti, sarebbe tenuto tale meravillia, Una Cinghella; questa fu una gentile donna di quelli de la Tosa, la quale fu molto leggiadra e trovatrice di nuove foggie, sicchè se a quel tempo una donna simile a quella quando erano li cittadini sì modesti, un Lapo Saltarello; questo fu uno cittadino di Fiorenza, che al tempo de l’autore fu molto leggiadro come la detta Cinghella, sicchè se fussono stati a quello tempo, che è stato detto di sopra, sarebbesene ogni uno meravigliato, Qual; cioè meraviglia, or serea; cioè sarebbe a questo tempo, cioè de l’autore, Cincinnato; questo fu uno virtuoso romano, del quale è stato detto di sopra ne la seconda cantica, e Cornillia; questa fu virtuosa donna romana, de la quale anco è stato detto di sopra, cioè di Cornelia donna che fu di Pompeio; ma di questa non intese qui l’autore, perchè non viene a proposito; ma d’un altra Cornelia, e questa fu figliuola di Terzia Emilia, donna del primo Scipione Africano e del detto Scipione, e fu madre de’Gracchi. E come dice Valerio libro iv, cap. iv, essendo albergata con lei una donna di Campania, e dimandandola che li mostrasse li adornamenti suoi bellissimi che s’usavano allora, ella la menò per parole infine che tornorno li suoi figliuoli da la scuola; et allora rispuose a la donna che l’aveva addimandata: Questi sono li adornamenti miei, dimostrandoli li figliuoli: imperò ch’ella era tanto onesta che adornamenti non aveva; sicchè vedendosi al tempo dell’autore Cincinnato vestito a modo di rustico, benchè fusse dittatore, e Cornelia così gentile donna e grande senza ornamenti, ben sarebbe tenuta grande meraviglia. A così riposato; come detto è di sopra, a così bello Viver dei cittadini; come detto è di sopra, a così fida Cittadinanza; quale è stato detto prima, a così dolce ostello; cioè albergo, come i’ò detto, dice messer Cacciaguida, secondo che finge l’autore; et è qui colore che si chiama repetizione, perchè incomincia da una medesima dizione le membra de le clausule, et ecci anco interpretazione che una medesima cosa dice in vari modi, Maria; cioè la Vergine Maria, mi diè; cioè diede me Cacciaguida, chiamata; cioè da la mia madre nel parto, in alte grida; cioè in alte grida, come fanno le donne [p. 469 modifica]quando partoriscono. E ne l’antico vostro Batisteo; cioè nel luogo da battezzare, che anticamente fu in Fiorenza, Insieme fui cristiano: imperò che fui battezzato quine, e Cacciaguida: imperò che, quando fui battezzato, fui nominato Cacciaguida. Moronto fu mio frate et Eliseo; ecco che racconta che ebbe due fratelli, cioè Moronto et Eliseo. Mia donna venne a me; cioè Cacciaguida, di Val di Pado; questa è contrata 64 nel distretto di Fiorenza, unde dice messer Cacciaguida che fu la sua donna, E quinci; cioè di Valdipado, il sopra nome tuo; cioè di te Dante, si feo: imperò che furno chiamati li Àllighieri, prima di Valdipado, poi Àllighieri dal figliuolo di messer Cacciaguida; et è da notare che sopranome si pone qui impropriamente: imperò che si pone per lo cognome, che è come di tutta la schiatta: imperò che sopranome è pure d’uno individuo a differenzia dell’altro.

