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622 | i n f e r n o xxiv. | [v. 78-139] |
quale l’autor tratta del peccato, che finge che si punisce nella settima bolgia; e dividesi questa lezione in sei parti: chè prima pone come discesono del ponte, e della pena che vide nella settima bolgia; nella seconda, com’era fatta una delle tre spezie delle pene che quivi si sostengono, descrive, quivi: Et ecco ad un, ec.; nella terza manifesta con esempli e conferma quel ch’à detto, quivi: Così per li gran savi ec.; nella quarta, come Virgilio parlò a uno di quelli peccatori della settima bolgia, domandando chi era, e come Dante solicita Virgilio che domanda ancor della colpa, quivi: Lo Duca il domandò ec.; nella quinta pone quel che finge che il peccatore da sè rispondesse, quivi: E il peccator, che intese, ec.; nella sesta pone come annunziò a lui malo stato della sua parte, quivi. Apri li orecchi ec. Divisa la lezione, è da vedere la sentenzia litterale la quale è questa.
Poichè Dante disse a Virgilio che come d’in sul ponte non intendea; così non discernea guardando nella bolgia, che li piacesse di discendere in su la ripa ottava. Virgilio s’inviò in giù dal ponte, e Dante lo seguitò e giunsono in su l’ottava ripa, et allora Dante vide ciò che in essa era, e vide grandissima copia di serpenti e di sì diverse maniere, che ancora la memoria lo spaurisce. E dice che non si vanti più Libia con sua arena, che è una delle parti del mondo ove sono assai serpenti, come appare per Lucano, quando dice che Catone andò per le parti arenose, e nominane assai di quelle spezie di serpenti, delle quali ancor fa menzione l’autor nel testo. Nè ancora l’Etiopia e l’Asia, che è di sopra al mare rosso, mostrò giammai tante pestilenzie, nè si rie come quelle ch’erano nella settima bolgia: e dice che tra quella cruda e tristissima copia di serpenti erano 1 gente nude e spaventate sanza sperar pertugio, o vero occultamento, per appiattarsi: et aveano legate con serpi le mani di rietro, e ficcavano la coda e il capo per le reni, e d’inanzi s’aggroppavano 2. E mentre che Dante ragguardava questo, uno serpente s’avventò ad uno ch’era dalla sua banda e trafisselo in sul nodo del collo, e subitamente costui s’accese et arse e divenne cenere, e poi la cenere per sè stessa si raccolse e ritornò nella figura di prima, come dicono li savi che fa l’uccel Fenice, che dopo cinquecento anni s’accende nel suo nido fatto di nardo e di mirra e d’altre cose odorifere, e poichè è arso e fatto cenere, rinasce della cenere un altro Fenice e dice che non pasce, se non incenso et amomo. E fa un’altra similitudine che, come colui che cade e non sa come, o per malo spirito che lo spaventi, o per gotta, quando si leva si mira d’intorno tutto smarrito per la grande ambascia, che à avuto, e