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sulle pendici del carso 405


di spavento, che fa involontariamente affrettare il nostro passo.

Le vie sono ingombre da uno sparpagliamento minuto di rottami e di fronde d’albero staccate dai proiettili. L’uragano senza fine della battaglia strappa dalle case, dalle esistenze, dalle piante, detriti di ogni genere e li mescola.

Tegole, lembi di tenda, imposte divelte, berretti da soldato, mattoni, ramoscelli, sembrano gettati intorno dalla furia di un vortice. Cannoni di tutti i calibri hanno tirato e tirano su Gradisca. Di tanto in tanto, un boato profondo, un sussultare del suolo, un fremito di muri, uno scroscio di crolli, un tintinnare di vetri, e il fondo di una strada si annebbia di polverone denso e di fumo.

Con un sibilare strisciante, delle palle di fucile arrivano, continuamente, picchiettando su tutti i muri. Sono colpi lunghi degli austriaci. La fucileria crepita sulla Sella di San Martino e dietro al bosco del Cappuccio. Basta guardare in terra, per vedere tutto intorno decine di pallottole cadute, come una rada e strana ghiaia metallica, alcune ancora luccicanti e fresche. Alla imboccatura di quel vialone che l’eroico cannone percorse, la terra è aperta da enormi crateri scavati dalle esplosioni.

Uno più largo, profondo come lo sterro di un lavoro di fognatura, fatto da una granata da 305, ha nel centro una sedia infangata e sbilenca, una vecchia sedia da caffè. L’hanno