C. XV — v. 139-148. In questi tre ternari et uno versetto lo nostro autore finge come messer Cacciaguida, continuando lo suo parlare, manifestò la sua morte, djeendo così: Poi; cioè che io Cacciaguida fui atto all’arme, seguitai lo ’mperador Currado; questo Currado per quello, ch’io possa comprendere per le croniche, fu Currado primo che fu nel mille 65 cinquantacinque: imperò che, se nel 1300 l’autore ebbe questa fantasia com’elli finge, et Allighieri figliuolo di messer Cacciaguida era stato cento anni e più nel purgatorio, et ora dica che seguitò lo ’mperadore Currado, commodamente si può intendere di quello che è detto: imperò che ’I primo fu nel 1015 anni, sicchè è verisimile che messer Cacciaguida fusse inanti a quel tempo nato 66, in ciò che fusse da seguitarlo. Et ei; cioè lo ’mperadore Currado, mi cinse de la sua milizia; cioè fece me Cacciaguida cavalieri. Tanto per bene oprar li venni in grado; cioè tanto per le mie buone operazioni venni nella sua grazia. Dietro li andai; cioè io Cacciaguida andai dirieto al detto imperadore Currado, incontra a la nequizia; cioè incontra a la malvagità, Di quella gente; cioè infidele, il cui popul; cioè lo popolo de la qual gente, usurpa; cioè iniustamente tiene, Per colpa dei pastor; cioè per colpa de’ prelati de la santa Chiesa, che non si metteno a commovere li cristiani contra loro, nostra iustizia; cioè luogo, dove fu falla la iustizia del peccato del primo uomo nel secondo uomo, cioè Iesu Cristo. Quivi; cioè tra l’infideli, fu’ io; cioè Cacciaguida, da quella gente turpa; cioè da quella gente sozza e brutta, perchè tutta intende a carnalità, Disviluppato; cioè disciolto e liberato, dal mondo fallace; cioè dal mondo lo quale è igannevile, che mostra essere quel che non è, il cui [p. 470 modifica]amor; cioè l’amore del qual mondo, molte anime deturpa; cioè brutta di peccati e di vizi, E venni dal martiro a questa pace; cioè de la morte, la quale sostenni come martire, a la pace di vita eterna che è in questo cielo per rappresentazione; ma nel cielo empireo per 67 esistenzia. E così si dimostra che chi combatte per la fede e muore è martire, e che li martiri si rappresentano nel pianeto di Marte, perchè àe a dare influenzia di battaglie, come detto è di sopra. E qui finisce lo canto xv, et incominciasi lo canto xvi de la terza cantica.

Note

  1. C. M. che si rappresentano
  2. C. M. al suo centro
  3. Si liqua; dal liquet latino. E.
  4. C. M. che significa manifestare, e però si liqua; si manifesta. Sempre
  5. C. M. cioè si liqua cioè si manifesta
  6. C. M. disordinato et
  7. C. M. di Dio: quando tira s’accende tale amore, e quando s’allenta raffredda. Et aggiunge
  8. C. M. per esuscitazione,
  9. C. M. amore. E così
  10. C. M. potrebbeno vedere, Discorre
  11. C. M. caggiano o che mutino luogo, Movendo
  12. C. M. si partisse, non rimane
  13. C. M. a la lista; così dice
  14. C. M. cioè per la linea che risplendeva della croce, trascorse;
  15. Potette: perfetto originato dal potuit dei Latini. E.
  16. Reducere; infinito alla foggia latina, come dicere ec. E.
  17. C. M. come quello spirito desceso a parlare con lui fu messer Cacciaguida, del quale ditto è di sopra, dicendo:
  18. C. M. appo i Latini; quasi dica che meritevilmente si li dè credere, Quando
  19. Si li. Si osservi come i Classici usano anche invariate le particelle ronominali. E.
  20. Grammatica; latino. E.
  21. nimium nobis
  22. C. M. si dimostra la letizia de l’animo: che s’intenda per li occhi è stato dichiarato in più luoghi di sopra, Tal;
  23. C. M. cioè della mia felicità che io debbo ricevere,
  24. C. M. pieno di luce, di beatitudine e di carità, Giunse
  25. C. M. profondo, cioè sì parlò alto, avanzando lo nostro intelletto: come alto si pone per profondo; così profondo per alto; et
  26. C. M. si soprapuose; cioè si puose più alto che aggiunga l’umano intelleto: l’umano intelletto
  27. Libello; libretto alla guisa de’ Latini. E.
  28. C. M. più alto che
  29. C. M. di che l’autore si comprende
  30. C. M. questa grazia dicessi: Per li meriti
  31. C. M. si vegga et intenda; e però dice. che ’l parlar;
  32. C. M. meriti, ch’elli sia venuto vivente ancora a vedere la gloria de’ beati, la quale di po’ la sua morte ancora dè vedere. Seguita.
