Commedia (Buti)/Paradiso/Canto XVI

Paradiso
Canto sedicesimo

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Paradiso - Canto XV Paradiso - Canto XVII
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C A N T O     XVI.





1O poca nostra nobiltà di sangue.
     Se gloriar di te la gente fai
     Quaggiù, dove l’affetto nostro langue,
4Mirabil cosa non mi serà mai:
     Chè là, dove appetito non si torce,
     Dico nel Cielo, io me ne gloriai.
7Ben se’ tu manto, che tosto raccorce,1
     Sì che, se non s’appon di die in die,
     Lo tempo va d’intorno co le force.
10Dal voi, che Roma prima sofferie,
     In che la sua famillia men persevra,2
     Ricominciaron le parole mie;3
13E Beatrice, che era un poco scevra,4
     Ridendo parve quella che tossio
     Al primo fallo scritto di Ginevra.
16Io cominciai: Voi siete ’l padre mio,
     Voi mi date a parlar tutta baldezza,
     Voi mi levate sì, ch’io son più ch’io.

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19Per tanti rivi s’empie d’allegrezza
     La mente mia che di sè fa letizia,
     Perchè può sostener che non si spezza.
22Ditemi dunque, cara mia primizia.
     Quai fur li antichi vostri, e quai fuor li anni
     Che si segnaro in vostra puerizia?
25Ditemi de l’ovil di san Ioanni,5
     Quant’era allora, e chi eran le genti
     Tra esso degne di più alti scanni?
28Come s’avviva per soffiar di venti6
     Carbone in fiamm ; così vidd’io quella
     Luce risplender ai miei blandimenti.
31E come alli occhi miei si fe più bella;
     Così con voce più dolce e soave;
     Ma non a questa moderna favella,7
34Dissemi: Da quel di’, che fu detto Ave
     Al parto in che mia madre, che è or santa,
     S’alleviò di me ond’era grave,
37Al Sol Leon cinquecento cinquanta
     E trenta fiate venne questo foco
     A rinfiammarsi sotto la sua pianta.
40Li antichi miei et io nacqui nel loco,
     Ove si trova pria l’ultimo sesto
     Da quei che corre a vostro annoval gioco.8
43Basti de’ miei maggiori or dirne questo:9
     Chi essi fusser, et onde venner quivi,
     Più è tacer, che ragionar, onesto.
46Tutti color, ch’a quel tempo eran ivi
     Da portar arme tra Marte e ’l Batista,
     Erano ’l quinto di quei che son vivi.

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49Ma la cittadinanza, ch’è or mista
     Di Campi e di Certaldo e di Fighine,10
     Pura vediasi nell’ultimo artista.11
52O quanto fora mellio esser vicine
     Quelle genti che io dico, et al Galluzzo,
     Et a Trespiano aver nostro confine,
55Ch’averli dentro, e sostener lo puzzo
     Del villan da Gullion, di quel da Signa,12
     Che già per barattar à rocchio aguzzo!
58Se la gente, ch’al mondo più traligna,
     Non fusse stata a Cesari noverca;
     Ma come madre al suo figliuol benigna,
61Tal fatto è fiorentino, e cambia e merca,13
     Che si serebbe volto a Semifonti
     Là, dove andava l’avolo a la cerca.
64Seriesi Montemurlo ancor dei Conti,14 15
     Seriensi i Cerchi nel pivier da Crone,16
     E forse in Valdigrieve i Buondalmonti.17
67Sempre la confusion de le persone
     Principio fu del mal de le cittade,
     Come del vostro il cibo che s’appone.
70E cieco toro più avaccio cade,
     Che cieco agnello; e molte volte tallia
     Più e mellio una che le cinque spade.
73Se tu riguardi Luni et Urbisallia,
     Come sono ite, e come se ne vanno
     Di rieto ad esse Chiusi e Sinigallia,

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76Udir come le schiatte si disfanno,
     Non ti parrà nuova cosa, nè forte,
     Possa che le cittadi termine ànno.18
79Le vostre cose tutte ànno lor morte,
     Come che voi; ma celasi in alcuna,19
     Che dura molto, e le vite son corte.
82Come nel volger del Cielo la Luna20
     Cuopre e discuopre i liti senza posa;
     Così fa di Firenze la Fortuna.
85Per che non dè parer mirabil cosa
     Ciò ch’io dirò degli alti Fiorentini.
     Di cui la fama nel tempo è nascosa.21
88Io viddi li Ughi, e vidd’io i Catellini,
     Filippi, Greci, Ormanni et Alberichi,
     Già nel calar, illustri cittadini.22
91Io viddi così grandi, come antichi,
     Con quei de la Sannella quei de l’Arca,
     E Soldanieri, e Ardinghi, e Bustichi.
94Sopra la porta ch’al presente è carca
     Di nuova fellonia di tanto peso,
     Che tosto fi’ iattura de la barca,23
97Erano i Ravignani, onde è disceso
     Il conte Guido, e qualunque del nome
     Dell’alto Bellincione à possa preso.24
100Quei de la Pressa sapevan già come25
     Regger si vuole, et avea Galigaio
     Dorata in casa sua già l’elsa e ’l pome.

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103Grand’era già la colonna del Vaio,
     Sacchetti, Giochi, Fifanti, e Barucci,26
     E Galli, e quei che arrossan per lo staio.
106Lo ceppo, di che nacquero i Calfucci,
     Già era grande, e già erano tratti
     A le carole Sizi et Arrigucci.
109O quali io viddi quei che son disfatti
     Per lor superbia! e le palle dell’oro
     Fiorian Fiorenze in tutti suoi gran fatti.
112Così facean li padri di coloro,
     Che, sempre che la vostra Chiesa vaca,
     Si fanno grassi stando a consistoro.27
115La tracotata schiatta, che s’indraca28
     Dietro a chi fugge; ma a chi mostra ’l dente,29
     O ver la borsa, come agnel si placa,
118Gia venia su; ma di piccola gente,
     Sicchè non piacque a li Liberti Donato,30
     Che poi il suocer lo fe lor parente.31
121Già era Caponsacco nel mercato
     Disceso giù di Fiesuli, e già era
     Buon cittadino Giuda, et Infangato.
124Io dirò cosa incredibile e vera:
     Nel picciol cerchio s’intrava per porta,
     Che si nomava da quei de la Pera.
127Ciascun, che de la bella insegna porta
     Del gran barone, il cui nome e ’l cui pregio
     La festa di Tomaso riconforta,

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130Da esso ebbe milizia e privilegio,
     Avvegna che col popul si rauni
     Oggi colui che la fascia col fregio.
133Già eran Gualterotti et Importuni
     Et anco seria Borgo più quieto,
     Se di nuovi vicin fusser digiuni.
136La casa, di che parla il vostro fleto32
     Per lo iusto disdegno che v’ à morti,
     E posto fine al vostro viver lieto,
139Era onorata essa e i suoi consorti.33
     O Buondalmonte, quanto mal fuggisti34
     Le nozze sue per li altrui conforti!
142Molti sarebber lieti, che son tristi,
     Se Dio t’avesse conceduto ad Ema
     La prima volta ch’ a città venisti.
145Ma conveniasi a quella pietra scema,
     Che guarda ’l ponte, che Fiorenza fesse
     Vittima in su la sua pace postrema.35
148Con queste genti, e con altre con esse
     Vidd’io Firenze in sì fatto riposo,36
     Che non avea cagion, unde piangesse.
151Con queste genti vidd’io glorioso
     Et iusto ’l popul suo tanto, che ’l giglio37
     Non era in asta mai posto a ritroso,38
154Nè per division fatto vermiglio.


  1. v. 7. Raccorce; desinenza della terza persona in e, non rada presso gli antichi. E.
  2. v. 11. Persevra; persevera, come persevranza in luogo di perseveranza venne usato in un sonetto da Meo Abbracciavacca. E.
  3. v. 12. C. A. Incominciaron
  4. v. 13. C. A. Onde Beatrice,
  5. v. 25. C. A. Giovanni,
  6. v. 28. C. A. allo spirar de’ venti
  7. v. 33. C. A. Ma non con
  8. v. 42. C. A. Da quel
  9. v. 43. C. A. udirne questo:
  10. v. 50. C. A. Figghine;
  11. v. 51. C. A. vedeasi
  12. v. 56. C. A. d’Aguglion,
  13. v. 61. C. A. Fatto è tal
  14. v. 64. C. A. Sariesi
  15. v. 64. Seriesi: si serie, terminate in e per uniformità agli altri tempi, anche le voci singolari dell’ imperfetto del congiuntivo. E.
  16. v. 65. C. A. Sarien i Cerchi nel pivier d’Acone,
  17. v. 66. C. A. Bondelmonti.
  18. v. 78. C. A. Poscia
  19. v. 80. C. A. Sì come voi;
  20. v. 82. C. A. E come il volger del Ciel della Luna
  21. v. 87. C. A. Onde la
  22. v. 90. C. A. calcare,
  23. v. 96. C. A. fia giattura della
  24. v. 99. C. A. à poscia
  25. v. 100. C. A. Quel de
  26. v. 104. C. A. Giuochi, Sifanti
  27. v. 114. C. A. concestoro.
  28. v. 115. C. A. L’oltracotata
  29. v. 116. C. A. ed a chi mostra
  30. v. 119. C. A. ad Ubertin
  31. v. 120. C. A. fusse suo parente.
  32. v. 136. C. A. donde nacque il
  33. v. 139. C. A. Era inorata
  34. v. 140. C. A. Buondelmonte.
  35. v. 147. C. A. nella sua
  36. v. 149. C.M. C.A. Fiorenza
  37. v. 152. C. A. E giusto il popol
  38. v. 153. C.A. era ad asta
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C O M M E N T O


