Biografia di Frà Paolo Sarpi/Vol. I/Capo XVII

Capo XVII.

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CAPO DECIMOSETTIMO.


(1607). Resta ora nei lettori la curiosità di conoscere quali fossero gli assassini, e da qual mano guidati: trattazione che ho voluto riservare a questo capo, avendo io potuto intorno a questo particolare raccogliere notizie sconosciute agli altri che scrissero di Frà Paolo.

I sicari furono: Ridolfo Poma veneziano;

Alessandro Parasio anconitano, già da due anni bandito dalla sua patria per avere assassinato lo zio, e partecipato ad altri misfatti; e ritiratosi a Venezia, in casa di certi mercanti Gottardi parenti suoi e del Poma, ivi insegnava di scherma nella quale molto valeva: aveva anco fama di essere spia salariata dell’inquisitore di Roma;

Michiel Viti prete bergamasco dimorante a Venezia, solito a ufficiare nella chiesa di Santa Trinità: aveva incontrata qualche intrinsechezza con Frate Fulgenzio, cui andava spesso a visitare nel convento sotto colore di farsi instruire di casi di coscienza e di altri punti di teologia e di religione;

Pasquale da Bitonto, parente anch’esso del Poma, e Giovanni da Firenze banditi da varii luoghi, e soldati in una compagnia al servizio della Repubblica;

Ettore di Ancona nipote del Parrasio, del quale, quantunque non parli il bando del Consiglio dei [p. 327 modifica]Dieci, si trova cenno nel carteggio dell’ambasciatore Contarini. Più altri di cui ignoro il nome.

Corse allora fama e dura tuttavia che l’orrida congiura fosse maneggiata dalla corte di Roma: io senza affermar nulla esporrò ingenuamente quanto ho potuto ricavare dai dispacci di Francesco Contarini ambasciatore veneziano a Roma, a cui era stata data dal governo la commissione di fare le più diligenti ricerche; da alcune lettere di Agostino Dolce residente della Repubblica a Napoli; e dalle lettere intercette che Ridolfo Poma scriveva alla sua famiglia, o riceveva da lei.

Innanzi tratto devo notare alcune fallacie del Grisellini, ch’e’ ricopiò parte delle Istorie di Augusto de Thou, amico invero del Sarpi, ma che non potè nulla cavargli di preciso intorno a quest’affare sul quale si ostinò ad osservare un inviolabile silenzio; e parte da alcune pretese notizie trasmesse dall’ambasciatore della Repubblica a Roma ai capi del Consiglio dei Dieci e da questi al Senato comunicate. Secondo lui, autori dell’assassinio furono i gesuiti che ne commisero la cura al Padre Possevino, il quale ottenne dal cardinal Borghese ampia facoltà di usar quei modi che avvisasse più acconci. Pe’ suoi maneggi il Sant’Offizio processò Frà Paolo, il papa lo scomunicò pubblicamente con un suo Breve, e non essendo comparso alla citatoria, fu qual ribelle e contumace sentenziato a morte. L’esecuzione fu affidata a Ridolfo Poma, del quale il Possevino si ebbe in pegno due figliuoli: l’Inquisizione gli diede denari e lettera patente per lui e pei suoi cooperatori. Temo assai che siano altrettante invenzioni [p. 328 modifica]del Grisellini. Il documento ch’ei cita non sembra abbastanza autentico, benchè dica di averlo avuto dal conte Wrachien consultore di Stato; indica nemmanco il nome dell’ambasciatore a cui attribuisce la scoperta di quell’intrigo: ma ponendola il Grisellini sotto l’anno 1612, l’ambasciatore dovreb’essere Tommaso Contarini, tornato dalla legazione di Olanda e mandato l’anno innanzi a quella di Roma. Io non conosco il suo carteggio, ma può ben essere che egli abbia raccolte quelle notizie siccome voci popolari che correvano, e come tali il consultore Wrachien le abbia somministrate al Grisellini il quale poi le avrà condizionate a modo suo. Intanto io vi rilevo le seguenti falsità: 1.° Nissun Breve di scomunica fu mai pubblicato, almeno in palese, contro Frà Paolo; anzi il governo veneto fece intendere al pontefice che una simile scomunica, ove non avesse altro appicco che gli scritti del frate intorno all’interdetto, l’avrebbe considerata come rivolta a sua propria offesa mentre il Sarpi non aveva fatto altro che sostenere le ragioni del governo: fu appoggiato dall’ambasciatore di Francia. 2.° La storia dei due figliuoli del Poma lasciati in ostaggio al Possevino, comechè raccontata dal de Thou, è una favola: quando il Poma andò a Roma, uno de’ suoi figliuoli stava a Bitonto, l’altro a Padova. 3.° È ben vero che in Francia correva la fama di processi secreti fatti dal Sant’Offizio e di crocesegnati o patentati dai gesuiti per eseguirne le sentenze; ma Frà Paolo che doveva essere bene informato dubitava di tai crocesegnati ed osservava che nè in Spagna nè in Italia i gesuiti si brigavano [p. 329 modifica]d’Inquisizione. «Ciò nondimeno, aggiunge, so che i Curiali mi hanno fabbricato addosso un simile processo secreto, ed è con questo che difendevano i sicari che mi hanno assalito». Scommetterei che il Grisellini ha da queste parole congetturato tutto il suo racconto.

