Al fronte/Sulle pendici del Carso
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6 ottobre.
Sagrado, per la sua posizione, aveva questo vantaggio: che le artiglierie nemiche non potevano toccarlo. Era in un angolo morto. Una delle ragioni per cui l’offensiva nostra puntava con tanta insistenza sopra Sagrado, era precisamente l’invulnerabilità di Sagrado al cannone. Sagrado è alla punta dello sperone che il Carso avanza nel piano; il tiro incrociato delle artiglierie austriache piazzate oltre il ciglione, lungo i due lati dell’angolo, poteva battere tutti i declivi ma non arrivava ad una piccola zona al vertice. Prendendo Sagrado si aveva una strada verso l’altipiano quasi salva dal bombardamento.
Era necessario rafforzare immediatamente l’occupazione di Sagrado. Si pensò di servirsi dei rottami del vecchio ponte distrutto dagli austriaci, di fronte al paese. Questo ponte aveva ai lati due passerelle per i pedoni. Un solo arco del ponte era precipitato completamente e le passerelle laterali, sorrette da armature di acciaio, erano rimaste come sospese, spezzate per una lunghezza di pochi metri. Era possibile creare un allacciamento di legno per un passaggio provvisorio di fanterie. Spingendo avanti a loro dei sacchi di terra, per ammassarli ad uno ad uno sul fianco di una passerella e crearvi un baluardo contro la fucileria vicina, dei soldati si spinsero carponi sul ponte.
Il fuoco austriaco li prendeva di fianco, li investiva dalla sinistra; tutte le pendici erano piene di trincee dominanti, lontane poche centinaia di metri. Una volta passato il ponte si entrava in una zona più coperta. Fu possibile sistemare la passerella, ma una traversata di truppe non poteva effettuarsi senza gravi perdite di uomini o di tempo. Allora, come a Lucinico, venne avanti un cannone.
Uscì da Gradisca. Inoltrò per un vialone alberato, diritto, che segue il fiume e finisce al ponte di Sagrado. Entrò di corsa nell’uragano del fuoco. Andava al sacrificio con una galoppata trionfale. Si piantò di fronte a quell’anfiteatro di trincee lampeggianti.
Fra lui e il nemico, la larghezza del fiume. Incominciò un tiro diretto e rapido di shrapnells e di granate, alternando. Non un colpo andava fuori di posto. Gli scoppi dei suoi proiettili disegnavano le linee dei trinceramenti. Batteva in basso, poi in alto, poi di nuovo in basso, a sbalzi, per non permettere al nemico di indovinare di prevedere il punto che stava per essere colpito. La fucileria nemica rallentò, divenne ineguale, prese lui solo la mira, dimenticò il ponte. Dove il fuoco riprendeva a crepitare violento, il cannone si volgeva e intimava silenzio. Faceva fronte a tutti, comandava a tutti, atterriva.
Poco dopo, l’artiglieria nemica lo assalì. Le granate esplodevano tutto intorno, il pezzo scompariva nel fumo. Non poteva difendersi. Non pensava a difendersi. Continuava ad imporsi alle trincee. Costringeva la fanteria austriaca a ripararsi e aspettare. Era il suo còmpito. Intanto sul ponte le truppe nostre passavano. I plotoni sfilavano, uno dopo l’altro, curvi dietro ai sacchi di terra.
Qualche servente cadeva vicino al pezzo; i superstiti scansavano il ferito e seguivano il lavoro. I cavalli erano morti. Schegge di granate martellavano l’affusto e le scudature. Il cannone tuonava sempre. E sul ponte le truppe passavano. In ultimo si videro due soli artiglieri in piedi. Sparavano gli ultimi colpi. Poi il cannone stesso fu preso da una granata in pieno. Rimase tutto di traverso, scavalcato. L’occupazione di Sagrado era definitiva.
Un reggimento aveva varcato il fiume. Il giorno dopo era tutta una brigata al di là. La nostra fronte si allargava verso Castello Nuovo. Il nemico veniva sloggiato da un primo lembo del ciglione. Poteva ancora bombardare il ponte, ma non lo vedeva più. La linea del fiume sfuggiva in parte al suo sguardo. Eravamo padroni dell’Isonzo. Un altro ponte era gettato, sotto a cannoneggiamenti furibondi ma vani perchè ciechi. Si preparava la battaglia di luglio, quella battaglia smisurata che ci ha portati sull’altipiano attraverso innumerevoli assalti, dopo i quali si vedevano scendere alla pianura in lunghe colonne reggimenti e reggimenti austriaci, prigionieri.
Da Gradisca ho potuto avere una visione delle vicine pendici conquistate, che la cima di San Michele sovrasta. Gradisca offre una delle più tragiche scene della guerra. Perchè non è completamente distrutta. È ferita, squarciata, ma poche delle sue case sono crollate, poche sono morte; quasi tutte conservano una paurosa e inesprimibile espressione di vita, di sofferenza, di terrore, di agonia. Le macerie che si vedono qua e là, sono meno sinistre delle abitazioni ancora in piedi che si allineano lungo le vie deserte, sulle quali, dalle finestre sfondate dalle esplosioni, da quei loro occhi sbarrati e vuoti, lasciano cadere uno scintillìo di vetri infranti, come un luccicare di lacrime.
