Appunti sul metodo della Divina Commedia/Appunti sul metodo nelle arti drammatiche
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S E C O N D A P A R T E
APPUNTI SUL METODO
NELLE ARTI DRAMMATICHE C I N E M A
N U O V A
F O R M A
D’ A R T E
Paul Souday, il famoso critico del Temps, scrive un articolo intitolato senza incertezze: «Le cinema n’est pas un art».
«Les plus hautes et les plus fines conceptions de l’esprit — egli osserva — ne peuvent s’exprimer au théâtre que par la parole des grands écrivains, transmise par celle des grands comédiens; dans ce domaine l’art muet néglige fatalemente tout ce qui est vraiment intéressant; la puissance de la pensée et la beauté de l’expression. Il y a longtemps que l’on connaissait la Pantomime, où exellaient les Debureau et les Paul Legrand. C’était curieux mais très limité. Allez donc mettre Don Juan, Hamlet ou Faust en pantomime, songez à ce qui restera! Le scenario et le jeu de scène ou de phisionomie, c’est à dire la façade ou la carcasse. Tout l’essentiel, toute la pensée de Molière, de Shakespeare ou de Goethe aura disparu.»
Questo è l’argomento principale di cui l’illustre critico si serve per attaccare il cinematografo. Egli dice: «Il cinema non è un’arte perchè è muto». Mi permetterò di rispondergli rovesciando il suo ragionamento: «Il cinema è un’arte perchè è un’arte muta».
Tutti avranno notato come in genere le arti dì distinguano dalla natura perchè manca loro qualche cosa: alla pittura manca la profondità e il movimento; alla scultura il movimento e il colore; il colore e la contemporaneità alla letteratura.
Ma forse non tutti avranno pensato che sono arti appunto perchè manca loro qualcosa.
Arte, vuol dire un poco ingegnosità, ingegnosità divina; vuol dire sforzo fatto dagli uomini per arrivare, con dei trucchi, degli accorgimenti, delle suggestioni, dei suggerimenti, a un mondo completo e perfetto come quello che ci offre la natura.
Ma non ci sarebbe più questo sforzo, se gli strumenti e la materia che hanno gli uomini fossero perfetti come quelli che ha avuto Iddio.
Se gli uomini avessero tutto a loro disposizione, se la pittura potesse avere, oltre che il colore e lo spazio piano, anche il movimento, la profondità, le parole e la musica; se tutte le arti potessero avere, oltre alle loro qualità esclusive, anche quelle delle altre arti; gli uomini sarebbero come una specie di Dei.
Ma allora noi non proveremmo, guardando un’opera d’arte, nessun piacere diverso da quello che proviamo guardando la natura, perchè in verità il piacere che noi proviamo dinanzi all’arte è appunto il piacere, ormai inconscio, di assistere a uno sforzo per costruire un mondo, senza averne i mezzi adeguati; è la gioia di vedere come l’uomo trionfi della sua rudimentale semplicità e riesca, con degli strumenti schematici e imperfetti, a suggerire un universo complesso come quello della natura.
Secondo Bergson, nell’arte godiamo particolarmente le intenzioni dell’artista, quando vediamo che egli ha le forze per esprimerle. Mi chedo, per analogia, se quello che godiamo nell’arte, senza più nemmeno rendercene conto, non sia quella stessa lacuna che l’arte riesce a riempire; il mistero e l’incredibile magìa di un aspetto della vita ricostruito per pura suggestione; l’illusione medesima per cui un mondo ci appare completo quando, in pratica, non è che in abbozzo.
Questo piacere, ridotto alla sua forma elementare, l’hanno provato tutti dinanzi a certi cartelloni, in cui è sfruttato largamente il compiacimento che prova l’uomo a illudersi.
Ricordo d’aver provato un’infantile, istintiva e barbara gioia dinanzi a un frack assolutamente nero, ove per via di non so che suggestione di forme e di contorni l’occhio immaginava tutte le linee del braccio e delle mani.
Ingrandendo questo piacere, e trasportandolo su un piano più elevato, credo che si ritroverà il piacere che ci riempie dinanzi a un’opera d’arte.
Noi non ci rendiamo più conto del gusto intellettuale che ci dà la pittura, quando esprime un volume sopra una superficie piana, o la scultura quando rende un movimento con l’immobilità.