O poca nostra nobiltà di sangue ec. Questo è lo xvi canto di questa terza cantica, nel quale lo nostro autore finge com’elli con suoi dimandi incitò ancora lo detto spirito a parlare; e come elli rispuose ai suoi dimandi, manifestandoli a l’ultimo la cittadinanza nobile di Fiorenza. E dividesi principalmente in due parti: imperò che prima finge come, avuto lo cenno da Beatrice e fatto esclamazione sopra la nobilità, dimandò messer Cacciaguida prima de le sue cose et appresso di quelle de la città, e come elli li rispuose; ne la seconda, come messer Cacciaguida, continuando sua risposta, finge che li dicesse quasi di tutte le case dei gentili uomini di Fiorenza, et incominciasi quine: Io viddi li Ughi ec. La prima, che sarà la prima lezione, si divide in sei parti: imperò che per intrata del canto l’autore finge ch’elli facesse una esclamazione sopra la gentilezza 1, udito da messer Cacciaguida ch’elli era stato sua origine, e come elli era stato nobilitato per lo imperadore Currado; ne la seconda parte finge come incominciò a parlare al detto spirito, avuto lo cenno da Beatrice, adducendo una similitudine, et incominciasi quine: Dal voi, che Roma ec.; ne la terza parte finge come ’l detto spirito s’infiammò, incominciando a darli risposta ai suoi dimandi, et incominciasi quine: Come s’avviva ec.; ne la quarta parte finge come, posto fine al parlare di sè e de’ suoi, incominciò a parlare de la cittadinanza di Fiorenza e de la quantità, et incominciasi quine: Tutti color ec.; ne la quinta parte finge come toccò la cagione speziale del guastamento di tutte le città non che di Fiorenza, et incominciasi quine: Se la gente, ch’al mondo ec.: ne la sesta parte finge come toccò la cagione generale del mutamento de le cose del mondo, et incominciasi quine: Se tu riguardi ec. Divisa adunqua la lezione, ora è da vedere l’esposizione litterale co le allegoriche e morali.

C. XVI — v. 1-9. In questi tre ternari lo nostro autore finge come elli, udito parlare messer Cacciaguida de la sua milizia e de la sua morte, se ne gloriò; e però elli intrò ad esclamare contra la nobilità, dicendo che nolli serà maraviglia se nel mondo la gente se ne gloria, ch’elli essendo in cielo nel pianeto se ne gloriò, e però dice O poca nostra nobiltà di sangue: due sono le nobiltà; cioè l’ una animale, e l’altra corporale. La nobiltà animale è in ciascuno uomo, s’elli conserva l’anima sua in quella nobilità, che 2 Iddio l’à creata; ma se si parte da essa coi vizi, allora diventa vile: e come la [p. 478 modifica]nobilità de l’anima nobilita lo corpo; così la viltà dell’anima rende vile lo corpo. E però secondo l’anima l’uno uomo avanza l’altro in gentilezza; secondo lo corpo, no: imperò che tutti siamo pari; e però dice Boezio nel iii della Consolazione Filosofica: Si primordia vestra, Authoremque Deum spectes, Nullus degener extat, Ni vitiis peiora fovens, Proprium deserat ortum. Et è da notare che la nobilità animale nobilita lo corpo; ma non e converso, e la nobilità de l’anima è grande, secondo la virtù che la nobilita; ma quella del corpo è piccula: imperò che non dura, se non quanto è coniunto coll’anima che lo vegeta e vivifica; e perchè ’l sangue è sedia dell’anima vegetativa, però dice 3: La nobilità, se mansione propria debbe avere nel corpo, averla nel sangue; e per questo: imperò che del sangue si crea lo feto nel ventre de la madre, si dice: Questi è del nobil sangue, quando è nato di gentile uomo. Et è anco da notare che la nobilità animale mai non si trasfunde dal generante nel generato: imperò che Iddio la dà per sua grazia ad ogni anima che elli crea, e conservala a chi elli vuole; ma la corporale, che sta nel 4 sangue, sì, de la quale dice Boezio nel preallegato luogo: Videtur namque nobilitas esse quaedam laus de meritis veniens parentum. Ma quella dell’anima si può dire che sia una eccellenzia contratta per nascimento e conservata con virtù, c l’autore nostro 5 non parlante di questa; ma dell’altra: imperò che di quella parla et intende lo vulgo, dice: O poca nostra nobiltà di sangue; la quale bene è poca per la ragione predetta; e bene dice di sangue; a differenza dell’animale, quella del sangue sempre àe principio da maggiori generanti; ma quella dell’anima àe origine da Dio, prima quando genera l’anima pura e netta et abile a le virtù, e poi quando per grazia la conserva in essa, e da l’uomo quando per sua libertà d’arbitrio tale grazia accetta, e di questa disse Iuvenale: Nobilitas sola atque unica virtus; e però l’autore dice, quasi meravigliandosi d’essa che, ben che sia poca; pur muove l’animo a gloriarsi, et adiunge: Se gloriar dite la gente fai; cioè nominarsi e lodarsi di te, nobilità di sangue, Quaggiù; cioè nel mondo, dove era l’autore quando questo scrisse, dove; cioè nel qual mondo; l’affetto nostro langue; cioè lo desiderio nostro umano infermasi e corrompesi per le cose mondane, che tirano la nostra sensualità, Mirabil cosa non mi serà mai; cioè a me Dante non serà [p. 479 modifica]meraviglia se tu, nobiltà di sangue, benchè sii poca, fai gloriare la gente di te. Ecco la cagione, Chè; cioè imperò che, là; cioè in quello luogo, dove; cioè nel quale, appetito; cioè umano, non si torce; cioè non si piega da la dirittura, Dico nel Cielo; ecco che espone lo luogo dove elli era, quando finge che avesse questa visione, cioè nel corpo di Marte, io; cioè Dante, me ne gloriai; cioè de la nobilità del mio sangue, udito messer Cacciaguida che era stato principio de la nobilità del sangue mio. E benchè dica che fusse in cielo, quanto a la lettera, cioè nel corpo di Marte, si debbe intendere secondo la verità che non v’era se non co la mente e col pensieri; sicchè, benchè la mente fusse occupata a quel pensieri, verisimile è che qualche dolcezza di gloria lo movesse, pensando la virtù dell’antiquo suo, che fu principio de la sua nobilita, Ben se’ tu; cioè nobilità, manto; cioè mantello, che; cioè lo quale mantello, tosto raccorce; cioè manchi; usa lo colore che si chiama permutazione, dicendo che la gentilezza è mantello che tosto scorcia: imperò che, come lo mantello adorna di sopra l’uomo; così la nobilità delli antichi adorna in apparenzia l’uomo; ma non in esistenzia, se egli non à la sua nobilità, cioè de le virtù, cioè che elli sia virtuoso: e siccome lo mantello scorcia di di’ in di’; così la gentilezza, se non vi s’aiunge dell’opere virtuose di di’ in di’; e però dice: Sì che; cioè per sì fatto modo scorcia che, se non s’appon; cioè non s’aiunge a la gentilezza coll’opere virtuose, di die in die; cioè l’uno dopo l’altro, Lo tempo; cioè lo processo del tempo e la lunghezza, va d’intorno; a la gentilezza mancandola, co le force; cioè co le forfice; e sincopato per fare la rima, cioè siccome scorcerebbe lo mantello se l’omo andasse tondandolo intorno co le forfici. Seguita.

