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Canto decimo 219


Stuol di neri rapaci, a cui corrotte
     Carni son pasto ed odioso è il giorno,
     Saran gl’ispidi mostri, onde le frotte
     Fremendo or miri al grande oppresso intorno;
     Non prima un raggio ferirà la notte,
     Dilegueranno dall’uman soggiorno;
     E il regno lor che sembra ai vili eterno,
     Memoria diverrà d’odio e di scherno.

Laggiù, vedi? laggiù, dentro alla densa
     Tenebra che ti usurpa il ciel lontano,
     Ed a cui, senza il mio favor, l’intensa
     Virtù del ciglio aguzzeresti invano,
     Si matura laggiù l’anima immensa,
     Che tutto innoverà lo stato umano:
     Un fremito, un fervor, qual di roventi
     Lave, per le commosse aure non senti?

Squarciato ha i fianchi al secolar colosso
     L’ignea corrente, e procellosa irrompe,
     Mentre un vivo baglior di fiamme rosso
     Lingueggia all’aure e l’atre nebbie rompe;
     Già l’armento dei re, dal sonno scosso,
     Armi ostenta e promesse in ardue pompe;
     Già di Levi il pastor con prece bieca
     La grande ora del fato invan depreca.