Canto XVII

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Canto XVI Canto XVIII
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ALLEGORIA

Per la dolorosa separazione d’Adone e di Venere dassi altrui a divedere con quanta pena e difficoltá si priva la carne del suo godimento sensibile. Per Tritone, mostro marino, che cavalcato da Venere, ed allettato dalla promessa del premio amoroso, di qua e di lá con larghe ruote trascorre il mare, si figura l’uomo sensuale, mezo t uanto alla parte inferiore, il qual posseduto e signoregf alla voluttá, che gli promette piaceri e

dolcezze, immersa u.cuu’0 il pelago di questo mondo, va per esso del continovo senza alcun riposo con tortuosi errori vagando. Per Glauco, che in virtú d’un’erba mirabile, lavato da cento fiumi, di Pescatore diventa Dio, si disegna lo stato di colui, ch’entrando nel gusto della vera sapienza, e con Tacque della vera penitenza purgandosi delle macchie del senso, prende forma e qualitá divina, ed acquista la beatitudine, e l’immortalitá. Per la festa degl’Iddii e delle Xinfe del mare, ch’arridono al passaggio della Dea, si ombreggia la salsedine essere amica alla generazione, come quella che per lo suo calore ed acrimonia è provocatrice

della lussuria. [p. 394 modifica]

ARGOMENTO

Dal caro suo con lagrime e sospiri
prende congedo Venere dolente.

Poi di Triton su ’l tergo alteramente
solca tranquilli i liquidi zaffiri.

1.Quando due alme innamorate e fide
si scompagnan talor per dura sorte,
mortai angoscia ambe le vite uccide,
né proprio è la partita altro che morte.
E s’è gran doglia allor che si divide
l’alma dal corpo suo dolce consorte,
che fia qualor ad alma alma s’invola,
anzi in due si diparte un’alma sola?

2.Oh se potesse in un medesmo punto,
quando coppia che s’ama Amor diparte,
aver ciascun due vite, onde, disgiunto
da la di sé piú cara e miglior parte,
ed a l’amato sen sempre congiunto,
senza giá mai partir, girne in disparte,
piú lieta l’alma al dolce oggetto unita
lá dov’ama vivria, che dove ha vita.

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3.Deh come volentier terrebbe un core
farsi baleno, o divenir saetta,
pur che da l’arco poi, che scocca Amore,
fusse aventato ove il suo ben l’aspetta!
Oh quanto invidia al Sol l’aureo splendore,
che va scorrendo il Ciel con tanta fretta,
per poter con un raggio ardente e vivo
visitar l’altro Sole, ond’egli è privo!

4.Felici augelli, e fortunati vènti,
cui penne da volar diede Natura.
Beati fiumi e rivoli correnti,
che di vagar per tutto hanno ventura.
Aventurose voi stelle lucenti,
ch’ardete in fiamma dilettosa e pura;
e se cangiate pur siti e ricetti,
vi vagheggiate almen con lieti aspetti!

5.Misero quegli, a cui per alcun modo
convenga abbandonar delizia antica:
ché come o schiantar ramo, o sveller chiodo
non si può senza strepito e fatica,
cosí spezzar l’indissolubil nodo
d’un vero amante, e d’una vera amica,
se l’un da l’altro si distacca e scioglie,
non si può senza pianti, e senza doglie.

6.Ed egli a lei sospira, ed ella a lui
risponde con sospir tronchi e tremanti.
E cosí accorda gli stromenti sui
Amor con tuono egual fra sé sonanti.
Tai son le lingue mutole, con cui
favellano tra lor l’anime amanti.
Con queste care epistole furtive,
pria che giunga il partir, l’un l’altro scrive.

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7.Qual affanno credete, e qual martoro
di Ciprigna e d’Adon nel cor s’aduna,
mentre per ecclissar le gioie loro
oscura s’interpon nube importuna?
Chi lontano talor dal suo tesoro
fu costretto a provar simil Fortuna,
potrá ben misurar con l’argomento
del suo proprio dolor l’altrui tormento.

8.Gravida giá di luce, il vago seno
apria l’Aurora, e partoriva il giorno.
Erano al parto lucido e sereno
e l’Aure e l’Ore allevadrici intorno.
Theti in conca d’argento un bagno pieno
gli avea di perle e di zaffiri adorno;
e fasce d’oro il Sole, e l’Oriente
porgea cuna di rose al dí nascente.

9.I fidi amanti, che tra’ bianchi lini,
smarriti nel color de le viole,
avean fin presso agli ultimi confini
spesa in vezzi la notte, ed in parole,
al dolce suon de’ baci mattutini
destár gli augelli, e risvegliaro il Sole.
Sorgendo poi da le rosate piume
aprirò gli occhi, e gli prestaro il lume.

10.Ella, ch’ai rito degli usati giuochi
deve a punto quel dí girne a Cithera,
dove ne van da’ circostanti luochi
i suoi devoti ogni anno in lunga schiera,
e di vittime sacre e sacri fuochi
onoran lei, che ’n quelle parti impera,
parlar non osa, e non s’arrischia a dire
(oh parola mortai!) che vuol partire.

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11.Come se vuol talor putrido dente
sveller con destra man maestro accorto,
non su le fauci a por subitamente
va del tenace Can l’artiglio torto,
ma con stil dilicato e diligente
lo scalza in prima, e porge al mal conforto;
cosí Venere bella il bell’Adone
(preparando l’affetto) al duol dispone.

12.Piú volte si sforzò, ma non sapea
come, né donde incominciar devesse.
Egli è ben ver, che quanto a dire avea
negli occhi scritto e negli sguardi espresse;
e dal fanciul, che quanto ella tacea
pur con l’occhio e col guardo intese e lesse,
in quella dura e rigida partenza
chiedea con vive lagrime licenza.

13.— Convienimi — dice, e sciolto il freno al pianto
gli fa monil d’ambe le braccia al collo —
convienimi pur — né di baciarlo intanto
può l’ingordo desio render satollo —
convemmi ahi lassa (e con qual duolo e quanto,
e con che lingua, e con che cor dirollo?)
convienimi oggi da te far dipartita,
Idoletto gentil di questa vita.