Eppure si può dire che divengono arti in quanto hanno da integrare un moto, in quanto hanno da suggerire un aspetto mancante, in quanto eccitano, con tale resistenza, l’ingegno umano a superarla.
Non voglio concludere naturalmente che se la pittura riesce a rendere il senso del volume e della profondità su uno spazio piano sia solo per questo della buona pittura; e che se la scultura riesce a rendere il senso del movimento con una statua immobile sia solo per questo della buona scultura; il problema del bello, il problema, cioè, del punto in cui si deve riconoscere nell’arte la luce della bellezza, è tutto un altro. Arte si prende qui semplicemente come mezzo per raggiungere la bellezza. Possiamo dire che non tutte le manifestazioni dell’uomo sono mezzi atti a raggiungere la bellezza. Possiamo dire che la pittura e la scultura sono due di questi mezzi; e a questi aggiungerei, ultimo venuto, il cinematografo.
Nulla è più utile delle film colorate per capire come la naturalezza e la perfezione si possono raggiungere in arte solo con mezzi convenzionali e imperfetti.
Chi va al cinema a colori sa come l’occhio che dinnanzi al quadri incolori immaginava tutte le gradazioni delle tinte quasi che potesse contemplare una fetta di realtà viva, si sente spaesato e stanco dinanzi allo splendore fittizio dei quadri colorati.
Si vedono passare delle figure in cui una tinta caramellata ha l’aria come scissa e deposta sulle persone. I colori mancano di quella necessità persuasiva e dolce che hanno nella natura e di quella imprevista armonia che hanno nella pittura.
Quello che si sente infelice in noi è l’immaginazione, che con dinanzi delle macchie bianche e nere poteva ricostruirsi facilmente e felicemente una scintillante scala di colori. La prima suggestione, la prima integrazione del cinema, i colori resi con delle ombre, è mancata.
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A Parigi ho visto proiettare due film: una del 1910 e una del giorno d’oggi. In quella del 1910 gli attori, invasi dalla paura di non farsi capire abbastanza, gestivano, più che per esprimere uno stato d’animo, per farne una dimostrazione figurativa; così, per far capire che pensavano a un oggetto, puntavano l’indice contro la tempia e poi lo tendevano verso l’oggetto. Il cinema era già un’arte; ma un’arte in cui non s’era raggiunta la bellezza. Quando Chariot, nella Febbre dell’oro, per l’impaccio di un vec chio mendico che lo guarda, non sa mettere in tasca una fotografia, che ha trovato per terra, la bellezza cinematografica è raggiunta, perchè, senza parlare, senza uscire dai limiti concessi a un attore, che deve farsi capire con la pura mimica, senza apparentemente uscir dai limiti della vita, Chariot è riuscito a renderci un misterioso sentimento di pudore umano, meglio che se l’avesse descritto, recitato, o dipinto.
Il bello sta tutto in questo apparentemente. Perchè nessun uomo gestisce mai come gestisce un buon attore. Eppure un buon attore ci dà oltre l’illusione di parlare anche l’illusione di non gestire più di un uomo qualunque.
L’arte del cinema è dunque l’arte di rendere le passioni dell’uomo con la pura mimica. Tale è la sua giustificazione psicologica, e basterebbe questo, per distinguerlo dalla pittura e dal teatro.
Mimica, dice sdegnosamente Souday. Mimica, appunto; ma in quanto riesce a darci delle impressioni patetiche, in quanto riesce a creare dei caratteri in un modo diverso da quello adoperato nei drammi, ma con la stessa forza, questa mimica acquista un interesse artistico come la parola.
E’ molto naturale che se si levassero al «Don Juan», all’«Amleto» o al «Faust» le parole, queste tre opere perderebbero significato (Emil Jannings ha infatti tentato, sul «Faust», un’esperienza che dà ragione a Souday). Ma è altrettanto vero che se si aggiungessero le parole alla «Febbre dell’oro», la si sciuperebbe allo stesso modo. Ogni arte raggiunge i suoi effetti in un modo che per le altre arti non è buono. E una prova che il cinema è un’arte è appunto che non ogni soggetto è adatto per lui.