Ridolfo Poma, negoziante di olii e simili generi, teneva fondaco a Bitonto nella Puglia e distese relazioni in tutto il regno di Napoli. Vedovo, gli restavano sei figliuoli; quattro femmine e due maschi. Delle femmine due erano monache, una in Padova, l’altra a Venezia; e due assai giovanette restavano presso le zie, poi furono messe anch’elle come educande in monastero pei maneggi di Don Onorato Imberti, vicario del vescovo di Padova e suo amico, il quale era anco maestro del minore dei due maschi, di 14 a 15 anni, per nome Ruffino; il maggiore Giambattista, ammogliato con tre figli, stanziava a Bitonto.

Peggiorati i suoi affari e ridotto a fallimento lasciò Venezia fra il maggio e il giugno per andare a Napoli a riscuotere alcuni suoi crediti. Ma giunto a Roma s’incontrò con Alessandro Franceschi prete veneziano, già suo sensale, giovane, ambizioso, intrigante, e che spinto a Roma dalla voglia di far fortuna, per darsi credito spacciavasi espatriato perchè volle osservare l’interdetto, e frequentava le anticamere del cardinal Borghese e di monsignor Metello Bichi vescovo di Soana ed auditore del papa, e che fu poi cardinale. Non ho potuto rilevare donde abbia avuto origine il progetto di assassinare Frà Paolo; ma è probabile che Ridolfo abbia esposto al [p. 330 modifica]prete i suoi casi; la decaduta fortuna, il bisogno di ristorarla, la famiglia abbandonata e tali altre strettezze; e che passando da un ragionamento all’altro siasi venuto in proposito di quell’assassinio come espediente facilissimo per fare una rapida fortuna. Siccome gli uomini diventano scellerati per gradi, parrebbe che il Poma, reputato persona onorata in Venezia, o fosse già instradato sulla via del delitto, o che l’avidità dell’oro lo abbia talmente accecato da non lasciargli vedere i pericoli a cui esponeva sè medesimo, i figliuoli, la madre e i pochi beni che ancora gli sopravanzavano.

Ma a quei tempi era volgatissima, difesa a Roma come dogma, e inculcata da preti e frati e con maggior cura da’ gesuiti, la massima che chi ammazza l’eretico otteneva da Dio ampia perdonanza de’ suoi peccati; talchè il delitto, non che apparisse sotto le orrende sue forme, si vestiva agli occhi de’ fanatici di un carattere religioso. Ne sono pieni i libri di Bellarmino, Becano, Mariana, Suarez, Toleto, Bonarscio, Azorio ed altri cento: ne furono vittima Enrico III ed Enrico IV, il principe di Nassau, e poco mancò che non lo fossero la regina Elisabetta, il re Giacomo e Duplessis Mornay cui un eremita andò per assassinare nel suo letto. Clemente VIII, pontefice tutt’altro che fanatico, concedette per un Breve ad alcuni cittadini di Rieti di ammazzare gli assassini del loro padre: eccessi naturali in uomini a cui l’adulazione aveva persuaso di essere uguali in potere ed autorità a Dio. Ora non è più da meravigliare se Ridolfo Poma, depresso, bisognoso, colla vergogna di un fallito, col desiderio di [p. 331 modifica]ripristinare la sua fortuna, circuito da casuisti insidiosi e feroci, sedotto da splendide apparenze, dalla facilità del disegno, dal merito che avrebbe acquistato presso la Chiesa, dall’avidità di grossi guadagni e dall’ambizione degli onori, si lasciò allucinare al punto di diventare uno scellerato. Fra’ suoi consigliatori e teologi v’ha fondamento di dover contare anco un provinciale de’ domenicani di Venezia che allora si trovava in Roma e che ebbe spessi colloqui con Ridolfo. I primi concerti sembra che siano stati presi col vescovo di Soana. Ridolfo si abboccò anco col cardinal Borghese; ma quali fossero i discorsi, è difficile indovinare. Certo è che da quel tempo cominciò a scrivere a Venezia cose grandi: che i suoi affari si avviavano a prospero indirizzo, che ben presto sarebbe più ricco di prima, che nel cardinal nipote aveva trovato un generoso protettore che gli aveva promesso di allogare nobilmente in monastero le altre due sue figlie e inalzare il suo Ruffinetto ai primi onori della Chiesa.