C. XVI — v. 10-27. In questi sei ternari lo nostro autore finge come, fatta la detta esclamazione de la gentilezza, elli ritornò a parlare al detto spirito: e predice al lettore lo modo col quale elli incominciò, dicendo ch’elli incominciò voi, parlando solamente a messer Cacciaguida, e non alli altri spiriti; e dimostra unde venne questo modo del parlare, cioè da’ Romani; e dice che incominciò, avuta la licenzia per lo cenno fatto da Beatrice, usando una similitudine presa de le istorie de la Tavola Ritonda, dicendo così: Dal voi; questo va a quello: Ricominciaron le parole mie; cioè le parole di me Dante ricominciarono Dal voi; cioè che, ritornando a parlare col detto spirito, incominciai: voi che; cioè lo quale voi, Roma prima sofferie; cioè in prima s’incominciò a Roma a dire, parlando ad uno, voi, che in nessuno altro luogo; e questo fu, secondo che dice Lucano nel libro quinto, quando Cesari tornò a Roma la seconda volta, quando fu fatto dittatore. E perchè rappresentava tutti li senatori e li constili e tutti gli uficiali che soleva fare Roma, quando li parlavano [p. 480 modifica]dicevano voi, avendo rispetto che, parlando a lui, parlavano al senato et a’consuli et a tutti gli altri oficiali; unde dice Lucano nel predetto luogo: Samque omnes voces, per quas iam tempore tanto Mentimur dominis, haec primum repperit aetas; e di quinde venne l’usanza che parlando ai signori, s’incominciò a dire voi, che prima ad ogni uno si diceva tu; e poi è tanto discesa questa usanza, che ad ogni piccola persona che noi volliamo onorare, diciamo voi; e però ben dice che Roma prima sofferie; cioè che si dicesse a Cesari, In che; cioè nel quale dire ad uno voi, la sua famillia; cioè di Roma, cioè li suoi cittadini, men persevra; cioè meno dura che tutte l’altre genti: imperò li Romani ad ogni uno dicevano tu, se fusse bene lo papa o lo imperadore. E Beatrice; ecco che manifesta al lettore come Beatrice li fece uno cenno, ch’elli addimandasse di quello ch’elli avea vollia di dichiararsi di messer Cacciaguida, ridendo, come fece Branguina 6 donna di Malaot a Lancellotto, quando era co la reina Ginevra tossendo; e però dice: E Beatrice; cioè la guida mia, che era un poco scevra; cioè separata da me; e bene finge ch’ella fusse uno poco separata da lui: imperò ch’elli era ora in altri pensieri, che quelli che sono ne la santa Teologia: imperò che era in pensieri di notificare in questo suo poema la sua origine e le condizoni de la sua città, che non è de la Teologia; ma fiuge che ’l faccia con cenno di Beatrice: imperò che bene permette la santa Scrittura che si faccino alcuna volta le disgressioni a le cose morali, Ridendo: imperò che con quello riso mi fece cenno, come tossendo Branguina a Lancellotto, parve quella che tossio; cioè Branguina che con messer Galeot 7 era allora, che la reina Ginevra era con Lancellotto, Al primo fallo scritto di Ginevra; cioè al primo fallo che si trova scritto nei Romansi de la Tavola Ritonda, che facesse la reina Ginevra con Lancellotto. E secondo che io òne udito dire, scritto è nei detti Romansi che la reina Ginevra donna del re Artu s’inamorò di Lancellotto, e sì per la piacevilezza sua e sì per la prodezza e bellezza sua; unde ella si manifestò al prince Galeotto e disse: lo so che tu se’ innamorato di Branguina donna di Malaot, se tu mi vuoi promettere di tenere credenza e far quello ch’io ti dirò, farò che verrai ad effetto del tuo desiderio; et elli liel promise. Allora li disse: Vedi, io sono innamorata di Lancellotto che è tuo compagno: se tu fai sì ch’io abbia mio intendimento 8, io farò, sarà che tu arai lo tuo; e Galeotto li promisse allora di farne suo potere. Et a la fine arrecate queste parti al fine desiderato, et essendo insieme la reina [p. 481 modifica]Ginevra e Lancellotto; et in altro luogo presi a mano Galeotto e Branguina, sicchè si poteano vedere, accorgendosi Branguina che Lancellotto stava stupido e timoroso e niente diceva a la reina, ella incominciò a tossire, quasi dicesse: Che fai tu? Sente che io sono con Galeotto: fa quello, per che tu se’ co la reina; e così dice che Lancellotto, preso ardire, diede compimento a la intenzior . E così dice l’autore che lo riso di Beatrice fu cenno a lui che li dovesse addimandare di quello che dubitava e voleva esser certo, e non lassasse per riverenzia, come fu cenno lo tossire di Branguina a Lancellotto che facesse quello, per che v’era, e non lassasse per riverenzia del re. Io, cioè Dante, cominciai; cioè a parlare a messer Cacciaguida mio avo terzo. Ecco che manifesta in che modo l’incominciò a parlare; cioè: Voi; ecco che incominciò da Voi, come àe detto di sopra parlando ad uno, cioè voi messer Cacciaguida, siete ’l padre mio: imperò che siete mio terzo avo, dal quale è lo mio descenso siccome da padre del padre del padre del mio padre. Voi; cioè messer Cacciaguida, mi date tutta baldezza; cioè tutta baldanza, a parlar; cioè che io parli con voi. Voi mi levate sì; cioè in altezza d’animo, ch’io; cioè che io Dante, son più ch’io: imperò che io sono duo tanto sicuro più, che io non era innanti. Per tanti rivi; cioè per tante influenzie che vengnano da voi, come li rivi da la fonte, s’empie d’allegrezza La mente mia; cioè la mente di me Dante s’empie d’allegrezza per taune influenzie di letizia che vegnano da voi, come s’empie lo stagno per tanti rivi che in esso corrono, che di sè fa letizia; cioè ch’ella si rallegra di sè medesimo; et assegna la cagione. Perchè cioè imperò che ella, può sostener; cioè la mia mente, che non si spezza; cioè ch’ella non si rompe imperò che, intrandoci tanta allegrezza quanta voi m’infondete, ella come non capace di tanta si dovrebbe rompere et ella non si rompe, e questo è quello di che ella si rallegra. Poi che à mostrato grande congratulazione al suo terzo avo, lo dimanda di quattro cose, e però dice: Ditemi dunqua; poi che io sono fatto sì sicuro e così baldo e lieto, dite a me Dante voi messer Cacciaguida, cara mia primizia; cioè lo quale siete lo primo, che nobilitaste la mia origine; per la qual cosa siete caro a me, Quai fur li antichi vostri; ecco l’una dimanda che fa l’autore al suo terzo avo detto di sopra, e quai fuor li anni, Che si segnaro in vostra puerizia; ecco lo secondo dimando 9, cioè in che datale nascè 10, Ditemi de l’ovil di san Ioanni Quant’era allora; ecco lo terzo dimando, cioè: Ditemi quanto era allora Fiorenza quando [p. 482 modifica]voi eravate garsone; et usa permutazione, colore usato da lui molto in questa terza cantica, trasmutando a Fiorenza l’ovile: imperò che si dice ovile la casa ne la quale lo pastore guarda le pecore sue la notte; così santo Ioanni Batista è guardatore de’ Fiorentini, come lo pastore de le sue pecore, e Fiorenza è lo suo ovile come è la stalla de le pecore del pastore, e chi eran le genti Tra esso; cioè dentro ad esso ovile, degne di più alti scanni; cioè di maggiore onore imperò che chi è più onorevole si suole ponere a sedere in più alto grado; cioè chi erano li cittadini più onorevili; e questa è la quarta dimanda.

C. XVI — v. 28-45. In questi sei ternari lo nostro autore finge come messer Cacciaguida, dimostrato prima grande fervore di carità, rispuose ai suoi dimandi, dicendo cosi: Come s’avviva; cioè come diventa vivo, Carbone in fiamma; cioè lo carbone del fuoco, sicchè fa fiamma, per soffiar di venti: imperò che lo soffio del vento è quello che suscita la fiamma del carbone; ecco che fa una similitudine, così vidd’io; cioè io Dante, quella Luce risplender; cioè la luce, in che era lo spirito di messer Cacciaguida, ai miei blandimenti; cioè a le mie lusinghe; e questo finge l’autore, per mostrare l’accendimento de la carità. E come alli occhi miei; cioè di me Dante, si fe più bella; cioè quella luce, cioè più splendida, Così con voce più dolce e soave; cioè che non era stata quella di prima, Ma non a questa moderna favella; cioè ma non al modo, che parlo ora io Dante, Dissemi; cioè disse a me lo detto spirito. Da quel di’, che fu detto Ave; cioè da l’Angelo Gabriello a la Vergine Maria, cioè dal di’ de la incarnazione del nostro Signore Iesu Cristo, Al parto in che; cioè nel qual parto, mia madre, che; cioè la quale, è or santa: imperò che è in vita eterna; ecco che manifesta come la madre è anco in eterna salute, S’alleviò; cioè s’alleggeritte, di me; cioè di me Cacciaguida, cioè parturitte me, ond’era grave; cioè del quale era grave et era gravida, Al Sol Leon; cioè al segno chiamato Leone, che allora si dice Sol Leone quando lo Sole è in esso, cinquecento cinquanta E trenta fiate; cioè 580 volte, venne questo foco; cioè venne questo pianeto che si chiama Marte, nel quale noi ci rappresentiamo, come è stato detto di sopra, A rinfiammarsi; cioè ad accendersi più di caldo, sotto la sua pianta; cioè sotto la pianta del detto Leone, cioè sotto lo detto segno: imperò che tutti li pianeti sono più bassi, che ’l zodiaco: imperò che ’l zodiaco è nell’ottava spera. Per questo vuol dare ad intendere che 580 volte s’era coniunto Marte col segno del Leone, essendo lo Sole in esso, sicchè s’era coniunto Marte col Sole sotto lo Leone che è casa del Sole; e questo non può avvenire in meno di due anni sicchè due volte 580 fa 1160, piochè 1160 anni erano passati da la incarnazione di Cristo a [p. 483 modifica]l’anno in che nacque messer Cacciaguida. E ben dice A rinfiammarsi: imperò che Marte è di natura ignea, calda e secca, collerica, e lo Leone è di natura ignea, calda e secca similmente. E risposto a l’uno dubbio, risponderà a l’altro, dicendo: Li antichi miei; cioè di me Cacciaguida nacqueno, et io; cioè Cacciaguida, nacqui nel loco; cioè di Fiorenza, Ove si trova pria; cioè dove prima si truova, l’ultimo sesto; cioè quello sesto, nel quale si finisce lo suo corso da quelli che corre lo palio per la festa di santo Ioanni, che è lo sesto di porta 11 Sampiero che è l’ultimo sesto di verso levante, et a la intrata di quello sesto, cioè in Mercato Vecchio dove finisce lo sesto di san Brancazio 12 e lo sesto del Duomo, et in lo sesto di porta Sampiero, detto di sopra, nacque messer Cacciaguida e li suoi antichi. E li nomi dei sesti erano questi, porta di Sampiero, porta del Duomo, porta di san Brancazio, lo sesto di San Piero Scheraggio, lo sesto di Borgo e lo sesto Oltrarno. Fiorenza anticamente 13 fu partita in sei soprascritti sesti, che l’ultimo di verso levante è quello che si chiama porta Sampiero di quelli cinque che sono di qua da l’Arno, che di là dall’Arno non è se non uno; e questo ultimo sesto è quello che si truova ultimo. Da quei che corre a vostro annoval gioco; cioè di quei che corre lo palio che si corre ogni anno per la festa di santo Ioanni, sicchè li antichi suoi et elli nacqueno nel fine del sesto chiamato lo sesto di Duomo e lo sesto di san Brancazio, cioè in Mercato Vecchio, e nacqueno nel luogo unde incomincia di verso ponente lo sesto di porta Sampiero, detto di sopra. Basti; dice messer Cacciaguida, secondo che finge l’autore14, or; cioè al presente, dirne questo; cioè, che io òne detto, che nacqueno nel luogo predetto. Chi essi; cioè di che condizione, et onde venner quivi; cioè nel detto luogo, Più è onesto tacer, che ragionar. Questo finge l’autore che messer Cacciaguida dicesse o perch’elli nol sapeva di che condizione fusseno stati et unde fusseno venuti, o perchè erano stati di vile condizione e venuti di vile luogo, sicchè lo volse tacere per non disonestare la sua origine, la quale era nobilitata in messer Cacciaguida fatto cavalieri da lo’mperadore Currado I di Soave che fu nel 1015 anni 15, et imperò anni 20 e stette in Fiorenza e fecevi molti cavalieri et andò contra l’infideli e cacciolli di Calavria, et allora fu morto il detto messer Cacciaguida: imperò che nessuno delli altri imperadori, che fussono chiamati Currado, si trova ch’andasse contra l’infideli se non lo [p. 484 modifica]primo, e che stesse in Fiorenza e facessevi cavalieri come l’autore dice. E questo è secondo Ioanni Villani fiorentino nella sua Cronica nel lib.° iv cap. xciii.

