Biografia di Frà Paolo Sarpi/Vol. II/Capo XIX
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CAPO DECIMONONO.
(1609). Durante quei dissapori con Venezia un caso più importante angustiava la Santa Sede, del quale parlerò perchè ha qualche relazione colla vita del Sarpi.
Roma non aveva mai perduto di vista il possesso dell’Inghilterra, regno una volta a lei sì fruttifero, e separatosi, come è noto, per sconcia cagione di amori, per opera di Arrigo VIII, e compiuta la riforma da suo figlio Eduardo VI. Sorelle di Eduardo furono Maria ed Elisabetta, quella nata da Caterina di Aragona, e perciò propensa a’ cattolici, questa da Anna Bolena seguace de’ riformati, e gli successero l’una dopo l’altra sul trono. Maria ripristinò il culto di Roma, Elisabetta di nuovo lo abolì, e Giacomo Stuardo suo successore volle tenere una via di mezzo; ma i cattolici delusi nelle concette speranze, rimestarono e fecero congiure, tra le quali famosa fu quella delle polveri per far balzare in aria il re e il parlamento, e con un colpo solo sterminare innumerevoli che stimavano fautori di sêtta contraria. La quale atrocità, in cui, come in altre, si mescolarono i gesuiti, rese odiatissimi i cattolici, abbenchè la parte più sana di loro detestasse non meno dei riformati quella cospirazione orrenda. Cionondimeno il re a miglior sua guarenzia (molto più che Clemente VIII aveva instituita una congregazione di cardinali per dirigere gli affari dell’Inghilterra, perilchè poteva giudicare che quelle congiure prendessero le prime mosse da Roma), obbligò i seguaci della fede romana ad un giuramento che è il fac simile di quelli che oggi si fanno dare tutti i principi dai loro sudditi. Cioè, che sono principi legittimi, che il papa non ha alcuna ingerenza nei loro Stati, che non può scomunicarli o deporli o svincolare i sudditi dal giuramento, e che i sudditi riveleranno ogni congiura o cospirazione contra lo Stato. Paolo V pretese che quel giuramento era contrario alla fede cattolica e in perdizione delle anime; e a’ 21 settembre 1606, durando ancora l’interdetto di Venezia, scrisse a’ cattolici d’Inghilterra un Breve acciocchè non l’osservassero.
Ma quel Breve parve così strano al più dei cattolici istessi, che per onore del papa lo credettero suppositizio, e indotti dalle esortazioni e dai maneggi di Giorgio Blackwell, nominato dalla corte di Roma, con facoltà estesissime, arciprete di tutto il clero cattolico d’Inghiterra e Scozia, quasi tutti prestarono il giuramento. Offeso il papa, l’anno appresso a’ 22 settembre, spedì un altro Breve nel quale confermava il primo, e insisteva sulla non osservanza del giuramento; e il cardinal Bellarmino che aveva conosciuto l’arciprete gli scrisse pure una lettera a’ 28 dello stesso mese ed anno, esortandolo a ravvedersi se non voleva essere dannato. Non perciò l’arciprete si smosse, che anzi a dispetto delle persecuzioni suscitategli da alcuni fanatici, perseverò nel suo proponimento, e coi consigli e coll’opera indusse anco gli altri ecclesiastici ad imitarlo; e rispose al cardinale che le pretese del papa e i suoi consigli non altro valevano che a ruinare quel residuo di cattolicismo che ancora sopravanzava in Inghilterra.
Il re Giacomo I che aveva fama di bell’ingegno e di dotto teologo, (cattivo pregio per un re), seguendo lo spirito controversista del secolo, si credette in debito, trattandosi di un affare di coscienza, di difendersi per un libro latino intitolato: Triplice cuneo per un triplice nodo, ossia, Apologia del giuramento di fedeltà contra i due Brevi di Paolo V e la lettera del cardinal Bellarmino, pubblicato senza nome di autore colla data del 1607. Il Bellarmino, antesignano delle enormità papali, attaccò il libro sotto il consueto suo pseudonimo di Matteo Torti. Il re ne pubblicò allora (nel 1609) una seconda edizione, dichiarandosene l’autore e aggiungendovi un’Ammonizione ai principi cristiani, in cui gl’invitava a mettersi in guardia contra un nemico comune, che l’uno dopo l’altro tutti assaliva, e l’intento di cui era di assoggettarsi i popoli. Questo modo di guerra non soddisfaceva a Frà Paolo, il quale avrebbe desiderato una risposta, come e’ dice, un po’ più regia: «Che infelicità, sclamava, possiede il secolo presente! a me pare un tempo di peste, che ogni male degenera in essa. Così adesso ogni controversia è di religione. Possibile che non vi sia altra occasione di far guerra?» E dicendo che nella commedia è applaudito quello che fa bene la parte sua, si meravigliava che il re potendo difendersi colle armi, quale a re si conveniva, logorasse il tempo a menar la penna cui bisogna lasciare a chi non può far meglio. Non è mio instituto di narrare il successo di questo libro, le confutazioni e le difese che ne furono fatte, le traduzioni, le ristampe, la voga che egli ebbe da una parte; dall’altra gli impegni del papa per farlo proibire, il dimenare dei gesuiti per arderne le copie, o confutarlo. Dirò solo che il re Giacomo, per tirare anco gli altri nella sua querela, ne mandò un esemplare a tutti i principi amici, raccomandandolo con lettere espresse e facendo sentire l’ingiustizia del papa e le massime terribili ch’egli voleva instituire come articoli di fede. Ma il re di Francia lo diede al gesuita Coton per confutarlo, il duca di Toscana al suo confessore per abbruciarlo, e il duca di Savoia che voleva far la guerra co’ soldati e non con la penna, l’avrebbe accettato se era una cambiale, ma trattandosi di un libro di teologia lo ricusò, il papa lo proibì; e i Veneziani, fertili in ripieghi per gradire al re e non disgustare il papa lo accettarono, e con un decreto onorevole il fecero chiudere, come dono prezioso, in una cassetta a chiave, sicchè nissuno potesse leggerlo.
Ho recitate queste minuzie necessarie a far rilevare un errore di Gilberto Burnet, che nella vita di Bedello, parlando di Frà Paolo dice, che egli, durante l’interdetto, desideroso di separare la Repubblica dalla Santa Sede, sollecitasse il cavaliere Wotton a presentare il libro del re Giacomo, sperando che avrebbe fatto colpo sull’anima de’ senatori. Quel libro era in confutazione ai due Brevi del papa e alla lettera del Bellarmino; quest’ultima, come abbiamo veduto, portava la data 28 settembre 1607, cioè già sei mesi dopo conchiuso l’affare dell’interdetto. La prima edizione dell’Apologia, come che porti la data del 1607, non uscì dalle stampe se non se nel 1608; e neppure fu questa che il re Giacomo fece presentare ai principi, ma, come ho detto, una seconda edizione del 1609, due anni dopo le controversie veneziane. Se il lettore ricorda le trattazioni che ebbe Frà Paolo con Wotton durante l’interdetto, vedrà dond’ebbe origine il grosso equivoco di Gilberto Burnet.
Ecco poi quale giudizio ne porta Frà Paolo in una lettera al Leschassier de’ 23 gennaio 1610: «Sarebbe stato bene che il re avesse trattato solamente ciò che risguarda a’ suoi diritti, e fossesi astenuto da materie teologiche, nelle quali volendo render ragione delle sue credenze abbatte i fondamenti della fede e fu cagione che sia andata fama che voglia a al tutto pervertirla. Quanto alle cose nostre, sono da trattarsi diversamente. Noi non vogliamo mescolare il cielo colla terra, nè le cose umane colle divine. I sacramenti, e tuttociò che a religione si appartiene, vogliamo che restino a suo luogo; bene crediamo di poter difendere il principato in quei diritti che gli sono dalle Sacre Carte e dalla dottrina dei Padri acconsentiti».