Quattro mesi consumò il Poma ad affinare il suo disegno: ed era, siccome gli veniva raccomandato, di pigliar vivo Frà Paolo, imbavagliarlo in un sacco, metterlo in una barca e portarlo nello Stato Ecclesiastico; e se non riusciva in questo, toglierlo di vita. Sovvenuto di danari partì da Roma verso il settembre, tornò occultamente in patria; e sembra che il resto de’ suoi concerti gli facesse in Padova, nel monastero dov’era sua figlia, con quel vicario Imberti che ho soprannominato e con altri preti e frati; e che pensasse di rapire il Sarpi cogliendo l’occasione che si recava a visitare in quella università i professori suoi amici, come soleva. [p. 332 modifica]

Poma si era indettato col Parrasio e cogli altri compagni, stipendiò pel bisogno varii banditi, noleggiò una peotta con tre barcaiuoli a cui diede ad intendere di voler prima andare a Loreto e poi in Puglia; bisognando di uno che spiasse, senza essere sospetto, i passi di Frà Paolo onde far conto del luogo di appostarlo, lo trovò in Michiel Viti, sacerdote, dice monsignor vescovo Fontanini, fornito di religione e di pietà. Ma non riuscendo il progetto di rapirlo nelle acque tra Venezia e Padova, perocchè il Sarpi ammonito dagli Inquisitori di Stato non usciva più dalla capitale, il Poma deliberò di andar a consumare il suo delitto a Venezia. Ben prevedendo che il governo avrebbe confiscato ogni suo avere, prima di effettuarlo fece pacchetto delle cose mobili e più preziose che ancora gli restavano, onde trasportarle nella fuga. Non disperava d’impossessarsi vivo della sua vittima, al qual uopo appostò variamente i suoi satelliti, che allo sparo d’una pistola accorrere dovevano; ma quegli che doveva sparare mancò di animo, e gli altri, pressati dal momento, ferirono Frà Paolo nel modo che narrai; poi fuggendo si sbandarono per vie diverse per trovarsi a luoghi convenuti. La peotta gli aspettava al Lido; ivi s’imbarcarono Michiel Viti e il Poma, che cacciato dalla furia del popolo di cui da lontano si sentivano le grida, e saltando in naviglio tutto turbato, gettò via il ferraiuolo, depose l’archibugio, e prendendo anch’egli il remo in mano e sollecitando i gondolieri esclamò: Poveretti noi, saremo tutti squartati; ed uno di essi che forse era a parte, almeno in oscuro, del disegno, soggiunse: Signor non [p. 333 modifica]dubiti, finchè me vede mi. Approdati altrove, levarono il Parrasio e gli altri; ma in que’ precipizi non tutti poterono fuggire; anzi quello che mancò al segnale non fu raccolto nella peotta, quantunque li supplicasse. Ond’è che in quella sera medesima varii di loro furono arrestati e rivelarono ai Decemviri quello che sapevano e il nome de’ sozii. Poma, sbarcato ad un certo luogo dov’era pronto un cavallo, andò a Padova a prendere il suo figlio Ruffino, e raggiunse i suoi compagni a Rimini. Questi, non potendo navigare la notte per avere il vento contrario, si erano fermati a terra e addormentati quando loro passò dappresso, senza vederli, la gondola del Consiglio dei Dieci che gl’inseguiva, del che sbigottiti fecero forza per allontanarsi da quei pericolosi paraggi.

Giunti negli Stati del papa, si andavano gloriando su per le osterie di avere ammazzato Frà Paolo, e vantavano un passaporto del cardinale Giustiniani legato di Bologna che loro permetteva di portare ogni sorte d’armi. Infatti erano muniti di pistole, di schidioni e di archibusi, e viaggiavano in due carrozze. La brutta coscienza essendo una cattiva compagna, appena udirono il bando terribile del Consiglio dei Dieci che prometteva l’ingente somma di 4000 ducati a chi ammazzava il Poma, e di 2000 per gli altri, furono compresi da tanta paura che deponevano le armi neppure a tavola. In un secolo divoto e quando l’Inquisizione prescriveva i libri e perseguitava gli eretici e puniva severamente chi frangeva i digiuni della settimana, tale funesto contagio producevano una religione venale e bastarda, [p. 334 modifica]leggi impolitiche ed inque, e molta ignoranza, che guasta la morale pubblica e disordinati i costumi, l’assassinio faceva ribrezzo a nissuno: il nobile e il plebeo vi si contaminavano egualmente, era in più casi canonizzato dai teologi, e i governi fiacchi e crudeli ne usavano come di mezzi per soddisfare alla giustizia contro famigerati colpevoli che si sottraevano alla pubblica vendetta: non ricordando che punivano il delitto col delitto, e che mettendo a prezzo la testa di un malfattore stabilivano un premio a ogni altro che voleva diventarlo. I barcaiuoli che avevano condotto i sicari di Frà Paolo, allettati dal premio e dalla impunità, saggiarono di sorprendere e di ricondurre a Venezia il prete Viti: altri, e in particolare gli osti, si dolevano di non avere conosciuto più tosto il bando, che avrebbono voluto guadagnare le taglie. Ad Ancona, dove gli assassini andarono a rifuggire, correva già voce che il Parrasio, a cui il delitto era abitudine e in casa del quale tutti gli altri alloggiavano, non sarebbe ito molto che avrebbe tolto di vita il Poma.

