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sulle pendici del carso 407


che lascia emergere per tutto i rilievi della sua cinerea ossatura di pietra. Sulla sua cima il verde si raccoglie come l’acqua piovana negli interstizi di un acciottolato. Intere zone non sono che roccia. Se si scava sul prato, si trova la roccia al primo colpo di piccone.

Avanzando in linea retta, si è fermati continuamente da macigni, da scalini inaccessibili, da protuberanze del massiccio calcareo, e bisogna girare, incanalarsi per le cunette, scendere nelle piccole cavità erbose, nelle doline, inoltrandosi per passaggi obbligati sui quali una difesa facilmente si concentra. L’ordine sparso degli assalti deve per forza finire in aggruppamenti, come un calmo ruscello spezzato dai sassi si gonfia e irrompe in rivoletti fra un ostacolo e l’altro. Gli avviamenti, gli sbocchi, sono fatalmente fissati dal terreno. Contro ognuno di essi il nemico ha preparato una barriera.

Altrove, le trincee si allineano in due, tre, quattro ranghi. Qui sono spezzate e sono per tutto. Fanno fronte da ogni lato, si fiancheggiano, si spalleggiano, serpeggiano, formano angoli, formano intrecci. Non vi è una fronte da varcare, ve ne sono venti. Ogni dolina è un piccolo campo di battaglia. Per ogni trincea c’è un’azione, un piano, una tattica. Se si disegnassero sopra una carta topografica tutte le trincee espugnate sul Carso, si vedrebbe il foglio riempirsi di brevi tratteggi, con una con-