Questo passo importante ci mostra che Frà Paolo nelle sue correlazioni coi riformati, era amico, come si suol dire, usque ad aram; cioè che consentiva con loro in ciò che riguarda una reazione politica e l’abbassamento della soperchia potenza papale, ma che non approvava le loro innovazioni dogmatiche.
Poichè ho parlato di Burnet, raccoglierò qui in un gruppo alcune altre sue menzogne intorno al Consultore, copiate ciecamente da Pietro Bayle, da Pier Francesco le Courayer e da altri; e maliziosamente credute da Bossuet e sozii. Dice adunque che Guglielmo Bedell apprendesse da Frà Paolo la lingua italiana, e a ricambio scrivesse per lui una grammatica della lingua inglese; che gli tradusse la liturgia della Chiesa anglicana, la quale al frate tanto piacque che disse volerla far adottare a Venezia; avergli detto ancora che ometteva molte parti della messa, e che usava la confessione per ritrarre i suoi penitenti dalle superstizioni della Chiesa romana. Aggiunge che i forestieri i quali visitavano Frà Paolo dopo le ricevute percosse, prima di essere ammessi venivano frugati nei panni per vedere se portavano arma nascosta, e che il solo Bedell era esente da sì umiliante formalità; e che tornando in Inghilterra si condusse con seco Marco Antonio de Dominis e portò un esemplare dell’Istoria del Concilio Tridentino.
Burnet dice di aver udito queste e simili cose dallo stesso Bedell: è impossibile. Alcune sono falsità patenti, altre hanno un fondo di vero, ma Burnet non ebbe buona memoria o le alterò a capriccio.
Sir Enrico Wotton fu ambasciatore del re Giacomo a Venezia dal 1604 fino a tutto il 1610, quando gli fu sostituito sir Dudley Charleton. Guglielmo Bedell, dopo vescovo di Kilmore in Irlanda, era suo cappellano, uomo assai dotto e pio, il quale strinse amicizia con Frà Paolo, a quel che sembra, non prima del 1607. Essendo ambo teologi, è assai verisimile che i loro discorsi, specialmente dopo l’interdetto, si aggirassero su materie di erudizione ecclesiastica della quale allora Frà Paolo principalmente si occupava. È credibile ancora che Frà Paolo si facesse tradurre la liturgia anglicana; ma non parmi che dovesse farne tanto le meraviglie, perocchè quella liturgia, tranne che è in lingua inglese, non è in sostanza molto diversa dalla romana. Può essere che ne abbia lodata la semplicità; ma il mettergli in bocca che la voleva far adottare per Venezia, è far poco onore meno alla sua ortodossia che al suo buon senso. Curioso di conoscer tutto, si fece tradurre dal boemo la confessione degli Hussiti, dal tedesco varii libri di protestanti, e s’ha perciò da dire che voleva farli adottare a Venezia? Manco ancora poteva dire il Sarpi che ometteva tale o tal cosa dalla messa: la diceva ogni giorno in presenza de’ frati e del popolo cattolico, e nissuno in tanti anni se ne avvide, e sì che gli teneva gli occhi addosso una razza di esploratori a tutt’altro portata che ad usargli indulgenza. Peggio ancora della confessione. Il Padre Bergantini ha avuto la pazienza di rivoltare i registri patriarcali dove stanno le licenze de’ confessori, e non vi trovò mai quella di Frà Paolo; il quale infatti non esercitò quel ministero se non se ne’ primi anni del suo sacerdozio. Pochi eziandio vorranno persuadersi che a uomo così occupato avanzasse tempo per insegnare altrui la lingua italiana, ch’egli stesso aveva studiato più colla lettura che colla grammatica. E nemmeno saprei dire a qual uso servir dovesse quella grammatica della lingua inglese del cappellano Bedell, stantechè il Sarpi (ce lo fa sapere lui medesimo) ignorò sempre quella lingua, e dice che i libri se gli faceva tradurre, e che trattando con persone inglesi ignare di altro idioma a lui noto, parlava per interprete. Tutto al più può essere che Frà Paolo si facesse dare un trattato della pronuncia, massime de’ nomi propri; il che sembra apparire dalla istoria del Tridentino, là dove parlando delle cose d’Inghilterra i nomi propri gli scrive sempre al modo che si pronunciano e non secondo la barbara e irregolare ortografia di quella lingua. Mi induce altresì a credere che da Bedell si facesse tradurre sunti o squarci di storie inglesi contemporanee agli affari del Concilio, da che molte notizie intorno all’Inghilterra non le potè avere d’altronde che da libri inglesi non molto conosciuti di qua dal mare.
Dopo il successo ferimento non fu più permesso ai forestieri di visitare Frà Paolo, se non erano accompagnati da rispettabile e conosciuta persona. Bedell, come già noto, non aveva bisogno di questo. Ma che quei forestieri fossero frugati e che Frà Paolo avesse guardie alla sua cella, sono mere fantasie di Gilberto Burnet che ne aveva d’ingegnose e strane.
Egli è ben vero che Bedell portò in Inghilterra varie scritture sarpiane, ma non l’istoria del Tridentino, o il discorso sull’Iquisizione, e neppure che vi conducesse il de Dominis il quale andò in quell’isola sei anni dopo; l’Istoria nel 1610 o non era incominciata o lo era appena, e il Discorso fu scritto nel 1615, cinque anni dopo la partenza di Bedell. È nemmanco da supporre che glieli mandasse dappoi, mentrechè Frà Paolo medesimo ci fa sapere che di Bedell, dopo che lasciò Venezia, non ebbe più nuova. Donde quasi bisognerebbe conchiudere che la sua amicizia con lui non fosse così intrinseca come Burnet ci vuole far credere, stante il costume del Sarpi di mantener sempre qualche carteggio co’ suoi amici lontani. Giovi però dire che lo stimava assai e lo chiamava, a cagione del suo sapere, persona singolare. Ma non per questo s’ha a dedurne, che da lui imparasse la teologia, come Burnet vorrebbe darci ad intendere.
Fra gli scritti sarpiani portati in Inghilterra da Bedell, avvene uno di cui colgo l’occasione di parlare, perchè è tra gli smarriti del nostro autore. Il celebre Giacomo Augusto de Thou, autore di pregiata istoria del suo secolo, si era raccomandato all’ambasciatore Agostino Nani per ottenergli da Frà Paolo informazioni esatte su varie cose d’Italia e particolarmente di Roma e Venezia. Frà Paolo volle compiacerlo, ma le sue memorie prima di essere spedite essendo state mostrate al Collegio, furono per alcuni rispetti trattenute. Le quali vedute poi da Bedell, ne volle copia, che il Sarpi concesse a patto che fosse in inglese e non in italiano, onde non compromettersi col governo. Intanto il de Thou, desideroso anch’egli di averle, ne fece scrivere ripetutamente a Frà Paolo; che fattogli sapere il caso occorso, gli trasmise nel 1612 una lettera per Bedell affine che gliele comunicasse; aggiungendo, ignorare lui dove Bedell si trovava, ma che era facile esserne informato dal cavaliere Wotton, allora in Germania. Ma o non furono fatte le diligenze, o non si trovò: fatto è che il de Thou non ebbe mai quelle memorie. Ecco quanto ho potuto raccogliere di vero intorno alle relazioni tra Frà Paolo e Bedell.
Molto più di questo era amico a Frà Paolo Enrico Wotton, uomo dotto, versato nelle scienze ed arti liberali, affezionato alla repubblica veneta, di moderati sentimenti, e così nemico alle dispute di religione, che le chiamava scabbia della Chiesa e lo fece scrivere sul suo sepolcro. Dopo che lasciò Venezia nel 1610 e passò ora in Germania, ora in Olanda, Frà Paolo mantenne ancora qualche corrispondenza epistolare con lui; il quale gli procurò di Germania assai documenti e libri di controversia e di storia delle cose contemporanee o relative al concilio di Trento. Mandato nel 1617 con missione straordinaria a Torino, nel ritorno volle appositamente passare per Venezia a rivedere i vecchi suoi amici e particolarmente Frà Paolo.
