Atlantide/Canto X
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CANTO DECIMO
Sognava Esperio, che sfidato e stanco,
Sotto l’afa d’un ciel canicolare,
Giungesse a un campo solitario e bianco,
Qual cimiterio vasto in mezzo al mare;
Dove che l’occhio volga o porti il fianco,
Non viva forma o fil d’ombra gli appare;
Solo un fremito arcano ode, un susurro
Fra un bianco immenso ed un immenso azzurro.
Su dodici colonne d’adamante
Un tempio, in mezzo, infino al ciel torreggia,
Anzi il ciel tocca ed ha di ciel sembiante,
E col ciel si confonde e folgoreggia:
La Legge indeprecata e il Tempo ansante
Qui dell’Eternità veglian la reggia;
Qui tra semplici ordigni e vitree storte
Attende ad immortale opra la Morte.
Vergine paziente, austera e mite
Ella esercita qui la sua ragione;
Qui con unica legge in infinite
Guise l’universal vita scompone;
Qui dà per una un milion di vite,
Cui tosto la sorella al sole espone,
La sorella che il ciel, la terra e l’acque
Move, e con lei d’un solo parto nacque.
In fiala di diaspro ella qui tiene,
Nè ancor si sa come l’ottenne e donde,
Un etere divin ch’entro le vene
Con arte ignota a pochi eletti infonde;
Il qual non prima insinuato viene
Entro al corpo un calor nuovo diffonde,
Ed alle inerti membra aura vitale
Spira non pur, ma gioventù immortale.
Quivi la Gloria postuma con torto
Collo su l’uscio ambiziosa attende,
E a lui che ad immortal vita è risorto
Festosa accorre, e fra le braccia il prende;
Scevro allora d’invidia il vulgo accorto
Suoi vanitosi entusíasmi accende,
E lui spregiato e combattuto or ora
Nei marmi eterna, e i freddi marmi adora.
Da quell’austera vergine ad un tratto
Rapire Esperio e sollevar si sente,
E qual rapida fionda a girar tratto
Da un braccio adamantino, onnipossente;
Igneo, leggero e quasi aereo fatto
Ei turbina vertiginosamente,
E d’una striscia luminosa, intensa
Solca i misteri della notte immensa.
Gira ei ratto così, finchè di fronte
Gli si accampa un fantasma all’aure vane,
Che torvo, immoto, come piceo monte,
Tenebre erutta e voci orrende e strane;
Corrono al cenno suo tre Furie pronte
Con chiome di serpenti e facce insane,
E a lui che splende vorticoso in alto
Muovon ghignando inopinato assalto.
Ei precipita allor sotto ai funesti
Flagelli e d’improvvisa ombra si ammanta,
Qual vediamo talor giù dai celesti
Domi la scheggia d’una stella infranta:
La segue il prigionier con occhi mesti,
Pensa a una cara vecchiarella, e canta;
Spegnersi una pensosa alma la vede,
E invan sospira alla perduta fede.
Rapido ei piomba nell’immenso vuoto,
Che l’incalza, l’assorbe e lo divora;
Peso a peso si aggiunge e moto a moto,
Ruina il tempo, ed ei ruina ognora;
Pei tenebrori dell’eterno ignoto,
Che non videro mai riso d’aurora,
Precipita incessante, e dei maligni
Spiriti per la notte ode i sogghigni.
Cade alfin sussultando appiè d’un alto
Scoglio ch’al cielo avventa il picco irsuto,
Quasi titan che muova al cielo assalto
Dal cupo abisso, ov’è dal ciel caduto;
Stendesi intorno, qual puniceo smalto,
Un mar da spaventose ombre tenuto,
Che, sia di sangue o di bollente foco,
Fremebondo s’inalza a poco a poco.
Sorge, ed isola fa tra le rosse onde
Una riversa, smisurata croce,
Dove un gigante dalle membra immonde
Confitto piange in minaccevol voce;
Si dilatan le sue piaghe profonde
Perennemente con stridor feroce;
E dalle piaghe e dalle ciglia spente
Sgorga di sangue e lacrime un torrente.