Il prete Franceschi appena seppe che Ridolfo si trovava ad Ancona, gli mandò per un Tedesco di lui servitore, restato in Roma col prete, una cambiale di 1000 ducati che fu pagata da Gerolamo Scalamonti agente del papa in Ancona: da qual mano provenisse questo denaro, lo ignoro. Si disse ancora che al Poma altra somma di denari fosse esborsata in Ferrara dal cardinale Spinola legato. Merita ancora di essere notato che tanto il Parrasio come un tal Lodovico venuto con esso lui da Venezia, banditi ambidue capitalmente da Ancona, [p. 335 modifica]furono accolti non solo e lasciati girare liberamente in questa città, ma che eziandio tutta quella geldra andava attorno munita di pistole, stiletti, archibusi, comechè proibitissimi negli Stati Ecclesiastici: e questo si diceva farsi con espressa permissione del governatore di Ancona; anzi in Roma correva voce che fossero assicurati dallo stesso pontefice. Per il che sursero grandi mormorazioni, non parendo onorevole che si dovesse tanto manifestamente dar loro ricetto e sicurezza. Tutti convenivano che vi fossero mescolate persone di alto affare, ed il cardinal Borghese e il cardinal legato di Ferrara erano indicati tra i primi.

Ma questi o chiunque altri si fossero i promotori del misfatto, temendo la vergogna pubblica, benchè mal soddisfatti ne’ loro desiderii, blandirono quei ribaldi e gli sostennero colle promesse acciocchè in loro tenessero il fatale secreto. Per il chè interrogato in Ancona il Parrasio da chi fosse stato spinto a quell’eccesso, rispose, da inspirazione divina; e il Poma in una lettera che scrisse dapoi a un suo amico, diceva: «Che non è uomo del mondo cristiano che non avesse fatto quello che ho fatto io, e Dio, non il tempo lo farà conoscere». Aggiungeva, tanto era inebriato di speranze, che bentosto sarebbe così dovizioso da pagare tutti i suoi creditori a denari contanti, e pregava l’amico ad assumersi l’impegno di chiamarli con pubblica grida. Fece anco sparger voce di voler stampare che non ad istanza di altri, ma per servizio di Dio si era risoluto a quel modo. [p. 336 modifica]

Dopo un soggiorno di alcune settimane in Ancona, andarono a Roma dove entrarono di nascosto, forse per non essere osservati dagli agenti dell’ambasciatore veneziano, e ricoverarono in casa del cardinale Colonna: quantunque il papa facesse divolgare che non voleva si fermassero nella città neppure un’ora, e’ vi stettero per più d’un anno, prima occultamente, e poi girando dapertutto e sino nei luoghi più frequentati e pubblici. È ben vero che il bargello gli andava ne’ primi giorni cercando; ma per quello si vede, non per commissione pubblica, ma per particolare ingordigia di buscarsi la grossa taglia.

Quando il cardinale inquisitore Pinelli ebbe notizia del tentato assassinio e che la voce pubblica ne incusava la Curia, disse al segretario della legazione veneta, che sperava che i senatori e le persone giudiziose di Venezia non seguiterebbero una così sinistra opinione, non si trovando esempio, nè detto nè fatto in secolo alcuno, che la Chiesa proceda con queste vie indirette e diaboliche. E tenete per certo che se sono stati tre a commettere il fatto, se ne averà alcuno, se non tutti, nelle mani, e si saprà anco per altre vie la verità.

È vero che la Chiesa non procede per queste vie diaboliche, ma ben vi procedono gli inquisitori; e vorrei sapere se il modo con cui furono trappolati a Roma e poi impiccati, Matteo Franco, Ferrante Pallavicino, Franceso Celaria, il Carnesecchi, Frà Fulgenzio francescano, l’arcidiacono Ribetti, l’abate Dubois e cento altri, sia modo più benevolo del farli assassinare da mani sicarie; oltre a ciò non [p. 337 modifica]tre, ma sei od otto o dieci erano i delinquenti, e tutti gli poteva avere l’inquisitore se gli voleva, e gli lasciò andare.

Per dissipare l’opinione che la Curia avesse eccitato l’assassinio del temuto Servita, fu stabilito in un concistoro di cardinali di divolgare che Ridolfo Poma aveva voluto privarlo di vita non per altro che per l’odio grande che gli portava, imputandolo del suo fallimento. Ma veduta la gofferia, ripiegarono, facendo spargere che era stato per gelosia di donne: que’ reverendi volevano essere un po’ troppo liberali del proprio.

Il papa invece non ne fece il minimo cenno coll’ambasciatore veneto; ma con quello di Francia disse: dispiacergli quell’accidente, non già perchè non desiderasse di vedere Frà Paolo castigato; ma perchè non voleva che fosse seguito il castigo per tale via, conciossiachè non mancherebbero i maligni d’interpretare le cose in sinistro senso formando concetti a modo loro; e se ciò era seguito per zelo di alcuno, lo teneva per zelo indiscreto e pazzo.

Ma o egli non era coerente a sè stesso o sapeva più di quello che voleva dimostrare. Perocchè giunta in Francia la nuova di quell’attentato, e surtovi un orrore e sdegno grandissimo per la enormità del caso, e tutti sgridando e vilipendendo la corte romana, il papa disapprovando, com’egli diceva, il fatto, chiese l’interposizione di Enrico IV acciocchè il governo veneto non andasse innanzi colle informazioni.