Gli scrittori veneziani trovano molto difficili queste amicizie con ambasciatori esteri e loro aderenti, e si fanno forti di una legge decemvirale del 1542 che proibiva, sotto severissime pene, a patrizi, segretari, consultori ed altre persone pubbliche di ritrovarsi con ambasciatori esteri o persone di loro servizio o confidenza. Ma è da sapersi che quella legge a’ tempi di cui parliamo era poco osservata. Tutto al più sussistevano questi rispetti verso gli ambasciatori spagnuoli; ma per gli altri, e particolarmente per quelli di Francia e Inghilterra non si faceva alcun caso, stante l’intrinseca amicizia che passava fra la Repubblica e quelle due potenze, e il genio benevolo de’ loro inviati, segnatamente Urault de Maisse e Dufresne Canaye francesi, e Wotton inglese, i quali a Venezia portavano una sincera affezione, e si erano guadagnata l’amicizia de’ principali. Onde anco il consultore e teologo poteva senza pericolo o infrazione alle leggi conversare con loro. Forse quella tolleranza era un tratto di politica del governo per mostrare a quelle due potenze l’illimitata fiducia che poneva in loro; e alle altre l’intrinsechezza che passava tra quelle e la Repubblica. E si avverta ancora che Frà Paolo non corrispondeva, di cose di Stato, nè per lettere, nè a voce con alcuno senza l’assentimento del Collegio. La citata legge fu poi tornata in vigore e fatta anco più severa dopo la cospirazione del 1618, di cui parlerò al capo XXV.
A’ 14 maggio 1610 Enrico IV re di Francia cadde assassinato da Ravaillac, in conseguenza delle massime fanatiche di quel tempo; il qual caso riuscì molto grave a Venezia, e in Frà Paolo promosse nuovo sdegno contro la Curia romana che avvalorava il regicidio, e contro i gesuiti che pubblicamente lo predicavano. Questa sêtta facinorosa spinse la sfrontatezza fino a pubblicarne l’apologia; imperocchè in quell’anno medesimo il gesuita Eudemone stampò la difesa del suo correligionario Enrico Garnet complice nella congiura delle polveri; e il cardinal Bellarmino pigliando a pretesto di confutare Guglielmo Barclay, stampò il Trattato della Potestà del Papa, nel quale il regicidio è spacciato come una massima cattolica. Questo libro, uscito pochi mesi dopo l’assassinio di Enrico, fece dire al Sarpi: «Io congetturo, non senza solidi fondamenti, che udita la morte del re sia stato preso il consiglio in Roma di far scrivere a bella posta questo libro onde si appresenti qualche motivo a ricuperare la riputazione perduta».
Per la uccisione di Enrico svanirono i progetti di conquista della Francia, i timori delle due case austriache, e quel regno, abbandonato a debole governo, aveva più bisogno di essere lasciato stare che di molestare altrui. Ad Enrico era succeduto Luigi XIII suo figlio in età minore, sotto la tutela della regina Maria dei Medici; la quale leggiera e vana e non idonea a reggere una generazione inquieta, aveva lasciato luogo a fazioni nella corte, di cui l’una parteggiava per Spagna e voleva pace, e l’altra teneva il contrario. E benchè i gesuiti avessero fama di avere contribuito all’assassinio del re, colle loro arti potentissime sullo spirito di donna superstiziosa e lusinghevole avevano saputo talmente insinuarsi, che si erano quasi fatti necessari, e per loro la fazione Spagnuola si andava avvantaggiando.
La monarchia di Spagna composta di popoli diversi e separati da idioma, instituzioni e costumi, con re molli e la somma delle cose abbandonata all’ambizione de’ ministri, si aggirava in un circolo di viziosa politica, tendente a tutto invadere, a distruggere ogni libertà, a stabilire il principio del potere assoluto e a farlo dominare all’ombra delle superstizioni religiose e della ignoranza. Le quali case essendo contrarie alle inclinazioni del secolo, ne derivava che la guerra, fortunata o infelice, era per quella monarchia sempre egualmente dannosa. Altro secreto verme lo rodeva: povertà dell’erario, mala amministrazione, cattive leggi e sazietà di popoli. Pure le giovava il prestigio della sua possanza e la debolezza quasi pari degli altri Stati, e sopratutto la viltà dei principi italiani, a cui ora si aggiungeva la bassezza non minore del regno di Francia. Eppure non pertanto temendo i cimenti armati, gli evitava per sè, gli dissipava per gli altri, solo ristringendosi ad artifizi di una tortuosa diplomazia, a raggiri di corte, ad astuzie o maneggi di preti e frati. La Spagna, solita a coprire le sue ambizioni col velo della religione, aveva messo di moda questi strani diplomatici. Essendo i frati confessori dei principi e de’ grandi, conscii di tutti gli arcani di Stato, se gli comunicavano a vicenda di convento in convento per lettere o per messi, talchè le case dei religiosi erano diventate i gabinetti dove si discutevano tutti gli affari pubblici, e preti e frati galoppavano da una corte all’altra trattando guerre, paci, alleanze, matrimoni ed altri negozi di momento. Nelle quali cose eccedevano sopra gli altri i gesuiti che oltre all’essere nati nella Spagna, e l’essere stati spagnuoli i loro fondatori, ed esserlo tuttavia i più numerosi o i più distinti loro membri, trovano nella condizione e nella politica di quello Stato un valevole appoggio alle loro ambizioni. Appieno conformi erano i concetti della corte e della sêtta; allo stesso fine tendevano, e si servivano degli stessi argomenti per coprirli. Intanto che l’una col pretesto della religione agognava il dominio materiale de’ popoli, collo stesso pretesto intendevano gli altri a signoreggiare lo spirito e a stabilire una monarchia di nuovo genere, la quale ove avesse potuto prosperare avrebbe soggettato tutto l’Occidente alla teocrazia di una sêtta, e condotto il generale de’ gesuiti a quella potestà che si ebbero i papi nei secoli di mezzo, e abbassati i pontefici alla qualità di un loro subalterno. Ma come ai progressi della Spagna furono ostacolo perpetuo la Francia e i protestanti, così questi lo erano del paro ai gesuiti; onde ecco i motivi della strettissima lega di questi con quella. E perchè i gesuiti per lo spirito di corpo, pel genio operoso e intrigante, per l’educazione che davano ai giovani, e per la direzione che inspiravano alle coscienze, avevano mezzi potentissimi onde propagare i loro principii, erano dalla corte di Spagna considerati sommamente e favoriti, sicura di tenersi per loro il vantaggio nella politica europea. Il che faceva dire a Frà Paolo che per abbattere l’influenza spagnuola era necessario di bandire ovunque i gesuiti, e che lo Spagnuolo senza gesuiti era come la lattuga senza olio.
Ma poichè la Repubblica aveva fissato per massima che a conservare la declinante libertà dell’Italia conveniva ostare ai disegni della corte e dei ministri di Spagna, i partigiani di questa, oltre ad averle giurato un odio di cui vedremo altrove gli effetti, studiavano per ogni verso di avvilupparla in faccende che la distraessero.
Era fresca la rimembranza de’ trascorsi dissidi tra Roma e Venezia; e benchè il Senato inclinasse semprepiù alla concordia e il papa stanco di querele amasse la quiete e intendesse i pensieri a dar stato e ricchezze alla sua casa, covavano tuttavia alcune secrete faville e le fomentavano i Curiali e i gesuiti da una parte, e dall’altra non era senza colpa Frà Paolo e i suoi aderenti, sempre intesi ad offendere le parti più vitali della corte pontificia; e si aggiunsero fra mezzo i maligni uffizi di Alfonso della Queva marchese di Bedmar, ambasciatore a Venezia pel re di Spagna, venutovi sino dal 1607, dotto, scaltro, di finta religione, dissimulatore profondo e infensissimo alla Repubblica.