14.Per celebrare il dí pomposo e festo
passo a Cithera, e ne vien meco Amore.
De’ sollenni apparecchi il tempo è questo,
onde lá fassi al mio gran Nume onore.
Io parto sí, ma se ben parto, io resto,
e mi si parte in su ’l partire il core.
Quest’assenzia, ben mio, fiera e crudele
altro per me non ha, ch’assenzio e fiele.

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15.Breve l’indugio fia, breve il soggiorno,
ché sai ben tu, ch’io senza te non vivo:
né piú in lá differir voglio il ritorno,
se non quanto si chiuda il dí festivo.
Tu, che movi cacciando i passi intorno
de la solita scorta intanto privo,
deh non andar dove l’audacia figlia
de la follia ti guida, e ti consiglia. —

16.Adon par ch’a quel dir gemendo voglia
a favilla a favilla il cor disciòrre.
Risponder vuol, ma l’importuna doglia
non lascia a la ragion note comporre;
e s’alfin pur la lingua avien che scioglia,
il duolo è che per lui parla e discorre.
Forma rotti sospiri, accenti mozzi,
e sommerge la voce entro i singhiozzi.

17.— Dunque — dicea — dunqu’è pur ver, che vuoi
peregrina da me torcere i passi?
Di’ dimmi, e come abbandonar mi puoi
romito abitator d’antri e di sassi?
Perché privarmi (oh Dio) degli occhi tuoi?
Oh Dio, perché ten vai? perché mi lassi?
E mi lassi soletto, se non quanto
mi faran compagnia la doglia, e ’l pianto.

18.Cara la vita mia, deh dimmi, è vero?
(non piú scherzar) qual fato or ne disgiunge?
Ch’io né da scherzo ancor pur col pensiero
posso o voglio da te vedermi lunge.
Che farai? che rispondi? io temo, io spero.
Ah che pietá di me non ti compunge!
Vedi vólti quest’occhi in fonti amari,
che pur giurar solevi esserti cari.

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19.Veggio or ben io, che dal tuo figlio avaro
qualche breve talor gioia s’ottiene
sol perché cresca alfín lo strazio amaro,
e si raddoppi il mal, perdendo il bene.
Lasso, ei m’aperse un Sol felice e chiaro,
per poi lasciarmi in tenebre ed in pene.
Prese il crudele a sollevarmi in alto,
per far maggior del precipizio il salto.

20.Se di votivi onori hai pur desio,
ed agli altari tuoi cotanto pensi,
non è forse tuo tempio il petto mio?
non son voti i pensier, vittime i sensi?
Se vuoi dal popol tuo fedele e pio
fiamme lucenti, e peregrini incensi,
non son vive faville i miei desiri?
non son fumi odorati i miei sospiri? —

21.Ed ella a lui: — Chi detto avrebbe mai,
che chi dal volto tuo bear si sente
sentir devesse poi tormenti e guai
sol per mirarti ed esserti presente?
E chi pensato avria, che que’ bei rai
mi devesser mirar pietosamente,
e non rasserenar sol con la vista
qual tempesta maggior de l’alma trista?

22.Vedi vedi se strana è la mia sorte,
ch’oggi la mia salute è per mio peggio!
Le tue luci leggiadre eran mie scorte,
or mi sento morir perché le veggio.
Onde per non mirar la propria morte
(ben ch’altr’alma che te, non ho, né cheggio)
torrei di dar quest’alma, e bramo almeno,
per poter non partir, morirti in seno. —

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23.Ed egli a lei: — Non so perché si lagni
chi procaccia a se stessa il suo tormento.
Per qual cagion da me ti discompagni,
se ’l non farlo è in balía del tuo talento?
Quel duro cor, che mentre parli e piagni
forma si mesto e querulo lamento,
sí come s’ammollisce a lagrimarmi,
non potrebbe ammollirsi a non lasciarmi?

24.A che mostrarti afflitta e lagrimosa?
Non piú pianger omai, che ’l pianto è vano.
Non sente passi’on molto penosa,
né molto il senso e l’intelletto ha sano,
chiunque piagne per dolor di cosa
il cui rimedio è del suo arbitrio in mano.
Perdona o Dea, se troppo ardir mi prendo,
e se per troppo amor forse t’offendo. —

25.Ed ella: — Adon, s’egli mi piace o dole
cangiando nido e variando loco
l’allontanarmi dal mio vivo Sole,
quantunque io sappia ben, che fia per poco,
comprenderlo ben puoi da le parole
che dal centro del cor m’escon di foco.
Chiedilo (se noi credi) a questi lumi,
giá ricetti di fiamme, or fatti fiumi.

26.Ma che poss’io, se mi rapisce e move
violenza fatai di legge eterna?
Decreto incontrastabile di Giove
regge il mio moto, e ’l mio voler governa.
Piacesse al Ciel, che per non girne dove
oggi m’obliga a gir forza superna,
stesse ne la mia man questa partita,
sí come ne la tua sta la mia vita. —

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27.Ed egli: — Or come sai (s’ Amor n’è senza)
formar ragioni a danni miei sí belle?
Xon è buon segno aver tanta eloquenza
quando di lá dov’ama un cor si svelle.
Chi sa del ben amato a la presenza
trovar discolpe, e queste scuse e quelle,
animo ancor avrá ben a bastanza
da soffrir volentier la lontananza.

28.Vanne vattene pur. Del mar tranquillo
assai meglio potrai valicar Tonde,
se puoi sí di leggier queste ch’io stillo
passar, quantunque torbide e profonde.
Conceda il Cielo al foco, ond’io sfavillo,
acque piane per tutto, aure seconde.
Abbia di te Fortuna, ovunque vai,
cura maggior, che tu di me non hai.

29.Oimè, spiegar ciò ch’io spiegar vorrei
mi contende il martír che m’addolora.
Poi che d’andar deliberata sei,
del tuo fedel sovvengati talora,
ed almen quantoprima agli occhi miei
riporta il chiaro Sol, che gl’innamora.
Oh ti riveggian pur pria che la cruda
Morte con mortai sonno a me gli chiuda.