La maceria è il passato, è la tomba, sorprende ma non commove, e la solitudine intorno a lei appare lugubre ma naturale, come nei cimiteri. Fra quelle case senza abitanti, per le strade senza passanti, nella città dilaniata e fuggita, percossa da un perpetuo grandinare di piombo, v’è un senso misterioso di angoscia, qualche cosa di palpitante, un prodigioso alito di spavento, che fa involontariamente affrettare il nostro passo.
Le vie sono ingombre da uno sparpagliamento minuto di rottami e di fronde d’albero staccate dai proiettili. L’uragano senza fine della battaglia strappa dalle case, dalle esistenze, dalle piante, detriti di ogni genere e li mescola.
Tegole, lembi di tenda, imposte divelte, berretti da soldato, mattoni, ramoscelli, sembrano gettati intorno dalla furia di un vortice. Cannoni di tutti i calibri hanno tirato e tirano su Gradisca. Di tanto in tanto, un boato profondo, un sussultare del suolo, un fremito di muri, uno scroscio di crolli, un tintinnare di vetri, e il fondo di una strada si annebbia di polverone denso e di fumo.
Con un sibilare strisciante, delle palle di fucile arrivano, continuamente, picchiettando su tutti i muri. Sono colpi lunghi degli austriaci. La fucileria crepita sulla Sella di San Martino e dietro al bosco del Cappuccio. Basta guardare in terra, per vedere tutto intorno decine di pallottole cadute, come una rada e strana ghiaia metallica, alcune ancora luccicanti e fresche. Alla imboccatura di quel vialone che l’eroico cannone percorse, la terra è aperta da enormi crateri scavati dalle esplosioni.
Uno più largo, profondo come lo sterro di un lavoro di fognatura, fatto da una granata da 305, ha nel centro una sedia infangata e sbilenca, una vecchia sedia da caffè. L’hanno messa lì i soldati, per la fotografia. Avere il proprio ritratto in nobile posa seduto dentro ad una buca di granata, è l’aspirazione artistica d’ogni milite che passa. Il punto è molto esposto al fuoco, ma la tentazione è grande, la sedia è pronta, macchine fotografiche non mancano mai, e la fotografia si riproduce con modelli diversi.
Una granata da 305 ha massacrato la cattedrale. Dall’esterno la chiesa pare intatta. Ma non ha più tetto, e dentro è una confusione immane di travi cadute, di colonne crollate, di arredi sacri frantumati e sparpagliati, di macerie irriconoscibili, sulla quale scende la piena luce del giorno. Le rovine sono più grandi verso il fiume, al quale si scende rasentando i giardini pubblici devastati, con degli alberi stroncati dai colpi, e delle scritte che dicono: «La tutela delle piante e dei fiori è affidata al pubblico».
Dalla riva dell’Isonzo si vedono distintamente le posizioni che tendono alla vetta del San Michele. Il Carso, che da lontano sembra un gradino regolare ed eguale, appare allora tormentato e vario. È un’immensa scogliera, che si corrode, che si sfa qua e là, che raccoglie nelle sue cavità detriti e terriccio sui quali le vegetazioni si affollano, che ha boschi e prati formatisi sulle frane dei suoi fianchi appena coperti da lievi sedimenti coltivabili, ma che lascia emergere per tutto i rilievi della sua cinerea ossatura di pietra. Sulla sua cima il verde si raccoglie come l’acqua piovana negli interstizi di un acciottolato. Intere zone non sono che roccia. Se si scava sul prato, si trova la roccia al primo colpo di piccone.
Avanzando in linea retta, si è fermati continuamente da macigni, da scalini inaccessibili, da protuberanze del massiccio calcareo, e bisogna girare, incanalarsi per le cunette, scendere nelle piccole cavità erbose, nelle doline, inoltrandosi per passaggi obbligati sui quali una difesa facilmente si concentra. L’ordine sparso degli assalti deve per forza finire in aggruppamenti, come un calmo ruscello spezzato dai sassi si gonfia e irrompe in rivoletti fra un ostacolo e l’altro. Gli avviamenti, gli sbocchi, sono fatalmente fissati dal terreno. Contro ognuno di essi il nemico ha preparato una barriera.
Altrove, le trincee si allineano in due, tre, quattro ranghi. Qui sono spezzate e sono per tutto. Fanno fronte da ogni lato, si fiancheggiano, si spalleggiano, serpeggiano, formano angoli, formano intrecci. Non vi è una fronte da varcare, ve ne sono venti. Ogni dolina è un piccolo campo di battaglia. Per ogni trincea c’è un’azione, un piano, una tattica. Se si disegnassero sopra una carta topografica tutte le trincee espugnate sul Carso, si vedrebbe il foglio riempirsi di brevi tratteggi, con una confusione da scrittura misteriosa, come un’invasione di caratteri cuneiformi. E le trincee di difesa e di attacco non sono scavate; la terra manca per nascondervisi. Sono elevate.