(1611). Con questi incentivi rinacque nel 1611 la contesa di Ceneda, di cui ho memorato i principii al Capo VII. Leonardo Mocenigo succeduto al suo cugino Marcantonio non assunse titolo di principe, ma quello neppure di conte, e semplicemente si fece chiamare vescovo di Ceneda. Occulto artifizio, perocche il vescovo, come vescovo (così allora) non essendo soggetto alla potestà secolare, sì solamente alla pontificia, poteva fare tutto che voleva senza che il Senato vi s’intromettesse. Infatti pubblicò nuovi statuti ne’ quali essendo omessi gli atti sovrani della Repubblica, venivano implicitamente ad essere abrogati; e invece v’inchiuse atti di vescovi suoi predecessori, coi quali statuiva che nissuno nè in prima istanza nè in appello potesse ricorrere ad altri che al giudice ecclesiastico. E così tornarono in campo le vecchie pretese, che Ceneda era feudo della Chiesa, e che non che i vescovi fossero dipendenti dalla Repubblica, era anzi la Repubblica vassalla dei vescovi. Il papa, come è naturale, si decise a favore del prete, e sostenne che Ceneda era sua.
Ciò diede molto da fare al Sarpi che a difesa dei diritti sovrani dovette rivangare quanti documenti e vecchie memorie potè raccogliere, e discutere quella materia con tutti i lumi che somministrava la storia, e sbrogliare le ragioni e i fondamenti spesso contradittorii del diritto canonico, feudale e municipale che nella confusione dei secoli passati troppo spesso si collidevano o s’intralciavano. Il trattato circa le ragioni di Ceneda che si legge a stampa non è che il primo abbozzo; ma tra le scritture inedite se ne hanno tre dove l’argomento è sviluppato in tutta la sua estensione; una sugli statuti di Ceneda pubblicati da Leonardo Mocenigo; altra sul proclama di Giovanni Grimani vescovo di Ceneda nel 1541, abrogato dal Senato, e rinovato dal Mocenigo; una terza sulle pretese del papa che Ceneda fosse sua; e più altre scritture e minute, sì che tutte insieme riempiono un buon volume in foglio di pergamena. Non attedio il lettore a darne una analisi, perchè oggetto a’ dì nostri di nissuno interesse. La cosa finì che persistendo la Repubblica validamente, il papa si ritirò, con frasi equivoche, dalle sue pretensioni, e il vescovo dovette sottomettersi.
(1612). L’anno appresso si rinovarono le liti di confine tra Veneti e Ferraresi, incominciate, sopite e non spente nel 1599.
Le alluvioni del Po trascinando immense sabbie formano banchi e isolette che per immemorabile consuetudine furono sempre riconosciute possesso della Repubblica, che poi le vendeva o affittava a pescatori. I Ferraresi pretendendo che appartenessero a loro, levarono i termini, stabilirono una gabella detto ancorario e obbligarono i sudditi veneti a pagarla. Il Senato mandò il capitano del golfo con quattro galere, che scacciò i gabellieri, atterrò la gabella e restituì i termini di confine a’ suoi luoghi; indi siccome i navili ponteficii negavano di sottostare ai tributi imposti da’ Veneziani, ebbe ordine di staggire e mandare a Venezia quelli cui trovasse in grave flagrante, e rilasciare gli altri mediante qualche contribuzione. I tribunali ponteficii di Ferrara e di Roma, colle consuete formole miste di spirituale e temporale, citarono il capitano e due altri ufficiali della marina veneta a comparire: ma in modo così equivoco, che Frà Paolo fu costretto a riderne. Conciosia cosa che invece d’indicare il nome e il grado e la patria e le altre specialità della persona, vi fu posto un N.N. con altri indizi che potevano essere applicati a mille, e in mille casi sempre significar niente quando alla Curia romana fosse giovato così.
Nello stesso tempo i Ferraresi entrarono in su quel di Loredo veneziano, tagliarono boschi, s’impadronirono di pascoli, e piantarono capanne pretendendo ragioni sul territorio. Il capitano del golfo mandò soldati in quei boschi, in quei pascoli, ne scacciò gli occupatori, ne arse i tuguri. I Ferraresi si armarono al ricupero e alla vendetta; il Senato spedì in sul luogo compagnie di cavalli e di pedoni, vi furono rapine e prigioni e danni da ambe le parti, finchè i due governi dopo più di un anno di reciproche ingiurie spedirono commissari ad un congresso nel villaggio delle Papozze, dove le differenze furono composte.
Queste faccende continuarono le brighe a Frà Paolo, consultato ogni momento sui diritti della Repubblica e sui modi di sostenerli; alle quali si aggiunsero altre questioni idrografiche, perocchè i Ferraresi pretendevano praticare un taglio nel Po pel quale andavano a toccare il territorio veneto, e i Bolognesi disegnavano congiungere al Po il Reno per un taglio che aggiungesse questo fiume col Panaro, il che tornava in pregiudicio de’ Veneziani. Contese poi di confini per possesso di acque o di pescagioni, per correrie degli uni sugli altri, rapine di bestiami, usurpazione di pascoli o di boschi e perciò risse tra confinanti armati, non ne mancarono mai per tutti gli anni dal 1610 al 1617; e quando erano o Bergamaschi o Bresciani o Cremaschi o Veronesi coi loro vicini dei ducati di Milano o di Mantova, e quando i Vicentini o i Friulani o gl’Istriani colle borgate contermini dell’Austria o della Carinzia o della Croazia. Leggendo i quali piccioli fatti, cagionati da incerti diritti feudali, da mal distinti confini, e le correrie e le prede e le rappresaglie, pare di leggere una storia di Tartari. Da essi più che dalla descrizione delle battaglie si impara quali fossero le leggi e i costumi dei tempi.
La corte di Roma sempre scaltrita a profittare delle cose minime perocchè sa che sono scala alle grandi, aveva tentato più volte di padroneggiare i Greci sudditi veneti, il che l’avrebbe condotta ad ampliare la sua autorità sui cristiani del Levante, fra i quali non è conosciuta o dubbiamente. Già per intrighi orditi col governo di Napoli era riuscita ad obbligare i preti pugliesi di rito greco a farsi ordinare in Roma da un vescovo instituito dal papa, laddove solevano prima recarsi a Venezia dove risiedeva più libero altro vescovo del rito loro. Indi (nel 1612) contendendo due Candiotti per causa matrimoniale, ed uno di loro, sostenuto dall’arcivescovo latino di Candia, avendo interposto appello alla nunciatura di Venezia, parve al nunzio buona occasione da cogliersi onde pretendere al diritto di giudicare le cause de’ Greci; ma trovò un intoppo nel governo a cui ricorse l’avversario, difeso dai vescovi greci di Filadelfia e di Candia. Il Consultore chiamato a discutere questa materia, la sviluppò in varie scritture di cui a stampa non si hanno che abozzi o squarci deformi, e che sarebbe a desiderarsi fossero pubblicate per intiero conciossiachè contengano una molto erudita esposizione storica e parallela del jus greco e latino nella disciplina ecclesiastica in genere e nelle cause matrimoniali in particolare. I seguenti squarci benchè imperfetti varranno a darne un saggio.