30.Io so ben io, poi che del dolce e caro
cibo divin, che l’anima nutriva,
Amor ingiusto, ingiusto fato avaro
per legge crudelissima mi priva,
né vuol ch’io pur d’un raggio ardente e chiaro
de’ begli occhi sereni almen mi viva,
so ch’io morrommi, e ha beata sorte,
se per te vita mia corro a la morte.

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31.Ma poi che nulla il mio tormento acerbo
può con si caldi e sviscerati preghi
il rigor di quell’animo superbo
intenerir si ch’a pietá si pieghi,
ed al duol, che ne l’alma io chiudo e serbo,
Amor vuol che d’amor premio si neghi,
vita del morir mio, piacciati almeno
darmi loco nel cor, se non nel seno.

32.Non cancelli o disperda onda d’oblio
d’un si bel foco in te la rimembranza;
ma come vive il ver nel petto mio,
ancor nel tuo ne viva ombra e sembianza.
Questo picciol ristoro al gran desio,
questa poca mercé solo m’avanza:
quando albergo miglior mi sia disdetto,
ne la cara memoria aver ricetto.

33.Se ’l giorno uscir vedrai da l’Oriente,
che la gente consola afflitta ed egra,
stando lunge da me, torniti a mente
che tu sol sei quel Sol che mi rallegra.
Se spiegar dopo ’l dí chiaro e lucente
vedrai la Notte la sua benda negra,
ricòrdati, che tale anco m’ingombra
senza te nebbia e gelo, orrore ed ombra.

34.Se fior vermiglio in prato, o verdeggiante
miri in vago giardino erbetta o foglia,
di’ teco allor: «Nel mio fedele amante
alto e nobil desio cosí germoglia».
S’incontri per camin fiume sonante,
facciati rammentar de la mia doglia,
pensando pur, che piú profondi e vivi
versan per te quest’occhi e fonti e rivi.

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35.Se di perle e rubin ricco monile,
o bel diamante intorno a te lampeggia,
ti rappresenti la mia fede umile,
cui gemma Orientai non si pareggia.
E se ’n cristallo limpido e gentile
si specchia il tuo bel volto e si vagheggia,
imagina ch’ognor l’imagin cara
nel mezo del mio cor splende piú chiara.

36.Cosi per tutto, ovunque andrai dintorno,
di me mai sempre il simulacro finto
di color vivi in vive forme adorno
dal cortese pensier ti fía dipinto.
Felice me, se quando poscia il giorno
cede a l’ombre notturne, e cade estinto,
ti stampasse dormendo il sonno vago
la mia vagante e fuggitiva imago.

37.Ma ciò non spero. Esser non può giá mai,
che ’l sonno, il sonno freddo, il sonno cieco
accostarsi presuma a si bei rai,
e venga tante fiamme a portar seco.
Soffrirò dunque, e mi fia pur assai,
ch’io del proprio dolor mi doglia meco,
e con lo spirto errante e peregrino
possa sempre al mio ben farmi vicino. —

38.Qui tace, e poi soggiunge: — Ahi che serpendo
mi va per entro il petto un freddo ghiaccio.
Temo non tu da me sazia fuggendo
al caro Marte tuo ne torni in braccio.
Se questo è ver, di propria mano intendo
scior de l’amore e de la vita il laccio.
Crudel, se non ti move il mio cordoglio,
ben sei figlia del mar, nata di scoglio. —

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39.Risponde l’altra allor: — Raro vien solo
un mal per aspro e per mortai che sia.
Il separarmi con fugace volo
da la tua vista, e da la vita mia,
sappi ch’egli non m’è sí grave duolo,
né mi dá pena tanto acerba e ria,
quanto il vederti piangere e sentire
sí profondo dolor del mio partire.

40.Ma l’udirmi incolpar di poco fida,
ciò piú m’afflige. E credi, anima ingrata,
ch’io con lo Dio guerriero ed omicida
cangiar mai deggia la mia pace amata?
In lui spavento, in te beltá s’annida,
ei tutto ferro, e tu con chioma aurata.
Egli con fiere e sanguinose palme
uccide i corpi, e tu dái vita a l’alme. —

41.Poi segue: — Se giá mai porrò in oblio
del mio costante amor l’alta fermezza,
il Ciel di me si scordi; o se pur io
rimembrar giá mai deggio altra bellezza,
destin mi faccia ingiurioso e rio
scontar con mille affanni una dolcezza.
Facciami acerba e dispietata sorte
pianger la vita mia ne la tua morte. —

42.Ed egli: — S’altro strai giá mai mi fiede
di quel ch’uscio de’ tuoi begli occhi ardenti,
per questi prati, ovunque poso il piede,
secchin l’erbette verdi, e i fior ridenti.
Se mai rivolgo da l’antica fede
ad altro oggetto i miei pensieri intenti,
traggami iniqua stella inerme e stanco
dove mostro crudel mi squarci il fianco. —

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43.Con la man bella a questo dir la bocca
leggiermente da lei gli fu percossa:
— Or quai — gli disse — la tua lingua sciocca
bestemmie infauste a proferir s’è mossa?
Sovra chiunque un sol capei ti tocca
cader piú tosto il rio presagio possa.
Taci, né piú ciò dir quando tu giuri,
lunge da te cosí malvagi auguri. —

44.Ciò detto, con pietoso e languid’atto
la coppia alquanto il favellar ritenne,
e versando per gli occhi il cor disfatto
pur da capo l’un l’altro a baciar venne,
come fermar col pianto e far il patto
volesser con le lagrime sollenne,
e consolando l’anime dolenti
suggellar con le labra i giuramenti.

45.Cosí le gioie e le memorie estreme
con soavi accoglienze in vari modi
vanno alternando ed iterando insieme,
e restringon piú forte i cari nodi.
Lo sconsolato Adon lagrima e geme
risaèttato il cor d’acuti chiodi.
Vener con roca e languida favella
— Non pianger — dice, e seco piange anch’ella.

46.Poi che i vezzi d’Amor cosí su ’l letto
replicati tra lor molto si sono,
ecco che pur s’arrischia il Giovinetto,
pria ch’ella parta, a dimandarle un dono.
E con tanti sospir, con tale affetto
forma de’ detti e de le voci il suono,
ch’ella tutta a quel dir s’intenerisce,
arde d’amore, e di pietá languisce.