Non ci si affonda, ci si innalza. Non si zappa, si costruisce. Bisogna andare all’assalto portando sulle spalle sacchi pieni di terra. Appena ci si ferma, un uomo sorge. Con le munizioni si portano avanti sassi, sacchi, cemento, travi, e si lavora, si erige, i parapetti si formano che le blindature vanno poi coronando. Spesso il lavoro è impossibile. Il combattimento incalza, tutti debbono prendere il fucile, la trincea appena sbozzata è un minuscolo rilievo di pietrame, vi si arriva carponi, vi si sta rannicchiati dietro per giorni, per settimane, aggrampati a quella parvenza di difesa, ostinati, esasperati, decisi.
Dopo ogni avanzata nostra, arrivano i contrattacchi. Due, tre volte il nemico tenta e ritenta la riconquista delle posizioni perdute. Non di rado è il contrattacco che ci porta avanti. Il nostro soldato ha l’istinto dell’offensiva, sente il momento utile allo slancio. Quando ha fermato il nemico, gli va addosso. L’occasione di trovarsi viso a viso con gli austriaci non è mai perduta. Un assalto austriaco finisce quasi sempre con un assalto nostro. Il bollettino ufficiale ha dato notizia di oltre trenta attacchi nemici sul Carso, e non erano che i principali. Molte grandi catture di prigionieri le abbiamo fatte quando eravamo assaliti.
Sul Carso gli austriaci hanno prodigato tutti i sistemi di difesa, tutti i tranelli della guerra, tutti i tipi di opere di fortificazione campale antica e moderna; hanno adoperato cemento, acciaio, pietra, legno; in quantità che sarebbero bastate alla costruzione di intere città; hanno fatto dei muri di protezione lunghi otto o dieci chilometri sul fianco degli incamminamenti; hanno usufruito di grotte e di caverne, scavato cunicoli, piantato reticolati, sepolto mine. E siamo saliti.
La base delle alture, il primo sorgere del declivio di fronte a Gradisca, è boscosa. Interrate fra le piante erano centinaia di mine. Le prime pattuglie in avanscoperta furono sorprese dalle esplosioni. Bastava urtare dei fili sottilissimi, invisibili come crini di cavallo, tesi fra l’erba, per provocare uno scoppio. Squadre di volontari partirono alla ricerca. Strisciavano lentamente, frugando con lo sguardo la terra, trovavano i fili, li seguivano delicatamente, scavavano il suolo adagio adagio, disarmavano gli inneschi, e tornavano portando le scatole esplosive. Tutto questo in mezzo allo scoppiettìo delle scaramucce, sotto alla protezione di vedette che si rannicchiavano a sparare dietro ai tronchi degli alberi vicini. Così sì sgombrò la strada al primo passo.
Più in alto la boscaglia s’interrompe, riprende, lascia larghe zone nude, e forma sulle alture larghe macchie fosche di vegetazione arborea. È la forma di queste macchie che ha suggerito ai soldati nomi strani per località che non avevano nome, e alle quali la guerra dava un’importanza storica. Bisognava distinguerle, e si chiamarono Bosco Cappuccio, Bosco Triangolare, Bosco a Lancia, Bosco a Ferro di Cavallo. Quando il bollettino nostro ha annunziato la conquista del Bosco Cappuccio e del Bosco a Ferro di Cavallo, il comunicato austriaco ha potuto smentire recisamente la conquista con un argomento perentorio, inconfutabile e unico: Cappuccio e Ferro di Cavallo, mai esistiti.
E fra poco invece sarà il bosco scomparso e il nome che resterà. Perchè, come sul Mrzli, come sul Podgora, il cannone sfronda, scalza, schianta, incendia e abbatte. La spalla del monte appare nuda sotto ad un magro intreccio di ramosità intristite. La terra è sconvolta e rossastra, la roccia scheggiata ha biancori di neve, e i pochi alberi rimasti eretti, bruciacchiati dalle vampe, spezzati e stroncati, hanno l’apparenza scheletrica delle piante colpite dal fulmine.
Il Bosco Cappuccio, che pareva appunto un cappuccio di verdura sopra un cocuzzolo verso San Martino, è tutto lacerato ai lembi, lungo i quali si distendeva un possente trinceramento austriaco. Avanti, il terreno è nudo. È un pendìo scosceso e scoperto. L’assalto che arrivò alla trincea si potè seguire da lontano. Si vedevano gli uomini inerpicarsi urlando, si vedeva lo sparpagliamento veemente e disordinato delle masse di attacco che salivano, miriadi di puntini grigi, si vedevano le seconde file rincalzare le prime file assottigliate, e l’azione pareva eterna. Al di qua del ponte di Sagrado, dietro ad un parapetto, tre strani piccoli ufficiali vestiti in uniforme khaki, guardavano immobili, con i pugni stretti, lanciando enfatiche esclamazioni gutturali.
Erano gli attachés giapponesi. Quando videro l’assalto sparire oltre la trincea nemica, ingolfarsi nel bosco, si voltarono indietro, verso degli ufficiali italiani che osservavano gravi e commossi, e agitarono le braccia con un gesto di entusiasmo e di stupore, gridando: «C’est grand! C’est grand!» Avevano rivisto la mitraglia umana di Porto Arturo.