Turbava ancora il pontefice la somma concitazione che l’atto nefando aveva cagionato in [p. 338 modifica]Venezia in tutte le condizioni di persone, e che gli faceva temere qualche discapito della sua autorità e riputazione, peggiore del già patito. Lo turbava non meno il bando fulminato contro quei tristi, essendo fra di loro un prete; nè sapeva a qual partito appigliarsi, il parlare il tacere gli parendo egualmente pregiudicievole. Anzi un cardinale giunse a dire: Almeno avessero nominato nel bando Michiel Viti solamente, senza qualificarlo prete e senza far menzione della chiesa dove officiava!

Quel bando pesava molto sull’anima ai Curiali: lo dicevano pubblicato a posta per ferire la dignità ponteficia e la congregazione del Sant’Officio, attribuendo titoli di bontà e descrivendo con parole tanto onorevoli chi era incorso nelle scomuniche; che la Repubblica voleva essa decidere quello che non le appartiene ed usurparsi l’autorità del fôro ecclesiastico; che il chiamare Frà Paolo persona di esemplari costumi oltraggiava la romana Corte che di lui pensava altrimenti; che vantandolo di prestante dottrina, si veniva ad inferirne che la sua fosse migliore di quella di Roma; e finalmente colà dove il bando dice delle persone di qual grado e condizione si voglia, era un far credere che volessero tacitamente comprendervi l’istessa congregazione del Sant’Offizio quando pretendesse intentare contra Frà Paolo.

A questi clamori si aggiungevano per Roma e nelle anticamere de’ cardinali le disputazioni, se il papa ancorchè non vi avesse parte, doveva dar salvocondotto ai banditi. Le opinioni erano divise: i più discreti e indipendenti mormoravano; i [p. 339 modifica]fanatici e le persone fervide e cortigianesche sostenevano, esser obbligato a farlo per aver eglino tentato di ammazzare un eretico. Frate Bovio vescovo di Molfetta quel medesimo che scrisse contra il Sarpi, stando nell’anticamera del cardinale Borghese sentenziò senza scrupoli che si poteva in buona coscienza ammazzarlo; ed avendogli taluno considerato che non peranco era chiarito e pubblicato eretico, soggiunse: Basta che tale sia tenuto a questa Corte.

Qualunque poi fossero le opinioni, dice l’ambasciatore veneto che in generale tutti desideravano, quelli ancora che disapprovavano il delitto, che Frà Paolo fosse restato ucciso.

Pare nondimeno che il pontefice sentisse in sè certa vergogna che nella sua capitale alloggiassero esseri contro cui suonavano le maledizioni di tutta l’Europa; perchè qualunque sieno le opinioni parziali degli uomini, il delitto è sempre delitto. Per la qual cosa egli aveva ordinato al suo nunzio in Napoli d’intavolare alcune pratiche con quel vicerè, perchè i cinque sgraziati fossero accolti e sicurati nel regno; e vantando la Corte non so quali ragioni su certi beni nella terra di Bari intorno a cui era disputa tra i due governi, affine di mascherare il patrocinio che la Camera apostolica accordava agli assassini, convennero di assegnar loro provvisoriamente 1500 scudi all’anno su quei beni. Il vicerè, come spagnuolo e fautore de’ gesuiti, consentì volentieri i salvocondotti; ma la povertà dell’erario in quel paese ricchissimo, frutto delle spagnuole dilapidazioni ed insaziabile avidità degli amministratori, [p. 340 modifica]non permise che fosse dato adempimento al resto della convenzione. Ciò non ostante il Poma usò della congiuntura per trasferirsi a Napoli onde poter realizzare, se poteva, i suoi crediti; ma la sua vita era così poco sicura, che una volta egli e il Parrasio, giunti presso a Gaeta, furono avvisati di sicari appostati per ammazzarli, onde spauriti tornarono indietro; nè di allora in poi uscivano di casa o si commettevano in viaggio se non colle più grandi precauzioni e col maggiore secreto.

(1608). Alessandro Parrasio veggendo che gli effetti non corrispondevano di lunga mano alle promesse e alle speranze, aveva interessato monsignor Napi acciocchè gli ottenesse dal cardinale Borghese un premio conveniente al prestato servigio, e non avendone riportato che buone parole, si lasciò sfuggire alcune indiscrete espressioni. Fu messo in prigione: si disse che quello fosse un pretesto; ma la cagion vera, per levargli alcune carte. Fatto sta che anco in prigione fu trattato cortesemente, e dopo quaranta giorni rilasciato, consegnatogli 200 scudi per mezzo del cardinale Tonti auditore dei papa e suo confidentissimo, e fatto uscire dallo Stato con ordine di non tornarvi senza commissione del pontefice; egli poi aggiungeva che il cardinale Borghese lo aveva caricato di promesse ed offerte. Andò a Napoli.