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47.— Vedi pur quanto il Sol col chiaro lume
circonda, e chiedi omai con franco ardire.
Giuro per Stige inviolabil fiume,
nulla fia che si neghi al tuo desire.
Sí potess’io de l’immortal mio Nume
l’alta immortalitá teco partire,
ch’ognor non mi terria turbata e mesta
sollecito timor, che mi molesta.

48.Lassa, perché mi vieta avaro fato,
fato avaro e crudele ad ambo noi,
del mio divino spirito beato
poter parte innestar ne’ membri tuoi,
si che di viver poi ne fusse dato
con un’anima sol commune a doi?
Ché basterebbe a l’un’e l’altra salma
di duo fedeli amanti una sol alma. —

49.Cosi dic’ella, e quegli allora il novo
desio l’espon con fervide preghiere:
— Sai ben, che dopo quel, che teco io provo,
sommo ed incomparabile piacere,
altro trastul che travagliar non trovo
con l’arco in man le fuggitive fere.
Piacciati (prego) almen per un brev’uso
di lasciarmi cacciar per entro il chiuso. —

50.Un Parco in Cipro avea chiuso e secreto
la Dea d’Amor, pien di feroci belve.
Salvo a Diana sol, quivi è divieto
ch’altro Pastore o Cacciator s’inselve.
Umile animaletto e mansueto
raro v’appar, come ne l’altre selve.
Da mostri orrendi (eccetto entro quel muro)
tutto il resto de l’isola è securo.

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51.— Ah — disse Citherea — quanto mi pesa
irrevocabilmente aver giurato. —
Tenta stornarlo da la folle impresa,
tenta mollirgli l’animo ostinato.
Ma può solo appagar la voglia accesa
la chiesta grazia del piacer vietato;
grazia ingrata a colei che la concede,
e dannosa e mortale a chi la chiede.

52.E perch’ei scorge che la Dea ritrosa
a quel caldo pregar non ben consente,
vela i begli occhi d’una nebbia ombrosa,
e vibra umido d’ira il raggio ardente.
— Poco curar degg’io fronte sdegnosa —
diss’ella — e non mi cal d’occhio piangente,
perché, cor mio, piú volentier sopporto
di vederti colerico, che morto.

53.Non voler, prego, ah non voler per Dio
orme seguir di perigliosa traccia.
Se di caccia o di preda hai pur desio,
io sia la preda, e sia d’Amor la caccia.
Sien le tue reti, e i lacci tuoi, ben mio,
quest’auree chiome, e queste molli braccia.
Tolgano il dolce ciglio, e ’l dolce sguardo
l’ufficio a l’arco, e ’l ministerio al dardo. —

54.Tace, e del vicin mal quasi presaga,
non si sazia tenerlo in grembo stretto.
Sente da un certo che l’interna piaga
ritoccarsi aspramente in mezo al petto,
che par ch’a l’alma innamorata e vaga
dica: «Tosto avrá fin tanto diletto*.
Onde dubbiosa ed impedita il mira,
e di foco e di gel trema e sospira.

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LA DIPARTITA

40S

55.Dicele alfin: — Poi che sei fermo in tutto
ch’io ti deggia attener quanto ho promesso,
né teco il mio parlar porta alcun frutto,
non mi voglio ritòr quel c’ho concesso.
Ma se non ami il mio perpetuo lutto,
e se ti cal di me, cura te stesso;
ed almen ne l’esporti a tal periglio
con riguardo procedi, e con consiglio.

56.Bastar pur ti devrian qui ne l’aperto
tante pianure e collinette e piagge,
senza tentar per quel Serraglio incerto
bestie inumane, indomite, e selvagge.
Ma da che poco cauto e meno esperto
baldanza piieril colá ti tragge,
schiva fere voraci, e non gir solo,
ma conduci di Ninfe armato stuolo.

57.Timida Damma o semplicetto Cervo
vattene pur cercando in piano o in monte,
ma d’alpestro animai crudo e protervo
guardati d’irritar le brame e Tonte,
cui né punta di strai, né teso nervo
faccia in fuga giá mai volger la fronte.
Deh non far, vita mia, che l’ardir tuo,
uccidendone un sol, n’uccida duo.

58.Fuggi s’irsuto ed ispido Cinghiale
vedi spumante di livor le labbia.
Mostro d’orgoglio e di fierezza eguale
fa’ pur pensier che l’Africa non abbia.
Schermo seco non giova, ardir non vale,
ché s’avanza in dispetto, e cresce in rabbia.
Dove le luci minacciose e torte
volga talor, lá presso è pianto e morte.

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59.Xé gioverai temeritá ti spinga
l’ira a provar de l’implacabil Orso,
come l’unghia nel sangue e ’l dente tinga
rapito da furor senza discorso.
Lagrimosa beltá, prego o lusinga
al suo morso mortai non pone il morso,
né potè altro giá mai che strazio e strage
le sue voglie appagar crude e malvage.

60.Ancor d’Hircania a la superba Fera
studia a tutto poter sottrarti Iunge.
Questa chi la persegue, aspra guerrera
schernitrice de’ rischi, opprime e punge.
Piú del marito Zefiro leggera,
velocemente il fuggitivo aggiunge.
Sparge d’ira le macchie, e furia e freme,
ch’ognor de’ cari parti il furto teme.

61.Xé men d’ogni altro l’animal che rugge
abbi sempre a schivar pronto l’ingegno.
Xon teme no, non teme il fier, non fugge,
asta, spiedo o spunton non gli è ritegno.
Ciò che ’ncontro gli vien, lacera e strugge,
ogn’intoppo gli accresce ésca a lo sdegno.
Foco gli occhi al crudel, ferro gli artigli
arma, e sprezza iracondo armi e perigli.

