Biografia di Frà Paolo Sarpi/Vol. II/Capo XX
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CAPO VIGESIMO.
(1609-15). Non è caso raro che una persona sia eruditissima in un dato ramo dell’umano sapere, ma il Sarpi era in tanti così profondo che non si saprebbe distinguere in quale fosse più, in quale meno. A considerare i numerosi volumi che ancora rimangono, o stampati o inediti, scritti da lui su oggetti svariatissimi: materie feudali, beneficiali, di giurisdizione; controversie di confini; affitti, livelli, juspatronati; cause singolari di laici ed ecclesiastici, fôro misto; navigazione, commercio; arginatura di fiumi, tagli di bosco, diritti di pascolo, diritti e privilegi municipali; cause di confraternite, di monache, di gesuiti, di Greci, di Ebrei, di Turchi; materie politiche di ogni genere, leghe, transazioni, concordati; leggi, consuetudini o costumi di nazioni; insomma tutti i casi infiniti che potevano occorrere nell’amministrazione interiore ed esterna di una repubblica regolata da tante e così varie leggi come era Venezia; e dove era necessaria una esatta cognizione dell’istoria, geografia, e topografia; del diritto pubblico, civile, municipale, feudale e canonico; della scienza diplomatica, de’ trattati generali e particolari; dell’agrimensura, dell’idraulica e di altre scienze: a considerare, dico, tutte queste cose e quanto per ciascuna fosse necessario di rovistare archivi, svolger pergamene, confrontare, esaminare, conciliare, dedurre principii prima di scrivere quattro righe; bisogna veramente rimanere attoniti non pure dell’attività del Sarpi, ma eziandio della prodigiosa sua memoria e della lucidezza d’idee che così raramente con questa facoltà si accoppia.
Qualunque sia l’argomento da lui trattato, si osserva dappertutto una franchezza, una padronanza della materia, come se in quella sola avesse rivolti i suoi studi. La somma facilità che aveva di colpire un oggetto sotto il suo vero punto di vista, di sottrarne gli accessorii, e di ridurlo ai termini più semplici e meno controversi; e l’altra di vestire le sue idee con forme chiare, efficaci, concise, era cagione che quello che altri non avrebbe spiegato in un grosso volume, egli il faceva in poche pagine, e con maggiore effetto e più soddisfazione, perchè la brevità dello scritto lascia più impresso nella mente il valore delle prove.
E siccome il governo veneto era, di quanti se ne conoscevano allora, quello che nella sua amministrazione procedeva con miglior ordine, non è più meraviglia se faceva così gran conto del Sarpi. Tutto era metodico in quella Repubblica; tutto si scriveva, persino le cose più indifferenti, tutto si leggeva, tutto si conservava; e la maggior parte di quelle scritture andando a far capo nel Collegio che a leggerle e a discussarle si adunava ogni mattina, brevità e chiarezza erano qualità indispensabili.
Quando al Sarpi veniva proposta una questione, egli sbozzava sulla carta l’argomento; il quale, ove contenesse più parti, le astraeva, ed opponeva a ciascuna in ischizzo le obbiezioni e le risposte: indi esaminava la materia più maturamente e la sviluppava, corredandola dei fatti necessari e con ragioni decisive. Nello stile nissuna eleganza: non proemi, non esorazioni, niente insomma ad ornamento o facondia; ma ordine, chiarezza e forza congiunta alla più severa economia di parole. Erudizione, quanto appena è necessaria; non questioni subalterne, non prove superflue; e così poco ricercato nella dicitura, che quantunque volte gli occorresse di esprimere la stessa cosa, lo faceva colle parole e frasi già usate: il che proveniva dall’arte di saper vestire nella sua mente il pensiero di que’ concetti che sono più acconci a presentarlo altrui nel suo miglior lume; e que’ concetti gli restavano talmente impressi che dovendo tornare sull’idea medesima, la produceva come già per innanzi. A lui pareva che la ricercatezza de’ vocaboli e le circonlocuzioni, che si usano a togliere le ripetizioni, se convengono a’ retori, male si addicono al filosofo che deve mirare non agli abbellimenti, ma alla sustanza.
Per quanto sieno brevi le sue scritture e lascino un campo vasto alle riflessioni del lettore, ch’egli ha l’artifizio di saper promovere, elle sono sufficienti e convincono. La sua logica è viva e stringente; e i suoi teoremi, fondati su fatti o principii che non ammettono eccezione, appariscono così chiari che si dimostrano da sè. Richiama tutti i punti storici che sono essenziali, fissa l’attenzione del lettore al principale della questione, e per conseguenze semplici lo trae a conclusioni così naturali e geometriche che non lasciano più luogo a dubbi. Ora i primi ordini del governo veneto, come il Collegio, il Senato, il Consiglio dei Dieci a’ quali andavano a far capo tutti gli affari della repubblica e che avevano così poco tempo da perdere, dovevano sommamente pregiare un consultore enciclopedico, che sparmiando loro tedio e fatica, con una scrittura che si leggeva in un ora e non di rado in pochi minuti soddisfaceva a tutte le loro domande, preveniva tutte le loro obbiezioni, presentandoli sottocchio un allegato compendioso di tutti i documenti che occorrevano al proposito, e per lo più da loro ignorati, gli metteva a filo di giudicare sanamente e con sicurezza degli oggetti in causa. Non dunque prevenzione o fanatismo, ma calcolate misure di vero interesse rendevano caro ai Veneziani un uomo, l’operosità e il sapere di cui tornavano così utili alla spedizione degli affari.
Un altro punto importante erano le pressochè continue controversie colla Santa Sede, ond’era necessario di avere un consultore teologo e canonista di specchiata religione, sì che godesse la fiducia pubblica, ma in pari tempo indipendente abbastanza da non lasciarsi corrompere dalle lusinghe curiali. E in ciò Frà Paolo non badava in viso ad alcuno, e malgrado l’estimazione generale non mancò di farsi anco in Venezia, se non nemici, almeno avversi varii patrizi e cittadini che in materie beneficiali non erano stati da lui favoriti. Su di che era così inflessibile, che il cardinale Priuli figliuolo del doge avendo ricevuto un beneficio ecclesiastico conferitogli dal papa, il che alcuni ritenevano vietato dalle leggi della Repubblica, interrogato del suo parere Frà Paolo, benchè sembri lasciare la questione indecisa fondandosi su certe ambiguità della legge, lascia però abbastanza travedere la sua opinione contraria.
Fu sempre costante della Repubblica nelle gravi questioni di Stato di consultarsi con giureconsulti, a’ quali, essendo per lo più temporanei e chiamati ad occasione, era impedito l’ingresso ne’ segreti archivi, e ricevevano i materiali dai segretari, onde era impossibile che fossero a pieno informati delle ragioni pubbliche come uno che avesse il carico espresso di studiarle: molto più in quei tempi che il bisogno era continuo stante i continui contrasti che o per ragione di feudi, o per giurisdizione di confine, o per la navigazione dell’Adriatico insurgevano ad ogni momento coll’Austria, collo Stato Ecclesiastico e con quello di Milano, coi quali la Repubblica non aveva frontiere abbastanza determinate; e più ancora per gl’incessanti attentati dei cherici sul temporale. E però si riconobbe quanta utilità ne derivasse allo Stato di avere affidato ad un uomo come era il Sarpi l’ufficio di consultore, per cui anco dopo la sua morte continuarono a stipendiarne due, l’uno pel diritto pubblico, l’altro pel canonico. Ma il Sarpi giovò ancora per un altro immenso lavoro, perocchè le scritture negli archivi giacevano senza ordine o disperse qua e là, sì che era difficile trovare ciò che faceva bisogno; ed egli invece le raccolse in ordinate rubriche, secondo le materie, con indici o sommari che le indicassero a prima vista; le quali disposte convenevolmente in appositi scaffali, i futuri consultori potevano per questa laboriosa ed utile fatica essere guidati quasi per mano a trovare l’occorrente proprio.
Ed è forse per consiglio di esso Frà Paolo che il Senato fece copiare tutto quell’immenso materiale istorico e diplomatico, e deporre in locali diversi gli originali e le copie, onde prevenire, come era accaduto altre volte, i casi d’incendio che distrussero buona parte dell’archivio. Ma con duplicate separate a questo modo, distrutti gli uni, restavano gli altri: costume che fu sempre seguitato dappoi.
