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sulle pendici del carso 421


tare il fuoco a cinquanta, a quaranta metri dalla nostra linea, senza timore di toccarla. L’assalto non trovava un limite di liberazione, oltre il quale l’artiglieria è paralizzata.

La fucileria aveva l’intensità continua di uno scroscio di cateratta, e lo strepito regolare delle mitragliatrici pareva il battito meccanico di un immenso opificio. Ad ogni sbalzo in avanti le file nemiche erano falciate. Si vedevano gli uomini fulminati nella corsa cadere roteando su loro stessi, e le braccia aperte. L’impeto dell’assalto era spezzato. L’attacco violento declinava in un’azione lenta. La spinta si faceva pressione. Intanto i nostri rincalzi erano in marcia, avevano passato i ponti, si ammassavano dietro al combattimento, portavano alla prima linea una nuova pienezza di vigore. E la controffensiva nostra si sferrò, vigorosa, improvvisa, travolgente. Allora la nostra artiglieria spostò il tiro, battè alle spalle del nemico, lo serrò fra le granate e le baionette, e fu la fuga disordinata degli austriaci, la resa di interi reparti, la rotta. La vittoria era nostra.

Il terreno era pieno di cadaveri nemici. Di quando in quando dalle cavità, nelle doline che parevano deserte, si vedevano apparire piccole file caute di austriaci, curvi sotto al loro grosso zaino, plotoni di dispersi in cerca d’uno scampo, e la mitragliatrice intimava loro l’alto là. Il soldato che perde lo zaino è punito nell’esercito austriaco legandolo ad un palo,