Siamo dunque propensi a porre anche il cinema fra le arti, appunto perchè il cinema è un mondo completo, ottenuto con mezzi parziali e convenzionali.
Il cinema ha una tecnica sua e, appunto per questo, serve talvolta a rivelarci la natura. Tutti sanno come, nei periodi in cui si vedono molti quadri, si scoprano facilmente, nella natura, impreviste e luminose pitture; o come, nei periodi in cui si legge un analista, che potrebbe essere Proust o Dostoiewski, si facciano sugli uomini e sul mondo continue osservazioni che in quegli scrittori troverebbero la loro formula; e nei periodi in cui si leggono dei poeti, che potrebbero essere Dante o Verlaine, si trovi l’universo pieno di immagini dantesche o verlainiane.
Questo succede anche andando al cinema. Dopo che s’è visto una bella film si vede il mondo sotto un improvviso aspetto cinematografico. Si immaginano, si sorprendono molte scene che non si potrebbero fissare, nella loro sostanza, che in una pellicola. E quando si voglia considerare il cinema come un’arte, questa sua forza di suggestione mi pare un elemento definitivo.
Ma oltre a questo è l’arte del sogno — l’arte cioè che sa rappresentare, con una certa logica, quello che l’immaginazione più scatenata concepisce nei momenti in cui è in festa. So che la Duse, durante il suo viaggio in America, passava le giornate al cinematografo.
Mantelli che trasportano a volo chiromanti e ladri, valli ghiacciate nella luce lunare, e bianche di cascate, sorprese da incredibili altezze, gelatina d’occhi di un pubblico visto dal trapezio, uomini che nelle pupille deliranti di un affamato si trasformano in polli; capanne che il vento trasporta sull’orlo di enormi abissi, e che gli abitatori, ignari, fanno dondolare sul vuoto; movimenti scomposti nel loro stesso ritmo segreto e rivelati dal rallentatore allo stesso modo che un analista spalanca i sentimenti dell’animo; immagini in cui altre immagini misteriosamente trapelano; particolari che nessuno vede ingigantiti e staccati dalla loro compagine; questa è materia di cinema, che non è materia di nessun’altra arte.
CINEMA DI
A V A N -
G U A R D I A
Sono andato al tempio. Chi va al «Cinema des Ursulines» come si va da noi al cinematografo, per passare un’ora nell’incanto di mille avvenimenti azzurri e impossibili, quando vuol rimediare una sera mancata, rischia di fare una brutta fine. Il «Cinema des Ursulines» è il tempio, in cui i neofiti di una strana religione si riuniscono per comunicare con il loro Dio. Una volta che ci si smarrì, per disgrazia, una coppia di provinciali, stupefatti, successe il pandemonio; ai loro gemiti non so se atterriti o indignati la folla rispose con i pugni; due giovani zelanti ripagarono il biglietto di questi filistei, che non adoravano il Dio, di cui erano gli ospiti; e furono cacciati dal tempio come gli antichi mercanti.
Parigi è sempre all’avanguardia. In Italia gli intellettuali cominciano ora a interessarsi di cinema; a Parigi sono già a casa loro: hanno fondato il cinema per gli intellettuali. «Noi ci proponiamo, dicono nel manifesto, di scegliere il nostro pubblico fra l’élite degli scrittori, degli artisti, degli intellettuali del quartiere Latino e tra tutti coloro che la povertà di certi spettacoli allontana definitivamente dalle sale di proiezione. Il nostro repertorio sarà composto di films francesi o straniere, di gusto, tendenze e scuole diverse; tutto quello che dimostra una originalità, un valore, uno sforzo, sarà rappresentato sul nostro schermo».
Io sono andato al tempio appunto per questo. Volevo sapere: il cinema d’avanguardia è veramente all’avanguardia? Il grande cinematografo troverà, in queste piccole sale, un insegnamento?
Lo spettacolo, disciplinato rigorosamente dalle ore, come gli spettacoli teatrali, si divideva in quattro parti: le tre film d’avanguardia erano precedute da una film d’anteguerra.
Il cinema d’anteguerra era spassosissimo. Abbiamo dimenticato che cos’erano le film di una volta. Dinnanzi a un fondale dipinto, come s’usava a teatro, dei personaggi gesticolavano in onore del pubblico. A quel tempo un direttore rispettabile non poteva spendere, intorno a una film, più di otto giorni. E quelle film infatti avevano spesso una fine brusca e immatura.