«Quando i cristiani occidentali ed orientali erano uniti in comunione, egli dice, tutta la Chiesa universale uniformemente sentiva che il principe fosse il primo dopo Iddio, principale nella Chiesa al quale per comandamento divino fossero tenuti di ubbidire non solo i secolari, ma ancora gli ecclesiastici, eziandio vescovi e patriarchi. Essi principi facevano leggi della disciplina ecclesiastica, le quali erano ubbidite dai prelati e latini e greci senza nissuna contradizione. Ad essi principi avevano ricorso i secolari ed i cherici quando erano gravati dai prelati, nè in questo era mai posta alcuna difficoltà. Successa la separazione della Chiesa occidentale e orientale, gli ecclesiastici latini entrarono in pretensione a poco a poco di essere esenti, e si andarono ritraendo dalla obbedienza de’ principi. Ma i Greci perseverarono in questa parte nell’antica dottrina, riconoscendo i principi ed obbedendo alle leggi della disciplina ecclesiastica che alla giornata facevano, e ricorrendo a loro negli aggravi, il che hanno conservato fino con l’ultimo imperatore Costantino Paleologo; ed ancora dopo la caduta dell’Imperio fino al tempo presente i cristiani di rito greco che hanno principe della loro medesima religione lo tengono per superiore ugualmente agli ecclesiastici come a’ secolari, e ricevono legge da lui, e non pretendono esenzione alcuna, e fuori delle cose spettanti alla fede non fanno distinzione di cause spirituali e cause temporali, ma riconoscono il principe in tutte le cose, eziandio di quelle che toccan la disciplina ecclesiastica.
«Sebbene la Chiesa latina ha tirato all’ecclesiastico tutte le cause matrimoniali con dire che sono spirituali, perchè il matrimonio è sacramento, i Greci però hanno fatto distinzione dal contratto alla benedizione sacerdotale, ed il contratto l’hanno avuto per cosa temporale.
«Di qui è che quasi tutte le leggi del contratto matrimoniale che sono osservate dai Greci, sono state costituite dagli imperatori, e sono anco nel corpo delle leggi civili di Giustiniano imperatore in materia de’ matrimoni, oggidì osservate da’ Greci.
«Le leggi matrimoniali de’ Greci sono in molti casi differenti dalle latine, sicchè sono appresso i Greci proibiti molti matrimoni appresso noi concessi, e molti dalle loro leggi concessi e da noi proibiti. Appresso loro è dannato il pigliare la quarta moglie. Il matrimonio fatto dalla figlia sotto i venticinque anni, che sia sotto la potestà del padre, senza il di lui consenso, appresso loro è nullo. Qualsivoglia de’ contraenti dopo consumato il matrimonio può entrare nella religione, e l’altro che resta può maritarsi. Appresso noi sarebbe nullo, benchè vi fosse il consenso di quello che vuole farsi religioso. Sono più di venti casi simili ove è notabile differenza, anzi contrarietà.
«Queste leggi matrimoniali dei Greci tanto differenti dalle nostre, nel tempo che la Chiesa greca e latina erano unite sono state osservate dagli Orientali, vedendo e sapendo ciò la Chiesa latina, e non perciò dannandole, ma restando insieme in pace ed in carità cristiana. E di più nel tempo del concilio fiorentino del 1439 quando si trattò di riunire le Chiese de’ Greci e de’ Latini, fu proposto di convenire anco nelle cause matrimoniali, ed essendo a ciò contradetto da’ Greci, finalmente fu risoluto dal papa Eugenio e dal concilio di convenire nelle altre differenze senza fare nissuna menzione di questa».
Questa causa fu travagliata con molto ardore da ambe le parti, ma in onta agli impegni del nunzio e della corte di Roma, il governo volle mantenere ai Greci la loro libertà di culto, di che diede prova anco in un’altra circostanza.
Alcuni Greci imprigionati per eresia dal Sant’Offizio, erano riusciti a fuggire, a quel che pare, per connivenza od aiuto del governo medesimo o de’ suoi magistrati. Gl’inquisitori ed il nunzio ne fecero scalpore, e chiedevano la restituzione de’ fuggitivi e la prigionia di chi gli aveva aiutati a fuggire. Il governo procedendo colla solita sua gravità interrogò il Consultore, il quale, come è da aspettarsi, opinò che non si doveva fare nè l’uno nè l’altro. Ricordò al Collegio un Breve di papa Pio V, ora santo, il quale dichiara scomunicato chi rompe i carceri del Sant’Offizio o fa fuggire o tenta di fuggire; gravando il primo caso di lesa maestà, degno di morte, di confisca de’ beni, infami i discendenti suoi, incapaci di successione, di eredità, di donazione o legato od onore alcuno. Osservò quindi le esorbitanze di esso Breve, e l’Inquisizione essere il mezzo con cui la corte romana acquista autorità ed assoggetta alle sue leggi i popoli; e quanto sia necessario invigilarla e reprimerla e non menarle buono alcuna pretesa, e tenerla soggetta; perocchè se adesso le si concede di agire contro gli autori della fuga, altra volta vorrà agire contro il guardiano del carcere, poi contro il magistrato e finirà col padroneggiare ogni cosa.
I litigi colla Curia erano pressochè continui, instancabile questa a farli scaturire l’uno dall’altro, e costante la Repubblica e ribatterli. Fu di nuovo tirata in campo la già mentovata bolla di Clemente VIII sui catolici che vanno in paesi di eretici, facendo rimprovero a’ Veneziani che mercanteggiassero coi Turchi; a cui il Sarpi rispose cavando fuori un elenco di Bolle papali che gli licenziava a far mercanzia nei luoghi infedeli. Un eretico come era Frà Paolo avrebbe fatto meglio a ricorrere ai principii del diritto politico, secondo i quali non tocca al pontefice a far leggi sulle relazioni e i commerci dei popoli; ma quella sua maniera di ragionare mostra ch’egli, per sfuggire le complicate questioni, si serviva degli argomenti ad hominem quando potevano bastare al suo proposito, e in tal caso concedeva ai papi una molto maggiore autorità che non è consentita dai presenti giuresonsulti.
Intanto che i Curialisti tribolavano i Veneziani in un modo, questi li mortificavano in un altro, seguendo l’uso antico. L’Inquisizione aveva imprigionato un Castelvetro, nipote del famoso Lodovico Castelvetro. I Dieci, colto il pretesto di far cosa grata all’ambasciatore inglese, lo fecero cavar di prigione senza dir nulla ai frati, e lo mandarono via. Tanta paura incuteva questo tribunale, che neppure il nunzio ebbe coraggio di dirne una parola. Un Teatino non volle assolvere un suo penitente, forse per qualche libro così detto proibito, i Dieci messero lui in penitenza: alcuni monaci di Padova per motivi di feudo avevano stabilita una giurisdizione sui loro contadini, e il governo veneto gliela levò. Il vicario di Padova scomunicò alcune monache per ragioni temporali; i Dieci lo bandirono: il papa impetrò grazia, ma indarno; interessò il duca di Modena, e fu lo stesso. Di tante offese e ripulse, ei si avvisò di vendicarsene nella occorrenza di una promozione di cardinali, non comprendendo nissun veneziano: cosa, diceva il Sarpi, per la quale merita di essere ringraziato.
I frati per destare qualche reazione nel popolo fecero ricorso alle solite frodi: subornarono alcune giovani pinzochere, che cominciarono a vantar estasi e rivelazioni e miracoli, e fino a sudar sangue pei peccati di questo mondo: gli sfaccendati furono in moto, increduli e’ divoti correvano a vedere i portenti, la plebe ne parlava col solito stupore, e i gesuiti che da lontano menavano quel negozio si compiacevano della riuscita; ma il doge fece chiudere le santocce in un monastero, e scoperto l’artificio umano cessarono i prodigi.