Allora d’avvoltoj neri, deformi
Una turba, una folla, un nugol venne,
Di cui parean li artigli àncore enormi,
Rostri di nave i becchi, e l’ali antenne;
Antenne che con moti ampj, difformi,
E vestite da tetre e bronzee penne,
Fendeano l’aria impaurita e mesta
Con fragor di tremuoto e di tempesta.
Inorridisce Esperio; e quel che molto
Cresce il ribrezzo suo, non la paura,
È che ognun di quei mostri ha umano il volto,
Se togli il rostro ch’è d’altra natura;
Ma il suo ribrezzo in altro senso è volto,
Quando tutti un per un li raffigura,
E si sovvien con istupor profondo
D’averli visti e conosciuti al mondo.
Di Stradella il volpon non è colui
Che il collo irsuto sogghignando inarca,
L’uom da’ maligni adattamenti bui,
Che di frodi gravò l’itala barca?
Quei che il dorso ripiega al cenno altrui
Non è di Lissa il perfido navarca?
L’altro il duce non è dell’empio stuolo,
Che ferì la nizzarda aquila a volo?
E tu che armando invan lo sguardo losco,
L’aguzza testa serpentino avventi,
Facondo faccendier, ben ti conosco,
Che d’Aspromonte il marchio asconder tenti!
Ben la volpina età, rabula fosco,
Simulacri a te foggia e monumenti,
Se al vulgo ignavo, onde tu sei l’emblema,
Son astuzia e viltà gloria suprema!
Quell’uccellaccio dalle gambe a stecco,
Allampanato, squallido, ritinto,
È il terribile eroe di princisbecco,
Che a Custoza restò scornato e vinto;
Ben apre ancor, dopo tant’anni, il becco,
E gracchia: Io fui nell’empia rete spinto;
Non perfidia o viltà, ma fu cagione
Della sconfitta mia l’esser coglione!
L’altro, che bieco in lui gitta lo sguardo,
È il burbanzoso guerriglier di Spagna,
Che di Gaeta e di Castelfidardo
Il ducato pappossi e la cuccagna;
Con moto di pavon solenne e tardo
Misurando egli vien l’alta campagna,
Mentre fan sotto a lui strilli di gioja
Di Brescia il birro e di Fantina il boja.
Superbi agli altri innanzi ecco van due
Con aureo serto e con purpureo rostro,
Alla cui doppia ereditaria lue
Volpeggiando ubbidisce ogn’altro mostro;
Dalle profondità orride sue
Romba a’ lor voli il tenebroso chiostro,
Sopra cui l’orda tetra accolta in cerchio
Fa delle fragorose ali coperchio.
E sè di sè tessendo in ferrea tenda,
Calasi turbinosa e si dirupa,
E come sepolcral lapida orrenda
Di quel baratro immenso il vano occùpa.
Una voce di pianto, una tremenda
Bestemmia odi echeggiar per l’aria cupa;
Odi fra la tempesta atra dell’ale
Del gigante suonar l’ansia ferale.
Ansa il confitto, e dalla cieca tomba
L’affannoso fragor fino al ciel giunge,
Quando su lui lo stuol grifagno piomba,
E ingordo il preme, e piaghe a piaghe aggiunge;
E qual nel fianco l’assetata tromba
Figge aspirando, e quale il cor gli punge,
Quale il cervello gli dilania, e mentre
Sen pasce, sopra a lui scarica il ventre.
Si contorce egli, e dalla petrea croce
Divincolare invan tenta le braccia,
Ed or supplica abjetto, ora la voce
Fulmina, e spaventosa erge la faccia;
Si arretra un tratto la congrega atroce,
E si rannicchia alla fatal minaccia,
Ma poi che intatti i ferri avversi vede,
Più feroce di pria torna alle prede.
Torna; ed ecco dal mar torbido e grave,
Che del sangue di lui bollendo cresce,
D’anfibj mostri dalle facce prave
Un inquieto stuol brulicando esce;
Con umili atti, con voce soave
Lusinghe e laudi e reticenze mesce,
Si scalmana, s’acciuffa, e infin si assetta
Appiè dei sommi, e i loro avanzi aspetta.
Nutriti di viltà, di fraude armati
Mirali tutti in sol mentir costanti,
Eroi legali, apostoli bollati,
Bertoni in toga e galeotti in guanti,
Barattieri pasciuti e decorati,
Senatori bardassi e ladri santi,
Caini e Giuda in levigati astucci,
Professori Tartufi e Vanni Fucci.