Questo avveniva il 25 di luglio. Avevamo messo quasi un mese a giungere lassù. Due giorni dopo aver preso Sagrado eravamo a Castello Nuovo, al bordo dell’altipiano sopra al paese. Doveva essere in antico uno dei castelli intorno ai quali, su quelle stesse pendici del Carso, tre secoli fa Venezia si batteva con gli Arciducali nella guerra «Gradiscana». Poi il castello è divenuto una villa, circondata da cipressi. Adesso la villa è crollata, la battaglia ha cancellato tutto. L’occupazione di Castello Nuovo faceva cuneo, puntava in avanti nel centro della fronte carsica. Gli austriaci sferravano attacchi su attacchi su quel vertice d’avanzata, che era per noi un premio al quale si appoggiava la progressione lenta e faticosa delle ali.
Ogni notte era un assalto. Ve ne sono stati dodici contro quel punto, che appariva sempre avvolto di fumo. Le trincee austriache, coperte, blindate, protette, erano a cinquanta metri. Noi stavamo dietro a parapetti provvisorî, coronati di sacchi. Da una parte all’altra si parlavano, fucilando. Allora nacque, non si sa come, il soprannome di Cecchino dato ai tiratori scelti austriaci, i quali, muniti di fucili a cavalletto con alzo a cannocchiale, stavano eternamente alla posta. Anche noi avevamo i nostri Cecchini, sempre in mira, la guancia contro al calcio. I colpi erano commentati ad alta voce. Un giorno uno dei nostri sbagliò per due dita la testa di un austriaco che si era avanzato quatto quatto e si disponeva a sparare; l’austriaco ritraendosi agitò in aria il fucile facendo quella segnalazione che in tutti i bersagli del mondo significa «zero»! Si rise dalle due parti. Più spesso erano ingiurie. Una sera pioveva a dirotto, l’acqua scorreva dietro ai nostri parapetti, e dalla trincea austriaca, chiusa e asciutta, una voce di scherno gridò nel dialetto dalmata: «I fevi i piediluvi, can de taliani?» Rispose un coro d’invettive che deve aver dato al nemico l’impressione d’un grido di assalto, perchè aprì subilo il fuoco. Ma questa è la vita di tutte le trincee.
L’avanzata vera, sistematica, perseverante, vigorosa, cominciò ai primi di luglio. Il centro era piantato solidamente su Castello Nuovo, la destra saliva verso il Monte Sei Busi, la sinistra verso il Monte San Michele.
L’offensiva si scatena allora su tutti i fronti, preme sul Podgora, minaccia i ponti di Gorizia, ma è al Carso che tende con volontà intensa. L’azione non vi ha sosta. Ogni notte dei reticolati saltano, ogni giorno delle trincee sono prese. Il nemico si rinforza, concentra nuove batterie di medi calibri nel vallone di Doberdò, contrattacca per tutto, cerca di profittare della vulnerabilità e della debolezza che hanno le posizioni appena prese, quando ancora non c’è stato tempo di farvi i lavori di consolidamento, e vi dirige assalti su assalti. Ma niente ci smuove, teniamo le trincee espugnate, progrediamo sempre.
La lotta era accanita. Il nemico non rifuggiva dai mezzi più sleali, dalle false rese che nascondevano mitragliatrici appostate, dalle false bandiere della Croce Rossa issate su batterie o su comandi, era feroce quando non era in fuga. Non permetteva di raccogliere i feriti caduti fra le due fronti, e non raccoglieva i suoi. Una mattina uno dei nostri generali doveva far cominciare un bombardamento di calibri pesanti per aprire il varco nel reticolato di un trinceramento che ci era di fronte; ma proprio sotto a quel reticolato che stava per essere sconvolto da una bufera di esplosioni, giaceva un ferito nostro. Di tanto in tanto si vedeva un lieve gesto del suo braccio. Vicino a lui due cadaveri. Erano caduti durante un tentativo notturno.
Il generale, che era in trincea per sorvegliare gli effetti del bombardamento, guardava la scena pensieroso. L’ora fissata per l’azione dell’artiglieria scoccava. Egli non dava ordini. Poi, chiamò un ufficiale e fece parlamentare col nemico.
«Lasciateci raccogliere i nostri feriti e i nostri morti!» — gridò dalle nostre trincee una voce al megafono. Nessuna risposta. «Faremo uscire dei portatori nudi perchè vediate che non è un tranello!» — soggiunse la voce. Nessuna risposta. Le stesse frasi furono gridate in tedesco. Silenzio. La trincea nemica pareva deserta. Quattro portaferiti con le barelle vennero fatti inoltrare. Una scarica di fucilate li accolse appena usciti. Due di loro rimasero colpiti. L’ora era trascorsa. Le batterie pronte aspettavano il segnale telefonico per iniziare il tiro convenuto. Il generale si passò una mano sulla fronte, guardò l’orologio, si volse all’ufficiale d’ordinanza, gli trasmise un ordine. E il fuoco cominciò.
Il varco fu aperto nei reticolati. Il segno che la batteria era spezzata venne dal nemico. Si vide un gruppo di austriaci balzare fuori della trincea e precipitarsi per un passaggio creato dalle nostre granate attraverso la siepe di acciaio. Venivano giù in fila, senza fucile, correndo, le mani in alto. Si arrendevano.