Malgrado una salute cagionevole, questo frate era così infaticabile che quando fu fatto consultore tre altri giureconsulti godevano gli stessi stipendi; e morti coloro, un solo dal governo ne fu sostituito, il cavaliere Servilio Treo; e morto anco questo, trovò che a tutti poteva bastare il solo Sarpi, comechè allora pendesse verso gli ultimi della sua vita, essendo già presso agli anni 70. Per verità quest’uomo straordinario aveva in ogni occasione mostrato un così affettuoso interessamento pel bene della sua patria che pochi gli andarono del pari, nissuno lo superò. Egli ha merito tra i più illustri Veneziani che sacrificarono tutto il loro uomo al vantaggio della patria. E quantunque le repubbliche abbiano fama (benchè forse non giusta) di essere ingrate, e Venezia lo sia stato più di una volta, per rispetto a Frà Paolo non lo fu mai. In vita, tranne le ricchezze che ricusò sempre, tutto gli concesse, e dopo morto fu sì gelosa della gloria del suo Consultore, che non permise mai che circolasse ne’ suoi dominii libro alcuno contenente la più lieve detrazione al suo nome. La prudenza de’ suoi consigli provata da tanti felici successi, la sua consumatezza negli affari, un illimitato disinteresse, un’assoluta indipendenza di riguardi, lo avevano fatto l’oracolo pubblico; nè vi era cosa alcuna importante o di interna o d’esteriore amministrazione nella quale non fosse consultato e uditone il parere. Le case dei grandi, quella stessa del doge erano aperte a lui, e pochi vi erano che non si facessero un orgoglio di poterlo onorare. Il Collegio lo chiamava spesso alle sue consulte, con lui si consigliavano i Decemviri e i capi delle Quaranzie, con lui corrispondevano privatamente e si consigliavano gli ambasciatori. Egli era, per così dire, la mente dello Stato.
Pare incredibile come in una repubblica aristocratica, dove per la qualità de’ suoi ordini l’individuo aveva così poca influenza, e niente affatto un ecclesiastico, un frate, di origine plebea, abbia potuto ascender tanto che senza uscire dal suo chiostro valesse a indirizzare per diciasette anni le faccende principali di quella. Gli scrittori veneziani, sinchè fu viva la Repubblica, mossi da orgoglio aristocratico o da prevenzioni, s’ingegnarono di negargli questa prerogativa, deducendo dalle assai ristrette attribuzioni de’ consultori, che era di rispondere a’ quesiti che loro faceva il governo. Ma è un fatto costante che apparisce non pure dall’istoria, ma dagli scritti dettati da questo teologo politico. Nè il Sarpi era un consultore comune, ma stretto in intima amicizia coi maggiorenti, passando più ore del giorno in colloquio con loro, ne udiva i pensieri, svelava i propri, si componevano i disegni, si dirigevano le opinioni; ed egli prudente, avveduto, pratico, nella fiducia del governo e del popolo, se non dava il suo suffragio nei consessi, vi esercitava, il che più vale, una influenza preponderante, continua. Chè l’esercizio del potere, dove l’autorità siede nelle moltitudini, non sta nel diritto, e direi quasi nella meccanica operazione di versare una palla nell’urna, ma nel saper dirigere le mani che devono versarle.
Come scrittore, se badiamo al materiale dei suoi scritti, debbe increscere a più d’uno che molta parte di essi risguardando ad interessi temporanei e locali, siano al presente di nissuna o quasi nissuna utilità; ma se pensiamo agli effetti durevoli che ne derivarono, è certo che pochi altri hanno giovato cotanto al ben essere umano e alla religione. Perchè il lettore misuri l’immensa serie de’ beni da lui prodotti, de’ mali da lui distrutti, non ha che a richiamarsi alla memoria le cose fin qui discorse. Frà Paolo non tramandò ai posteri molti libri, ma molte verità; non tanto si occupò a scriverle, ma a ridurle in costume. Nato in un secolo pieno di superstizioni e di abusi che sotto il giogo di una mano di ferro avvilivano la specie umana, ebbe il coraggio di assaltarli di fronte, combatterli e vincerli, e preparare alle generazioni seguenti un beneficio infinito. Possono bene gli uomini di Curia sfogarsi contro la memoria di Frà Paolo, e gridarlo un empio. Giusto è il loro odio, perchè ha offesi i loro più cari interessi; e giusta è la nostra ammirazione per l’uomo che ha sgominata tanta mole di errori; chè la religione non si ammisura dall’utile che ne ricavano i suoi ministri, ma dalla somma de’ beni che fa rifluire sulla società e dal grado di giustizia e di prosperità pubblica di cui godono i popoli.
In onta alle distrazioni ingrate di Frà Paolo, fu ventura che la qualità delle sue ricerche lo portasse anco a dettar libri degni di essere tramandati ai posteri. Le controversie in materia beneficiaria durante gli anni 1609 e 1610 tra la Repubblica e la corte di Roma trassero il Consultore ad uno stadio profondo di questa imbrogliata materia, nella quale la Repubblica non aveva, come la Francia, una giurisprudenza nazionale, ma si regolava a seconda dei casi e per via di fatto. Il Sarpi avrebbe voluto trovare un principio di diritto, inviolabile, e dedotto dalla natura medesima delle cose: indagine assai pericolosa in tempo in cui la corte di Roma faceva un delitto a chiunque si ardisse di penetrare gli arcani della sua potenza, e arrogava a sè sola la facoltà legislativa di tutto ciò che ha relazione col clero.
Alcuni prima di Frà Paolo si erano arrischiati a commettersi in quel caos informe di leggi arbitrarie, ma quegli autori essendo francesi si fermarono a casi particolari della loro nazione, senza curarsi di salire alla origine e dedurne conseguenze di un uso più generale. Ciò si apparteneva ad una mente così acuta come quella del Sarpi, il quale in un libro di piccola mole ha saputo raccogliere e ordinare con notabile chiarezza tutto che importa a sapersi de’ beneficii ecclesiastici; e come nel descrivere i confini tra il sacerdozio e l’imperio spianò la via al Demarca, così nel trattare la beneficiaria precedette il Tommasini.
Quando gli abusi sono stati sanciti dai tempo, gli uomini si avvezzano a rispettarli; e quantunque ne sentano gl’inconvenienti, per non infermare i loro pregiudizi si torturano al fine di riferirli a cagioni men naturali, parendo loro impossibile che una legge tanto diuturna ed antica possa capire in sè la minima imperfezione, e molto più l’errore si abbarbica se in lui vi ha parte quello a che il vulgo dà nome di religione.
Questa verità si manifesta precipuamente nella materia dei beneficii ecclesiastici che fu per longa età l’argomento della monarchia papale, e continua ad essere il più saldo puntello della esistenza di lei e della indipendenza dei preti dal governo civile.
Avendo Gesù Cristo predicato l’amore della povertà e il disprezzo de’ beni del mondo, e veggendo come i preti che si dicono suoi ministri, e i papi che si vantano suoi vicari, già da più di mille anni hanno inventate tante arti per far denaro, si direbbe che quanto Gesù Cristo ha fatto per stabilire una religione disinteressata e celeste, altrettanto i cherici si sono adoperati per distrugger quella, e sostituirne una avarissima e degna del più sottile finanziere. Nei grossi volumi che compongono il corpo del diritto canonico, fra tanta farragine di canoni e decreti e costituzioni di papi quanti ne furono promulgati dal secolo IX a questa parte, appena qualche arido cenno si riscontra che tocchi il perfezionamento morale dell’uomo, e tutto il resto non riguarda che invenzioni per ingrandire il clero ed arricchirlo; talchè si crederebbe che la religione dell’Evangelio sia da lungo tempo abbandonata al genio vile e rapace de’ pubblicani.
Finchè Gesù Cristo visse, e’ praticò la più severa povertà; e l’amministrazione delle limosine, che egli e i suoi seguaci ricevevano dal fedeli, era commessa alle cure di Giuda. Gli apostoli per attender meglio alla predicazione, crearono i diaconi a cui fidarono particolarmente il carico delle cose temporali della Chiesa: tutto il contrario, dice Frà Paolo, di quanto vediamo fare a tempi nostri, quando al governo di queste attendono i principali prelati e l’insegnare la parola di Dio è lasciato a frati e agli infimi preti. Per più di quattro secoli i beni della Chiesa furono considerati beni de’ poveri; e i vescovi, preti e diaconi non ne erano che i tutori ed amministratori, e soltanto avevano diritto a ritrarre quanto fosse necessario al loro mantenimento. Ma verso il 470 fu introdotto nell’Occidente di farne quattro parti, e dove per lo innanzi i poveri erano i primi, secondo la nuova pratica furono collocati gli ultimi; perchè la prima parte era del vescovo, la seconda de’ preti e diaconi ed altri ministri, e la terza per la fabbrica della Chiesa che comprendeva eziandio la casa del vescovo e de’ cherici, e i ricoveri per le vedove e per gli infermi.