Uomini e donne cadevano simmetricamente a destra e a sinistra uccisi da un piccolo colpo alla nuca; e in mezzo, prima del galletto che annunziava la fine, l’ultimo uomo vivo si metteva le mani nei capelli torcendo gli occhi al cielo per mostrare visibilmente che era atterrito. Le films di anteguerra non avevano paura di una chiusa sconsolata.
Si vedeva anche un vecchio e impallidito Pathé-Journal: delle signore con la tournure e dei vasti cappelli in bilico sull’architettura delle trecce, scendevano a Longchamps con aria civettuola dalle prime automobili, che imitavano ancora la forma delle carrozze. E un pianoforte annunziava con una marcia arzilla l’arrivo del presidente della repubblica.
Le films d’anteguerra hanno fatto ridere il pubblico delle Ursulines, un pubblico scelto, che non tollera il più piccolo bacio sulla scena senza fischiare ironicamente, ma non credo che le films d’avanguardia l’abbiano divertito.
Un Cine poema di Man Ray era un seguito lampeggiante di macchie e di forme che si mescolavano e trasformavano come i microbi al microscopio. La Glace à trois faces di Epstein era una visione schematica della novella di Morand «senza prologo, senza esposizione, e con una fine brusca». Così dice il commento del programma; ed è vero. «Gli amori malgasci» e «gli amori negri» erano una film fatta in margine alla crociera negra di Citroën; non si sapeva bene dove cominciasse il romanzo e dove il folklore; il materiale dato invadeva l’avventura immaginaria e l’insieme era una storia erudita della civiltà negra, come potrebbe farla una commissione geografica, rotta da una vicenda sentimentale, che avveniva tra i malgasci invece che in Rue de la Paix.
Nell’insieme non si può dire che, nonostante certi particolari ottimi, queste films siano artisticamente superiori alle film d’anteguerra; sono, come quelle, dei tentativi, ma tra vent’anni le Ursulines le riprodurranno per lo spasso dei nostri discendenti e con lo stesso successo.
A che cosa servono dunque i cinema d’avanguardia?
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A nulla. Il cinema s’è rinnovato adagio adagio, di fronte al grande pubblico, quando gli intellettuali lo ignoravano; e per la sua stessa natura, il cinema, arte universale, grandiosa e semplice continuerà a maturare lentamente nei grandi «Studi» di Hollywood, libero da ogni suggestione letteraria. Un direttore conscio della sua immensa responsabilità economica, vai meglio di un direttore d’avanguardia. Una film fatta in America, da una casa che pensa di divertire tutto l’universo per vendere più cara la merce e che non vuole infrangere per questo né i limiti di tempo nè le regole umane chieste dal suo pubblico internazionale, varrà sempre meglio di una film fatta in uno. studio d’ eccezione, per un piccolo gruppo d’intellettuali. Perchè? Perchè il pubblico d’avanguardia non offre nessuna resistenza. Un’arte non può maturare e diventare grande, se non trova intorno a sè una resistenza; perciò credo che il cinema progredirà a poco a poco, nelle films per il pubblico universale, appunto perchè dovrà lottare contro l’immensità e la varietà dei suoi giudici. Un pubblico come quello delle «Ursulines», intelligente e mistico, ma ancora inquieto, accetterà, appunto perchè non sa bene che cosa sia il cinematografo, qualunque chimismo fotografico in cui lampeggino delle macchie nere e bianche. Il fatto stesso che si parli di cinematografo puro è scoraggiante. Il cinematografo puro nessuno sa che cosa sia; ma tutti sanno che cosa non è, e per questo stato d’animo irrequieto e diffidente il pubblico delle «Ursuline» applaudirà le films non per quello che gli offrono di bello, ma per tutto quello che hanno evitato di brutto; senza pensare che non basta fuggire il sentimentalismo per fare del buon cinematografo.
Quando un pubblico parte dal principio che la film pura non ha limiti di tempo, che non dev’essere nè psicologica, nè ragionevole, nè sentimentale, nè pittorica, perchè questi sono gli attributi del romanzo, della filosofia, della lirica e delle arti figurative, che cosa può mai pretendere da una film e come può giudicarla? Così i direttori barcollano in questa immensa libertà come ciechi e le loro opere hanno tutte un marchio di non so che vertiginosa inquietudine.