Il Poma, che pure vi era, non avendo potuto riscuotere i danari che si prometteva, e in continuo pericolo delle coltella, ritornò più che in fretta a Roma nel solito rifugio di casa Colonna. I sussidi che riceveva da questo e da quel cardinale e [p. 341 modifica]sottomano anco dalla Camera apostolica, erano venuti meno. L’indegnazione del delitto e le sgrida di tutta l’Europa si facevano sentire anco a Roma, e ammonivano quella Corte ad essere più cauta. I più prudenti e consideratori arrossivano che si fosse prestata una così lunga ad aperta protezione a quei tristi: gli altri gli abbandonavano a poco a poco, o gli nutrivano di promesse. I gesuiti, quantunque favorissero il Poma, andavano scaltramente a rilento nel somministrargli denaro: a Napoli gli promisero di accettare suo figlio; ma poi vergognando di ammettere nella loro società la progenie, benchè innocente, d’uomo così infame, non lo accettarono. Gli fecero altre promesse, e non le mantennero. Altronde il colpo era mancato; il delitto, inutile; non paga la vendetta: bisognava almeno evitare l’ignominia di avervi partecipato.

Tutti quei ribaldi vivevano una vita affannosa, precaria, piena di pericoli e di miserie. I tre barcaiuoli incalzati da povertà, dal rimorso e dalla disperazione, e allettati dal generoso premio, offersero all’ambasciatore Contarini di ammazzare il Poma, o le occasioni di farlo ammazzar lui: partito che non parve conveniente al suo decoro. Altri s’indettarono col residente di Napoli per ammazzare o il Parrasio o Pasquale da Bitonto; infatti di lì a qualche tempo riuscirono in quest’ultimo. L’implacabile Consiglio dei Dieci concertava per avere la testa dell’odiato Poma, e già la nuova della sua interfezione si era sparsa in Venezia. Poma poi e Parrasio si fecero nemici per insidie che si tendevano a vicenda, e le figliuole del primo e i suoi amici [p. 342 modifica]gli scrivevano da Venezia, se ne guardasse e non uscisse più da Roma, chè avevano per certo, volerlo il Parrasio ammazzare. Dolorosa punizione di uomini delinquenti che flagellati dalla mala coscienza avevano sempre dinanzi l’immagine del loro delitto e gli spaventi del supplizio.

A questi miserevoli strazi si aggiungeva nel Poma lo stato infelice della sua famiglia in Venezia, ridotta a così estrema povertà che non trovava soccorsi neppure nei più prossimi parenti; egli stesso in Roma viveva penosamente, di giorno in giorno, cibato più di speranze che di pane, spogliandosi mano a mano di ogni cosa più necessaria, o mendicando qualche tenue soccorso da’ più caldi sostenitori. Confessa egli medesimo che passò uno de’ più rigidi inverni senza veder fuoco. Infelice, disperato, bestemmiò i santi, si votò al diavolo, ne fece una immagine, la pose sovra un altarino e disse che da lui solo sperava conforto. Inspirazione diabolica gli fece immaginare nuovi delitti: pensava di raccogliere una masnada, di armare con essa una barca, di andare nelle acque del Po, di scorrere i confini veneziani ed intercettare qualche ricco carico di merci o di danari che da Venezia alle province e viceversa di continuo viaggiavano. Gli fu suggerito di ritentare l’impresa contra Frà Paolo. Forsennato al segno di correre un pericolo evidente e morire fra supplizi orribili, accettò il partito e vi si adoperò col massimo impegno. Il proposito era di averlo assolutamente vivo e trarlo a Roma, scegliendo un giorno di solennità in cui tutti i preti e’ frati andassero in processione, di forma che il popolo sviato [p. 343 modifica]altrove, e il Sarpi trovato in convento con poca custodia, sarebbe stato agevole rapirlo e metterlo in una gondola. Il Franceschi, caduto anch’egli in tanta povertà che dovette scrivere a sua madre perchè gli mandasse alcuni fazzoletti, e un giorno fu costretto a impegnare un paio di maniche di broccato per un giulio (mezzo franco), fu il solito intromettitore presso il vescovo di Soana; e a incoraggire il Poma comparve di nuovo quel provinciale domenicano, di cui ho parlato di sopra.

Da quel punto il prete Franceschi tornò di nuovo a frequentare la casa del vescovo, usciva seco in carrozza e ne riceveva danari. Giunto a Roma Giambattista Poma, figlio di Ridolfo, lo introdusse a lui. Il vescovo lo accolse graziosamente e gli rimproverò con belle parole che suo padre non avesse altre volte saputo assestare negozio di tanto momento. Giambattista lo scusò versando la colpa sugli esecutori, e deplorò la sua ruina, la perdita della patria, delle sostanze e de’ figliuoli. Il resto del colloquio fu custodito gelosamente; ma è chiaro che si aggirò sul nuovo disegno del Poma; perocchè Giambattista disse al prelato, che suo padre aveva intenzione di arrivare sino a Ferrara; e per sicurtà, nel viaggio, della sua vita insidiata da tante parti, esser necessario che gli fosse data licenza di portar arme anco per gli uomini di sua compagnia. La licenza fu promessa, e monsignore nel congedarlo lo incoraggì ed esortò a fidare in Dio.