Erano tuttora ignote le distinzioni tra l’ordine e l’ufficio, e la residenza e non residenza: ciascuno che veniva ordinato prete incontrava l’obbligo di esercitare l’ufficio sacerdotale presso la chiesa che lo aveva ordinato; ma intorno al 600 per le guerre ed inondazioni dei Barbari molti preti o vescovi essendo scacciati dalle loro chiese, ricoveravano ad altre e per lo più alle principali quali erano quelle di Roma, di Ravenna e di Milano, dove coadiuvavano al servizio divino e da cui ricevevano il vitto; furono perciò detti incardinati, cioè attaccati a quella chiesa a differenza di quelli che vi erano ordinati: da qui il titolo di episcopi cardinales e presbyteri cardinales. Tale, secondo Frà Paolo, sarebbe l’origine de’ cardinali, benchè altri la deduca diversamente; ed io penso che a Roma e nelle altre due chiese sopraddette vi fosse differenza fra i preti o vescovi incardinati e i preti cardinali; i primi erano quelli che dice il Sarpi, ma gli altri erano i parochi principali della città, i quali componevano col vescovo il consiglio di amministrazione spirituale della chiesa. La chiesa di Milano ebbe i suoi cardinali che durarono fin verso il XII secolo, e ne sono tuttavia le reliquie i canonici mitrati di quella cattedrale detti dal volgo monsignori: i cardinali della chiesa di Ravenna esistevano ancora l’anno 1543 quando furono soppressi da una bolla di Paolo III. Quanto a’ vescovi cardinali di Roma, ricordati la prima volta da Anastasio Bibliotecario verso l’anno 769, sembra che fossero i primi e più antichi vescovi della provincia romana, cioè di Ostia, di Porto, di Selva Candida ora Santa Ruffina, di Albano, della Sabina, di Tuscolo o Frascati e di Preneste o Palestrina. In origine i cardinali non erano diversi nè diversamente vestivano degli altri vescovi o preti; ma nel 1059 per opera di Nicolò II fu rimessa in loro la elezione del pontefice che prima apparteneva a tutto il clero e al popolo, il che fu principio alla grandezza dell’ordine loro; poi nel 1244 si ebbero da Innocenzo IV il cappello rosso: fin verso il 1300 i cardinali non erano superiori ai vescovi; anzi, dice Barbosa che nissun vescovo voleva accettare il grado di cardinale prete, perchè era stimato inferiore; ma dopo Clemente V e Giovanni XXII non solo i cardinali preti, ma eziandio i cardinali diaconi furono posti innanzi a’ vescovi. E siccome quand’erano in abiti sacri andavano confusi cogli altri prelati, affine che fossero per qualche segno distinti Paolo II nel 1470 diede loro la berretta rossa, usata solamente dal pontefice, e la mitra di seta; la qual concessione essendo pei soli secolari, Gregorio XIV la estese anco ai regolari. Infine Urbano VIII nel 1630 volendo esaltare ancor più quest’ordine, trattò di aggiungergli qualche nuovo titolo; e dopo averne escogitati molti stava per chiamarli perfettissimi e vostra perfezione, ma alcuni vi osservarono una contradizione forse troppo manifesta e un non so che di satirico, per cui fu decretato che si chiamerebbero eminentissimi ed eminenze: il che fece dire a monsignor Camus vescovo di Bellay, che i cardinali avevano lasciato ai vescovi il titolo d’illustrissimo e reverendissimo come regalano i propri camerieri dei loro vecchi abiti di pavonazzo e della biancheria sporca.
Nel 1277 non vi erano che sette cardinali, venti se ne contarono nel 1331, a tempi di Leone X ascesero a sessanta, infine Sisto V nel 1586 statuì che fossero settanta, in onore dei settanta discepoli di Cristo, fra i quali quattro almeno sarebbero presi dagli Ordini regolari. Sette, come ho detto qui innanzi, erano cardinali vescovi, ma ora sono sei solamente perchè i due episcopati di Porto e Santa Rufina sono uniti in un solo; cinquanta hanno titolo di cardinali preti, benchè talora siano vescovi od arcivescovi; e quattordici sono i cardinali diaconi, sebbene alcuna volta non abbiano che gli ordini minori. Il principe Albani fatto cardinale nel 1801, si fece ordinare sottodiacono solamente nel 1823 onde poter entrare nel conclave (che elesse Leone XII) dove non entrano laici. Ma il numero dei settanta non è mai pieno, perchè i papi ne hanno sempre alcuni in petto, o lasciano altri posti vacanti per lusingare l’ambizione e lo zelo dei loro cortegiani.
I vescovi essendo diventati in Francia una dignità temporale ed avendo usurpate tutte le ricchezze della chiesa, i preti per vivere introdussero verso l’800 l’uso di farsi pagare dai laici le decime dei frutti della terra: uso che imitarono dagli Ebrei, e che poco appresso passò anco in Italia.
Intorno al medesimo tempo fu, secondo Frà Paolo, introdotto l’uso de’ precari; ed era un contratto per cui un laico donava alla Chiesa tutti i suoi beni dopo morte, e in ricompensa godeva in sua vita quelli, e il doppio tanto; o se cedeva anco l’usofrutto, riceveva di quel della Chiesa il triplo. Ma questa instituzione è molto più antica, parlandone Possidio nella vita di Sant’Agostino; e probabilmente a Roma era in uso fin dal II secolo, perchè Tertuliano ci fa sapere che i preti versavano nel tesoro della Chiesa una data somma, e acquistavano il diritto di essere alimentati a spese comuni. Da Roma passò forse nell’Africa e nelle Gallie, ed essendo a solo comodo del clero, dopo l’800 fu estesa anco ai laici: in apparenza sembrava loro vantaggio perchè dando uno ricevevano tre, ed erano anco liberati dalle sollecitudini dell’amministrazione economica; ma in effetto tornava totalmente a profitto del clero che con quei vitalizi acquistava beni immensi.
Alle decime furono aggiunte, intorno al 1065, anco le primizie «le quali, dice Frà Paolo, furono primieramente instituite da Alessandro II, imitando in ciò la legge mosaica, nella quale furono comandate a quel popolo: la quantità di esse da Mosè non fu statuita, ma lasciata in arbitrio dell’offerente: i Rabbini poscia, come S. Girolamo testifica, determinarono la quantità che non fosse minore della sessagesima, nè maggiore della quarantesima; il che fu ben imitato da’ nostri nel più profittevole modo, avendo statuito la quarantesima che ne’ tempi nostri si chiama il quartese. Determinò Alessandro III circa il 1170 che si procedesse con iscomuniche per far pagar intieramente le decime de’ mulini, peschiere, fieno, lana e delle api; e che la decima fosse di ogni cosa pagata prima che fossero detratte le spese fatte nel raccogliere i frutti: e Celestino III nel 1295 statuì che si procedesse con iscomuniche per far pagare le decime non solo del vino, de’ grani, frutti degli alberi, pecore, orti e mercanzie, ma ancora dello stipendio de’ soldati, della caccia, ed ancora de’ mulini a vento. Tutte queste cose sono espresse nelle decretali de’ pontefici romani: ma i canonisti sono ben passati più oltre, dicendo che il povero è obbligato a pagar la decima di quello che trova per limosina, mendicando alle porte; e che la meretrice è tenuta a pagar la decima del guadagno meretricio; e altre tali cose che il mondo non ha mai potuto ricever in uso».
«Posciachè la società cominciò ad essere governata dal sistema feudale, i re solevano concedere ai loro vassalli, e i grandi vassalli ai loro fedeli, terre e uomini servi, coll’obbligo di certe prestazioni che erano foderi, soldati, cavalli e il debito di accompagnare il principe alla guerra: e dare o conseguire simili possessi si diceva dare o conseguire un beneficio. I possessi della Chiesa seguitarono la condizione de’ possessi comuni, perchè i cherici gli acquistavano cogli oneri, e seguendo il costume e i patti della legislazione vigente. Per questo i vescovi e gli abati, che erano eletti gli uni dal popolo e gli altri dai loro monaci, dopo che diventarono una dignità feudale furono eletti dai principi; e l’imperatore Ottone verso il 960 introdusse l’uso di nominarli e investirli dando loro l’anello ed il pastorale. Ciò porse origine alla famosa lite delle investiture incominciata nel 1076 essendo papa Gregorio VII e imperatore Enrico IV, e durata, dice il Sarpi, 56 anni, sotto sei papi, con scomuniche d’infinito numero di persone e con morte d’innumerevoli caduti in sessanta battaglie fatte da Enrico IV e in diciotto altre fatte da Enrico V suo figliuolo: tantæ molis erat mettere il fondamento di quello edificio, perchè la lite fu composta in modo che tutto il vantaggio restò a’ pontefici.
