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426 sulle pendici del carso


vi sale alle spalle dei fuggiaschi. Siamo agli accessi di San Martino. Attacchi, contrattacchi, sorprese, combattimenti nella nebbia, nella bufera, nelle tenebre di notti tempestose, nel chiarore di proiettori e di razzi, si susseguono ogni giorno da allora, ma non hanno più l’ampiezza di azioni generali. Sono imprese locali, battaglie d’una dolina, assedi di una trincea, furori circoscritti. Andiamo avanti sistematicamente, scalzando, incalzando, senza annunziare sempre i vantaggi ottenuti, portando colpi di sorpresa, senza fermarci mai. La lotta non ha soste, si restringe ma non langue, si sposta ma non riposa.

Mentre dalle finestre sbrecciate di un vecchio edificio di Gradisca, sul quale le pallottole grandinando formano come una tarlatura, osservavo le posizioni, il fuoco che languiva ha ripreso, tutta la vetta scrosciava di fucilate, e ricominciava sulla città deserta una pioggia rada e scoppiettante di piombo. Raffiche di cannonate passavano. Un combattimento breve divampava verso il San Michele.

La falda del San Michele era coperta da un folto bosco a semicerchio: il Bosco a Ferro di Cavallo nella denominazione della truppa. Non potrei descriverlo perchè il bosco non c’è quasi più. Lo vedono soltanto i soldati, e lo indicano, perchè conservano nella loro memoria profondi, netti e vivi gli aspetti dei luoghi nella prima apparenza, e perchè le trasfor-