In quest’anno medesimo apparve colla data della Mirandola un libretto col titolo: Squitinio della libertà di Venezia, nei quale l’autore toglieva a provare, non sussistere la libertà originaria della Repubblica vantata dagli scrittori veneziani; ma che invece fu prima soggetta agli imperatori romani, poi ai re goti, poi agli augusti bizantini, e neppure fu al tutto indipendente dagli imperatori tedeschi. Brevità di volume, scelta erudizione, molta pratica di storia e di giurisprudenza, assai fatti o punti di critica esposti e discussi con novità, diedero molta voga a quell’opuscolo, e fu letto avidamente. Per vero, stando alla massima del jus pubblico che il possesso di fatto negli uni e il consentimento negli altri costituiscono il diritto, poco doveva importare a Venezia lo Squitinio; e il ridestare que’ rancidumi non era nell’autore che una pedanteria da leguleio. Ma la cosa non era così. Prescindendo dall’orgoglio dei Veneziani che la loro Repubblica fosse nata libera, il che a stento si potrebbe difendere, in quella età si supponeva che i diritti dell’Imperio erano imprescrittibili, e che nè forza di trattati, nè longevità di tempo valevano ad estinguerli. Ciò che, se fosse stato vero, quelli che allora si chiamavano imperatori romani, benchè tedeschi, e spesse volte non avessero mai veduto Roma, avrebbero dovuto ampliare le loro pretensioni su tutti gli stati dell’Europa; ovvero se questa imprescrittibilità di un diritto o di un possesso originario potesse mai aver forza, richieste a sindacato le ragioni di tutti i monarchi, si troverebbe che neppur uno possiede legittimamente gli stati che tiene. Eppure una così assurda giurisprudenza pretendevano di mettere in voga alcuni pubblicisti alemanni, e i ministri spagnuoli, per nuocere a Venezia e molestarla tanto sia pel suo dominio dell’Adriatico, come ancora per alcune sue terre del Friuli e della Dalmazia, altre volte appartenute all’Imperio o all’Ungheria. E infatti è opinione vulgata che quel libro fosse opera del marchese di Bedmar, diplomatico di squisita erudizione e di molta pratica nei governi, e data in luce allora che vertiano differenze assai gravi della Repubblica coll’Austria e la Spagna, per cagione degli Uscocchi, per la navigazione dell’Adriatico, per le leghe di Venezia coi Grigioni ed Olandesi, pei soccorsi da lei prestati ora al duca di Mantova ora a quel di Savoia, e per altre cose in cui ella avversava le mire delle due case austriache, a intendere le quali è necessaria qualche digressione.
Venezia da tempi antichissimi si vantava sovrana dell’Adriatico. E veramente a chi considera la posizione sua, la distesa de’ suoi possessi lungo il littorale, la necessità che per difendersi aveva di dominare assolutamente quel mare, le spese enormi e le guerre che fece e che allora faceva per purgarlo da’ pirati o tenerne lontano i Turchi, conviene confessare che la sua pretesa era ragionevole. Ma era nata e durava già da più anni una peste che intenebrava l’Adriatico e ne interrompeva la sicurezza e il traffico. Alcuni profughi noti col nome di Uscocchi, pirati arditissimi e crudelissimi se mai ve ne furono, cacciati dai Turchi, si erano ricoverati in Segna, terra sull’Adriatico che apparteneva all’arciduca d’Austria duca di Carinzia, e di là partendo, colle loro uccisioni e rapine travagliavano i naviganti. Da prima furono scopo de’ loro risentimenti i soli Turchi; ma questi richiamandosi fieramente a Venezia, la Repubblica per tema di romperla con quel potente e pericoloso vicino ordinò a’ suoi navili che facessero man bassa su quanti Uscocchi li capitavano; e gli Uscocchi a vendetta assaltavano i carichi mercantili de’ Veneziani, si buttavano sulle isole della Dalmazia e sulle terre dell’Istria che desolavano coi saccheggiamenti, colle uccisioni e colle fiamme. Il senato se ne querelava coll’arciduca; ma un po’ per mala volontà di lui, un po’ per l’avarizia de’ commissari mandati sul luogo e de’ governatori del paese che facevano a mezzo coi ladri, non si potè mai venire a conclusione, e intanto l’Adriatico diventava un paraggio infesto ai cristiani e a’ Turchi. Questi vennero all’armi; assaltarono l’Ungheria nel 1592: la guerra durò 14 anni con grave jattura dell’Austria che perdette parte di quel reame e il meglio della Croazia. Nel 1602 Giuseppe Rabatta, gentiluomo d’integra fama, fu dall’arciduca mandato a Segna per metter ordine ai pirati. Fu giustamente severo; alcuni mandò al patibolo, altri trasportò in altri luoghi; ma egli fu assassinato per le brighe di quelli che nella rovina degli Uscocchi trovavano un fine alla loro ingordigia. Tornarono da capo i ladri e durarono le rapine fino al 1612, finchè si cercò di metterci un nuovo riparo; ma così debole che non ebbe alcun effetto. I Veneziani, temendo lo sdegno dei Turchi chè erano corsi fin sul loro territorio ed arsero alcuni villaggi, fabbricarono la fortezza di Palmanova nel Friuli e si diedero con più calore che mai ad usare la forza cogli Uscocchi; e non giovando coll’arciduca nè le ragioni, nè le minaccie, vennero a guerra che durò fino al 1617: e siccome per le brighe di Spagna i principi d’Italia avevano inibito alla Repubblica di assoldar uomini nei loro Stati, essa fu obbligata a rivolgersi ai Grigioni e agli Olandesi, coi quali pattovì amicizia e soccorsi reciproci.
Cagione della durezza dell’Austria era la sovranità del golfo. Il ramo di questa casa che regnava in Germania vi pretendeva ragioni pel suo littorale dell’Istria e dell’Ungheria; e l’altro che regnava in Spagna e possiedeva Sicilia, Napoli e Milano, vi pretendeva pel suo littorale di Puglia. I monarchi di Madrid, stupidi, viziosi e divoti, qualità che vanno spesso congiunte, paghi delle adulazioni di una corte tutta cerimoniosa lasciavano il maneggio degli affari a’ loro ministri, e i governatori che mandavano negli Stati d’Italia vi venivano con autorità tanto assoluta quanto a pascià: i quali ambiziosi ed avari, tormentavano gli Stati vicini per soggettarli, e tiranneggiavano i popoli per arricchirsi. Uno dei loro orgogli era l’ingrandimento della monarchia spagnuola, il cui dominio avrebbono voluto estendere per tutta la penisola. Ma gli attraversava la costante e scaltra politica della Repubblica, che gelosa per sè andava ora scopertamente, ora sotto mano suscitando ostacoli a que’ rapaci stranieri. Da qui un odio terribile contro di lei, e quei satrapi non pretermisero occasione di nuocerle, fin anco a suscitarle contra i Turchi. Più caldi, siccome più a portata di offendere, si mostravano i governatori di Milano e i vicerè di Napoli, e questi ultimi specialmente assunsero l’aperta protezione degli Uscocchi.
Ad ogni querela del Senato i ministri austriaci proponevano per primo patto di accomodamento che potessero anco i legni armati d’Austria e Spagna entrare nel golfo. La Repubblica intesa a difendere le sue ragioni coll’armi, non pretermise di sostentarle eziandio cogli scritti; e per servire di lume al governo e d’instruzione a’ diplomatici Frà Paolo stese, per ordine del Collegio, cinque scritture sul dominio del mare Adriatico, di cui tre sono a stampa e due inedite, e più altri consulti, memorie e sunti che tutte insieme formarono un volume in foglio. Nel qual numero non è però da comprendersi un’operetta intorno al jus belli della Repubblica su esso Adriatico, che non è sua nè per lo stile nè per gli argomenti.
Altro lavoro relativo a questi negozi è l’istoria degli Uscocchi incominciata da Minuccio Minucci arcivescovo di Zara e continuata dal Sarpi. Alle querele di fatto dei Veneti gli Austriaci opponevano l’incredulità o dubbiezza o scusa, o che fossero esagerazioni: Frà Paolo a queste diplomatiche scappatoie oppose il testimonio autentico della storia. Era uso di quei tempi di dare a’ libri di scopo politico un’aria misteriosa, facendoli girare scritti a penna e lasciando che l’avidità de’ librai ne facesse poi qualche furtiva edizione. Questo metodo fu adoperato anco per la storia degli Uscocchi. Alla parte dell’arcivescovo di Zara il Consultore fece un’aggiunta che è un terzo dell’opera; poi tirando le faccende da lungo vi attaccò un supplimento che conduce la narrazione fin quasi al termine che ebbero quegli infesti e crudelissimi pirati, di cui colgo occasione per dirne l’indole e i costumi.