Nel tempo che passò dal 1124 cioè dalla rinuncia delle investiture fatta da Enrico V fino al 1145, «fu quasi per tutto statuito, continua Frà Paolo, che morto il vescovo, l’elezione del successore si facesse dal Capitolo de’ canonici, e fosse confermata dal metropolitano; e morto l’abate, l’elezione fosse fatta da’ monaci, e confermata dal vescovo se il monastero non era esente, se era esente fosse confermata dal papa: gli altri beneficii che erano de jure patronatus fossero conferiti dal vescovo alla presentazione de’ padroni; gli altri tutti fossero nella libera disposinone episcopale. Restava il pontificato romano, che, escluso il principe, pareva dovesse ritornare alla libera elezione del popolo; ma nel 1145 venuto Innocenzo II a differenza co’ Romani, ed essendo da loro scacciato dalla città, egli in contracambio privò loro della potestà di eleggere il papa. Nelle turbolenze che successero per le cause suddette, molte città sollevate da’ vescovi confederati col papa si ribellarono dall’imperatore, e i vescovi se ne fecero capi, onde ottennero anco le pubbliche entrate e le ragioni regie: e quando le differenze si composero, avevano preso così fermo possesso che fu necessitato il principe a concedere loro in feudo quello che di fatto avevano usurpato; onde anco acquistarono i titoli di duchi, marchesi, conti, come molti ne sono in Germania, che restano anco tali e in nome e in fatti, e in Italia di nome solo: il che fece gli ecclesiastici ricchi di gran quantità di beni secolari: e fu aumento molto notabile non solo nelle turbolenze delle quali abbiamo parlato, ma in quelle ancora che seguirono sotto gl’imperatori svevi».
Altro aumento produssero le Crociate; in primo luogo, il papa e gli altri vescovi prendendo in tutela colle censure ecelesiastiche i beni de’ crocesegnati, acquistarono autorità di tutori e curatori di vedove e pupilli e minori; in secondo luogo molti vendevano i loro feudi ai preti onde trovar denari per recarsi nella Terra Santa. Infine ebbero origine le religioni militari, e quantunque dovesse apparir strano che fossero stabilite religioni per ammazzar gente, subentrando quelle in luogo de’ monaci e dei preti già screditati pei loro vizi, in brevissimo tempo acquistarono ricchezze grandi.
Come ho detto, anticamente non si faceva distinzione tra ordine ed ufficio, anzi era massima ricevuta che beneficium datur propter officium cioè pei servigi che il cherico prestava ai fedeli nel suo ministero ecclesiastico, ma moltiplicate fuormisura le ricchezze, e la ingordigia di possederle, dopo il 1179 cominciò la distinzione tra beneficii di residenza e di non residenza, e compatibili od incompatibili: i beneficii con obbligo di residenza erano quelli con cura di anime come i vescovati e le parochie; e furono inventati i beneficii semplici, cioè senza obbligo di residenza e col solo fastidio di godersi le rendite: erano incompatibili due beneficii della prima specie investiti in un solo individuo, il quale non poteva spezzarsi per risedere in due o più luoghi, ed era compatibile il possesso di molti beneficii semplici, o di un beneficio curato e di uno o più beneficii semplici. Ma per coprire in certo qual modo quel beneficium datur propter officium fu trovato un ripiego degno della sottigliezza romana. Era stato dato il nome di ufficio alle ore canoniche, dette volgarmente il Breviario, e così una rendita destinata al servizio ed utilità della Chiesa fu destinata a pascer l’ozio di cortegiani e data col solo obbligo di leggere ogni giorno poche pagine del Breviario.
Posta adunque la distinzione fra beneficii compatibili ed incompatibili, fu stabilita anco la massima che il papa aveva facoltà di concederne più di due se tanti non bastavano per vivere; la quale bastanza, dice Frà Paolo, «è da canonisti tagliata molto larga, perchè ne’ semplici preti dicono che comprenda il vivere non solo del beneficiato, ma della sua famiglia, de’ parenti, e per tre servitori ed un cavallo ed anco per ricever forestieri. Ma quando il beneficiato fosse nobile o letterato, oltra questo, tanto più che si uguagliasse alla sua nobiltà. Per un vescovo poi è meraviglia quello che dicono; e de’ cardinali basti il detto comune della Corte: Aequiparantur regibus».
Nel 1227 Gregorio IX promulgò il suo libro delle Decretali, fondamento della monarchia romana, e codice principale per regolare la materia de’ beneficii. Circa 80 anni innanzi, Graziano aveva pubblicato il suo Decreto, in cui raccolse ed ordinò tutte le autorità vere o false, integre o mutilate, su cui possono fondare le pretensioni de’ cherici; e quantunque quel libro fosse favorevolissimo alla Corte fu trovato da Gregorio troppo tenue; e sempre crescendo la ingordigia de’ preti, la stessa sorte ebbero le sue Decretali, a cui nel 1298 Bonifacio VIII aggiunse il libro VI, detto semplicemente il Sesto, poi Clemente V lo accrebbe delle Clementine, e Giovanni XXII delle Estravaganti, sempre peggiorando le enormità: e questi libri colle voluminose Glosse che gli accompagnarono formano il Corpo del Diritto Canonico, dove sono molto più cose che riguardano l’acquisto di beni che la edificazione delle anime. Qui, posto da parte lo spregio delle ricchezze e l’umiltà e la carità cristiana raccomandata da Cristo, non si ragiona d’altro che delle invenzioni sempre nuove atte ad ingrandire i cherici, a levare la potestà del papa sopra quella di Dio, e a impoverire ed opprimere i secolari. E questo libro che il cardinale Pallavicino e gli altri autori di Curia chiamano sacro e venerabile, è precisamente la satira dell’Evangelio.
Prima ancora del 1200 cominciarono ad aver corso le aspettative, cioè aspettare per grazia della corte di Roma il conseguimento di un beneficio. Daprima i papi pregavano i vescovi di concedere qualche prebenda nella loro diocesi ad un loro raccomandato, poi dalla preghiera passarono al comando, e dal comando alla violenza instituendo esecutori che riducessero ad effetto le grazie acconsentite dalla Corte, e punissero il vescovo che non le adempiva: e quest’abuso andò tant’oltre che ai vescovi rimaneva quasi niuno benchè minimo beneficio da conferire, perchè tutti gli ambiziosi ricorrevano a Roma dove per denari ogni cosa ottenevano: nel 1240 Gregorio IX mandò all’arcivescovo di Cantorberì, e ai vescovi di Lincoln e di Salisburì che provvedessero 300 Romani de’ primi beneficii che vacassero nelle loro Chiese, sospendendo ogni altra collazione finchè quelli fossero provveduti. E siccome la maggior parte degli intriganti erano stranieri al paese dove ottenevano il beneficio, e ignoravano la lingua dei popoli, così o era trascurata la divina parola, o chi doveva insegnarla non risedeva e dimorava invece a Roma a brigare nuove dignità o maggiori ricchezze. Di forma che 50 anni innanzi il 1200 già quella città era diventata il luogo dove accorrevano da tutto il mondo gli ambiziosi, gli avari, i simoniaci, i sacrileghi, i concubinari, gl’incestuosi, e ogni altre mostruosità simili, come scriveva San Bernardo a papa Eugenio III; e nel 1232 in Inghilterra fu fatta una lega de’ cherici e soldati inglesi contra i cherici romani beneficiati nell’isola in grandissimo numero, e ne nacquero tanti disordini che il re Eduardo fu costretto a scacciare il nunzio del papa, senza perciò recarvi rimedio; perchè la Corte moderava sospendeva per un momento i suoi eccessi, ma alla prima occasione favorevole tornava di botto agli assalti, e perseverando vinceva.
La corruttela delle dispense per occupare più benefici andò tanto innanzi, e gli scandali divennero così enormi che Giovanni XXII uno fra i papi più avari e il più sottile investigatore di mezzi per far denari, la chiamò una sfrenata licenza, e con una sua decretale del 1320 limitò la dispensa a due soli beneficii, uno con cura di anime e l’altro senza.
