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capo xvii. 347

sfuggire parole indiscrete e minacciò persino, dicono, la persona del pontefice. Il bargello lo andò a trovare, la sbirreria circondò il palazzo Colonna, entrò dentro senza cerimonie. Poma e i suoi fecero resistenza: si venne alle archibugiate; egli e suo figlio Giambattista e un suo nipote restarono feriti, presi, messi in carrozza e portati in carcere: il figlio e il nipote di lì a qualche tempo furono lasciati andare, e Ridolfo, toltegli tutte le sue carte, fu condotto nella fortezza di Civitavecchia dove finì arrabbiatamente i suoi giorni.

I Colonna si risentirono di questo poco rispetto portato ai privilegi di asilo del loro palazzo; ma pare che il bargello abbia fatto assai più che non gli era stato comandato, anzi diceva pubblicamente che se venivano condannati voleva dimandare la taglia promessa dal governo veneto: ma invece fu destituito dal suo impiego, e uno sbirro incolpato di avere scaricate le armi, fu messo in prigione.

In questo mezzo Alessandro Parrasio tornato ad Ancona mandava a Roma un suo fratello per domandare qualche soccorso. Diceva che dei 200 scudi promessigli quando fu fatto partire da Roma, il cardinale Tonti gliene aveva pagati 20 soltanto. Ciò non sembra vero, perchè egli stesso disse a Napoli che aveva ricevuto 200 scudi. Il papa mandò ordine ai governatore di Ancona di arrestarlo e mandarlo a Roma: così anco il Parrasio terminò la sua vita in carcere.

Il prete Michiel Viti che si trovava allora ammalato in casa Colonna, appena rimesso alquanto, parti alla volta di Ancona tapino e miserabile, coll’intesa