Fa maraviglia come un pugno d’uomini potesse apportare un così lungo travaglio, stantechè gli Uscocchi non arrivassero mai a più di sei o settecento atti all’armi, e computati i vecchi, i fanciulli e le donne, a 1000. Si dividevano in tre classi: casalini, cioè nativi di Segna, e non passavano i 100; stipendiati, ed erano Croati, Morlacchi ed altri Slavi, naturali nemici de’ Turchi e stipendiati dall’Austria per difendere Segna, ed erano 200 circa. Ma di stipendiati non avevano che il nome, stantechè quasi mai toccavano paghe. La povertà austriaca era tale che all’arciduca mancavano i denari per pagare un misero presidio di 200 uomini; onde quasi per necessità era costretto, con somma sua infamia, a lasciare che vivessero di ladreria. La terza classe di Uscocchi erano i venturieri, scappati dalle galere di Venezia o di Napoli, o banditi dalle Puglie, dallo Stato romano e dal veneto, le peggiori schiume del mondo. Avevano capi che chiamavano Vaivodi: non usavano armi difensive, e per offesa un archibuso leggiero, una mannaia e alcuni anco uno stiletto. Uscivano in corsa tutti i tempi dell’anno, ma le più grandi erano a Pasqua ed a Natale: usavano piccole barche contenenti 30 uomini, di rado 50; facevano le spese i capi, i soldati ricchi, le donne ricche, i preti e i frati, che tutti partecipavano al bottino in ragione di posta. Ne andava parte anco alla corte, ai cortegiani, ai governatori di Segna, ai generali di Croazia, e avveniva più volte che i pirati rubassero non per loro ma per gli altri: e spesso furono viste le gemme e i ricchi addobbi, predati a mercatanti, indosso a’ primi ufficiali di corte, sì da restare incerto chi fosse il vero ladro. Commissari mandati a reprimere le loro rapine andavano a Segna cenciosi e partivano con muli carichi d’oro. L’avarizia tedesca trovava nella ladronaia una inesausta miniera, e questo fu il precipuo fra gli ostacoli posti alla sua distruzione.
Come si narra dei Romani che rubarono le Sabine, così i profughi di Segna, mancando di donne, le rapivano dalle vicine isole venete della Dalmazia: preferivano le fanciulle di buona famiglia per avere pretesti di chiederne la dote; e se negata, altro pretesto di saccomanare le terre ai parenti. Trattate bene, tributate di gemme, di ricche vesti, della parte più scelta del bottino, lasciate in ozio, colla sola cura di far figliuoli, si adattavano facilmente a quel genere di vita disoccupata, comoda e licenziosa; e quando erano impedite le corse, esse medesime stimolavano i mariti a tratti di coraggio disperato, o gli svillaneggiavano. La vita arrischiosa degli uomini che perivano in mare o nei combattimenti o sui patiboli, faceva sì che restassero vedove di frequente; quasi sempre si rimaritavano e talvolta da più mariti eredavano immense ricchezze: la ferocia de’ mariti si era insinuata anco nel dolce sesso, sì che molte furono vedute lambire il sangue del misero Rabatta.
La crudeltà degli uomini sorpassava il credibile: assassinavano i loro nemici col massimo sangue freddo, e non di rado con tutti i raffinamenti della barbarie: gli arrostivano, ne mangiavano il cuore, ne bevevano il sangue, le teste cruenti mettevano sulla tavola: i lamenti de’ martirizzati erano per loro delizia o musica.
Audacissimi sul mare, furono veduti spesse volte colle loro fragili barche sfidare le più spaventose procelle, passare fra mezzo a scogli e sirti dove pareva che le onde dovessero sfrantumarli. Inseguivano con celerità i navili da carico, fuggivano con uguale celerità i navili armati; si rintanavano nelle più meschine rade, si sperdevano in quel labirinto di scogli ond’è irto il mare Liburnico, spiavano la preda, schivavano i persecutori; e se necessità voleva, a disperdere ogni traccia del loro cammino affondavano su piaggia deserta le barche, si occultavano nei boschi o nelle caverne per poi ricomparire quando meno aspettati.
Ma il loro coraggio era brutale e usato piuttosto nei rischi di mare e nel delitto che in generose pugne. Appena vedevano una squadriglia si davano alla fuga; posti a guardia di una terra, appena assaltata la cedevano. Di ciò si possono addurre due cagioni: la prima, la debolezza delle loro armi sì che male potevano resistere a soldati agguerriti e bene difesi; l’altra, la coscienza de’ loro misfatti e la certezza, se andavano presi, di una morte infame; il che gli consigliava a procacciarsi pronta salvezza. Ma se accadeva che fossero stretti da ineluttabile necessità, si battevano da disperati.
Di questa rozza gente fu per più anni vescovo il celebre Marco Antonio de Dominis che molto si adoperò per trarli dalla vita selvaggia; ma gli altri preti e frati nutrivano pensieri diversi, perchè sovvenendo le spese di armamento e partecipando ai ladronecci, trovavano una più comoda via di arricchire che non il meschino traffico delle messe; ond’è che anco agli Uscocchi non mancarono i teologi per giustificarli, e provare che erano i migliori cristiani del mondo, e che il Santo Padre era coscienziosamente obbligato a proteggerli siccome quelli che combattevano in difesa della Bolla in cœna Domini.
Tale è il popolo di cui Frà Paolo ci ha data la storia. Essa può dividersi in tre libri. Comprende il primo ciò che fu scritto da Minuccio Minucci arcivescovo di Zara, dall’origine degli Uscocchi fino all’anno 1602 dopo l’assassinio di Giuseppe Rabatta; il secondo e terzo sono del Sarpi: il secondo comprende l’aggiunta che fece al Minucci dal 1603 sino al 1612; il terzo è il supplimento che tocca fino al 1616: con poche altre pagine avrebbe potuto l’autore compiere la sua narrazione. Tutta l’opera è scritta con ingenua semplicità, ma nella parte dell’arcivescovo vi è molto disordine, e a volta a volta si scorgono i pregiudizi del prete e dell’uomo di Curia: in quella del Sarpi si ravvisa invece l’omo di Stato. Pure presa insieme quell’Istoria, è soverchiamente prolissa, e manca in parte d’interesse attivo pei nostri tempi; il che è riconosciuto dallo stesso Sarpi, e ce ne dà la ragione dicendo di avere scritto non per i posteri ma per i presenti, e che ha dovuto necessariamente toccare assai minuzie onde appieno informare chi legge e metterlo in istato di pronunciare sentenza. Infatti lo scopo dei due scrittori fu quello di presentare una esatta relazione delle rapine e violenze di que’ pirati; delle tergiversazioni della corte di Graz che gli tutelava; della mala fede ed avarizia dei suoi ministri; dei danni che da ciò derivavano non solo al commercio dei Veneziani, ma eziandio a tutta la cristianità, stante le minaccie dei Turchi e il pericolo delle loro conquiste originate da una lunga guerra di cui gli Uscocchi furono la prima causa; e infine il pregiudizio che ne toccava alla morale e alla religione stantechè Segna e i contorni erano diventati il nido di un abbominevole libertinaggio e di crudeltà mostruose, e che la barbarie degli Uscocchi, e l’avarizia di mercanti pugliesi avevano ripristinato sui lidi dell’Adriatico l’atroce traffico degli schiavi, detestato dalla Chiesa: di quinci il lettore poteva inferire quanto giustamente la Repubblica domandasse la distruzione di quel covile infame, e quanto ingiusti e pericolosi i pretesti degli Austriaci per opporsi.