Ma la cupidità e l’avarizia essendo il peccato originale della Curia romana, la provvisione di papa Giovanni non fu che un novello artificio per impodestarsi egli di tutti i beneficii, i quali se prima con una dispensa del papa potevano essere conferiti dai vescovi o dai patroni, poscia recuperati dalla Corte erano dati da lei sotto i titoli di unione, di commenda e di riserva. Per l’unione il papa investiva in una sola persona due o più beneficii, eziandio curati, con tali frodi che parevano essere un beneficio solo. Le commende nacquero dall’uso che vacando o vescovato o abazìa o altro beneficio, e per calamità di tempi non si potendo a quelli provvedere, venivano intanto commendati, o vogliam dire raccomandati a persona proba acciocchè ne custodisse e ne amministrasse la rendita fino alla elezione; ma quell’ufficio era di aggravio e nulla riceveva il commendatore: poi cominciò a partecipare alle rendite, e infine le commende divennero un abuso perchè si prolungava espressamente la vacanza affinchè il commendatore continuasse a godere. La collazione delle commende fu ristretta a sei mesi pei vescovi; ma i papi avendo dichiarato che omnia possunt riservarono a sè l’abuso di conferirle a vita; e molti beneficii furono commendati in perpetuo, cioè passarono da un commendatore all’altro. Le riserve erano un’altra frode introdotta dalla Curia la quale si attribuiva la facoltà di riservare per sè, prima ancora che vacassero, quei beneficii che più le piacevano e che poi conferiva a suoi favoriti. A questi bisogna aggiungere le resignazioni ad favorem, cioè che un beneficiato rinunciava il beneficio a favore di un fratello, di un amico, od anco di un suo bastardo; disponendo così dei beni della Chiesa come di cosa propria.
Lo stesso Giovanni XXII fu inventore nel 1306 delle annate, viene a dire che ogni beneficiato prima di entrare nel possesso del suo beneficio doveva pagare alla camera apostolica la rendita di un anno; la qual novità fu primamente stabilita per soli tre anni, ma è un triennio tanto lungo che non è finito ancora.
Ma perchè molti beneficii, per essere uniti a monasteri o luoghi pii, giammai non vacavano, la Curia per non perdere i suoi guadagni introdusse l’uso che pagassero l’annata ogni quindici anni: ciò che fu detto il quindennio.
Tutte queste invenzioni tornavano ad immenso profitto della Dateria; e talvolta la collazione di un sol beneficio fruttava i guadagni di cinque o sei bolle, di cinque o sei dispense e di cinque o sei annate: perchè volendo per esempio taluno rassegnare il suo beneficio a un fanciullo suo bastardo, era necessaria la dispensa per la rassegnazione, la dispensa per la età del ragazzo, e la dispensa per la sua nascita illegittima, il quale inoltre pagava l’annata. Il papa conferiva un beneficio ad un tale a patto che dovesse rinunciare quello che teneva; e questo secondo beneficio lo dava ad un altro, cui rimoveva da quello che occupava, e così via via per tre o quattro: per ognuno vi voleva una bolla, per alcuno occorreva anco una dispensa, tutti poi sborsavano l’annata. Nasceva eziandio confusione sui titoli e sui possessi, e non di rado nascevano conflitti tra la Curia e il collatore ordinario; quella avendo proposto uno e questo un altro: e la decisione bisognava portarla in Roma. In tali circostanze la Curia soleva nominare alcuna volta un terzo beneficiato ad interim fino a contrasto finito, il quale nondimeno pagava le bolle, le dispense e le annate. Ad imbrogliare viepiù la materia giovava lo stile tortuoso e doppio della Curia che colle formole per concessum, per fiat, motu proprio, anteferri ed altre dava più o meno vigore alle bolle, e più bolle erano impetrate e concesse sopra lo stesso beneficio, e tutti poi litigavano, e la Corte aveva trovato il modo di rendere interminabili le liti facendole passare per successione. Insomma era quella una voragine senza fondo che con mille frodolenti artifizi si ingoiava i tesori dell’universo.
Non perciò tante usurpazioni passavano inosservate, perocchè quando i principi, e quando i magistrati, e quando i vescovi, e talvolta anco i popoli, angariati e scontenti di tante piraterie, si sollevarono colla voce e cogli atti; ma la Curia, simile ad ingorda fiumana, frenata da un canto prorompeva dall’altro: cessava un’istante, poi a miglior congiuntura insorgeva più vigorosa di prima. I disordini salirono al colmo nei 50 anni che durò la scisma di Occidente, perchè ciascuno dei papi sottilizzava nelle invenzioni sia per procacciar denari sia per satollare l’avarizia dei propri aderenti. Tre papi vi furono allora, Giovanni XXIII che era stato corsaro, Gregorio XII e Benedetto XIII, e il concilio di Costanza nel 1417 obbligò il primo a rinunciare e depose i due altri, ed elesse Martino V. Tutto il mondo desiderava eziandio una radicale emenda alla materia beneficiale; ma i Padri, stanchi dei passati tumulti e della lunga assenza, intimarono altro concilio in Pavia da tenersi cinque anni dopo: il quale appena cominciato fu trasferito in Siena e spedito con gran celerità. Nel 1431 fu aperto il concilio di Basilea, che imprese arditamente a risecare le aspettative, le annate e le altre esazioni della Corte; ma papa Eugenio IV veggendo che la sinodo impiccioliva la sua potestà e la sua borsa, la annullò, e la sinodo per rappresaglia scomunicò il papa: da qui nuovo scisma nella Chiesa.
Il concilio di Basilea fu ricetuto in Francia e in una parte della Germania: in quella, il re Carlo VII pubblicò la famosa pragmatica-sanzione che restituì la collazione de’ beneficii ai vescovi ed ai Capitoli; in questa furono fatte leggi analoghe. Ma in Italia prevalse l’autorità pontificia, che quantunque contrastata tentò con vario successo di aprirsi nuovamente il varco fra gli Oltremontani, e passò anco ad eccessi maggiori. Imperocchè da Giulio II e da Leone X furono introdotte le riservazioni in pectore, cioè che vacando un beneficio, se il collatore ordinario lo conferiva o andava alcuno per impetrarlo, il Datario rispondeva che il papa lo aveva riservato nella sua mente. Le resignazioni in favorem furono estese al modo che il rinunciante lasciava il titolo e conservava le rendite, non restando al favorito che il titolo e il diritto di succedergli dopo la morte. E per non offendere di troppo le ragioni del collatore legittimo, a quel secondo era tolta la focoltà di praticare lo stesso del suo antecessore; talchè o morendo egli, o rassegnando il beneficio, il collatore poteva darlo a cui gli piaceva.
Ma questa clausola fu bentosto annullata dalla invenzione dei regressi e delle coadiutorie. Col regresso, chi rassegnava un beneficio col fine di ottenerne un migliore, se non riusciva, tornava al possesso del primo come se nulla fosse; e colla coadiutoria un beficiato si nominava un coadiutore col diritto di succedergli, il quale dal canto suo ne nominava un altro e così via via di forma che il beneficio diventava proprietà particolare di una persona o di una famiglia, con pregiudizio del collatore ordinario. Niun’altra classe d’uomini fu mai così attiva a propagare gli abusi e così tenace a conservarli: le coadiutorie furono introdotte col pretesto di farsi aiutare nelle cure delle anime; ma bentosto furono applicate anco ai beneficii semplici, che concedevano al beneficiato un ozio beatissimo.
Per ultimo pesando assai ai pontefici la pragmatica-sanzione del regno di Francia tanto fecero, finchè Leone X riuscì a farla abolire nel congresso che ebbe con Francesco I in Bologna l’anno 1515 e le fu sostituito un concordato che ritornava alla corte di Roma una gran parte dei perduti vantaggi. I parlamenti si opposero, ma l’ostinazione del re e del pontefice la vinsero.