Erano venticinque. Profittavano di una sosta fra il cannone e la baionetta. Ma il cannone non aveva finito. Riprendeva in quel momento il suo lavoro di demolizione. Una granata cadde in mezzo al gruppo. Dalla nostra trincea si scorse distintamente lo spettacolo atroce di corpi umani smembrati lanciati in aria nella eruzione di terra, e di fumo dello scoppio. Era come una di quelle esplosioni inverosimili che si vedono raffigurate nei giornali illustrati. Terrorizzati, insanguinati, lividi, i superstiti arrivarono alla posizione italiana. Non erano più che sedici. Il destino aveva fatto giustizia.
Lo spettacolo di queste rese era comune. Una volta verso Castello Nuovo si vide venire avanti un mezzo battaglione austriaco, agitando fazzoletti, con le braccia levate: cinque o seicento uomini, una folla veloce sormontata da un turbinio chiaro di mani. Cessò il fuoco delle nostre trincee e si fece un silenzio di attesa. Ma quella massa non aveva percorso la metà della strada che la separava dai nostri, quando cominciò su di lei un fuoco di shrapnells austriaci, serrato, esatto, rabbioso, che la seguiva passo passo. Cadevano giù a gruppi i fuggenti colpiti, costellavano la terra di corpi. Centoventi soltanto poterono giungere a consegnarsi. Certe volte si direbbe che i reticolati servano assai più a trattenere gli austriaci dal rendersi che a difender loro dai nostri assalti.
Il cannoneggiamento furibondo, insistente e preciso che preparava gli attacchi delle nostre fanterie, sbalordiva e accasciava il nemico nelle sue trincee. L’assalto spesso lo trovava inerte, sperduto. I nostri primi reparti arrivavano, intimavano la resa, e continuavano l’attacco, andavano oltre, lasciando alle seconde linee la cura di raccogliere i prigionieri e di spingerli giù, verso le retrovie. Gli ufficiali austriaci che non stanno con i loro uomini, perdevano ogni controllo di comando. Dietro ad ogni trincea nemica, lontano dieci o quindici passi, vi sono dei minuscoli ricoveri; delle buche blindate; nella trincea sono i soldati, nelle buche gli ufficiali. La truppa non può muoversi, presa come è fra i reticolati e le pistole dei suoi superiori. Sapiente disposizione.
I primi tempi i nostri soldati, intenti alla trincea, non badavano alle tane dei comandi che erano alle spalle, e proseguendo incalzanti alla conquista delle linee successive erano spesso feriti da misteriosi colpi a bruciapelo. Poi impararono. Correvano dritti alle buche, e affacciando la punta della baionetta nell’apertura, ponevano all’abitatore rannicchiato nell’ombra questo semplice dilemma: «Fuori le mani, o spingo!» Venivano fuori le mani. Dopo le mani spuntavano le braccia, e dopo le braccia emergeva il resto di un elegante oberleutenant al completo, pallido ma dignitosamente rassegnato.
Una mattina un capitano austriaco, rimasto inosservato nel suo covo mentre l’assalto passava, tirò un colpo di pistola ad un sergente nostro che seguiva il suo plotone. Il sergente, illeso, si fermò e si guardò intorno. Una seconda palla lo sfiorò. Allora egli vide. Non fece fuoco, rivoltò il fucile, balzò addosso all’ufficiale, lo tramortì con un colpo di calcio, se lo caricò sulle spalle e lo portò giù, al posto di medicazione. Qui, alle prime cure il capitano austriaco rinvenne, e andò su tutte le furie. Smaniava, mostrava i pugni al sergente, che lo guardava sbalordito da dietro le spalle dei medici, rotava gli occhi e bestemmiava, in tedesco. Non era furioso per essere stato fatto prigioniero, o per avere perduto la posizione. La causa della sua ira era più grave: «È la prima volta — gridava — la prima volta nella mia vita che manco un uomo al secondo colpo!» Il sergente fece un passo avanti, salutò cerimoniosamente e gli disse: «La ringrazio tanto per la eccezione!» E se ne andò fischiettando.
Storie di prigionieri, di rese, di catture, sono innumerevoli. In quei giorni operava sul Carso una famosa batteria da campagna che era conosciuta dalle truppe precisamente col nomignolo di «batteria dei prigionieri». Aveva la specialità di catturare gli austriaci a mezze compagnie per volta, da sola. Nelle nostre linee arrivavano all’improvviso bande di nemici che si arrendevano, adunati e condotti dal fuoco dei cannoni. Quando la batteria scorgeva dei nuclei nemici in ritirata, li fermava con barriere di esplosioni, li costringeva a cercare uno scampo nel ritorno, li accompagnava, li sospingeva con una minacciosa siepe di shrapnells non permetteva loro che deviassero, lasciando così una sola via aperta alla loro marcia, quella della resa.
Gli austriaci incalzati, incapaci di mantenere il terreno ad onta della tremenda preparazione difensiva, meditarono un gran colpo. Divisioni fresche arrivavano continuamente dalla Galizia a rinforzo. Fin dal 10 di luglio grandi masse nemiche venivano adunate per una offensiva generale e risolutiva. In quell’epoca cominciò a notarsi appunto l’entrata in azione di numerose batterie pesanti. Per sloggiarci dall’altipiano carsico pensarono di sviluppare l’attacco principale contro la nostra ala sinistra.