Malgrado i notati difetti è l’istoria abbastanza curiosa per eccitare vaghezza di leggerla: se stancano alcune lungherie, compensano diversi tratti singolari di barbaro eroismo: e forse più di un lettore leggendo degli Uscocchi inalzerà il pensiero a considerare che forse tali erano i Romani o le città greche de’ secoli remoti; certo, se non avessero avuto un nemico così irreconciliabile come Venezia, sarebbero divenuti una repubblica di formidabili pirati; e se avessero avuto migliori leggi, o il tempo di conoscerne il bisogno e il pregio, una potente e gloriosa repubblica.
Nissun governo era così metodico e grave come quello di Venezia. Volendo che ogni suo atto apparisse fondato sulle regole della giustizia, non imprendeva cosa di momento senza udir prima il parere de’ suoi Consultori: ottimo divisamento per persuadere la moltitudine, la quale, benchè composta di nobili, si può supporre senza ingiuria che molti per intelligenza non fossero gran che superiori alla plebe. Del resto ciascuno ha i suoi pregiudizi, e felice quel governo che sa bene guidarli. Così volendosi far lega con Grigioni ed Olandesi protestanti, ad appagare la coscienza dei deboli, il Collegio propose al consultore Frà Paolo la questione se era lecito a principe cattolico di collegarsi con eretici. Il lettore s’immagina già la risposta, e che fra le altre prove non ha dimenticato l’esempio di molti pontefici, e in particolare di Giulio II e di Paolo IV che si allearono coi Turchi per combattere i cristiani.
Alla materia degli Uscocchi fu aggiunta dall’Austria quella del patriarca di Aquilea. Il territorio di questa città, di cui più non esistono che poche rovine, apparteneva feudalmente al patriarca, sovranamente alla Repubblica dopo che si ebbe conquistato il Friuli, e l’Imperio vi vantava i suoi diritti di alto dominio. Siccome la giurisdizione spirituale del patriarca si estendeva anco sugli Stati dei duchi d’Austria e di Carintia, così in varii tempi furono stabiliti regolamenti dai due governi per la nomina del prelato e convennero, al dire degli Austriaci, che sarebbe eletto una volta dall’uno è una volta dall’altro. Ma il patriarca veneto o che da sè il facesse, o per intendimento col Senato, a deludere l’accordo si elesse un coadiutore con facoltà di succedergli, e questo un altro, e così via via, di forma che i sovrani austriaci non fecero mai alcuna nomina: e’ se ne dolsero, insorsero a più riprese, vietarono ai loro sudditi di ubbidire al patriarca, e ricorsero alla Santa Sede per una separazione della diocesi. Tuttavia Venezia seppe trovar sempre qualche palliativo, e la questione dormiva già da 60 anni quando fu rinfrescata in questa circostanza a fine di movere più ampie difficoltà alla Repubblica e obbligarla a calare per la libera navigazione dell’Adriatico. La Repubblica incaricò il suo Consultore di assumerne la difesa; il quale trasse fuori quanti documenti, istorie e allegati potè dissotterrare dagli archivi, sì che le sue scritture tra consulti e minute su questo proposito compiono anch’esse un tomo di manoscritto. Pure la controversia non ebbe fine se non se nel 1749, quando l’imperatrice Maria Teresa, non volendo che i suoi sudditi dipendessero per l’ecclesiastico da un vescovo forestiero, ottenne da Benedetto XIV che il patriarcato fosse diviso di due sedi, e furono l’arcivescovo d’Udine e quello di Gorizia.
Le narrate contenzioni che fruttarono una guerra con l’Austria, e un’altra con la Spagna per sostenere il duca di Savoia, furono terminate pel trattato di Madrid nel 1617. E per tornare allo Squitinio, non irragionevolmente la Repubblica se ne adombrò, e sospettò che vi si nascondesse sotto tutt’altro che lo scopo di scrivere un libro. Per la qual cosa intanto che il popolo inveiva nelle sue canzoni contro l’autore dello Squitinio, il governo commetteva al Sarpi di esaminarlo e di confutarlo. Ed egli a questo fine imprese uno studio particolare delle cronache di Andrea Dandolo, il più antico ed anco diligente ricoglitore di memorie patrie; ma o che trovasse la confutazione difficile e solo atta a mettere in disputa ciò che la ragione e il consenso universale aveva per rato e valido, o che fosse distratto da altre occupazioni, certo è che su questo proposito non fece che raccoglier materiali e stendere alcune bozze assai imperfette.
Trovo scritto e ripetuto in più libri che il marchese di Fontenay Marevil andando ambasciatore di Francia a Roma, e passando per Venezia, si trattenne con Frà Paolo, dal quale seppe che lo Squitinio era una vendetta della Curia di Roma contro la Repubblica; e che avendo egli commissione di confutarlo, disse al Collegio, non esser bene toccar quella materia, e che invece presentando la sua Istoria del Concilio Tridentino, soggiunse: si pubblichi questa e la corte di Roma avrà a pensare piuttosto a difendere sè che ad attaccare gli altri. A cui il Fontenay rispose: Padre, ciò si chiama dare una stoccata per uno schiaffo. Se è vero, che il marchese abbia inserito questo racconto nelle sue Memorie, niente altro significherebbe se non che anco gli ambasciatori scrivono delle bugie. Fontenay andò a Roma solamente nel 1641, e prima di quell’epoca non aveva veduta l’Italia. Frà Paolo era già morto da dicianove anni.
In mezzo a tanti lavori il Consultore godette sempre, all’avvenante della sua gracile complessione, di una buona salute; quando nel luglio del 1612, sessantesimoprimo della sua età, trovandosi a grave consulta in casa del cavaliere Servilio Treo, altro Consultore di Stato, fu sorpreso da febbre che procedendo gagliardemente, accompagnata da somma nausea di ogni cibo e bevanda, lo condusse quasi a fin di vita. Egli che desiderava di morire naturalmente, non avrebbe voluto medici; ma il governo gliene mandò buon numero, tra i quali il suo amico Sartorio, onde il Sarpi scherzando disse: «Questo ho io avanzato, che mi conviene ad altri più creder di me, che a me medesimo». Aggravandosi il male, Sartorio lo lasciò sfidato; e il giorno dopo andatolo a trovare, il Sarpi cominciò a burlarsi di lui, nè voleva che gli toccasse il polso, dicendo: «Mi avete ieri così perentoriamente sentenziato a morte, ed ora mi volete accarezzare?» Il medico lo cosigliò a bere latte di asina, ed egli: «Che bel consiglio da amico. Ora che ho sessant’anni volermi imparentare fratel di latte con un asino!» Infine dopo diciotto giorni tornò a ricuperare la sua salute.
Saputa in Roma la grave infermità del Consultore, fu festa in Curia e pareva già di vedere la mano di Dio parata a percuotere la testa del grand’empio. Contavano ad ogni corriero di udir notizia della sua morte; il papa istesso non dissimulava la sua gioia, come se ai papi e ai loro cortegiani abbia San Pietro concesso il privilegio di non morir mai; o che la specie del morire, o una vita più lunga o più breve siano argomenti di virtù o di vizio. I fanatici hanno di strani pregiudizi per la testa, e non è il meno pernicioso il credere che Dio provi in sè le passioni medesime di loro. Mortificati dalla fortuna rispetto a Frà Paolo, si confortarono per la morte del doge Leonardo Donato: colpito da apoplessìa la mattina del 16 luglio intanto che tornava dal Collegio, rese lo spirito in età grave di 77 anni. Uomo pio, egregio, di bella fama, di molta consumatezza negli affari, lasciò dolore nel Sarpi che in lui perdeva un amico, lutto in Venezia, gioia in Roma. I gesuiti attribuirono quella morte a giudicio di Dio, quasi gran miracolo in uomo ottuagenario. «Se ne allegrano, scriveva Frà Paolo, ma indarno. Vedranno a loro sconforto che non lui solo, ma la parte migliore dei patrizi conosce le arti gesuitiche. Finora hanno niente guadagnato, e niente guadagneranno per l’avvenire, spero». Al Donato successe nella dignità ducale Marc’Antonio Memmo.