Il concilio di Trento, i cui decreti furono promulgati nel 1563, abolì le unioni a vita, i regressi, le coadiutorie con successione, ed emendò altri punti; ma se la corte di Roma è costante ne’ suoi prepositi, lo è molto più in ciò che concerne la religione del danaro, della quale è gelosissima. I decreti tridentini essendo per lo più intralciati ed equivoci, Pio IV e i successori proibirono d’interpretarli a chiunque fuorchè alla congregazione de’ cardinali interpreti sopra il concilio; i quali non andò guari che tirarono di bel nuovo tutta a Roma la materia beneficiale, e quando con un pretesto e quando con un altro restituirono tutti i vecchi abusi: anzi gli accrebbero, perchè, come osserva Frà Paolo, mai la Corte non si lascia indurre che venga annullato o corretto un abuso che non ne abbia preparato un maggiore e più utile. Furono dunque conservate le coadiutorie, e furono quindi introdotte le pensioni, invenzione che essa sola vale tutte le altre. Con questo titolo la Curia si riservò la facoltà di gravare qualsiasi beneficiato dell’onero di pagare a tale o tale altro suo favorito una pensione che talvolta somma la metà, o i due terzi, od anco i tre quarti della rendita; e il pensionatico fu concesso non pure ai preti, ma a’ laici, a’ ragazzi, a’ cortegiani, a’ soldati, e talvolta, benchè con qualche coperta, alle amorose de’ papi e de’ cardinali. Le pensioni erano usate anco prima del concilio di Trento, e rimontano al 1200, ma non ne fu mai fatto peggiore scialacquo come dopo quella sinodo.
Fin qui abbiamo parlato dei vivi, ora conviene dire qualche parola anco dei morti, perchè il papa est super vivos et super mortuos. Quando i beni della Chiesa erano una proprietà dei poveri, e che il clero non aveva diritto fuorchè al suo necessario, è naturale il credere che niun cherico potesse fare avanzi. Dopo che quelli furono divisi, continuò per molto tempo che i risparmi fatti sulle rendite della Chiesa, morendo il beneficiato, tornassero alla Chiesa. In seguito ora dalle leggi de’ principi, ora dalle dispense de’ papi, ma più spesso dalla umana avarizia fu stabilita la pratica non generale che anco di quelli potessero disporre per testamento; finchè verso il 1378, secondo Tommasini, in occasione dello scisma tra Urbano VI papa di Roma e Clemente VII papa di Avignone, i patrimoni della Chiesa posti in Italia fruttando al primo, l’altro onde mantener sè e i trentasei cardinali del suo partito pensò di riservarsi i più pingui beneficii e le spoglie de’ vescovi e degli abati e di tutti i beneficiari che morivano. E quest’usanza che faceva colare più milioni di scudi ogni anno nell’erario pontificio, comechè introdotta da uno scismatico ed antipapa, fu trovata molto dogmatica e continovata ed accresciuta dai pontefici legittimi e veramente infallibili; di forma che Pio IV nel 1560 statuì che sotto il nome di spoglie si dovesse comprendere qualsiasi civanzo fatto da’ cherici anco con mezzi illeciti, a tal che se un prete si era arricchito facendo l’usuraio o il contrabbandiere, o tenendo bisca o postribolo, quegli infami guadagni appartenevano per jus divino alla Sacra Romana Chiesa.
Tanti furono gl’ingegni con cui i cherici e la corte di Roma seppero acquistare sterminate ricchezze, ma non furono meno felici nel modo di conservarle. Anticamente i beni della Chiesa essendo destinati al sollievo de’ poveri, il vescovo o il paroco poteva alienare non manco essi che i vasi sacri quando si trattava di far bene, come nelle occasioni di guerre, di pestilenze, di carestie, d’incendi, o per riscattar schiavi o per altra filantropia; ma dopo che quei beni passarono al puro godimento dei preti e in piena potestà del papa, il far queste cose divenne peccato, e fu statuito che i beni ecclesiastici fossero inalienabili: donde avvenne che il Clero acquistando sempre e non dando mai, in progresso di tempo diventò padrone di tre quarti degli stabili in quasi tutti i regni cristiani, senza cantare una immensa ricchezza mobile in arredi e vasellami d’oro, e di argento; fu per questa via che i gran prelati e la corte di Roma poterono nei tempi passati sfoggiare un lusso presso il quale è piccola cosa il fasto e la boria tanto famosa dei monarchi dell’Oriente. Ed è pur cosa notabile che se una volta i beni della Chiesa erano destinati a soddisfare i bisogni urgenti del povero, furono in appresso destinati a soddisfare la ghiottoneria dei preti: ed è per questo che al beneficio di un vescovo fu dato il nome di mensa vescovile; a quello di un cardinale di piatto cardinalizio; e quello di un semplice paroco è chiamato la congrua, cioè quello che basta per lui, il che vuol dire che vi è niente per gli altri.
Forse più d’uno de’ miei lettori è curioso di conoscere a un dipresso la quantità de’ tesori che tante angherie facevano colare negli scrigni del papa. L’argomento è certamente curiosissimo, ma non conosco alcuno autore che lo abbia trattato; quindi mi limiterò ad alcuni cenni.
Nel 1245 il papa cavava dall’Inghilterra 60,000 marche: il che equivale a 120,000 luigi d’oro, e a ragguaglio del valore colle derrate quattro o cinque volte tanto: era una somma uguale alla rendita del re.
Nel 1334 Giovanni XXII lasciò morendo 18 milioni di fiorini d’oro in contanti, e sette milioni in vasellame d’oro e di argento: sa ognuno che il fiorin d’oro è lo stesso che lo zecchino di Firenze, otto de’ quali fanno un’oncia, peso di marco, ed equivale ciascuno circa undici franchi e mezzo secondo il valore attuale de’ metalli che doveva essere maggiore a quel tempo, confrontandolo col valore delle derrate. È certo che tutti insieme i monarchi di allora non possiedevano tanto denaro; e quella quantità enorme di vasellame prezioso ci porge indizio quale dovesse essere il lusso della corte pontificia. Convien notare altresì che Giovanni XXII non fu meno scialacquatore degli altri papi, e che la somma anzidetta fu ammassata da lui in 18 anni che durò il suo ponteficato.
Giovanni di San Romano conta che durante il ponteficato di Pio II dal 1458 al 1464 la Francia pagò alla cancelleria romana per annate, bolle e dispense beneficiali da due milioni e mezzo di scudi, che sono 15 milioni di franchi.
Nel 1461 il Parlamento di Parigi osservò che in tre anni erano andati a Roma per cause beneficiali 4 milioni.
Secondo Hume le annate e le primizie in Inghilterra dal 1487 al 1530 fruttarono alla cancelleria romana 160,000 sterlini.
A tempi di Alessandro VI che fu pontefice dal 1492 al 1503, la creazione de’ cardinali fruttava alla Camera da 10,000 fiorini ciascuno; ed avendone quel pontefice creati 43 negli undici anni del suo ponteficato, si può far conto ch’ei ne traesse da 400, a 500 mila fiorini d’oro; altri 60,000 fiorini d’oro ritrasse da ottanta scrittori di Brevi a cui vendette la carica; le altre cariche venali della Curia si può contare che fruttassero a quel tempo da 40 a 50,000 fiorini all’anno per lo meno.
Il cardinal di Roano ministro di Luigi XII re di Francia, morto nel 1510, vuolsi che in 10 anni che fu legato a latere Sanctæ Sedis nel regno di Francia abbia ritratto più di 3 milioni di franchi per prezzo di tante dispense date per autorità apostolica.
A tempi di Frà Paolo vi erano nella corte di Roma più di 200 uffici venali, cioè venduti a profitto della Camera, alcuni de’ quali si vendevano somme enormi: per esempio l’auditore della Camera apostolica comperava il suo ufficio circa 70,000 scudi, e ne ricavava annualmente 12, o 15 mila: la carica di presidente della Camera costava 30,000 scudi, quella di Sommista altrittanti, quella di notaio (erano 10) dell’auditore suddetto, da 15 a 20 mila, quella di segretario dei Brevi (erano 24) 3000: perfino il sottodiacono che portava la croce dinanzi al papa comperava quell’onore per circa 3000 scudi. Sommati insieme si può dire che la Camera apostolica traeva annualmente dalla vendita di quelle cariche da 70 ad 80 mila scudi all’anno e i compratori ne cavavano il doppio o il triplo sulle tasse delle bolle per dispense, indulgenze, collazione di beneficii, sulla spedizione delle cause e in mancie stabilite da una regolare tariffa di uso per quasi tutti gli atti della Curia, e in particolare nelle promozioni. Quella di un cardinale costa anco attualmente, in sole mancie, più di 4000 scudi, pagando a rigor di tariffa: ma le persone qualificate e che temono Pasquino sono costrette a largheggiare molto più.
Nel 1735 il cardinalato era tuttavia in prezzo. Carlo Rezzonico, figlio di un ricco banchiere veneziano, e che poi fu papa col nome di Clemente XIII, comprò quella dignità per circa 300,000 franchi.