I direttori di una film per grandi cinematografi, invece, hanno da lottare contro il tempo, che è dato e non può essere mutato, contro la fatica del pubblico, che deve ogni tanto riposarsi; — e queste due leggi sono come quelle che regolano le strofe dei poeti — i direttori devono tener conto del buon senso, che il pubblico non vuol vedere troppo manomesso; della psicologia, che vivifica i personaggi e ne fa degli uomini atti a commuovere; della verosimiglianza, che proibisce di congegnare gli avvenimenti ad arbitrio; della chiarezza e sopratutto dell’interesse immediato.
Tutti questi impacci dati, contro cui i direttori devono lottare, rappresentano la durezza della materia cinematografica, la resistenza di quest’arte; sono, per il cinema, quello che per il poeta è la metrica, per il drammaturgo la legge del teatro, per lo scultore il marmo. Nessuna arte può crescere se non lotta contro delle opposizioni, che la fortificano e la regolano, anche se sono arbitrarie; perchè le arti che se ne sono liberate diventano povere e fiacche; e muoiono in un clima in cui tutto può essere giustificato. Perciò credo che i cinema d’avanguardia non aiuteranno il progresso del cinematografo e che il più solenne maestro di un’arte che deve essere universale, è il pubblico del mondo.
D I A L O G O
SULL’OMBRA
GIOVANNI. — Sai che anche il babbo di Leo si è messo a andare al cinematografo?
CLAUDE. — Finalmente! Mi ricordo che gliene parlai fin dai tempi dell’Ulivello; ma non ne voleva sapere.
GIOVANNI. — Figurati, che la sua rentrée l’ha fatta con me. E’ stata per me una sera veramente preziosa; perchè mai come allora ho potuto capire i progressi e le qualità del cinematografo, in base a quello che egli non vedeva. Si può dire con sicurezza che appunto tutti i particolari che non vedeva, erano quelli da vedersi. Perchè erano i particolari più rigorosamente cinematografici.
CLAUDE. — Sì; evidentemente l’interesse del cinematografo, per noi, è tutto in questi particolari, che né la penna, né il pennello, né l’attore possono attuare.
GIOVANNI. — Questo è vero. Io, però, mi domando se, per i romanzieri, il cinematografo non offra delle impensate risorse di tecnica.
CLAUDE. — Come sarebbe a dire?
GIOVANNI. — Sì; il cinema ti rappresenta dei drammi e dei caratteri, in un modo tutto suo; quando è fatto con intelligenza, s’intende. Questo suo mestiere è abbastanza nuovo, per quanto abbia degli imprevedibili e inconsci antecedenti, appunto nella letteratura romanzesca.
CLAUDE. — Scusa; ma tu da una parte mi dici che il cinema ha una tecnica sua, che è assolutamente diversa da quella del romanzo; dall’altra che il romanzo deve studiarla; e finalmente, con l’aria più naturale del mondo, mi insinui che questa tecnica è già stata adoperata da qualche romanziere. Ma che maniera di ragionare è questa? Io, in base a tali premesse, concluderei che, se la tecnica del cinema è la stessa del romanzo, il cinema non è che una caricatura, o ripetizione del romanzo, ed è un’arte di second’ordine; se è assolutamente diverso, il romanzo, che ha le regole sue, non può giovarsene senza mettersi nella stessa posizione, in cui si metterebbe il cinematografo, se imitasse il romanzo; se poi c’è stato qualche romanziere che ha posseduto la tecnica cinematografica, per tutto quello che s’è detto dovrà essere un cattivo romanziere.
GIOVANNI. — Che dilemmi! Non ti riconosco più. Di solito eri più gran signore. Dunque, ragioniamo: c’è del vero in quello che dici; ma nella realtà si trovano degli accomodamenti. Cominciamo a tirar fuori dal mistero in cui l’ho avviluppato (si trattava di far colpo, nient’altro) il precedente letterario. Chi è? Dostoievski.
CLAUDE. — Dostoievski è teatrale, non cinematografico.