62.Deh se pur senza me creder si denno
sí belle membra a sí dubbioso bosco,
fa’, dolce anima mia, quant’io t’accenno,
campa di questi rei la rabbia e ’I tosco,
ch’intelletto non han, mente, né senno
da conoscere in te quel ch’io conosco.
Xon cura alcun di loro e non apprezza
gioventú, leggiadria, grazia, o bellezza. —

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63.Qual rosa oppressa da notturno gelo,
o di pioggia brumale il crin diffusa,
sovra le spine del materno stelo
impallidisce languida e socchiusa;
ma se Zefiro torna, o l’Alba in Cielo,
fuor del verde cappel sue gemme accusa,
e con bocca odorata e purpurina
sorride al Sole, a l’aura, ed a la brina:

64.tal parve a punto Adone, e raen cruccioso
il ciglio serenò torbido e tristo,
onde folgoreggiar lampo amoroso
tra i nembi de le lagrime fu visto.
Nel volto ancor tra chiaro e nubiloso
fe’ di riso e di pianto un dolce misto,
e di duol vi dipinse e di diletto
confuso il core un indistinto affetto.

65.Ella il ribacia, e perché giá piú rara
vede l’ombra del Ciel farsi in Levante,
levasi per uscir con l’Alba a gara
tutta di vezzi languida e cascante.
Mentre ch’è l’aria ancor tra bruna e chiara,
sorge, e sorger fa seco il caro amante.
Le Grazie appella, i dolci nodi rompe,
e chiede da vestir l’usate pompe.

66.Giovinette attrattive e verginelle
son queste, ignude, e ’n sottil velo avolte,
sempre liete e ridenti, e sempre belle,
sempre unite in amor, né mai disciolte:
di pari etá, di par beltá sorelle
con palma a palma in caro groppo accolte,
somiglianti tra sé, mostrano espresso
non diverso e non uno il volto istesso.

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67.Dielle Eunomia a la luce, e giá concette
del gran Dio degli Dei, nacquer divine.
De l’Acidalio (ancor che pure e nette)
lavansi ognor ne Tacque cristalline.
E son tre sole al degno ufficio elette,
Thalia la dotta, Aglaia, ed Eufrosine;
ben ch’ai numero lor poi Citherea
abbia ancor Pitho aggiunta, e Pasithea.

68.Un’altra anco di piú, che ’l pregio ha tolto
d’ogni rara eccellenza a tutte queste,
aggregata ve n’è, non è giá molto,
e sempre di sua man la spoglia e veste.
Celia s’appella, e ben del Ciel nel volto
porta la luce e la beltá celeste;
ed oltre ancor, che come il Cielo è bella,
ha l’armonia del Ciel ne la favella.

69.O con abito pur, che rappresenti
Ninfa selvaggia, il suo Pastore alletti,
o dolce esprima in amorosi accenti,
fatta Donna civáie, alti concetti,
o talor spieghi in tragici lamenti.
Reina illustre, i suoi pietosi affetti,
co’ sospiri non men che con la laude,
chi ne langue trafitto anco Tapplaude.

70.Thalia, c’ha de’ teatri il sommo onore,
inváda a costei cede il primo vanto,
onde veggendo pur la Dea d’Amore
che le Grazie di grazia avanza tanto,
non sol degna la fa del suo favore
fra l’altre tutte, e del commercio santo,
ma per renderla in tutto al Cielo eguale
sempiterna l’ha fatta, ed immortale.

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71.Viene al suo cenno allor, si come ha stile
quando avien che dal sonno ella si scioglia,
il drappelletto nobile e gentile
de la camera sacra entro la soglia.
Reca di bisso candido e sottile
orlata d’oro e profumata spoglia.
Di questa bianca e dilicata tela
il non men bianco sen circonda e vela.

72.Gonna di seta e porpora contesta,
de le Ninfe di Lidia opra e lavoro,
si stringe intorno, in guisa di tempesta
seminata per tutto a rose d’oro.
Vesta ricca e reai; ma non ha vesta
pari a tanta beltá l’Arabo o il Moro.
Degno fora a’ bei membri abito e velo,
riccamato di stelle, a pena il Cielo.

73.Sotto un’ombrosa ed odorata loggia
de’ suoi rami intessuta, ella sedea,
a cui di rose in sen purpurea pioggia
scherzando ad or ad or l’aura scotea.
Ed a comporle in peregrina foggia
la chioma, che disciolta le cadea,
tutte tre da tre lati accorte e belle
intorno l’assistean l’Idalie ancelle.

74.L’una a destra le siede, e con la destra
lucido speglio le sostiene ed erge.
L’altra lo sparso crin da la sinestra
di finissimo nettare consperge.
La terza poi con man scaltra e maestra
le scarmigliate fila ordina e terge,
e da le spalle con eburneo dente
ara le vie del crespo oro lucente.

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75.A l’aura il crin, ch’a l’auro il pregio toglie,
si sparge e spande in mille giri avolto,
e ’l vel, ch’avaro in sua prigion l’accoglie,
fugge, e licenzioso erra su ’l volto.
Se stesso lega, e poi se stesso scioglie,
ma legato non men lega, che sciolto,
e si gonfia, e s’attorce, e scherza, e vola
per le guance serpente, e per la gola.

76.Spesso a la fronte candida e serena
qual corona dintorno aurea risplende.
Or fa degli orbi suoi rete e catena,
or i suoi lunghi tratti a terra stende.
Talor diffuso in preziosa piena
quasi largo torrente, al sen le scende,
e par, mentre si versa in ricco nembo,
Giove, che piova a la sua Danae in grembo.

77.Ma que’ liberi error frena e comparte
l’ingegnosa ministra, e lor dá legge,
Molti ne lascia abbandonati ad arte,
molti con morso d’or doma e corregge,
l’arte ne chiude in reticella, e parte
per ordir groppi e cerchi ella n’elegge;
e qual di lor, per emular l’Aurora,
di fiori ingemma, e qual di gemme infiora.

78.li mentre solca con dentato rastro
per diritto intervallo i biondi crini,
e dal sommo del candido alabastro
termina in spazio angusto i duo confini,
va tuttavia sovra leggiadro nastro
intrecciando gli stami eletti e fini,
dove con ami e calamistri accoglie
tremolanti, cimier, piumaggi, e foglie.

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LA DIPARTITA

4M

79.Le trecce alfin distingue, e quella e questa
stringe in due masse eguali, e poi l’aduna,
e forma in cima de la bionda testa
con due corna superbe aurata Luna.
Del vulgo de’ capei, che ’ntorno resta,
parte non lascia inordinata alcuna,
ma ne fabrica e tesse in mille modi
anella, ed archi, e labirinti, e nodi.