Verso il 1760 due arcivescovati e quattro vescovati della Toscana pagavano ogni anno alla corte di Roma sotto titolo di pensioni circa 29,000 franchi; oltre di ciò i frati pagavano una annua tassa del 7 per 100 sopra una somma ideale stabilita dalla corte di Roma, la quale dalla piccola Toscana cavava solamente in pensioni, quindenni e tasse monastiche buoni 100,000 franchi od anco più.
Nel 1768 la repubblica veneta per un calcolo esattissimo scopri che la corte di Roma traeva da quello Stato l’annua somma di oltre due milioni di franchi. Quella Repubblica era la quarantesima parte dell’Europa cattolica; la quale all’avvenante avrebbe dovuto fornire da ottanta milioni circa. Ma questa somma è molto al di sotto del vero, perchè la Repubblica non permetteva l’esazione delle annate e degli spogli, e nemmeno delle decime dei frati che sarebbero importate una somma enorme; molte bolle erano tassate dal governo medesimo, ed altre erano impedite benchè avessero corso in altri paesi, e infine i beneficii ecclesiastici nel dominio veneto non erano fra i più pingui, anzi la maggior parte erano meschini, mentre in Francia ed in Spagna e sopratutto in Germania abbondavano i vescovati e le abazie da 50, o 100, o 200 mila scudi di rendita, e i canonicati e le prepositare di 2, o 3, o 4 mila scudi. A ciò bisognerebbe aggiungere quanto Roma cavava dall’America, e quanto le pagavano le religioni militari, ignote a Venezia. Talchè io crederei di non esagerare dicendo che alla metà del secolo passato la corte di Roma traeva dai regni cristiani un’annua rendita di 150 milioni di franchi. Se poi ci trasportiamo ai tempi anteriori a Lutero quando la potenza dei papi era grande, e florido il traffico delle indulgenze, e la loro inesplebile cupidità non trovava che deboli opposizioni; e se alla materia beneficiaria e delle indulgenze e delle dispense si aggiunge il commercio delle reliquie, l’assoluzione di casi riservati, le somme enormi versate per canonizzazione o beatificazione di santi o autenticazione di miracoli, i lucri immensi cavati ogni 25 anni dalla pubblicazione del giubileo, le decime dei frati ed altri guadagni ritratti da mercanzie spirituali, è quasi impossibile determinare le somme che ne ritraevano; ma è certo per lo meno che il papa aveva egli solo una rendita uguale od anco maggiore a tutti insieme i principi dell’Europa.
Il giubileo, imitazione de’ giuochi secolari degli antichi Romani, fu inventato da papa Bonifacio VIII nel 1300, e doveva celebrarsi ogni 100 anni; Clemente VI nel 1349 lo ridusse a 50 anni; Urbano VI papa di Roma trovandosi in bisogno di danaro per far fronte al suo rivale Clemente VII papa di Avignone, lo stabilì nel 1389 a 33 anni; e infine Paolo II nel 1470, ad ogni 25 anni. Una volta questa solennità tirava a Roma 400,000 persone, ed a buon titolo il prefato Clemente VI chiamava le indulgenze distribuite in quella occasione il tesoro della chiesa; infatti profittavano la bella somma di 40 o 50 milioni a dir poco. L’ultimo giubileo del 1825 non condusse nella capitale del mondo cristiano che tre o quattro mila pitocchi: segno di decadenza.
Tra i cardinali del secolo XVI era povero quello che aveva meno di 10, o 12 mila scudi di rendita. Ricevevano dalla Camera apostolica una pensione di quattro mila scudi per quello che nel linguaggio di Corte si chiama il piatto de’ cardinali, Si vede che quei porporati volevano mangiar tanto quanto avevano digiunato Cristo e gli apostoli. La mensa di Pio VI costava 100 scudi al giorno, e i divoti Fiorentini furono scandalizzati, quando, quel pontefice dimorando nella Certosa di Firenze, si accorsero che egli e la sua Corte mangiavano di grasso il venerdì e quattro tempi.
Nel raccontare in compendio la storia dei beneficii ecclesiastici, ho dato una sufficiente analisi di quella scritta da Frà Paolo; lodata da monsignor Ricci vescovo di Pistoia con le seguenti parole: «Questo celebre scrittore ricorrendo alle fonti dei Santi Padri e dei concili antichi purgò la Chiesa da quelle sozzure che le false Decretali vi aveano immischiato, e che l’avarizia, l’ignoranza e l’umana alterigia avean alimentato». Il Sarpi ne raccolse i materiali nel 1609 facendosi aiutare da suoi amici di Francia, tra i quali erano il Gillot e il Leschassier che lo fornirono di quanto riguarda il diritto Gallicano e di Spagna nella collazione dei beneficii; e l’opera era compiuta nel gennaio del 1610 quando ne mandò copia ai detti suoi amici. Nelle edizioni a stampa è intitolata: Trattato della materia beneficiaria, ma il vero titolo suo è Istoria dei beneficii ecclesiastici, ed è infatti una storia e non un trattato.
Un’altra deformità introdotta nella Chiesa col pretesto di onorare la religione, ma invero per rendere più venerata e potente la casta sacerdotale, fu l’asilo accordato ai delinquenti ne’ così detti luoghi sacri. Avevano gli Ebrei le città di asilo per gli omicidi involontari, e in certi casi anco i pagani prestavano asili nei loro tempii. Il qual costume, secondo gli usi e le leggi di que’ popoli, sarà stato sicuramente ragionevole; ma oltre che a fare che il vecchio apparisse nuovo i cherici tanto aggiunsero alla imitazione che divenne pessimo, era eziandio incompatibile collo spirito dello cristianesimo che abborre non che il delitto, persino l’ombra o il pensiero di esso, e che, destinato alla felicità morale dei popoli, non ha alcuna ingerenza nella economia politica con cui si regola la società. Ma i cherici, sempre misurando il Vangelo dalle instituzioni umane, argomentarono che se un tempio dedicato ai falsi Dei era stimato inviolabile rifugio, molto più lo dovevano essere i tempii dedicati al vero Dio, e così servarono alla più pura delle religioni la vergogna di essere tutrice del delitto. E già nel IV secolo era tanto inoltrato l’abuso che i monaci osavano strappare di mano agli esecutori della giustizia i malfattori condotti al patibolo, e nasconderli nelle loro chiese o monasteri. Una legge di Arcadio ed Onorio del 398 lo frenò, senza punto estirparlo; perocchè fruttando ai cherici, a misura che l’ignoranza, ausiliaria formidabile delle superstizioni, intenebrò l’Europa, essi pure lo estesero sin dove poterono, e dichiarando un diritto divino trattarono da sacrileghi e da scomunicati quelli che vi si opponevano. In quei tempi di aurea felicità pel clero, assassinare un uomo era delitto che si espiava con un abbrancata di soldi d’oro pagati alla Chiesa; ma trarre l’assassino dal sacrato per darlo al boia, era peccato di dannazione eterna. A’ tempi del Sarpi gli asili cominciavano a pesare a’ governi, e nascevano frequenti contese tra le potestà civili ed ecclesiastiche. La repubblica veneta in ispecie non li amava, e non ometteva occasione per moderarli. Ma si avevano così oscure nozioni sull’origine e l’uso di questo diritto, e i canonisti lo avevano di tal forma imbrogliato con falsità istoriche e prevenzioni religiose, e le pratiche di un popolo erano così diverse da quelle di un altro, che spesso accadeva che ciò che dagli uni era tenuto buono, dagli altri fosse giudicato malo; e scorta al procedere erano piuttosto le circostanze e l’indignazione pubblica, che fondate norme di giurisprudenza.
Un piccolo avvenimento porse occasione al Consultore di trattare colla assueta sua perspicuità e lucidezza questa materia pressochè intatta. Nel novembre del 1609 uno di Orcinuovi fece una satira contro ai magistrati della provincia. La birraria essendo ita per prenderlo, egli si salvò nel convento de’ francescani, e il guardiano, a miglior tutela, lo menò in chiesa, presso al tabernacolo, e gli pose in mano l’ostia consecrata. Il bargello non sapendo che farsi, ricorse al Provveditore; il quale andato in persona sul luogo, nè potendo colle buone convincere l’ostinato guardiano de’ frati a cacciare dalla chiesa l’uomo, si fece egli innanzi, gli tolse il sacramento di mano e consegnò il reo agli sbirri. Ma il frate insolente andando dietro alla Corte gridava accorr’uomo che il Provveditore era scomunicato. I Decemviri mandarono per lui, e lo fecero portare in prigione. Nacque allora alterco col nunzio che pretendeva violata l’immunità de’ luoghi sacri e vi aggiungeva causa di sacrilegio perchè il Provveditore aveva toccato il sacramento, cosa che non possono fare i laici: non si accorgendo della contradizione essendo che il sacrilego doveva essere il frate, mentre il magistrato aveva operato per legittima necessità: tanto è difficile ai teologi di fare un buono argomento.