In quel medesimo tempo due altri preti di Venezia, Tonino della chiesa di Santa Stae e Leonardo di Santa Marcuola, incontratisi un giorno col [p. 344 modifica]Sarpi e salutatolo, cominciarono a ragionare tra sè del modo di ammazzarlo, e che era facile. Convenuti tra loro, Tonino andò a Roma, s’incontrò col prete Franceschi, gli parlò del suo disegno, e prometteva di avvelenare il Servita col mezzo di sua madre che serviva in casa di una vedova parente del Sarpi, cui egli andava spesso a visitare; ovvero di pugnalarlo di sua mano appostandolo sotto la scala. Era così sicuro del proposito, che correndo allora il mese di maggio, dava parola di eseguirlo per agosto; eppure diceva che per non insospettire sarebbe tornato a piedi e mendicando. Intanto domandava 60 scudi, non pel viaggio, ma per apparecchiarsi, dopo il fatto, i mezzi più spediti alla fuga.

Da alcune lettere intraprese dal Consiglio dei Dieci, da alcune informazioni da lui chieste a Roma, e da rivelazioni di un Alessandro de Magistrati suo emissario, pare che altra congiura di veneficio contro il Sarpi trattasse il cardinal Gaetano con un Croce, Genovese, medico del nunzio a Venezia. Era in Roma un dimenare continuo tra i preti, un continuo macchinar congiure, udire o proporre progetti, tentar uomini malvagi, prometter denari; i confessionari, la corte, le anticamere, le taverne, i conventi, erano diventate altrettante conventicole dove i ministri dell’altare trattavano colla più vile ribaldaglia al fine di riuscire una volta a far ammazzare Frà Paolo. Forse non esiste esempio di altro uomo che abbia accumulato sul suo capo tanti odii, e infuso a’ suoi nemici un così violento desiderio di vendetta. È certo almeno che la corte di Roma, gli odii [p. 345 modifica]di cui sono inespiabili, non ha mai odiato con tanta intensità e costanza alcun altro suo nemico, neppure Lutero e Calvino.

Il Franceschi confortò nel suo proposito prete Tonino, e ne parlò, siccome egli disse, col cardinale Borghese. Questo non sembra credibile, tutto al più avrà parlato con qualche suo cameriere, e pare nemmeno che ne riportasse alcuna risposta. Infatti prete Tonino non sembrava tal uomo in cui i persecutori del Sarpi potessero deporre grande fiducia; nondimeno ricevette dodici zecchini, e continuò col Poma la sua trattativa.

Bene consta che lo stesso cardinal Borghese siasi fatto introdurre in casa e abbia parlato con un Alvise Crisantich di Almissa, uffiziale schiavone disertato con un suo servitore dagli stipendi di San Marco, di gran cuore, e da porsi ad ogni sbaraglio, purchè fossevi da guadagnar denaro. Era venuto da Napoli col figliuolo del Poma, e si era unito a questi per l’impresa di rubare sul Po. Ma per Crisantich era tutt’uno: avrebbe volentieri commesso una pirateria da cui potesse ritrarre buon bottino, avrebbe del paro assassinato Ridolfo Poma, come n’ebbe il pensiero, per buscarsi la taglia dei 4000 ducati; e avrebbe poi assassinato anco il Sarpi per buscarne altrittanti dal cardinal Borghese. Insomma era un mobile buono per tutti. Prete Tonino era partito per Ancona ond’essere a mezzo di stabilire preventivi concerti col prete Leonardo restato a Venezia, e pare che persistesse nella idea di uccidere il Consultore di propria mano, quando ai compagni mancasse il colpo di rapirlo vivo. Ma intanto che [p. 346 modifica]operavano queste empie macchinazioni e che continuava il Poma gli apparecchi per la novella impresa a cui partecipavano come volontari tre frati de’ Minori Conventuali, Tommaso di Zanon, uno de’ barcaiaoli che aveva aiutato il Poma a fuggire da Venezia, indettatosi col segretario della legazione veneta, lo andava corrucolando per trarlo nella rete e darlo con tutta la geldra in mano de’ Veneziani. Gli assassini imbarcherebbono a Ferrara, Tommaso doveva guidarli; e siccome viaggiavano di notte e nissuno di loro era pratico dei luoghi, così egli approderebbe a tale o tal riva dove appostassero numerosi soldati della Repubblica. Tutti coloro erano disperati e sarebbonsi battuti sino all’anima, ma Tommaso pensava di bagnare la polvere in modo che non potesse più fare l’ufficio, così che sarebbero diventati una preda facile. Questa trappola era condotta con tanta secretezza ed accorgimento che non poteva fallire, nutrendo il Poma la migliore fidanza nel suo piloto; ma nel meglio della esecuzione, cioè quando stavano omai per partire, sopraggiunse un caso imprevisto onde affatto mutarono le cose.