Appariva infatti in quel momento la più vulnerabile. Una volta forzata la sua estrema punta sull’Isonzo, un ripiegamento di tutta l’ala sinistra poteva essere provocato. Ripiegare sotto la pressione di un’offensiva possente significava, con molta probabilità, ripassare il fiume. Sarebbe stata la perdita dei ponti, l’annullamento dei risultati ottenuti con sforzi meravigliosi durante quasi due mesi di lotta tenace, il ritorno al principio in condizioni ben più difficili per una ripresa dell’offensiva. La nostra destra invece aveva Monfalcone come sentinella estrema, e un attacco contro di essa, anche fortunato, non avrebbe ottenuto un resultato definitivo quale quello di ridare il pieno controllo dell’Isonzo. Il piano austriaco era dunque perfetto, come sono perfetti tutti i piani prima che falliscano.
Al mattino del 22 luglio il grande attacco austriaco si sferrò. Tutta la notte delle offensive minori avevano tastato la nostra fronte, forse per riconoscerla, forse anche per stancare le guarnigioni e trovarle più deboli e meno pronte all’urto che si preparava. Numerosi generali comandavano il movimento offensivo, fra i quali il principe di Schwarzenberg, il generale Boog, il generale Schreitter. L’azione cominciò con un bombardamento formidabile.
Delle persone che osservavano le posizioni da lontano, le videro letteralmente coprirsi di fumo. Si ovattavano tutte di nubi di shrapnells. Il rombo intenso della cannonata non affievoliva un istante. Pareva impossibile che si potesse resistere in quell’inferno. Si aveva l’impressione angosciosa che fosse un fuoco di sterminio. Improvvisamente si svegliò un tuono più alto, più violento, più vicino: le nostre artiglierie entravano in azione. Per qualche tempo il fumo dei colpi avvolse gli stessi punti. Poi, ad un tratto, parve che gli shrapnells austriaci battessero più in là, che i cannoni nemici raccorciassero il tiro; l’uragano si allontanava, si videro i nostri colpi spostarsi subitamente, andare lontano lontano. Si comprese che facevano un fuoco d’interdizione, che chiudevano la strada ad un nemico in fuga.
L’attacco era stato dato con dense e profonde formazioni, a grandi masse. Erano arrivate impetuose quando la preparazione delle artiglierie nemiche poteva far credere di avere decimato ed estenuato la difesa. Ma una delle più belle qualità del nostro soldato è la resistenza morale al bombardamento. L’attacco si abbattè sulla prima linea in piena efficienza, duramente provata ma pronta alla lotta. La battaglia fu accanita. Le onde di assalto si formavano e si riformavano, ma l’artiglieria nostra aveva avuto una prontezza fulminea nell’intervenire in soccorso della fanteria. Il suo fuoco era di una precisione spaventosa; molti dei punti sui quali si concentrava il tiro erano in diretta visione delle batterie. Lunghi tratti del campo di battaglia si prospettavano in declivio avanti ai cannoni, che scrivevano i loro colpi come sopra una lavagna. Si poteva portare il fuoco a cinquanta, a quaranta metri dalla nostra linea, senza timore di toccarla. L’assalto non trovava un limite di liberazione, oltre il quale l’artiglieria è paralizzata.
La fucileria aveva l’intensità continua di uno scroscio di cateratta, e lo strepito regolare delle mitragliatrici pareva il battito meccanico di un immenso opificio. Ad ogni sbalzo in avanti le file nemiche erano falciate. Si vedevano gli uomini fulminati nella corsa cadere roteando su loro stessi, e le braccia aperte. L’impeto dell’assalto era spezzato. L’attacco violento declinava in un’azione lenta. La spinta si faceva pressione. Intanto i nostri rincalzi erano in marcia, avevano passato i ponti, si ammassavano dietro al combattimento, portavano alla prima linea una nuova pienezza di vigore. E la controffensiva nostra si sferrò, vigorosa, improvvisa, travolgente. Allora la nostra artiglieria spostò il tiro, battè alle spalle del nemico, lo serrò fra le granate e le baionette, e fu la fuga disordinata degli austriaci, la resa di interi reparti, la rotta. La vittoria era nostra.
Il terreno era pieno di cadaveri nemici. Di quando in quando dalle cavità, nelle doline che parevano deserte, si vedevano apparire piccole file caute di austriaci, curvi sotto al loro grosso zaino, plotoni di dispersi in cerca d’uno scampo, e la mitragliatrice intimava loro l’alto là. Il soldato che perde lo zaino è punito nell’esercito austriaco legandolo ad un palo, con i piedi ad un palmo dal suolo, le mani avvinte dietro il dorso, e per alcune ore è lasciato così a meditare sulla santità del corredo governativo. Questa venerabile costumanza ha prodotto una indivisibilità mirabile fra il soldato austriaco e il suo bagaglio. Nelle più critiche circostanze, zaino e soldato sanno rimanere insieme. L’uomo può perdere la testa, può perdere la battaglia, può perdere la vita, ma non il sacco. Si assiste talvolta ad atti di eroismo disperato per la riconquista di uno zaino, abbandonato in un momento di fretta imperiosa e imperiale. Dei feriti a morte, agonizzanti quasi, ai quali nella caduta è sfuggito dalle spalle il carico regolamentare, strisciano a riprenderlo, arrivano ad afferrare a fatica una cinghia, la tirano a loro con le ultime forze. E muoiono così nel pensiero di un ideale raggiunto.