C. XVI — v. 46-57. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come messer Cacciaguida, continuando lo suo parlare, rispuose a la terza dimanda fatta da lui di sopra; cioè quanto era Fiorenza al tempo suo, dicendo così: Tutti color; cioè tutti quelli cittadini ch’a quel tempo; cioè quando li miei vennono ad abitare nel luogo detto di sopra, che fu quasi quando Fiorenza si convertitte a la fede di Cristo, che fu nel 350 da la edificazione di Fiorenza che fu innanti l’avvenimento di Cristo per 70 anni, sicchè da la incarnazione di Cristo a 280 anni si convertitte Fiorenza a la fede di Cristo, e di questo tempo intende l’autore quando dice a quel tempo eran ivi; cioè in Fiorenza, Da portar arme; cioè uomini fatti da diciotto anni in su e da 70 in giù, tra Marte e ’l Batista; cioè in quello tempo, che Fiorenza era per lassare lo culto dell’iduli e di Marte iddio de la battaglia, lo quale avevano dato loro et avevano posto la sua imagine di pietra nel tempio, dove è ora la chiesa di santo Ioanni Battista in su uno pilastro in su quattro colonne, e venire al culto di Cristo quando si tolse la detta imagine del detto tempio, e puosesi in su una grande torre di Fiorenza, e lo detto tempio si consecrò sotto ’l vocabulo di santo Ioanni Batista, Erano ’l quinto; cioè la quinta parte, di quei; cioè cittadini, che; cioè li quali cittadini, son vivi; cioè ora che corre 1300, sicchè saputo lo numero di quelli a quel tempo, cioè 1300, erano vivi, si saprebbe lo numero di quelli che furno nel 280. E che s’intenda del 1300 chiaro è che l’autore finge che allora avesse questa visione, la mattina de la notte del venerdì’ santo sopra lo sabbato santo, come è stato dimostrato di sopra; e, secondo dice Ioanni Villani ne la sua Cronica, li cittadini erano allora più di xxx mila, e distrettuali più di lxx mila, sicchè pilliando lo quinto, sarebbono stati li cittadini semilia, e distrettuali, benchè di questi non faccia menzione, ora sarebbono stati quattordici milia distrettuali. Et ora vuole dimostrare che quelli meno erano mellio che gli assai, che sono avale; e però dice: Ma la cittadinanza; cioè la congregazione dei cittadini di Fiorenza, ch’è or; cioè la quale ene a vale, mista; cioè meschiata, Di Campi; cioè dei contadini, che sono venuti a questo tempo e fatti cittadini di Fiorenza, di quella villa che è presso a Fiorenza che si chiama Campi, e di Certaldo; cioè delli terrieri di Certaldo,che è uno castello presso a Samminiato et a Sangimignano, e di Fighine; cioè e de terrieri di Feghino, che è uno Castello posto nel Mugello, venuti ad essere cittadini di Fiorenza, et essenti cittadini di Fiorenza ora con quelli meschiati che furno antichi cittadini di Fiorenza, [p. 485 modifica]Pura; cioè senza mesculamento di nuovi cittadini vediasi; si vedeva la cittadinanza di Fiorenza, nell’ultimo artista; cioè infine alli ultimi artefici che v’erano: allora erano tutti cittadini fiorentini de la città; e dice nell’ultimo artista, quasi dica: Non che nei gentili uomini e grandi popolari; ma ancora nelli infimi artefici non era mescolanza nessuna a quel tempo di contadini. O quanto; e perchè la mescolanza àe fatto mala pruova, però finge l’autore ch’elli esclami: O quanto fora; cioè sarebbe, mellio; cioè per la città di Fiorenza, esser vicine; cioè a la città di Fiorenza, Quelle genti che io dico; cioè Gampigiani, Certaldini e Feghinesi, et al Galluzzo; questo è uno luogo presso a Fiorenza, Et a Trespiano; anco questo è luogo presso a Fiorenza nel contado, aver nostro confine; cioè confinare nel contado et aver lo contado per vicino, innanti che averlo per contado e avere sì fatti cittadini dentro, chenti sono stati del contado, che, benchè nomini pure quelli tre, intende tutto lo contado, che Fiorenza fu nel principio di Romani cittadinata e poi di Fiesolani, e questi feceno buona città; ma poi li contadini meschiati coi cittadini guastorno la cittadinanza e li buoni costumi; e però dice: Ch’averli dentro; cioè ne la città sì fatti cittadini, venuti del contado, e sostener lo puzzo; cioè lo fastidio, la superbia e lo male costume, Del villan da Gullion; questo fu messer Baldo da Gullione, lo quale al tempo de l’autore minacciava ogni uno e tiranneggiava ne la città, di quel da Signa; questo fu messer Fazio da Signa, che anco tiranneggiava la città e rivendeva le grazie e l’offici del comune, Che già per barattar à l’occhio aguzzo! Dell’uno e dell’altro intende, che rivendevano le grazie e li offici del comune: infine al tempo, che l’autore finse d’avere questa visione, erano acuti a barattare lo comune. Seguita.

C. XVI — v. 58-72. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come messer Cacciaguida, continuando lo suo parlare, dimostra come erano mellio quelli pochi, che quelli d’ora che sono assai; et unde è proceduta la confusione de la cittadinanza di Fiorenza; et al fine conchiude che tal confusione è cagione del guastamente de le cittadi, dicendo cos Se la gente ch’al mondo più traligna; questi sono li cherici de la santa Chiesa, cioè papi, cardinali, vescovi et arcivescovi che governano la santa Chiesa, li quali più stralignano da loro principio che gente che sia: imperò che loro principio fu santo: imperò che santo Piero e li Apostoli e li Discepoli furno tutti santi e spirituali, e questi che sono ora prelati sono fatti come noi sappiamo, sicchè ben si può dire, tralignino 16 che li altri Non fusse [p. 486 modifica]stata a Cesari noverca; cioè non fusse stata aspra allo imperadore di Roma, come è la matrigna al figliastro, Ma come madre al suo figliuol benigna; cioè avesse trattato lo ’mperadore benignamente come fa la madre lo figliuolo, la quale, perchè 17 elli fallisca, noll’accusa sempre al padre, riprendelo da sè a sè e non publica li suoi falli, anco sempre lo ricuopre et accrescelo in onore quanto può; e così avesse fattola Chiesa a l’imperadori, e non gli avesse scomunicati e perseguitati e publicati eretici, lo imperio sarebbe stato potente et arebbe difeso le cittadi d’Italia, e sarebbono stati li abitatori de le ville e castelli sicuri e le cittadi sicure 18, sicchè non serebbono curati li cittadini a preliare: imperò che l’uno non arebbe fatto guerra all’altro, nè le genti armigere non arebbono scorse le contrade, faccendo ricomperare le comunanze come vanno oggi: imperò che lo’mperadore arebbe difeso l’Italia e mantenuto ogni uno in pace et in buono stato, e le ville non sarebbono state rubbate e così li luoghi poco potenti serebbono stati siguri e non sarebbono li abitatori di quelli venuti ad abitare a la città, come sono venuti per le guerre. Tal; cioè sì fatto uomo, fatto è fiorentino; cioè fatto cittadino di Fiorenza, e cambia e merca; cioè tiene banco e fa mercatanzia, Che; cioè lo quale, si serebbe volto a Semifonti; questo era uno castello molto forte, lo quale fu disfatto da’Fiorentini nel 1202, e così lo castello di Combiati nel contado di Fiorenza, cioè sarebbe ito a stare et abitare quine, Là dove; cioè al qual luogo, andava l’avolo; cioè suo, a la cerca; cioè col panieri o col somieri vendendo le merce, come vanno per lo contado li rivenditori: di cui dica non ò trovato; ma certo è che di qualche grande e nominato cittadino intese qui l’autore. Seriesi Montemurlo; questo è uno castello nel distretto di Fiorenza, lo quale li Fiorentini levorno ai Conti dei quali era: la qual cosa non sarebbe stata fatta se lo imperio avesse avuto potenzia: imperò che non arebbe lassato fare iniuria da’Fiorenlini ai Conti, nè dai Conti ai Fiorentini, sicchè ciascuno sarebbe stato ne’termini suoi, ancor dei Conti; dei quali era prima. Seriensi i Cerchi; che è uno casato di Fiorenza, nel piever 19 da Crone; questo è uno pievieri 20 nel contado di Fiorenza, unde venneno li Cerchi ad essere cittadini di Fiorenza, li quali si sarebbeno stati quine, se non fussono venute le guerre e le rubbarie, E forse in Valdigrieve i Buondalmonti; questo è anco uno casato di Fiorenza, che vennono da uno castello che era in Valdigrieve che si chiamava Montebuono, e però furno chiamati Buondalmonte, cioè da Montebuono: ebbono anco più castelli ne la detta [p. 487 modifica]contrada et erano cattani 21, gentili uomini: nel 1135 andorno li Fiorentini ad oste al detto castello et ebbenlo a patti che si disfacesse, perchè li detti gentili uomini ricoglievano passaggio da chi passava per la strada sotto lo detto castello. Sempre la confusion; cioè lo meschiamento, de le persone; cioè de le persone di diversi luoghi, Principio fu del mal de le cittade: imperò che non s’ accordano insieme, e di quine viene la divisione e la discordia, per la quale si disfanno le cittadi, Come del vostro; cioè come è cagione del vostro male, cioè di voi uomini, cioè de le infermitadi che voi avete, il cibo che s’appone; cioè che s’aggiunge a quello che è mangiato prima: imperò che impaccia la digestione, e così fa corrompere lo cibo che era incominciato a smaltire, e convertirsi in mali omori; unde poi si generano le infirmitadi e seguitane alcuna volta la morte; e così addiviene ne le cittadi per li nuovi uomini che vi s’appongnano, che metteno divisioni e discordie, e guastanosi le cittadi et alcuna volta si disfanno; e quanto maggiore è la città, tanto più tosto addiviene: imperò che è più superba e mettesi ai pericoli più abbandonatamente. E però dice l’autore, fingendo che lo dica messer Cacciaguida: E cieco toro più avaccio 22 cade, Che cieco agnello: imperò che ’l cieco toro per la sua fortezza impazza e non sta in posa e però cade, e l’agnello si sta in pace e però non cade; e così le piccole cittadi si stanno ne la sua pace e durano, le grandi per la superbia non sanno stare in pace e pericolano, e molte volte tallia Più e mellio una; cioè spada, che le cinque spade: assai volte addiviene che uno cavalieri, che sia con buono animo a la sua città, fa più co la sua spada danno ai nimici, che non fanno cinque altri che non siano con quello buono animo. E questo dice, per tollier via l’argomento di molti che diceno che la moltitudine vince; unde si dice proverbialmente: Iddio aiuta li poghi; ma li più vinceno: imperò che alcuna volta addiviene che vinceno li meno, quando sono bene uniti ad uno volere, sicchè la moltitudine non è da essere desiderata, se non da uno animo e d’uno volere; ma rade volte si trova che moltitudine abbia concordia: imperò che si dice: Ubi multitudo, ibi confusio; et a presso ancora le schiatte non durano, nè le cose del mondo, come dirà di sotto.