Rotava Esperio smanioso i rai,
D’ira piangendo allo spettacol tristo:
E non verrà, fremea, non verrà mai
Un dio liberatore, Ercole o Cristo?
E tu, popol confitto, ognor sarai
Di codardi e di rei scherno e conquisto?
Nè vincerà giammai l’ultime prove
Quell’Idea, che agli oppressi animi è Giove?
Dubbioso core, allor gli dice Edea,
Che improvvisa fra quelle ombre gli appare,
E in tanta notte e fra quell’orda rea
Dell’eterna speranza un raggio pare:
Quella sublime, avventurosa Idea,
C’ha dentro alle solinghe anime altare,
Come riso di stella in basso loco,
Scenderà fra quest’ombre a poco a poco.
Il Sogno eccelso, che con rosee piante
Del redento Pensier la cima or tiene,
E con la luce del divin sembiante
Dei vati il core irradiando viene,
Il Sogno, per cui tante anime e tante
Or gemon fra calunnie e fra catene,
Scenderà, scenderà su questa riva
Fatto cosa terrena e immagin viva.
Oh come al guardo suo fiero di lampi
Si squarcerà la tenebra funesta,
Che non pur della terra invade i campi
Ma le menti intristisce e i cori infesta!
Oh come, allor che questi lidi ei stampi
Del suo passo di fiamma e di tempesta,
S’atterreran gli avidi mostri ai piedi
Di quei che a terra in tali strazj or vedi!
Sconficcherà dai maledetti chiodi
Da sè stesso costui la destra inerme;
Spezzerà tutti ad uno ad uno i nodi,
Ond’or son vinte le sue membra inferme;
Nelle fetide piaghe in fieri modi
Brucerà della peste intima il germe;
E terribile e pio, dolce e feroce,
Col piè calcando la funerea croce,
Torreggerà, come titanio monte
Che al novo dì, nella stagion più bella,
Il piede nell’abisso, al ciel la fronte,
E in fronte il riso dell’idalia stella,
Mutato il ghiaccio in mormorevol fonte,
Di tenere, fragranti erbe si abbella,
E rivestito di speranza appare
Al Sol che il viene a salutar dal mare.
Stuol di neri rapaci, a cui corrotte
Carni son pasto ed odioso è il giorno,
Saran gl’ispidi mostri, onde le frotte
Fremendo or miri al grande oppresso intorno;
Non prima un raggio ferirà la notte,
Dilegueranno dall’uman soggiorno;
E il regno lor che sembra ai vili eterno,
Memoria diverrà d’odio e di scherno.
Laggiù, vedi? laggiù, dentro alla densa
Tenebra che ti usurpa il ciel lontano,
Ed a cui, senza il mio favor, l’intensa
Virtù del ciglio aguzzeresti invano,
Si matura laggiù l’anima immensa,
Che tutto innoverà lo stato umano:
Un fremito, un fervor, qual di roventi
Lave, per le commosse aure non senti?
Squarciato ha i fianchi al secolar colosso
L’ignea corrente, e procellosa irrompe,
Mentre un vivo baglior di fiamme rosso
Lingueggia all’aure e l’atre nebbie rompe;
Già l’armento dei re, dal sonno scosso,
Armi ostenta e promesse in ardue pompe;
Già di Levi il pastor con prece bieca
La grande ora del fato invan depreca.
Lento sì, ma crescente, esiziale
L’igneo fiume procede in suo cammino,
Nè forza contro a lui nè arte vale,
Chè lui nutre il Pensiero, urge il Destino;
Librata innanzi a lui su le grandi ale
Tende la Storia il dito adamantino,
E al ben dell’uomo unicamente fida,
Contro i rei tutti inesorata il guida.
Ma che parlo e che taccio? E di codeste
Liete immagini o tristi a te che giova,
Se, lasciate le cure altrui moleste,
Pace l’anima tua nel sonno trova?
Dormi, immemore Esperio, e ti sian queste
Ree piagge ospizio e queste frondi alcova:
Al regno, ov’han l’eccelse alme soggiorno,
Di te ridendo e disdegnando io torno.