(1608). Ai primi di novembre, per ordine del pontefice, fu intimato al Poma, sgomberasse lo Stato Ecclesiastico. Egli si era lagnato più volte dell’abbandono in cui lo lasciavano: Io ho ruinato casa mia, diceva un giorno, ho perduto tante migliaia di ducati, e vengo burlato, e si fa niente di me. Ora rinovò le sue querele e disse che non sarebbe partito, se non lo soccorrevano. Gli furono offerti 200 ducati, e di mettere Ruffino suo figliuolo in un seminario di Roma. Non si contentò, gridò, si lasciò [p. 347 modifica]sfuggire parole indiscrete e minacciò persino, dicono, la persona del pontefice. Il bargello lo andò a trovare, la sbirreria circondò il palazzo Colonna, entrò dentro senza cerimonie. Poma e i suoi fecero resistenza: si venne alle archibugiate; egli e suo figlio Giambattista e un suo nipote restarono feriti, presi, messi in carrozza e portati in carcere: il figlio e il nipote di lì a qualche tempo furono lasciati andare, e Ridolfo, toltegli tutte le sue carte, fu condotto nella fortezza di Civitavecchia dove finì arrabbiatamente i suoi giorni.

I Colonna si risentirono di questo poco rispetto portato ai privilegi di asilo del loro palazzo; ma pare che il bargello abbia fatto assai più che non gli era stato comandato, anzi diceva pubblicamente che se venivano condannati voleva dimandare la taglia promessa dal governo veneto: ma invece fu destituito dal suo impiego, e uno sbirro incolpato di avere scaricate le armi, fu messo in prigione.

In questo mezzo Alessandro Parrasio tornato ad Ancona mandava a Roma un suo fratello per domandare qualche soccorso. Diceva che dei 200 scudi promessigli quando fu fatto partire da Roma, il cardinale Tonti gliene aveva pagati 20 soltanto. Ciò non sembra vero, perchè egli stesso disse a Napoli che aveva ricevuto 200 scudi. Il papa mandò ordine ai governatore di Ancona di arrestarlo e mandarlo a Roma: così anco il Parrasio terminò la sua vita in carcere.

Il prete Michiel Viti che si trovava allora ammalato in casa Colonna, appena rimesso alquanto, parti alla volta di Ancona tapino e miserabile, coll’intesa [p. 348 modifica]di cercar rifugio in casa del Parrasio, ma poco appresso fu arrestato, ricondotto a Roma e chiuso nella torre di Nona, poi nel castello di Civitavecchia dove morì disennato.

Il prete Alessandro Franceschi tutto cencioso e misero disparve da Roma, nè saprei dire come abbia finito; ma è verisimile che essendo a parte di molti intrighi e comunicazioni importanti lo abbiano fatto sparire anch’egli dal mondo senza essere Enoch.

Degli altri sicari uno fu decapitato nella rôcca di Perugia, quel da Bitonto fu assassinato da’ stipendiati grassatori. Mi è ignota la sorte dei due preti Tonino e Leonardo, del vicario Imberti e del provinciale domenicano; ma il Consiglio dei Dieci, informato di tutti i loro passi, era troppo severamente implacabile per non colpirli del suo sdegno; e il minor male che possa essere a loro sopravvenuto è la galera o l’esilio. De’ rimanenti assassini e complici, i caduti in potestà de’ Decemviri non videro più la luce; gli altri vagabondarono una vita piena di rimorsi e di spavento e la finirono nella miseria o sul patibolo. La vendetta di Dio si fe’ sentire persino sui figli degli assassini. La numerosa famiglia del Poma restata a Venezia trascinò giorni penosi tra la povertà, l’odio ed il disprezzo; una sua figlia consunta di affanno morì etica in convento; le due educande furono mantenute dalla carità delle monache e dai sussidi di alcuni fanatici finchè il loro padre fu in grado di alimentare le speranze del fanatismo, ma dopo che quelle speranze svanirono, non avendo elle chi pagasse le pensioni furono [p. 349 modifica]licenziate e lasciate in propria balìa. Ruffino che tanto gli era caro e che sempre condusse con lui, partì col fratello per Napoli, poi per la miseria di entrambi, lasciato in abbandono, fra gli stenti e la fame divenne pazzo, e condottosi a Venezia mendicante e mezzo ignudo fu oggetto di un crudele ludibrio ai fanciulli ed alla plebaglia.

Ora sarà il lettore curioso di sapere i motivi di quella improvvisa risoluzione del pontefice. Era giunto in Roma il cardinale Mellini stato in Germania legato del pontefice per assistere all’incoronamento dell’imperatore Ridolfo e trattare faccende spettanti agli interessi della Santa Sede; e narrò a Paolo V lo scandalo de’ cattolici e le satire de’ protestanti avverso la Corte che concedeva una così manifesta protezione a gente stimata da tutto il mondo esecrabile. Paolo V che sentiva altamente di sè e della dignità della sua Sede, si riscosse e comandò risolutamente che fosse smorbata la città di que’ scellerati. Del Parrasio si colse il pretesto che era rientrato senza licenza negli Stati della Chiesa; e quanto al Poma, non si voleva da prima che espellerlo, ma poi fu giudicato migliore consiglio di tenerlo ben guardato.


fine del primo volume.