C. XVI — v. 73-87. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come messer Cacciaguida fece una antipofora, innanti che rispondesse al quarto dimando fatto da lui disopra; cioè: Chi erano li maggiori cittadini in Fiorenza al tempo suo, li quali conterà ne la lezione di sotto. Et è antipofora, quando si risponde a l’obiezione che fare si potrebbe innanti che si faccia, e così fa qui: imperò che [p. 488 modifica]quelli, che conterà per grande parte, non v’erano al tempo suo, cioè di Dante. Poteva 23 dire Dante: Questi, che voi contate, non ci sono. A che può rispondere: Elli sono venuti meno 24, e però non ti meravilliare se non vi sono: imperò che le cose umane e gli uomini vegnano meno; e però: Se tu; cioè Dante, dice messer Cacciaguida, riguardi Luni; questa fu una antica città posta in su la marina a le fine di Toscana, in verso ponente allato a la foce de la Magra presso al monte che si chiama il Corbo 25, et era in piano e fu antica città, e fu disfatta perchè una donna d’uno grande signore, che vi passava con essa, li fu tolta con nuovo e mirabile inganno alloppiata, sicchè parve morta, e data a la sepultura fu fatta tornare in vita, poi che lo signore si fu partito: ma, saputosi poi da quel signore, vi venne con grande esercito e disfece la detta citta, e rimenòsene la donna sua; la quale città mai non si rifece poi, perchè l’aire v’è infermo e corrotto, et anco per la moltitudine de le serpi che v’abbondono e sonovi ancora: unde si dice: In misera Luna morti nox sufficit una; cioè chi vi sta pure una notte è morto, et Urbisallia; questa fu una città antica, posta nella Marca, la quale è ora disfatta, e credo che sia venuta meno per l’aire corrotto, Come sono ite; cioè che sono disfatte ora, cioè al tempo che l’autore finge d’avere avuta questa visione, che fu nel 1300, erano state disfatte di grande tempo inanti, e come se ne vanno Di rieto ad esse; cioè a Luni et ad Urbisallia, se tu, Dante, ragguardi come se ne vanno di rieto, Chiusi; questa città è nel Patrimonio molto antica, quasi disfatta, tra Siena e Perogia, la quale già fu città reale di grande affare: quine fu lo re Porsenna, che ricevette lo re Tarquino, et andò ad assediare Roma, per rimettervelo. e Sinigallia; questa è anco città, venuta quasi meno in Romagna, e però dice che se ne vanno di rieto a quelle due disfatte, perchè l’uno anno vegnano più meno che l’altro, Udir come le schiatte si disfanno; cioè li casati e le schiatte delli omini vegnano meno, Non ti parrà; cioè a te Dante, nuova cosa, nè forte; lo venir meno le schiatte delli omini; et assegna la cagione: Possa che le cittadi termine ànno; et ene argomento che si pillia da minore; cioè se quello, che pare che meno debbia essere, è; dunqua quello, che più pare che debbia essere, è; meno pare che debbia essere che le cittadi vegnino meno, e pur vegnano meno; adunqua le schiatte delli omini, che più pare che debbiano venire meno che le cittadi, vegnano meno, anco argomenta dicendo: Le vostre cose; cioè di voi uomini, tutte ànno lor morte; cioè loro fine, Come che voi; cioè come voi uomini, come dice Boezio nel [p. 489 modifica]preallegato luogo, libro secondo de la Consolazione Filosofica: Constat aeterna, positumque lege est, Ut constet genitum nihil; e Salustio ne l’Iugurtino: Omnia orta occidunt, et aucta senescunt, — ma celasi in alcuna; cioè la morte s’appiatta in alcuna cosa, come ne la città; e però, Che; cioè la qual cosa, dura molto; cioè in suo essere, e le vite; cioè umane, son corte; sicchè non vedeno lo fine de le cose, che naturalmente durano grande tempo. Ecco la città di Pisa è durata grandissimo tempo, incominciata di tanto tempo innanti a Roma, che diede, secondo Virgilio, mille uomini ad Enea troiano contra Turno, et anco dura per la grazia di Dio; e, secondo ch’elli dice, li suoi edificatori venneno di Grecia dal fiume chiamato Alfeo, appresso lo quale erano due cittadi famose appresso li altori 26; cioè Pisa et Elide, e di quine venne Pelope edificatore di Pisa; unde dice Virgilio: Tertius 27, ille hominum, Divumque ... Mille rapit densos acie, atque horrentibus hastis 28, Hos parere 29 jubent Alpheae ab origine Pisae: imperò che ’l nome venne da quella Pisa 30, ch’era in Grecia al fiume Alfeo. Come nel volger del Cielo la Luna; ecco che arreca una similitudine; cioè che così fa mutabilità la fortuna in Fiorenza, come fa la Luna in mare. La Luna, come diceno li Astrologi, è attrattiva de le cose umide: e però, quando ella esce fuora, attrae a sè lo mare e fallo ingrossare e crescere, infine che è al mezzo del nostro emisperio; e poi, come incomincia a descendere in verso lo suo occaso, incomincia a diradare e segregare li vapori dell’acqua marina ingrossati, e così manca tutta via lo mare, infine ch’ella viene all’orizzonte; poi. com’ella si leva nell’altro emisperio, così fa ingrossare li vapori dell’acqua salsa e crescere lo mare infine che viene al mezzo; e poi, com’ella incomincia a descendere, incomincia a diradare li vapori dell’acqua salsa, e così manca infine ch’ella viene all’orizonte dell’altro emisperio; sicchè due volte cresce e due volte manca tra die e notte l’acqua del mare; e questo crescimento e questo mancamento non è parimente in ogni luogo, nè in ogni tempo per molte altre cagioni che vi concorreno: chi le vuole sapere legga la Metaura d’Aristotile; e però dice lo testo Come la Luna; che è l’ultimo pianeto in verso la terra, nel volger del Cielo; cioè primo mobile, che fa una revoluzione in 24 ore, e tutti li pianeti fa girare intorno a la terra nel detto spazio, Cuopre; cioè quando ella monta al mezzo de l’emisperio, e discuopre; cioè quando ella cala in verso l’orizonte, i liti; cioè le piagge del mare, senza posa; cioè che mai non cessa questo crescere e mancare: imperò ch’ella [p. 490 modifica]sempre gira, Così fa di Firenze; cioè de la vostra città, la Fortuna; che sempre o ella fa crescere, o ella fa mancare. Per che; cioè per la qual cosa, non dè parer mirabil cosa; cioè a te Dante, Ciò ch’io; cioè quello, che io Cacciaguida, dirò degli alti; cittadini, Fiorentini; cioè di quelli che furno degni di più alti scanni, come fu dimandato di sopra da l’autore, Di cui; cioè de’quali, la fama è nascosa; cioè è appiattata, nel tempo: imperò che lo tempo àe recato a fine loro e la loro fama; unde Lucano: Omnia carpit aetas. E qui finisce la prima lezione del canto xvi, et incominciasi la seconda.

Io viddi li Ughi, ec. Questa è la seconda lezione del canto xvi, ne la quale l’autore nostro finge che messer Cacciaguida, continuando lo suo parlare, fatta l’escusazione a l’obiezione che si poteva fare da Dante di sopra, racconta li antichi, alti e degni d’onore cittadini di Firenze che furno al tempo suo, secondo la quarta dimanda di Dante. E dividesi questa lezione in parti sei: imperò che prima finge ch’elli racconti quelli che furno abitanti in diverse parti di Fiorenza, come diremo quando sporremo lo testo, e racconta alquanti insieme; ne la seconda finge che ne racconti un’altra brigata, et incominciasi quine: Quei de la Pressa ec.; ne la terza finge che ne racconti un’altra brigata ancora, et incominciasi quine: Così facean li padri di coloro ec.; ne la quarta parte anco continua lo suo parlare d’un’altra brigata, faccendo menzione de’Peruzzi, et incominciasi quine: Io dirò cosa ec.; ne la quinta parte fa menzione de’ Buondalmonti e d’altri cittadini antichi ancora, et incominciasi quine: La casa di che parla ec.; ne la sesta parte conchiude lo suo parlare, et incominciasi quine: Con queste genti ec. Divisa adunqua la lezione, ora è da vedere l’esposizione del testo colle allegorie e moralitadi che vi saranno, che poche saranno: imperò che tutta questa lezione è istoriale: imperò che conta li casati di Fiorenza.