Chiesto il Consultore su ciò che fosse da farsi, diede il suo parere in una breve scrittura; indi a miglior norma di altre contingenze compose una piena trattazione delle Immunità delle chiese seguendo precipuamente le pratiche della giurisprudenza romana. Comechè non formi che un discorso continuo e senza alcuna divisione di libri e di capi, esso naturalmente si divide in due parti, e si potrebbe anco suddividerlo in capi o paragrafi. La prima parte o libro espone l’istoria canonica del diritto di asilo e come fu introdotto fra i cristiani, e le leggi imperiali che lo hanno ammesso o circoscritto, e come quelle leggi furono intese o meglio sconvolte da’ canonisti, e con quale principio si dovrebbono intendere. Posti questi fondamenti istorico-legali, passa nel secondo libro ad esaminare quali, secondo le massime de’ canonisti, sono i luoghi sacri che assicurino dalla giustizia, quali le persone o i misfatti che possono trovarvi sicurezza, e per quale modo si possono di quinci estraere. Tocca poi di una bolla di Gregorio XIV sulla immunità delle chiese, e ne dichiara il senso e l’applicazione, e chiude con una breve ma erudita epitome sugli asili sacri fra gli Ebrei, i Greci ed i Romani e ne fa un giudizioso confronto con quelli de’ cristiani. In forma di ricapitolazione segue poi una minuta distinta in 24 capi per servire di guida ai magistrati onde vedere in un colpo d’occhio quali siano i casi d’asilo o non siano. La sostanza è che Frà Paolo considera come un abuso questa pretesa immunità delle chiese, ma stante i pregiudizi della età ne consiglia la tolleranza, cui per altro ristringe con tante clausole che riduce il diritto di asilo ai soli debitori insolvibili, purchè non siano fraudolenti, e a’ rei di delitto accidentale. Gli altri tutti, quali per un titolo, quali per l’altro possono essere staggiti dalla giustizia. La ragione non aveva fatto peranco un tanto progresso, e questo trattato, malgrado la sua piccola mole, basta da sè solo a far vedere quanto Frà Paolo fosse superiore al suo secolo. Quando gli errori è da gran tempo che più non esistono e che le opinioni sono già vinte del contrario, fa maraviglia, a chi gli ricorda, come quelli abbiano potuto esistere o che gli uomini potessero esserne capaci; e però per giudicare del primo che gli ha distenebrati convien farsi un’idea degli ostacoli morali che lo assiepavano e cui dovette rompere. A noi pare un assurdo il diritto di asilo, ma quando tutto il mondo era persuaso che era un sacrilegio il tradurre dalla chiesa alle carceri un malfattore, certo che vi voleva una acutezza di mente oltre il comune per vincere l’ignoranza universale, e molto coraggio per farla conoscere; chè nulla è tanto pericoloso quanto predicare una verità contraria a pregiudizi di religione radicati da molto tempo, e al patrocinio di cui sono molti gli interessati. Posto ciò, non farà più stupore che il trattato delle Immunità delle chiese sia stato a Roma dannato di eresia e registrato nell’Indice. Era un nuovo colpo recato alla potestà ecclesiastica.
Ma un eguale giudizio non ne fecero le persone sensate: il dotto pubblicista Ugone Grozio chiamò quel Trattato grande, e il Frickelburgio che lo tradusse in latino col titolo De jure asylorum, lo giudicò meritamente il più bello e più compiuto manuale che i giureconsulti desiderare potessero; il Senato di Milano lo fece aggiustare alla pratica di quel ducato, lo stesso fecero altri stati d’Italia e di Germania: il libro ebbe la più gran voga, portò frutti benefici: ora le chiese sono luoghi di adorarazione, non asilo de’ malfattori.
Benchè cessato il motivo per cui fu scritto, è nondimeno curiosissimo ancora a leggersi, perocchè fa conoscere alcune circostanze della società e delle leggi di quel tempo.
L’originale italiano è poco conosciuto benchè stampato nella collezione di opere del nostro autore fatta a Verona e a Napoli, dove per idiotaggine degli autori fu posta come cosa diversa dalla traduzione latina qui sopra nominata. In alcune cose è infatti diversa, perchè il Frickelburgio la eseguì sopra un esemplare di Milano dove erano state introdotte alcune variazioni convenienti alla diversa località, e omessi alcuni paragrafi. Il che ha tratto in inganno Marco Foscarini (e colla sua autorità anco il Grisellini) il quale non avendo veduta se non la versione latina, da alcuni luoghi che ivi si trovano dice che l’autore, quantunque veneziano, si è voluto fingere milanese; i quai luoghi non sono nel testo di Frà Paolo che non solo si dichiara veneziano, ma dirige il suo discorso al principe veneto. Ed a ragione osserva Frà Fulgenzio che il trattato De jure asylorum è più breve di quello che il Consultore diresse al Senato.
Questa opposizione continua di Frà Paolo alle mire della Curia ridestò il mal sopito livore de’ suoi nemici, e pochi mesi dopo la congiura de’ frati accaddero due o tre tentativi contra la sua vita, dei quali non abbiamo che un oscuro cenno nelle sue lettere, seguendo sempre l’ordinaria sua prudenza di non rivelar mai cosa alcuna che potesse nuocere altrui. «Quanto alle cospirazioni contro di me, scriveva agli 8 giugno 1609 ad un amico che gliene faceva richiesta, non ne mancano; ma io faccio ogni cosa acciò vadano in silenzio, con questa opinione che il così fare non solo sii il mio debito particolare, ma ancora serve a molti buoni fini». Una uguale sopportazione non avevano coloro che per altri buoni fini il volevano morto, i quali sul finire del 1609 fecero un nuovo tentativo, e nell’aprile del 1610 fu avvisato che li abbisognava guardarsi da Roma. Nè il lasciarono molto tempo in pace: a’ primi di settembre del 1612 giunsero lettere dell’ambasciatore veneto da Roma, avvisando che aveva scoperto una stretta trattazione per ammazzare Frà Paolo. Il quale fu tosto chiamato in Collegio, lettagli la lettera, ammonito a darsi buona guardia, e offertogli tutto che gli potesse occorrere a propria conservazione.
Questa nuova trama era stata rivelata secretamente all’ambasciatore da un cardinale, il quale io suppongo essere stato il Bellarmino; perocchè questo medesimo ebbe la generosità, propria solo degli animi grandi, di renderlo altre volte avvisato che badasse a’ suoi giorni. E fece più. Un cattivo frate, Felice da Vicenza, aveva composto un libello infamatorio col titolo: Vita di Frà Paolo, e sperandone gran premio lo presentò al papa, il quale lo diede a vedere al Bellarmino. Questi dopo averlo letto gli disse: «Beatissimo Padre, questo libello è un tessuto di menzogne: io conosco Frà Paolo, e lo conosco uomo da bene e d’intemerati costumi, e se calunnie così fatte si lasciassero pubblicare da noi, tutto nostro sarebbe il disonore».
Crederà mai il lettore che vi sia stato un vescovo al mondo che trovasse riprovevoli questi tratti di luminosa virtù, e che stimandoli peccati enormi abbia fatto sforzi per provare che il Bellarmino «uomo santissimo non potè fare così poca stima e delle censure ecclesiastiche, che a loro dispregio mandasse a salutare Frà Paolo sapendo che era scomunicato notorio e contumace, con la qual sorte d’uomini è interdetto ogni genere di commercio e fino di salutarli?» Questo vescovo fu monsignor Giusto Fontanini, e le riferite parole stanno nella sua Storia arcana di Frà Paolo, a carte 107. E il medesimo parlando del libro succitato, poco sta che non maledica il cardinale che ne disconsigliò la stampa; ed esclama: «Piacesse pure al cielo che fosse in essere questa vita di Frà Paolo, scritta da Frà Felice vicentino, perchè si scoprirebbono delle altre cose che non sono giunte a nostra notizia, benchè ne abbiamo tante e tante intorno alle sue scelleraggini che bastano a far inorridire qualunque abbia scintilla di pietà e religione».
Qui stanno bene quei versi di Dante:
Lume non è se non vien dal sereno
Che non si turba mai, anzi è tenebra,
Od ombra della carne o suo veleno.