Il grande attacco austriaco naturalmente ci portò più avanti. Per ostacolare il nostro consolidamento sulle nuove posizioni, altri attacchi arrivarono il giorno dopo. La nostra ala destra fu alla sua volta investita. Ma il 25 luglio tutta la nostra fronte riprendeva l’offensiva, paziente, tenace e violenta. Mentre l’ala sinistra conquistava quel Bosco Cappuccio che non ha più alberi sui suoi bordi sconvolti, il centro si avvicinava a San Martino del Carso, e la destra espugnava una gran parte del Monte Sei Busi, verso Doberdò, le cui case bianche si affacciano spaurite al di sopra di un nereggiare di boscaglia. Il Monte Sei Busi era stato già preso, poi riperso, poi ripreso, poi riperso. Si concentravano sulla vetta troppi tiri di artiglierie, che non davano il tempo di consolidarsi. L’azione generale distolse da quella sommità una parte del fuoco che la batteva, permise agli assalitori di resistere, di lavorare, di organizzarsi e di reggere. Cominciavamo a dominare finalmente tutto un lato dell’altipiano, fino al Vallone, dietro a Doberdò, fino al laghetto.
Il Bosco Cappuccio e la boscaglia della spalla di San Martino, erano pieni di trincee, di reticolati. Vi infuriarono combattimenti furibondi a colpi di granate alla mano e di baionetta. Furono spesso lotte a corpo a corpo, avvinghiamenti, sotto ad un roteare di calci di fucile che cadevano a mazza. Le bombe asfissianti del nemico allungavano fra gli alberi il loro fumo persistente, denso, verde, vischioso. Dalle nubi velenose i nostri emergevano terribili, coperti dalle maschere di guerra che mettono sul viso l’apparenza mostruosa di una enorme bocca inumana.
Si combattè il giorno, si combattè la notte, si combattè il giorno appresso. La sinistra era salita sul San Michele. Contro di lei si volsero i cannoni di Gorizia. La montagna pareva in eruzione. I nostri non volevano lasciar presa. Erano decimati ma resistevano. Rimasero fino alla notte sulla vetta battuta da uragani di acciaio. Quando ripiegarono, si gettarono contro delle trincee laterali, andavano in cerca di combattimento. E arrivarono dalla vittoriosa ritirata sospingendo una massa di prigionieri. Oltre cinquemila prigionieri erano stati catturati in tre giorni, con duecento ufficiali austriaci. Alla destra ci piantavamo definitivamente sul Monte Sei Busi.
Il 27 avanzò il centro. Il 28 il nemico contrattaccò con grandi forze. Aveva ricevuto altre truppe fresche. Comparve in prima linea un reggimento di Landschutzen. Non tornò più indietro. Un altro migliaio e mezzo di uomini validi cadde nelle nostre mani. Avanzammo verso San Martino. Il 29 gli austriaci tentavano di sloggiarci con l’incendio dal Bosco Cappuccio. Delle fiamme sorsero qua e là nei roveti; furono estinte.
Continuammo ad avanzare. Tutto un primo sistema d’opere difensive era sfondato. Urtavamo sulla seconda linea, che fu attaccata dalle artiglierie. Il centro progrediva e mandava indietro centinaia e centinaia di prigionieri. Il 31 gli austriaci assalivano con vigore il Monte Sei Busi, dopo aver tentato di stornare la nostra attenzione con un’azione dimostrativa all’ala opposta. L’assalto fu fermato, e la controffensiva nostra si sferrò alla sua volta, magnifica, impetuosa, irresistibile, scompigliando, fugando, disperdendo le truppe più scelte, e quasi un intero reggimento dei famosi Kaiserjäger rimase sul campo.
Il 2 agosto, altro attacco austriaco contro al Monte Sei Busi. Quella occupazione li molesta. Se il San Michele guarda in casa nostra il Sei Busi guarda in casa loro. Vede e sorveglia, scopre le vie di approccio, e colonne nemiche in movimento su strade, che erano state fino allora invulnerabili, sono raggiunte ora dai nostri colpi di cannone, fermate, disperse. L’attacco è respinto, e avanziamo. L’occupazione del Monte si allarga. Anche il nostro centro progredisce. La nostra artiglieria arriva a tormentare delle retrovie avversarie. Scopre Marcottini, domina tratti nuovi di comunicazioni verso Devetachi. Strane località ha il Carso, che portano nomi umani, veri cognomi che adesso ci fanno l’effetto di appartenere a personalità misteriose e ostili: Marcottini, Devetachi, Vizintini, Micoli, Ferleti, Bonetti, Boschini.... Perchè sono dalla parte austriaca tutti questi italiani?