C. XVI — v. 88-99. In questi quattro ternari lo nostro autore finge che messer Cacciaguida, continuando lo suo parlare, incominciasse a contare li grandi cittadini che furno al suo tempo, cioè nel 1015, dicendo così: Io; cioè Cacciaguida. viddi li Ughi; questi furno grandi et antichissimi cittadini, e furno fondatori de la Chiesa di santa Maria a Ughi, e tutto il poggio di monte Ughi fu loro, et oggi sono spenti, e vidd’io; cioè io Cacciaguida, i Catellini; questi anco furno antichissimi cittadini, et al presente non è ricordo di loro: dicesi che i figliuoli di Tieri nati fussono di loro legnaggio, Filippi; questi furno antichi cittadini, grandi e possenti et abitavano in mercato nuovo, ora sono nulla, Greci; questi anco furno grandi cittadini, e fu loro tutto lo borgo dei Greci, oggi sono spenti, salvo che n’è in Bologna di loro lengnaggio, Ormanni; [p. 491 modifica]questi abitorno dove è oggi lo palagio del populo. et oggi si chiamano Foraboschi, et Alberichi; cioè vidd’io Cacciaguida: questi furno grandi cittadini, e furno loro le case di santa Maria Alberighi da casa Donati, et oggi niuno è di loro, Già nel calar; cioè già nel descendere de la loro felicità io Cacciaguida viddi li sopra nominati, illustri cittadini; cioè chiari e famosi cittadini sappi che dovevano essere quando erano in stato, che allora che calavano anco erano illustri cittadini. Io; cioè Cacciaguida, viddi così grandi, come antichi; cioè cittadini 31, E Soldanieri; questi furno ancora antichi e grandi cittadini, e Ardinghi; questi ancora viddi grandi come antichi, et abitavano in orto san Michele, e Bustichi; ancora viddi grandi come antichi, Con quei; cioè con quelli cittadini, de la Sannella; che erano così chiamati, quei; cioè quelli cittadini, de l’Arca; cioè che erano chiamati quelli de l’Arca viddi ancora così grandi, come antichi nel quartieri di Sanbrancazio. Sopra la porta; questa è la porta di Sanpiero, ch’al presente è carca; cioè la quale porta è caricata, Di nuova fellonia; cioè di nuova malizia e falsità, di tanto peso; cioè la detta nuova fellonia era nel 1300, Che; cioè 10 quale peso, tosto fi’ iattura; cioè fi’ perditura e danno, de la barca; cioè de la schiatta loro: questi nuovi felloni abitatori di quella porta furno li Bardi, secondo che io òne trovato, Erano i Ravignani; questi furno molto antichi e grandi cittadini, et abitorno insù la porta di Sanpiero, e le loro case furno poi dei conti Guidi da Modilliano, discesi de’ Ravignani per la contessa Gualdrada, figliuola che fu di messer Bellincione Berti di Ravignano, che fu donna dell’antico conte Guido, e poi furno dei Cerchi e poi delli Bardi, come detto è, onde; cioè dei quali Ravignani, è disceso il conte Guido; cioè novello, non lo vecchio, dal lato di madre, come detto è, e qualunque del nome? Dell’alto Bellincione; cioè di messer Bellincion Berti, à possa preso: imperò che li discendenti si nominorno Bellincioli 32; ma ora al tutto sono venuti meno.

C. XVI — v. 100-111. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come messer Cacciaguida, continuando suo parlare, racconta delli altri grandi cittadini che ebbe Fiorenza al tempo suo, oltra quelli che sono contati di sopra, dicendo: Quei de la Pressa; questi furno grandi et antichi cittadini, et abitorno nel sesto de la porta del Duomo, et erano gentili uomini, et erano chiamati et erano eletti officiali a reggimento de le terre vicine; e però dice: sapevan già come Regger si vuole; cioè si vuole governare col reggimento li popoli e le terre in ragione et iustizia, et avea Galigaio; [p. 492 modifica]cioè Galigaio, che fu antico c grande cittadino al tempo mio e gentile omo, aveva in casa sua chi era già fatto cavalieri; e però dice: Dorata in casa sua già l’elsa e ’l pome; cioè aveva la spada col pomo e coll’elsa dorata, come ànno li cavalieri, ne la casa sua; cioè qualche suo descendente, e fu chiamato lo casato de’ Galigai, e furno del sesto di porta Sanpiero. Grand’era già la colonna del Vaio; ora dice delli Pigli, che furno stratti di casa i Cosi 33, e non erano troppo antichi cittadini; ma erano già venuti suso et abitavano nel sesto di porta Sanpiero, e facevano per arme una colonna di Vaio nel campo vermiglio; e però per l’arme li discrive dicendo: Già era grande la colonna del Vaio; cioè li Pigli, che ànno per arme la colonna del Vaio nel campo vermiglio, Sacchetti; cioè quelli del casato Sacchetti già erano grandi ancora, cioè al tempo mio: questi anco furno grandi et antichi cittadini et abitaro nel sesto di porta Santa Maria, Giochi; cioè quelli di quel casato, che era chiamato Giochi, già erano grandi, cioè al tempo mio: questi abitorno in porta Sampiero, Fifanti; cioè quelli del casato Fifanti anco erano già grandi al mio tempo: questi anco furno grandi cittadini, et abitorno nel sesto di Sanpiero Scheraggio che è in porta Santa Maria, e per altro nome chiamati Bogolesi, e Barucci; cioè quelli del casato Barucci già erano grandi al tempo mio et abitorno nel sesto di porta di Duomo, e Galli; cioè quelli del casato chiamato Galli già erano grandi al tempo mio et abitorno nel sesto di Sanpiero Scheraggio di porta Santa Maria, e quei che arrossan per lo staio; cioè ancora erano grandi al tempo mio li Tosinghi, dei quali uno fu posto sopra la biada del comune, e defraudò molto grano, faccendo levare a lo staio una doga; unde saputo, fu svergognato e sempre fu rimproverato a quelli del suo casato, sicchè sempre n’ebbono vergogna; e però dice: e quei che arrossan; cioè si vergognano, per lo staio; fraudato quando è loro rimproverato, e di questo fu fatto menzione ne la seconda cantica nel canto xii, quando disse: Per le scalee, che si fero ad etade, Ch’era siguro il quaderno e la doga; e furno questi uno lignaggio, cioè Visdomini; ma partittesi uno da loro per una donna che ebbe nome Tosa, e quinde derivò lo nome Tosinghi, la quale prese per donna e venne ad abitare nel sesto del Duomo. Lo ceppo, di che nacquero i Calfucci Già era grande; cioè al tempo mio di messer Cacciaguida, secondo la fizione de l’autore: Calfucci furno gentili omini, grandi cittadini et abitorno nel sesto di porta Sampiero, e già eran tratti A le carole; cioè a le vie mastre e principali de la città, Sizi et Arrigucci; questi sono due casati che abitorno nel sesto di porta [p. 493 modifica]di Duomo; ma abitavano prima in luogo non sì onorevile, poscia vennono alle vie mastre, a le carraie più onorevili; però dice che già al tempo suo erano tirati A le carole; et altri dice che carole 34 sono le sedie de’ consoli; sicchè vuole dire che già erano tirati a l’onore del consulato. O quali io viddi quei che son disfatti; finge l’autore che messer Cacciaguida esclami per muovere lo lettore a commiserazione, dolendosi de li Abbati che furno grandi cittadini al tempo suo et abitorno nel tempo loro nel sesto di San Piero; ma per loro superbia furno disfatti, sicchè al tempo che l’autore finse d’avere questa visione, cioè nel 1300, non erano nulla; e però dice: Per lor superbia! e le palle dell oro; questo dice, perchè l’arme loro erano le palle dell’oro nel campo azurro, Fiorian Fiorenze in tutti suoi gran fatti: imperò che questi in tutti li fatti del comune s’aoperavano vigorosamente e facevano grande onore a la sua città.

C. XVI — v. 112-123. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come messer Cacciaguida, continuando suo parlare, dice e racconta de li altri cittadini, dicendo così: Così; cioè come faceano li Abbati che onorovano Fiorenza, facean li padri di coloro; cioè de’Visdomini che abitorno nel sesto di porta Sanpiero, che sono padroni e defenditori del vescovo 35 di Fiorenza et ànno per usanza, quando vaca lo vescovo, di stare nel vescovile a guardare, mangiare e bere e dormire infine che entra lo vescovo; e però dice, Che; cioè li quali, sempre che; cioè quando, la vostra chiesa; cioè lo vostro vescovado, la chiesa catedrale, vaca; cioè è senza lo vescovo, Si fanno grassi: imperò che mangiano e beano bene e di buono e dei beni del vescovado, stando a consistoro; cioè stando insieme a governare lo vescovado, come sta lo papa coi cardinali a consistoro ad ordinare e disponere li fatti de la Chiesa; e con questi Visdomini furno quelli de la Tosa, detti Tosinghi, d’uno lignaggio. La tracotata; cioè più ingrandita che non meritava e che più si tenèa che non era: tracotare è errare nel quoto; quotare è ponere la cosa nel suo ordine; e però tracotato, cioè disordinato. La tracotata schiatta; cioè disordinata che si teneva più che non era, et era questa la schiatta de Cavicciuli, che s’indraca; cioè fa come draco et incrudelisce et ampia la gola, per divorare come fa lo draco, Dietro a chi fogge; cioè a chi non si ribella da loro, ma a chi mostra ’l dente; cioè chi si difenda da loro, O ver la borsa; cioè che si ricompri da loro, come agnel si placa; cioè s’aumilia, come fa l’agnello, Già venia su: imperò che montava, ma di piccola gente: imperò che non ebbe grande principio, nè grande lignaggio, Sicchè non piacque a li Uberti Donato, questo Donato era de’ Cavicciuli, e volendosi [p. 494 modifica]imparentare colli Uberti, cioè pilliare una de le loro figliuole per donna, quelli delli Uberti non volevano consentire, perchè non pareva loro onorevile parentado; ma poi lo padre de la iovana pure la diede, e però dice, Che; cioè lo quale Donato, poi il suocer; cioè lo padre de la iovana, lo fe; cioè fece lui, cioè Donato, accettandolo per genero contra la loro voluntà, lor parente: imperò che, datali la figliuola diventò affine delli Uberti. Li Uberti furno grandi gentili uomini cittadini di Fiorenza e venneno de la Mangna, et abitano 36 nel sesto di San Piero Scheraggio: li Cavicciuoli e li Donati credo che fussono una schiatta, et abitorno nel sesto di porta Sampiero. Già era Caponsacco: cioè al tempo mio, dice messer Cacciaguida: questi discese di Fiesoli e fu principio de la schiatta detta Caponsacchi, et abitorno nel sesto di porta Sanpiero in Mercato Vecchio; e però dice, nel mercato: però che si puose in Mercato Vecchio, Disceso giù di Fiesuli; questo dice, perchè Fiesoli era in sul monte, e però Disceso, e già era; cioè al tempo mio, Buon cittadino Giuda; questo è quello, unde furno detti i Giudi, che abitorno in el sesto di Sanpiero Scheraggio, et Infangato; questo è quello, unde sono detti l’Infangati, che furno ancora grandi e nobili cittadini; e però dice lo detto spirito che già al tempo suo erano buoni cittadini. Seguita.