GIOVANNI. — E’ anche teatrale, lo ammetto. Ma è più ancora cinematografico. Stammi a sentire, senza spaventarti di questa domanda, che ha l’aria d’esser fuori chiave. Hai mai cercato di disegnare il profilo di una persona, sulla sua ombra? Alle volte si vede un’ombra così nera e ben sagomata, distesa sul muro come ci fosse ritagliata, che vien proprio voglia di ricalcarla sopra una carta, che sprofonda misteriosamente sotto il modello. Almeno, a me questa voglia è venuta spesso. E ho provato. E tu?
CLAUDE. — Anche a me. Ma io non ci son mai riuscito. Il modello, ti dico, era immobile come un macigno, non trasaliva, non sospirava; ma l’ombra, chè, aveva un così buffo altalenio sul muro, col ritmo del respiro, che mi sembrava di inseguire una barca sulle onde.
GIOVANNI. — Appunto. Neanche a me è mai riuscito cavare un ragno da un buco. Inseguivo l’ombra col foglio, ma non riuscivo mai a riquadrarla, e quando, alla meglio, avevo chiuso una testa in un contorno intero, non ritrovavo sulla carta che degli strani segni tremolanti. Questo però m’ha fatto capire che la nostra immobilità è illusoria. Noi non ce ne accorgiamo poiché i limiti del corpo umano sono continuati da un alone, che li fonde nell’aria in modo che non si sa bene dove finiscano; tanto è vero che se non si vedono muovere, è perchè quell’impercettibile ondulazione che dev’essere data al corpo dal respiro, rimane nello spazio di quell’alone, non supera quel falso profilo, più largo, che l’atmosfera disegna intorno a noi. Ma l’ombra, che è disegnata su un muro, invece d’essere immersa nell’aria, non ha questo alone. Nell’ombra si può dunque vedere quest’ondulazione del corpo; meglio che sul corpo vero e proprio.
CLAUDE. — Torniamo a bomba.
GIOVANNI. — Ci siamo proprio. Che cos’è la scoperta di Dostoievski? Questo: che alle volte i movimenti impercettibili dell’uomo si vedono meglio sull’ombra, che sull’uomo stesso. Naturalmente questo principio, Dostoievski l’applica alla morale, invece che al fisico. Si tratta qui di esprimere dei sentimenti, non è vero? Per lui il problema è dunque di trovare, per i sentimenti, qualcosa di più terrestre, definito e misurabile, che sia come l’ombra rispetto al corpo. Nota che questa è una grande scoperta, perchè fin’ora nessuno s’era accorto che anche i sentimenti avevano un’ombra. Ma in verità mi convinco sempre di più che anche i più diafani moti del pensiero hanno una ombra, e chi sa servirsi di quelle ombre per esprimersi, ha dinnanzi a sè un immenso e splendente tesoro.
CLAUDE. — Questo va bene. Ma io vorrei vedere in pratica il tuo principio.
GIOVANNI. — Prendiamo per esempio Delitto e Castigo nella traduzione francese, a pagina 140. E’ il capitolo sesto. Qui si descrive il primo vero momento della crisi. Raskolnikoff s’è risvegliato, dopo tre giorni di delirio. La crisi non può cominciare che ora; prima, l’assassino era troppo vicino al delitto, per poterlo contemplare, per potersi render conto soltanto d’averlo commesso. Quando ci sono arrivato io tremavo di curiosità; mi chiedevo «come sarà risolto questo problema?». E questo problema è stato risolto nel modo che io immaginavo meno, per mezzo delle ombre. Io m’aspettavo un’analisi attenta, minuziosa e temporalesca insieme, dei sentimenti più atroci che possano riempire il cuore di un uomo cosciente. Invece sta a sentire: «Dopo essersi rivestito a nuovo, guardò i denari che erano sulla tavola, rifletté un istante e se li mise in tasca... Un momento dopo era nella strada». Comincia così. Ma il bello è che così continua. «Raskolnikoff va macchinalmente al Mercato del Fieno. Regala un piatak (non so bene che cosa sia, a dirti la verità) a una cantastorie; poi chiede bruscamente a un passante «le piacciono, le canzonette?» e aggiunge «a me piace il canto dell’organo nelle sere d’autunno, fredde, buie e umide, specialmente umide». Poi si ferma sulla porta di un’infame osteria e fa qualche complimento a una prostituta. Finalmente, entra al Palazzo di Cristallo e si mette a leggere, nei giornali, la storia del suo delitto; finché, in una conversazione con il poliziotto Zamétoff, che era a un tavolo accanto, gli dichiara d’esser lui l’assassino; ma con l’aria di scherzare. Quest’ultima scena è tremenda. Ebbene, attraverso a tutti questi piccoli fatti, si sente il divincolarsi solenne e straziante di un uomo contro una ossessione che sta per invaderlo tutto. Ma credi tu che qualsiasi successione di piccoli fatti avrebbe avuto lo stesso effetto? Neanche per sogno. Non hanno effetto che quei fatti, in cui si condensi la tremante e impalpabile materia del dramma. Ci sono dei iatti, come questi, di ordine fisico, delle azioni visibili, in cui una tempesta interiore si manifesta con più evidenza che attraverso i discorsi; e tali che ci spalancano l’anima umana in un momento in cui soffre, più che l’analisi stessa dello scrittore. Sono queste le ombre.