Non zagaglia così stridendo scote
Di dormente nemico a morte il petto,
Come d’Esperio i visceri percuote
D’Edea l’amaro, acuminato detto:
Balza dal sonno, e rosse ambe ha le gote
Di vergogna ad un tempo e di dispetto;
E in lei, che su la spalla in dolce piglio
La man gli ha posto, alzar non osa il ciglio.
Ond’ella tosto con benigno volto
E con pie voci a consolar lo prese:
Se per poco sei stato oggi a te tolto,
Non io ti lascio in questo vil paese;
Nè il sonno tuo, sebbene il core ascolto,
Indifferente all’amor mio ti rese;
Anzi più mio s’è fatto il tuo pensiero,
Dacchè veduto ha tra fantasmi il vero.
Tu sognato hai con me, con me le sante
Ire hai sentito e il ciel bramato hai corso,
Finchè per crescer ali alle tue piante
Con l’acuta rampogna il cor t’ho morso.
Sopra il Mare dei Sogni ecco, il fiammante
Liberatore affretta irato il corso;
Ecco, a noi vien su veleggiante torre
L’ardito stuol che i moti suoi precorre.
Nobile stuol, fior dell’Italia nova,
Che sul regno del Mal, d’odj fecondo,
In lotta impari, in diuturna prova
L’ora della Riscossa annunzia al mondo;
Tesei novelli, a cui soltanto giova
Dar guerra e morte al Minotauro immondo,
Che d’orror chiuso in labirinto infame
Di frodi vive, e d’oro e sangue ha fame.
O nati al vero ed alla gloria nostra,
Sia che si schiuda a voi l’arduo sapere,
E come ciel che al novo dì s’innostra
Splendan le vostre ardenti anime altere;
O che a spezzar la formidata chiostra
Serriate i carmi in generose schiere,
Che a par di rutilanti angeli irati
Fugan gli errori all’uman danno armati;
Sia che un nimbo di gloria al capo austero
Arda inconsunto e l’ombre invide accenda,
O al tetto ignoto, in cui vivete al Vero,
Le sue fredde il livor tenebre stenda;
Sia che saetti il vostro genio altero
Liberamente la congrega orrenda,
O che innocenti di catene carchi
Balzar facciate dal sonno i monarchi;
Voi ricerchi la lode, a voi si volga
Con volo di squillante aquila il verso,
E al capo vostro nitido si avvolga
Qual aureo serto in pura fiamma asterso:
Voi, così dall’error l’uomo si tolga,
Rispecchiate l’Idea dell’universo;
Cavalieri del mio fulgido regno,
Voi conoscente agli avvenire insegno!
Mentre su di sè stessa alto rapita
Scioglie Edea questi detti, e sembra face
Che limpida si appunti all’infinita
Volta del ciel che tenebrosa tace,
S’avvicina la nave alla marcita
Gleba ove il gregge accidioso giace,
E dalle cristalline onde riflessa
Maestosa alla spiaggia umile appressa.
Allora Edea trasfigurata, e come
Fatta celestiale, eterea cosa,
La man caccia ad Esperio in tra le chiome,
Seco il rapisce, e su la tolda il posa.
Mira, gli dice poi, l’anime indome
Che disdegnan l’età lenta e dubbiosa,
E per l’ampia dei Sogni equorea strada
Traggon te pur da questa ignobil rada.
Splendido in sua modestia e tutto assorto
Nel pensier delle mie floride rive,
Mira colui che piange Italia or morto,
Ma nel mio ciel, cor d’ogni core, ei vive:
Saffi, che del sentier lubrico e torto
Tenne l’anima sempre e l’orme schive;
Saffi, che del Messia ligure, ardente
Proseguì l’opra ed illustrò la mente.
Vedi colui che posa austero e muto,
Esul quasi e straniero al secol reo?
Impenitente apostolo canuto
Quegli è il severo pensator d’Iseo;
A lui vasto sapere, animo acuto
Schiusero il regno, ove i miei fidi io beo;
A lui fra’ ceppi, che il tiran gli diede,
Nel trionfo del Ben crebbe la fede.
In quel pallido volto, onde traspira
Con prudenza profonda animo antico,
L’intemerato onor di Trani ammira
Dal cor di Bruno e dal pensier di Vico;
Di torve sette in fra l’insidie e l’ira
Puro egli passa e sol del Vero amico,
D’aquila al par, che la nebbiosa via
Trascende, e nella luce ebbra si oblia.