80.Poi che perfette ognuna esser comprende
de lo stranio lavor le meraviglie,
altra di rose a sovraporle intende
ghirlandette odorifere e vermiglie,
altra agli orecchi due lucenti appende
de le conche Eritree cerulee figlie,
altra a l’eburnea gola affibbia in giro
con brocche d’oro un vezzo di zaffiro.

81.Sovra un letto di fior Venere assisa
il piombato cristal si tiene avante:
quel lampeggia a’ suoi lampi in quella guisa
che suol d’Endimion la bianca amante;
e mentre ivi per entro i lumi affisa
pur come in fino Orientai diamante,
fa de’ fregi del collo e de l’orecchio
giudice l’occhio, e consiglier lo specchio.

82.Ma de’ piropi il tremulo splendore
abbaglian del bel ciglio i dolci rai.
Può de’ rubini il folgorante ardore
a la bocca gentil cedere omai.
Appo il candido dente il bel candore
de la doppia union perde d’assai.
E ’l puro odor che ne le spoglie è chiuso
da’ fiati soavissimi è confuso.

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CANTO DECIMOSETTIMO

Or poi c’ha tutt’in punto arnesi e vesti,
al bel viaggio indirizzando vassi,
e ne l’uscir co’ vaghi occhi celesti
innamora gli sterpi, infiamma i sassi.

Move i sembianti Amor, lascivia i gesti,
grazia le piante, e maéstate i passi.

Cosí pian pian si parte, e s’incamina
con Adon lagrimoso a la marina.

A pena giunta in su la verde riva,
fa per invidia dileguar le stelle.

Cedon gli orrori a quella luce viva,
fuggon le nebbie, e fuggon le procelle.

Il Ciel sorrise, e ’l Sol, ch’allora usciva,
si specchiò ne le luci ardenti e belle;
onde parea con gemino splendore
che duo fussero i Soli, e due l’Aurore.

Come l’augel che le sue spoglie inferme
dentro rogo odorifero consuma,
poi che ’l risorto e giovinetto verme
ha rivestito di novella piuma,
prodigioso e redivivo germe,
di purpureo splendor l’Egitto alluma,
e ritornando invèr le patrie piagge
lunga striscia d’augei dietro si tragge:

cosí dovunque il piede o l’occhio gira,
rendendo il suol fiorito, il ciel sereno,
mille Amori la Dea seco si tira,
qual sotto il lembo, e qual le vola in seno,
e l’aere, ov’ella ride, ond’ella spira,
d’anime tutto amorosette è pieno,
ch’ai vivo raggio, ond’è piú chiaro il giorno,
sí com’atomi al Sol, scherzano intorno.

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87.Scherzale intorno lascivetto e folle
in mille groppi un nuvolo d’Amori;
popolo ignudo, alata plebe e molle,
sagittari feroci e feritori.
Di palco in palco van, di colle in colle
altri cogliendo, altri versando fiori.
Parte l’oro pungente e ’l piombo aguzza,
parte di vivo umor stille vi spruzza.

88.Qual di musico libro il grembo ha carco,
qual va con cetra, e qual con arpa in braccio.
Chi fere affronta, e chi l’attende al varco,
chi fiamme accende, e chi vi mesce il ghiaccio.
Un scocca la saetta, un tende l’arco,
un tesse un nodo, un altro ordisce un laccio,
questi su l’ali stassi, e quei leggiero
d’un Cigno o d’un Pavon si fa destriero.

89.Quegli raffrena, e questi il fren gli allenta,
l’un l’altro ingiuria, assale, urta e minaccia.
Questi il compagno importunando tenta
di trarlo a terra, e quegli in fuga il caccia.
Altri mentre se stesso in alto aventa
ride cadendo, altri il caduto abbraccia.
De le cadute lor l’atto è diverso,
chi boccon, chi supino, e chi traverso.

90.Molti cercan ne’ faggi i nidi ascosí,
dove stanno a covar le Tortorelle.
Molti ne’ tronchi degli allori ombrosi
fabrican case, e gabbinetti, e celle.
V’ha chi di vinchi e vimini viscosí
implica l’amenissime mortelle.
Né manca chi gli augei caduti al visco
chiude in gabbie di giunco o di lentisco.

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91.Altri intrecciate e ’n lunga linea attorte
di molti archi ha le corde insieme avinte,
e poi che l’ha d’un’elce a un ramo forte
sospese, e l’armi d’òr deposte e scinte,
quivi s’asside, e piú d’un suo consorte
agitando il va poi con mille spinte.
Si libra, e vibra, e mentre in aria sbalza
quasi in mobile culla, or cala, or s’alza.

92.Alcun giocando con aurate poma
le bacia e gitta a la contraria banda.
Altri con pari e vicendevol soma
pur baciando le prende, e le rimanda.
Sciolta ciascun di lor porta la chioma,
a cui l’istesso crin scusa ghirlanda.
E le faretre e le quadrella loro
parte sono indorate, e parte d’oro.

93.Arman la man di facellette ardenti,
e spesso avien che l’un l’altro saetti;
ma senz’ira o dolor porgon ridenti
agli strali arrotati ignudi i petti.
Han qual d’ostro e qual d’or penne lucenti,
varie sí come a punto han gli augelletti.
Son vermiglie e cerulee e verdi e gialle,
e d’altri piú color fregian le spalle.

94.Figli son de le Ninfe, e son germani
d’Amor, d’egual etá, d’aspetto eguale.
Sa ciascun d’essi ancor ne’ petti umani
vibrar la face, ed aventar lo strale;
ma fuor ch’alme vulgari, e cor villani,
arder non suole, e saettar non vale.
Solo il Principe lor sdegna trofei
di cor selvaggi, e d’animi plebei.

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95.— Chi fia di voi, vaghi fanciulli e fidi,
che trovar sappia ove Tritone alberga?
e prestamente a me l’adduca e guidi,
perché quinci mi porti in su le terga?
Ite a cercarne i piú riposti lidi,
o che per Tacque Egee forse s’immerga,
o che tonar con la sonora conca
faccia del mar di Libia ogni spelonca.