CLAUDE. — Sì; ma il sistema ha degli inconvenienti; tra l’altro questo, che per il mio animo di francese, sensibile alla bellezza della composizione, è rilevante: che tutto dev’essere mostrato, e niente raccontato.
Si fanno così dei romanzi enormi. Per esempio: si assiste qui al suicidio di Svidrigailoff, personaggio secondario, secondo per secondo, fino a che è detto che «levò la mano e puntò la pistola alla tempia» in una piazza, in cui l'autore non s’è dimenticato di avvertire che c’era una sentinella.
GIOVANNI. — Hai ragione. I difetti e i vantaggi di questa tecnica si spiegano insieme: è la tecnica del cinematografo.
CLAUDE. — Non credere di fare un colpo di scena. Me l’aspettavo da un pezzo.
GIOVANNI. — Io non pensavo affatto a fare un colpo di scena. Ma volevo concludere. Questa tecnica, adoprata integralmente nel romanzo, ha dei grandi svantaggi; ma adoprata con saggezza può essere utile. Perchè, infatti, che cos’è la tecnica del cinematografo?
CLAUDE. — Sarebbe tempo di dirlo.
GIOVANNI. — L’ho lasciato in fondo apposta.
La tecnica del cinematografo è appunto la tecnica dell’ombra. Tutta quella scena di Delitto e Castigo in un film sarebbe ancora più bella. Perchè il buon cinematografo non può vivere che di queste ricerche, e della sua bravura a trovare dei piccoli fatti, invisibili, che spalanchino le finestre dell’invisibile. Nota, che dico dell’invisibile; ma che avrei ragione anche di dire dell’incosciente.
CLAUDE. — Scusa; ma quando il cinema ti permette di vedere, tutto a un tratto, un particolare, buttandotelo addosso, ha trovato un’ombra?
GIOVANNI. — Certo, perchè ha messo in rilievo e reso immobile, isolandolo dal resto, un particolare che non si sarebbe visto, se fosse rimasto quello che era, la parte di un tutto. Far vedere un particolare è alterare profondamente la verità; perchè noi non riusciamo mai, nella vita, a guardare qualcosa indipendentemente dal suo tutto. Possiamo mettere anche questo sul conto delle ombre. Ma per un romanziere, l’interessante, al cinema, è di vedere in che misura, con dei mezzi limitati, come la figura di un attore, le sue possibilità di mimica e delle azioni, si riesca a costruire un carattere — e cioè a dipingere un uomo in modo che si immagini in tutte le circostanze della vita. E’ evidente che tutto dipende dalla bontà dell’attore. Ma se l’attore è buono, un carattere può esser costruito, con la stessa forza con cui lo costruisce un romanziere, e con dei mezzi minimi. Io ho visto dei personaggi che si capivano dopo due quadri. Ma si capivano fino in fondo, sai!
CLAUDE. — E allora che vuoi concludere?
GIOVANNI. — Questo; che un romanziere deve andare al cinematografo; e che il cinematografo può essergli utile. Ti sei convinto?
CLAUDE. — Sì; ma sai, io mi convinco sempre facilmente. Sembro fatto apposta per far da interlocutore, in un dialogo in cui si deve arrivare a una conclusione prevista.