  33. Abiamo, più conforme al latino habemus; ma oggi col b raddoppiato: abbiamo. E.
  34. Raia; raggia, da raiare, pronunziato a mo’ de’Trovatori.
  35. C. M. cognosciuta;
  36. C. M. lo numero aggregato;
  37. Pandi; dal pandere lalino. E.
  38. C. M. La voce tua sì chiara, balda e lieta; cioè colla voce tua sì chiara, ardita
  39. C. M. avere lo parlare nella voce; cioè fermezza, altezza e sonorità: imperò che la fermezza prima significa sicurtà; e poi dè avere fermezza e non tremore, che significa paura; e secondo, altezza che significa ardire che si mostra nell’altezza: imperò che la bassa voce significa diffidenzia; e terzio, sonorità che significa letizia: imperò che se fusse piangulosa sarebbe tristizia; e, veduto
  40. obiectae forinsecus qualitates,
  41. C. M. con mancamento sono tutte le similitudini per rispetto di questa; cioè che la volontà e l’apprensione in Dio è equa le in tanto che nessuna cosa è sì equale; e così ne’ beati che apprendeno quanto vuole Iddio e vogliano quello che vuole Dio. E però come Dio può ciò che vuole e tanto quanto vuole; così li beati quanto volliano possano e quel che volliano, e la loro volontà è modificata: imperò che non volliano se non quello che vuole Dio che voglino. Ma vollia;
  42. C. M. di pari; però vi giunge vivo, Che,
  43. C. M. tempo per quel che seguita, perchè fu molto superbo, benchè al line se ne pentisse, Mio fillio
  44. C. M. lo monte con gravi pesi addosso, Tu;
  45. C. M. a stare in quello primo e poi nelli altri sei gironi, per purgarsi
  46. Non è da lasciare inosservato questo mancare in senso transitivo di abbreviare, diminuire, raccorciare, scemare ec. E.
  47. C. M. era in buono stato frugale e virtuoso, dicendo: Fiorenza;
  48. C. M. dcclxxii
  49. C. M. goviti
  50. C. M. edificazione;
  51. C. M. Totila
  52. C. M. dxx
  53. C. M. Magno, non grande come prima per imprompto di cittadini.
  54. Nel Cod. Laurenziano plut. 42 n. 46. è aggiunto: — Questa badia è San Piero Scheraggio allato al palazzo de’ signori Priori —
  55. C. M. maritare come si teme al tempo presente; per la qual cosa spaurisceno li padri, quando odeno che sia nata la filliuola: imperò che incontanente pensa che liela verrà tosto maritare; et ecco
  56. Abbassi; abbassati, participio abbreviato, come confesso, trovo per confessato, trovato ec. E.
  57. C. M. suo abavo, seguitando
  58. C. M. case, che sono a quella porta che si chiamò
  59. C. M. se era bene imbendata, La donna
  60. C. M. prima, quando sono picculini li fanciulli, li padri
  61. C. M. diletto del parlare fanciullesco che si fa ai fanciulli, quando li addormentano nel ghieculo e procantano li loro filliuoli e pronosticano loro buoni vaticini. L’altra;
  62. Camarti era ove oggi villa Camerata. E. — C. M. Camarte
  63. C. M. come lo ditto spirito suo abavo, continuando
  64. Contrata; contrada, cangiato il d in t come in imperatore e imperadore. E.
  65. C. M. nel mxv: imperò
  66. C. M. nato, acciò che fusse
  67. C. M. per resistenzia.
Altri progetti

Collabora a Wikipedia Wikipedia ha una voce di approfondimento su Paradiso - Canto quindicesimo