96.Premio fia degno a si leggiadra impresa
nobil faretra a nobil arco aggiunta.
Eccola lá sovra quel mirto appesa,
di perle tutta e di rubin trapunta;
di canne armata a cui non vai difesa,
canne guernite di dorata punta.
D’Indico avorio e d’Arabo lavoro
orli ha d’or, fibbie d’oro, e lacci d’oro. —

97.Come al fischiar del Cernito supremo
quando a la ciurma incatenata accenna
salpar il ferro, ed afferrare il remo,
stender la vela, e sollevar l’antenna,
vedesi il legno che con sforzo estremo
tosto Tali per Tacque il volo impenna:
freme Tonda percossa, il lito stride
mentre a voga arrancata il mar divide:

98.cosí tosto che sciolse in note tali
Vener la lingua, i faretrati augelli
chi di qua, chi di lá battendo Tali,
si divisero a prova in piú drappelli;
e sparsi intorno per gli ondosi sali,
questi confini investigando e quelli,
tutte del mar, quasi corrieri e spie,
ingombrare, esplorár Tumide vie.

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99.Per lo Carpathio mar Triton la traccia
di Cimothoe ritrosa allor seguiva.
Spesso la tocca il fier, spesso l’abbraccia,
e si strugge tra Tacque in fiamma viva.
Ella l’orrenda e spaventosa faccia
de l’ingordo seguace aborre e schiva,
e timidetta co’ capegli sparsi
va tra Taighe piú dense ad appiattarsi.

100.Fugge la Ninfa, e d’or in or le sembra
che l’osceno amator le giunga sopra.
La nuditá de le cerulee membra
cerca di scoglio in scoglio ove ricopra.
Ei, che l’alta beltá fra sé rimembra,
sott’acqua a nuoto ogni suo studio adopra.
E con lubrico guizzo il molle argento
frange e rincrespa, a la gran preda intento.

101.— Oh — disse Amor — per entro i guadi algosi
non han potuto e sotto il mar profondo
a me tenersi i vostri furti ascosí,
a me, che so quanto si fa nel mondo.
Vienne, ed appresta gli omeri scagliosi
de la Dea nostra a sostenere il pondo.
Né vii fia la mercé di tua fatica:
Cimothoe avrai, di ribellante, amica. —

102.Fuor del gorgo prorompe, e in alto ascende
il Semipesce allor torvo e difforme.
In stranio innesto si commette, e rende
la Pistrice con Tuoni misto biforme.
Vela d’ondoso crin le braccia, e stende
con doppio corno biforcate Torme.
Tre volte il petto move, e lieve e ratto
giunge in Cipro nuotando al quarto tratto.

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103.Mentre il mostro squamoso approda al lido
col vago stuol de’ pargoletti alati,
ecco si volge pur la Dea di Gnido
sospirosetta ai dolci lumi amati,
e prende alfín dal caro amante fido
gli ultimi baci, e gli ultimi commiati.
— Core a dio, Vita a dio — l’un l’altro dice
tu vanne in pace, e tu riman felice. —

104.Giace senz’onda il mar tranquillo in calma,
brilla l’aria pacifica e serena,
onde Triton se stesso al corso spalma
da la fiorita e fortunata arena;
ed a sí dolce e dilettosa salma
sottopon volentier l’ispida schiena,
perché de’ suoi sospiri in tal maniera
coglier solcando il flutto, il frutto spera.

105.Quasi ombrella, la coda in alto inarca
la marittima belva ambiziosa.
Squallido il tergo, ove si preme e carca,
ha di murice viva e fresca rosa.
Cosi Ciprigna il mar naviga e varca
quasi in morbido letto, o in grotta ombrosa.
Scorre i piani volubili a seconda,
e col candido piè deliba l’onda.

106.Giá s’ingorga per l’alto, e giá la Diva
quanto perde del suol, de l’onda acquista;
ma qual cerva ferita e fuggitiva,
indietro ad or ad or gira la vista,
né da l’amata e sospirata riva
torce il guardo giá mai pensosa e trista.
Vorria, né sa qual gelo il cor le tocchi,
come vi lascia il cor, lasciarvi gli occhi,

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107.De’ promessi imenei lieto e gioioso
e de l’incarco suo Tritone altero,
non fende giá del pelago spumoso
per dritto solco il liquido sentiero,
ma va con giri obliqui il campo ondoso
attraversando rapido e leggiero,
rapido sí, che suol con minor fretta
sdrucciolar saettia, volar saetta.

108.Arridon tutti al trapassar di lei
de’ regni ondosi i cittadini algenti.
Alcun non è de’ freddi umidi Dei
che non senta d’Amor faville ardenti.
Rinovella Alcion gli antichi omei,
ardon Taighe, ardon l’aure, ardono i venti.
Umili i flutti, e mansuete Tacque
riconoscon la Dea che da lor nacque.

109.Sorge dal fondo cupo e cristallino
cantando a salutarla ogni Sirena.
Ciascuna Ninfa e ciascun Dio marino
alcun mostro del mar preme ed affrena.
Cavalca altri di lor curvo Delfino,
altri lubrica conca in giro mena.
E tutti fan da quella parte e questa
a sí gran passaggiera applauso e festa.

110.Nice una Tigre, orribil mostro e sozzo,
terror de l’Ocean, con alga imbriglia.
Ligia un Montone, il cui feroce cozzo
le navi e i naviganti urta e scompiglia.
Tien di verde Giovenco a vinto il gozzo
con molle giunco Panopea vermiglia.
Leucothoe bianca con rosato morso
di cerulea Leonza attiensi al dorso.

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111.Regge Themisto a fren pigra Lumaca,
Cidippe un Ceto con le fauci aperte.
Ne le latebre d’una grotta opaca
margarite e zaffir coglie Nemerte,
ed a quel Sol, che ’l mar tranquilla e placa,
ne fa votive e tributarie offerte.
Corrono in un drappel da l’onda Eoa
Hippo, Evanne, Calipso, Acasta e Thoa.

112.Sparge le chiome ai Zefiri Anfitrite
di ciottoli consparse e di coralli.
Con le piante d’argento Egle e Melite
fendon spumanti i mobili cristalli.
Aci con Galathea varie partite
mena di vaghi e leggiadretti balli;
e seco le Nereidi e le Napee
vanno, e cent’attre Ninfe, e cento Dee.