C. XVI — v. 124-135. In questi quattro ternari lo nostro autore finge che messer Cacciaguida, continuando lo suo parlare, racconti de li altri onorevili cittadini che al suo tempo furno in Fiorenza, dicendo cosi: Io; cioè Cacciaguida, dirò; cioè a te Dante, cosa incredibile e vera; cioè che non parrà da credere; ma pure fia vera. Nel picciol cerchio; cioè de le mura di Fiorenza, innanti che si crescesse la città, s’intrava per porta; cioè per una porta, Che; cioè la quale porta, si nomava; cioè si nominava la porta peruzza; e però dice: da quei de la Pera; cioè de’ Peruzzi, li quali furno grandi cittadini, abitanti in su quella porta nel sesto di Sanpiero Scheraggio. Ciascun; cioè cittadino di Fiorenza, che de la bella insegna porta; cioè del giglio ad oro nel campo azurro, Del gran barone; cioè del re Carlo primo, che fece morire santo Tomaso d’Aquino 37, come fu detto ne la seconda cantica nel canto xx, il cui nome; cioè lo nome del quale, e ’l cui pregio; cioè e lo pregio del quale, La festa di Tomaso; cioè la festa di santo Tomaso, dottore novello d’Aquino, che si fa ogni anno, riconforta; questo dice per lo contrario: imperò che quella festa riconforta lo suo biasimo e la sua vergogna e confusione, Da esso; cioè dal re Carlo primo, ebbe milizia; cioè che fu fatto cavalieri per lui, e privilegio: imperò che fu privilegiato da lui di qualche dignità; e così mostra che facesse molti gentili [p. 495 modifica]uomini di Fiorenza lo detto re Carlo cavalieri. Secondo che io òne trovato ne la Cronica di Ioanni Villani, furno 50 donzelli, li quali lo comune di Fiorenza mandò in aiuto a re Carlo con 50 cavalieri di corredo, con 500 omini d’arme a cavallo, e per loro capitano lo conte Guido ad acquisto della Sicilia 38, Avvegna che col popul si rauni; cioè si 39 fatto populare, Oggi; cioè al tempo presente, colui che la fascia; cioè la detta arme del gillio adoro nel campo azurro, col fregio; cioè con uno fregio intorno. Già eran Gualterotti; cioè al tempo mio, dice messer Cacciaguida, questi furno grandi cittadini di Fiorenza che abitavano nel sesto di Borgo, et Importuni; similmente erano al tempo mio: anco questi furno grandi cittadini et abitorno nel detto luogo, Et anco seria Borgo; cioè lo sesto di Borgo, più quieto; cioè più riposato: imperò che non vi sarebbe stata divisione la quale poi vi fu, come si dirà di sotto, Se di nuovi vicin fusser digiuni; cioè li detti Gualterotti et Importuni, cioè di Buondalmonti che vi vennono di nuovo ad abitare di Val di Grieve, come è stato detto di sopra: imperò che questi furno cagione de la divisione, che nacque in Fiorenza dei guelfi e dei ghibellini. Seguita.

C. XVI — v. 137-147. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come messer Cacciaguida, continuando suo sermone 40, fece manifesto unde venne la divisione in Fiorenza di parte guelfa e di parte ghibellina, raccontando la morte di messer Buondalmonte, del quale fu detto di sopra nella seconda cantica, dicendo così: La casa; cioè delli Amidei, che furno grandi cittadini e gentili uomini et abitorno nel sesto di Sanpiero Scheraggio, di che; cioè de la quale, parla il vostro fleto; cioè lo pianto di voi Fiorentini, Per lo iusto disdegno: imperò che iusta cagione ebbeno li Amidei di disdegno incontra li Buondalmonti: imperò che messer Buondalmonte cavalieri, iovano di 24 anni avea preso per donna una delli Amidei, e non l’aveva ancora menata; unde, andando un giorno a cavallo da casa de’ Donati, una donna dei Donati, la cui figliuola elli vagheggiava, disse a lui: Chi avete preso per donna 41? Io vi serbava questa mia figliuola che è così bella; e mostrogliela. Elli si diliberò di prendere questa, e lasciare quella de li Amidei, e così fece. E chi dice che questo ragionamento fu la mattina, che andava a sposare quella de li Amidei; e che elli, passando da casa de’ Donati, uditte le dette parole, si resse co la compagnia sua e sposò quella de’ Donati e lasciò beffati gli Amidei; unde presono isdegno, e faccendo [p. 496 modifica]consillio coi parenti e co li amici di quel che si dovesse fare per vendicarsi, chi diceva una cosa, e chi un’altra. Lo Mosca de’ Lamberti disse: Uccidasi: cosa fatta capo à; e questo consillio si prese. E la mattina di pasqua di Surresso 42, venendo lo detto messer Buondalmonte a cavallo, vestito d’una robba bianca, iunto al Ponte Vecchio fu assalito e fu atterrato da cavallo per lo Schiatta de li Uberti, e per Lambertuccio Amidei fu ferito, e per Amerigo Fifanti li furono segate le veni 43 e morto in sul pilastro che era in piè del Ponte Vecchio, in sul quale soleva stare la statua di Marte. E fùvi ancora con loro uno de’ conti da Gangalandi; per la qual cosa tutta la città andò a romore; e questa morte di messer Buondalmonte fu cagione de le maladette parti guelfa e ghibellina in Fiorenza: imperò che tutti li grandi cittadini si partirno e divisonsi; e chi tenne coi Buondalmonti che furno capo di parte guelfa, e chi tenne co li Uberti che furno capo di parte ghibellina, e questo fu nel 1215. E questi nomi vennono de la Magna, per cagione di due grandi baroni di là, che ciascuno avea uno forte castello l’uno contro l’altro, che l’uno si chiamava Guelfo e l’altro Ghibellino, et ebbono guerra insieme, e durò tanto la guerra che tutti gli Alamanni si divisono, e l’uno teneva l’una parte e l’altro l’altra, et eziandio in corte di Roma andò la detta questione e divisesi, e chi tenne coll’una parte e chi coll’altra, e così anco si sparse in Italia; e, per la detta cagione, divisa Fiorenza. Nel sesto d’Oltrarno furono i guelfi i Nerli, benchè prima abitasseno in Mercato Vecchio, li Giacoppi detti Rossi, i Frescobaldi, Bardi e Mozi; li ghibellini nel detto sesto, li conti da Gangalandi, Ubriachi, Manelli; nel sesto di Sampiero Scheraggio li guelfi furono i Pulci, i Gherardini, Foraboschi, Bagnesi, Guidalotti, Sacchetti, Manieri, quelli da Quona consorti di quelli da Volongnano, Lucardesi, Chiarmontesi, Compiobbesi, Cavalcanti; li ghibellini del detto sesto furno li Uberti, Fifanti, Infangati, Amidei, quelli da Volongnano, Malespini, benchè poi ellino con altri legnaggi per oltraggio de li Uberti loro vicini diventorno guelfi poi; nel sesto di Borgo furno guelfi li Buondalmonti capo di parte Guelfa, i Giandonati, Gianfigliazzi, Scali, Gualterotti et Importuni; li ghibellini nel detto sesto furno li Scolari che furno di ceppo di Buondalmonti, Guidi, Galli, e Cappiardi; nel sesto di santo Brancazio furno li guelfi Bostichi, Tornaquinci e Vecchietti; li ghibellini nel detto sesto furno Lamberti, Soldanieri, Cipriani, Toschi, Amieri, Palermini, Milliorelli e Pilli, benchè parte di loro diventorno poi guelfi; nel sesto di porta del Duomo furno li guelfi [p. 497 modifica]in quello tempo Tosinghi, Arrigucci, Alli, Sizi; li ghibellini nel eletto sesto furno Barucci, cattani da Castillione e da Certino, Agolanti e Brunelleschi, poi divennono guelfi parte di loro; nel sesto di porta Sampiero furno guelfi Adimari, Visdomini, Donati, Pazzi, la casa de la Bella, Ardinghi, Tedaldi detti quelli de la Vitella; e già li Cerchi cominciavano a sallire, con tutti che fussono mercatanti; li ghibellini furno nel detto sesto Caponsacchi, Elisei, Abbati, Tedaldini, Giochi e Galligari, e molti altri grandi cittadini che poi si mutorno, chi da una parte e chi da un’altra; e però ben dice l’autore, che; cioè lo quale disdegno, v’à morti; cioè à morti voi Fiorentini: imperò che per la parte molti ne sono stati morti, E posto fine al vostro viver lieto: imperò che infine a quello tempo li Fiorentini vissero lietamente, perchè avevano pace e concordia insieme, Era onorata essa; cioè la casa de li Amidei, e i suoi consorti; cioè non solamente la casa in generale; ma anco li suoi consorti in spezialtà. O Buondalmonte; ora finge l’autore che messer Cacciaguida esclami per commiserazione contra messer Buondalmonte, che fu cagione del detto disdegno, quanto mal fuggisti Le nozze sue; cioè lassando la donna, che avei promessa, delli Amidei, per li altrui conforti; cioè per li conforti di quella donna de’ Donati, che li proferse la figliuola! Molti sarebber lieti; cioè de’ cittadini di Fiorenza, che son tristi; cioè li quali sono tristi ora, Se Dio t’avesse conceduto ad Ema La prima volta ch’a città venisti; cioè se Dio, quando tu venisti prima a stare ne la città di Fiorenza: imperò che, benchè lo casato suo fusse già dinanti in Fiorenza, molti n’erano rimasi anco come cattani e gentili uomini nel contado, dei quali fu questo messer Buondalmonte del quale è detto di sopra, che giovanetto venne del contado a stare colli altri suoi consorti in Fiorenza, avesse conceduto te Buondalmonte, ad Ema: Ema è uno fiume in Valdigrieve, nel quale messer Buondalmonte fu per affogare, quando lo passò la prima volta per venire a Fiorenza; e così s’intende: Se Dio avesse te conceduto ad Ema, cioè a quel fiume, cioè che fussi affogato e rimaso dentro, quando da prima venisti ad abitare in città. Ma conveniasi a quella pietra scema; cioè a la pietra, che era in piè del Ponte Vecchio che era scema, perchè n’era stato levato l’imagine di Marte che vi soleva stare suso, Che; cioè la qual pietra, guarda ’l ponte; cioè lo Ponte Vecchio: imperò ch’è in sul capo del Ponte Vecchio, che; cioè lo qual ponte, Fiorenza fesse; cioè divise Fiorenza: imperò che per la morte del detto messer Buondalmonte si divise Fiorenza in due parti, cioè guelfa e ghibellina; la qual morte fu fatta al capo del detto ponte in su la detta pietra: imperò che in su quella li fu levato lo capo per li nimici suoi, come detto fu di sopra; sicchè ben si può dire che ’l Ponte Vecchio dividesse [p. 498 modifica]Fiorenza, poi che la morte, fatta a quello ponte, fu cagione de la divisione di Fiorenza, Vittima; cioè sacrificio, in su la sua pace postrema; cioè in sul fine della pace di Fiorenza ben si conveniva fare sacrificio a Marte in su la pietra sua, che è iddio di battaglie: imperò che questo doveva essere principio delle battaglie cittadinesche di Fiorenza. E questa fu la cagione, per che Iddio non concedè messer Buondalmonte ad Ema quando prima venne a la città o vero lui al fiume detto di sopra: imperò che si dovea finire la pace cittadinesca et incominciare la guerra, per punire li Fiorentini che erano sì cresciuti ne la loro superbia che Iddio non li volse più sostenere, sicchè ben si conveniva fare sacrificio a Marte, poi che Marte li doveva signoreggiare. E questo finge l’autore che ’l detto spirito parli con indignazione.