Agile, smanioso, in gran rovello,
Cavallotti v’è pur, l’uomo folletto,
Che come avesse un diavol per capello
Cento cose ogni dì caccia ad effetto:
Fa un discorso, un articolo, un duello,
Corre a un comizio, assiste ad un banchetto,
Avventa una querela, abbozza un dramma,
Torna a Milano a riveder la mamma.
Tornava, ora non più: la veneranda
Vecchia nel ciel delle memorie or posa,
E al suo figliuolo irrequieto manda
Spesso di là la sua voce amorosa:
Non dar tregua, gli dice, alla nefanda
Ciurma che infesta ogni più nobil cosa,
Ma in rissoso armeggio di te non degno
Tu buono e prode non sprecar l’ingegno!
Non titubar, non deviar: le alture
Nebbiose, ove un poter fatuo troneggia,
Abbian le picciolette anime impure,
Che un piede han nella piazza, un nella reggia;
S’inerpichi per vie torte ed oscure
Schiava d’altri e di sè l’avida greggia;
A te poeta, cittadin, guerriero
Sia dio la Libertà, sia gloria il Vero!
A lui compagno è il buon Matteo Renato
Dalla voce di bronzo e dal cor d’oro,
Che di sublimi intolleranze armato
È di Napoli bella alto decoro;
Lui dalle generose anime amato
Trema dei servi e dei tiranni il coro;
Lui da San Giusto in luttuosa veste
Apostolo e guerrier chiama Trieste.
Qui d’Enna il pensator dotto e pugnace
Nel plutòcrate mostro i dardi apposta:
Memorabile ardire, onde l’edace
Turba alla gogna finalmente è posta;
Piccolo stuol, ma fervido e tenace,
Di battaglie bramoso a lui s’accosta;
E primo è quei che con eraclie braccia
Le catanesi arpíe sgomina e caccia.
V’è col pensoso ed erudito Arturo,
Cui l’alto cor non impietrò Medusa,
L’inclito Edmondo, che del mio futuro
Regno alla luce or or l’anima ha schiusa:
Come del regno mio fulgido e puro
Restar potea la dolce anima esclusa?
Sordo a’ veri dolori e all’uman pianto
Chi su finti dolor pianger fe’ tanto?
Mira quei due, che pensierosi, in parte,
Piegan le fronti altere e gli occhi mesti:
Il Trezza è l’un, che in generose carte
Con Lucrezio intimò guerra ai Celesti;
In igneo fascio la dottrina e l’arte
Strinse, e ne fulminò gl’idoli infesti,
Nobile cor, che i ferri, onde lo strinse
Un cieco dio, spezzò fremendo, e vinse.
Ellero è l’altro, a cui diè Machiavello
L’indagin acre, ond’egli in dotte guise
Con severo, anatomico scalpello
L’idra borghese in ogni parte incise;
A lui tra’ primi l’Ideal novello
Dall’inaccesso vertice sorrise;
Ed ei del suo pensier su le inaccesse
Cime un altar con l’opre sue gli eresse.
Quel disdegnoso in su la tolda ritto,
Fosco il crin, fiso il guardo, ampia la fronte,
È il vate etneo, che come spada ha dritto
L’animo, ardente il cor, le rime pronte;
Sta l’Ideal nella sua mente fitto,
Qual vessillo di guerra in cima a un monte,
Odio e terror della congrega impura,
Che da lui dispregiata in lui congiura.
Una fanciulla nobile e gioconda,
Dai modi schietti e dall’ingenuo viso,
Su la spalla di lui posa la bionda
Testa e il rallegra d’un gentil sorriso;
Come tenue convolvulo circonda
Alber che più d’un ramo ebbe reciso,
Ella così pietosa a lui si stringe,
E dell’anima sua tutto il ricinge.
Ma già dietro di noi fuggon le triste
Sponde ove il sonno accidioso regna;
Incalza l’ora, e di vermiglie liste
La Riscossa imminente il ciel già segna:
Odi rombar terribilmente miste
L’ire e le preci della turba indegna,
Mentre, aspirando l’ultima battaglia,
Di Rimini il leon rugge, e si scaglia.