Il giorno dopo, nuova battaglia. Per frenare i progressi del centro, alla mattina del 4 agosto gli austriaci sferrano un attacco contro al Bosco Cappuccio. Si ripetono le fasi oramai consuete di resistenza e di controffensiva. Il nemico è fermato, assalito, inseguito. Una enorme trincea, che i soldati chiamavano il Trincerone, la quale chiudeva gli sbocchi orientali del bosco, è presa così, di impeto. L’assalto vi sale alle spalle dei fuggiaschi. Siamo agli accessi di San Martino. Attacchi, contrattacchi, sorprese, combattimenti nella nebbia, nella bufera, nelle tenebre di notti tempestose, nel chiarore di proiettori e di razzi, si susseguono ogni giorno da allora, ma non hanno più l’ampiezza di azioni generali. Sono imprese locali, battaglie d’una dolina, assedi di una trincea, furori circoscritti. Andiamo avanti sistematicamente, scalzando, incalzando, senza annunziare sempre i vantaggi ottenuti, portando colpi di sorpresa, senza fermarci mai. La lotta non ha soste, si restringe ma non langue, si sposta ma non riposa.
Mentre dalle finestre sbrecciate di un vecchio edificio di Gradisca, sul quale le pallottole grandinando formano come una tarlatura, osservavo le posizioni, il fuoco che languiva ha ripreso, tutta la vetta scrosciava di fucilate, e ricominciava sulla città deserta una pioggia rada e scoppiettante di piombo. Raffiche di cannonate passavano. Un combattimento breve divampava verso il San Michele.
La falda del San Michele era coperta da un folto bosco a semicerchio: il Bosco a Ferro di Cavallo nella denominazione della truppa. Non potrei descriverlo perchè il bosco non c’è quasi più. Lo vedono soltanto i soldati, e lo indicano, perchè conservano nella loro memoria profondi, netti e vivi gli aspetti dei luoghi nella prima apparenza, e perchè le trasformazioni del paesaggio sono avvenute lentamente. Ma chi arriva nuovo e ignaro, al posto del Bosco di Ferro di Cavallo vede, un due o tremila metri lontano, un terreno scosceso rotto e frastagliato, con dei sassi, e qua e là una lanugine gialla di rovi secchi e di cespugli bruciacchiati. Più in alto, la vetta nuda del San Michele, osservatorio del nemico, che ci scruta. Il bosco è così scomparso, e vi si scorgono tutte le nostre trincee, che si tendono ad arco verso la cima del monte, vicina, quasi raggiunta.
Dopo le battaglie di luglio il nemico aveva insinuato fra i roveti dei piccoli posti, che alla notte lavoravano. Erano sorte così delle trincee, che gli austriaci a poco a poco ampliavano; i piccoli posti erano diventati avanguardie, e le avanguardie si disponevano a trasformarsi in prima linea. Pochi giorni or sono, il 18 settembre, assalimmo il Ferro di Cavallo. Le prime trincee furono occupate di sorpresa; le altre furono espugnate a viva forza. Il nostro bombardamento accecava il San Michele. Dei contrattacchi scesero, ma i nostri hanno acquistato una tale destrezza nell’erigere i ripari, che in pochi minuti una prima rudimentale opera di difesa è pronta. Se l’austriaco ha una passione per lo zaino, il nostro soldato è inseparabile dal suo sacco pieno di terra. Sale all’assalto col suo fardello, e non lo lascia che per scaraventarlo sopra un parapetto di fortuna e sdraiarvisi dietro. È avvenuto anche che lo abbia scaraventato sulla testa dei nemici.
Le trincee formano un saliente che spinge arditamente all’attacco del monte una testa arrotondata, la quale simula quasi quel ferro di cavallo che il bosco non forma più. Si seguiva tutta la vita del trinceramento, l’andare e il venire lento e indifferente dei soldati dietro ai muri di riparo, l’affaccendarsi di lavoratori in opere di rafforzo, e presso alle feritoie una immobilità statuaria di vedette e di tiratori. Per un incamminamento salivano, calmi, a passo da montagna, i portatori del rancio, con le loro pentole fumiganti.
In molti settori della guerra ho avuto una impressione di solitudini truci immerse in paurosi silenzi sovrumani. Ma di fronte al Carso no. Di fronte al Carso, in qualunque punto, si sente la massa che vive e la guerra che palpita. Una ostilità martellante pulsa come una febbre. Si direbbe che la nostra fronte toccando il mare attinga dall’Adriatico vigori e impeti maggiori per avventarsi contro le alture feroci. La battaglia non ha più date, è la battaglia del Carso, una lotta gigantesca sugli spalti della immane fortezza che la sopraffazione ha dato al nemico, e dalla quale a passo a passo è scacciato. Il rombo di questa bufera è udito talvolta nelle città tranquille e lontane della pianura veneta.
Nel buio profondo della notte di Udine a lumi spenti, pieno di uno scalpiccio di gente che passa e non si vede, di un sussurrìo di voci che pare vengano dai muri, in quelle tenebre strane nelle quali mormora una vita quieta, invisibile, cieca, fra quei portici che la risonanza sola rivela, per quelle strade opache e nere in fondo alle quali, come un punto di bragia, scintilla una lampadina rossa che tinge un angolo con un riflesso da laboratorio fotografico, per l’aria umida e fredda arriva spesso un rimbombare remoto, un brontolìo di tuono. Nessuno ci bada, il sussurrìo continua, la voce di un ragazzo si allontana cantando. Si ha l’abitudine. È la battaglia del Carso che rugge. È un passo avanti che si fa....