G. XVI — v. 148-154. In questi due ternari et uno versetto lo nostro autore finge come messer Cacciaguida continuò e finitte lo suo parlare, dicendo così: Con queste genti; cioè le quali io òne contato a te Dante, e con altre con esse; cioè oltra queste, che io ò contate, Vidd’io; cioè io Cacciaguida viddi, Firenze 44; cioè la nostra città, in sì fatto riposo; cioè in sì fatta pace e tranquillità, Che non avea cagion; cioè Fiorenza, unde; cioè per la quale, piangesse; cioè si dolesse, o vero si lamentasse. Con queste genti; cioè le quali sono contate, vidd’io; cioè Cacciaguida, glorioso Et iusto ’l popul suo; cioè di Fiorenza, tanto; cioè glorioso et iusto, che ’l giglio; che è la ’nsegna del populo, cioè lo giglio vermiglio nel campo bianco; ma anticamente era lo giglio bianco nel campo vermiglio, Non era in asta mai posto a ritroso; cioè ne li gonfaloni che si metteno nell’aste: imperò che non erano sconfitti ne le battaglie, come sono stati poi, Nè per division fatto vermiglio; cioè non era lo gillio, che al mio tempo era bianco nel campo vermiglio, fatto ancora vermiglio nel campo bianco; e questo fu al tempo dello ’mperadore Federigo nel 1250, quando elli assediò Faenza. Erano in composizione li Fiorentini co lo imperadore che, quando facesse oste, lo comune di Fiorenza li dovesse mandare 50 cavalieri che stessono al suo servigio a le spese del comune; e pertanto, quando era ad assedio a Faenza, mandò a’ Fiorentini che li mandasseno li cavalieri che doveano; unde lo comune fece comandare ai Buondalmonti che di loro v’andassono 25 cavalieri, e così feceno comandare a li Uberti che di loro v’andasse anco 25; e li Buondalmonti si diliberorno di non andare con li Uberti sotto una bandiera 45. E saputo [p. 499 modifica]questo da li Uberti, furnone contenti; ma elessono 50 cavalieri di loro, e vennono in su la piazza del comune e feceno loro drappello e mandorno a dire ai Buondalmonti ch’elli li aspetterebbono dove elli volessono; e quelli rispuoseno che andasseno a loro posta, ch’elli andrebbono alla loro. Allora li Uberti, preso lo gonfalone del giglio bianco nel campo vermiglio, andorno a lo ’mperadore e furno bene ricevuti da lui. Li Buondalmonti, vedendo che erano iti li Uberti, feceno brigata di loro e furno 60 cavalieri; e, per esser cognosciuti divisi da li Uberti, portorno lo gonfalone del gillio vermiglio nel campo bianco, et allora prima fu fatto vermiglio lo gillio per divisione. Et, iunti nel campo e presentati a lo ’mperadore, lo imperadore dimandò: Che brigata è questa? E fu detto: La brigata del comune di Fiorenza; et elli disse era venuta inanti. Allora li fu detto che questa era un’altra brigata; e saputo lo fatto, tentò li Uberti se li volevano dare l’entrata in Fiorenza, elli li farebbe maggiori; e li Uberti rispuoseno che non voleano guastare la loro terra, ch’elli erano ben sì fatti, che per sè ben rispondrebbeno a’ Buondalmonti. Allora lo imperadore tastò l’altra parte, cioè li Buondalmonti, se li volevano dare Fiorenza, elli li farebbe maggiori dei loro inimici; ellino rispuoseno che voleano avere consillio coi suoi, che erano a Fiorenza. Et avuta la risposta da Fiorenza dai suoi del sì, tornorno a lo imperadore e disseno di sì, e mostrornoli e diernoli le lettere che aveano avuto da Fiorenza. Et allora lo ’mperadore disse che voleva avere pensieri sopra ciò, e mandò per li Uberti e disse loro: Ecco, quello, che non avete voluto fare voi, volliano fare li vostri avversari; e mostrò loro le lettere. Allora dissero li Uberti che lo farebbono eglino meglio di loro. Allora fu ordinato che tornasseno a Fiorenza, e mandò lo imperadore uno suo caporale con 600 cavalieri tedeschi con loro, e fu loro aperta la porta per li Uberti. Vedendo questo li Buondalmonti, senza essere fatto loro alcuna violenzia, si partirno de la terra, e così rimaseno li Uberti maggiori in Fiorenza. Ma Ioanni Villani dice altrementi nella sua Cronica de la cacciata de’ guelfi di Fiorenza, fatta per li ghibellini co la forza dello imperadore Federigo, la quale pone nel li.° vii cap. cxcvi, e dice che fu nel 46 1246: chi lo vuole sapere, leggala qui ve. E qui finisce lo canto xvi, et incominciasi lo xvii.

Note

  1. C. M. la gentilezza, fingendo che avendo udito la gentilezza della sua origine, elli se ne fusse gloriato essendo nel cielo di Marte; nella segonda
  2. Che; in che, maniera ellittica non istraordinaria ai classici nostrali. E.
  3. C. M. si dice: Se la nobilità dè avere mansione propria nel corpo, averla nel sangue; e perchè del sangue
  4. C. M. nel sangue si trasfonde, e di quella dice
  5. C. M. nostro, parlando della corporale secondo che parla lo vulgo, dice le parole ditte di sopra: O poca: bene è poca: però che breve tempo dura, nostra nobiltà; cioè di noi omini che ci reputiamo nobili, di sangue: questo dice, a differenzia
  6. Nella Riccardiana conservasi un codice della Tavola Ritonda, ove codesta femina è chiamata Braguina e talora Blaguina. E.
  7. Galeot, ad imitazione dei Troveri. E.
  8. C. M. io farò sì, che tu arai
  9. C. M. dimando, cioè che datale era quando nasceste, Ditemi — Nel Laurenziano già accennato è - cioè che naturale era
  10. Nascè; desinenza primitiva dall’infinito nascere. E.
  11. Porta Sampiero; soppressavi la particella di; di Sampiero. E.
  12. Brancazio; Pancrazio e così profferiva il popolo fiorentino. E.
  13. Dal Magl. si è tolto - fa partita -
  14. C. M. autore, de’ miei maggior cioè de miei antichi, maggiori si chiamano li antichi, or
  15. C. M. anni, e tenne lo imperio anni
  16. C. M. tralignino più che li altri: tralignare è prendere natura d’altro peggiore legno, e non seguire la sua pianta buona, Non fusse
  17. Perchè; benchè, quantunque. E.
  18. C. M. segure, e non arebbe l’uno vicino a l’altro occupato le suoe confine, nè gente armigere
  19. piever da pieve; e piever hanno anche nel testo e il Riccard. e il Magliab. E.
  20. C. M. pieveri del
  21. C. M. erano cittadini
  22. Avaccio; presto, innanzi, da ab ante, E.
  23. C. M. E però poteva
  24. C. M. meno: imperò che
  25. Corbo, corvo, mutato il v in b come in boce e voce. E.
  26. Altore; autore, come talvolta diceano gli antichi nostri galdio, lipera per gaudio, vipera. E.
  27. Maximus
  28. armis,
  29. parare
  30. Il nome di Pisa potrebbe anco derivare da πίσος, luogo irrigato dalle acque. E.
  31. C. M. cittadini quei dell’Area, cioè quelli che erano chiamati quelli dell’Arca nel quartieri di santo Brancazio, Con quei;
  32. C. M. Bilincioni.
  33. I Cosi; guisa ellittica, dove è ommesso il segnacaso di; a casa dei Cosi. E.
  34. Carole; curule. E.
  35. C. M. vescovato di Fiorenza che ànno
  36. C. M. abitonno
  37. C. M. dottor novello, come
  38. C. M. Sicilia; et a tutti quelli, ai quali diede milizia o dignità, diede potere portare la sua arme, meschiata con la sua in qualche divisa et in qualche modo; e però dice quel che ditto è di sopra, Avvegna
  39. Si; sia, dal latino sit. E.
  40. C. M. suo parlare,
  41. C. M. per donna? Una bertuccia. Io vi serbava
  42. Surresso; resurrezione, dal surrexit latino. E.
  43. Veni dal singolare vene, come carti, porti da carte, porte ec. E.
  44. C. M. Fiorenza; cioè la nostra città così nominata da Fiorino consule de’ Romani, che moritte combattendo Fiesuli, secondo che dice Giovanni Villanni nella sua Cronica, in sì fatto
  45. C. M. sotto una insegna.
  46. C. M. 1248:
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