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412 sulle pendici del carso


Nuovo faceva cuneo, puntava in avanti nel centro della fronte carsica. Gli austriaci sferravano attacchi su attacchi su quel vertice d’avanzata, che era per noi un premio al quale si appoggiava la progressione lenta e faticosa delle ali.


Ogni notte era un assalto. Ve ne sono stati dodici contro quel punto, che appariva sempre avvolto di fumo. Le trincee austriache, coperte, blindate, protette, erano a cinquanta metri. Noi stavamo dietro a parapetti provvisorî, coronati di sacchi. Da una parte all’altra si parlavano, fucilando. Allora nacque, non si sa come, il soprannome di Cecchino dato ai tiratori scelti austriaci, i quali, muniti di fucili a cavalletto con alzo a cannocchiale, stavano eternamente alla posta. Anche noi avevamo i nostri Cecchini, sempre in mira, la guancia contro al calcio. I colpi erano commentati ad alta voce. Un giorno uno dei nostri sbagliò per due dita la testa di un austriaco che si era avanzato quatto quatto e si disponeva a sparare; l’austriaco ritraendosi agitò in aria il fucile facendo quella segnalazione che in tutti i bersagli del mondo significa «zero»! Si rise dalle due parti. Più spesso erano ingiurie. Una sera pioveva a dirotto, l’acqua scorreva dietro ai nostri parapetti, e dalla trincea austriaca, chiusa e asciutta, una voce di scherno gridò nel dialetto dalmata: «I fevi i piediluvi, can de taliani?» Rispose un coro d’invettive che deve aver dato al nemico