113.Essaco Esperia va cercando a nuoto
per le pianure liquide e tranquille.
Arethusa ed Alfeo, Prinno e Licoto
spruzzan le nubi di lucenti stille.
Climene e Spio, Cimodoce con Proto,
Leucippe e Deiopea con altre mille
del gran Rettor del mar compagne e serve
cantan gli amori lor, nude caterve.

114.Nettuno fuor del cavernoso claustro
con Venilia e Salacia e Dori e Theti
gaiamente rotando il nero plaustro
sovra quattro Delfín lascivi e lieti,
dá bando a Borea, impon silenzio ad Austro,
fa che placido i moti il flutto acqueti.
Di verde muschio e d’argentate brine
molle ha la barba, e rugiadoso il crine.

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115.Non men come Reina e come Dea
la sua bella consorte ha soglio e scettro.
Da duo Pescidestrier conca eritrea
tirata, inalza un bel sedil d’elettro.
Quivi anch’ella al passar di Citherea
canta le fiamme sue con aureo plettro.
Tingon le pure guance ostri lucenti,
son coralli le labra, e perle i denti.

116.L’abito suo, che come il mare ondeggia,
di scintille d’argento un lume alluma;
bianco, ma ’l bianco imbruna, il brun biancheggia,
tal ch’imita al color l’onda e la spuma.
Sovra l’algosa chioma le lampeggia
di brilli adamantini estrania piuma,
e treccia a treccia in bei volumi attorta,
quasi groppo di bisce, in testa porta.

117.Incorona di gemme alto diadema
la fronte trasparente e cristallina,
a cui nel mezo balenando trema
piú che stella di Ciel, stella marina.
Pende in duo globi da la parte estrema
d’ambe l’orecchie gemina turchina,
ed al collo, a le braccia in doppi giri
fan monili e maniglie ambre e zaffiri.

118.Segue Forba con Forco; e Nereo il primo,
che ’ntreccia il bianco crin di verdi erbette,
per farle onor, dal fondo oscuro ed imo
raguna ostriche fresche, e perle elette.
Melicerta il fanciul tra l’alga e ’l limo
bacche e viole tenere framette.
Ino l’abbraccia, e mormorando insieme
Palemon con Portun rauco ne freme.

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119.Chi giú s’attuffa, e chi risorge a galla,
chi balza in aria, e chi nel mar si corca.
Altri portato è da una Foca in spalla,
altri da una Pistrice, altri da un’Orca.
Qual sovra un Bue marin trescando balla,
qual su le terga d’una orribil Porca.
Questi da un nicchio concavo è condotto,
e quegli immane una Balena ha sotto.

120.Ed ecco in su quel punto uscir di fianco
Protheo, del Ciel de Tacque umido Nume,
Protheo, che ’l gregge suo canuto e bianco
menar ai salsi paschi ha per costume,
Protheo, saggio indovin, che talor anco
si cangia in sterpo, in sasso, in fonte, in fiume,
talor prende d’augel mentito volto,
talor sen fugge in fiamma o in aura sciolto.

121.Or con l’armento mansueto e vago
pasce Giovenco la materna mamma.
Or salta Orso brancuto, or serpe Drago
segnato il tergo di sanguigna squamma.
Or veste di Leon superba imago,
armando gli occhi di terribil fiamma.
Or vien Tigre, or Cinghiale, or per le rupi
latra fra’ Cani, ed ulula fra’ Lupi.

122.Questi qualor la notte il mondo adombra,
mentre il vento riposa, e Tonda, e ’l pesce,
i solchi azurri con sue schiere ingombra
e i procellosi campi agita e mesce.
Ma tosto ch’a fugar l’orrore e l’ombra
di grembo a Theti il Sol si leva ed esce,
cercar fuggendo il caldo ha per usanza
in opaca spelonca ombrosa stanza.

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123.Or la nova beltá, ch’ai Sol fea scorno,
da’ cavi scogli a viva forza il trasse
sí che senza temer la luce e ’l giorno
s’alzò da Tacque piú profonde e basse,
e tre volte girato il carro intorno,
a Tritone accennò che si fermasse.
Stetter taciti i venti, e Tonde immote,
mentr’ei sciolse la lingua in queste note:

124.— O Dea prole del mar, misera, e dove
malguidato pensier ti guida e mena?
Deh qual vaghezza, o qual follia ti move
a cercar altro lido, ed altra arena?
Oh quanto meglio volgeresti altrove
il camin, che t’adduce a nova pena.
Tu dal bell’Idol tuo lunge ne vai,
e di sua vita il termine non sai.

125.De’ giuochi Citherei vai spettatrice,
dove accolta sarai con festa e canto,
ma tragedia funesta ed infelice
volgerá tosto ogni tua gioia in pianto.
Offrir vedrai (come il destin mi dice)
vittime elette al tuo gran Nume santo;
ma vedrai poscia un sacrificio infausto
di chi ti fe’ de l’anima olocausto.

126.Minaccia al bell’Adon mortai periglio
fero Ciel, cruda stella, iniquo fato;
né molto andrá, che ’l Sol del suo bel ciglio
fia d’eterna caligine velato;
e di quel volto candido e vermiglio
languirá secco l’un e l’altro prato;
giacerá sparsa al suol la chioma bionda,
di sangue e polve orribilmente immonda.

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127.Giá veder che l’assaglia e che l’uccida
il mostro formidabile, m’aviso.
Da sacrilego dente ed omicida
véggiogli il corpo rotto, il fianco inciso.
Odo giá le querele, odo le strida,
veggio squarciato il tuo bel crine, e ’l viso.
Il veggio, o bella; al vaticinio credi.
Se non ami il tuo danno, indietro riedi. —

128.Antivedendo il suo vicin tormento,
Protheo con questo dir Ciprigna assalse.
Ella ascoltollo, ancor che l’onda e ’l vento
fér che ’l tutto distinto udir non valse.
Egli il ceruleo suo spumoso armento
sferzato allor per le campagne salse,
doglioso in atto sospirando tacque,
e lievemente s’attuffò ne Tacque.

129.Restò d’alto stupor pallida e muta,
e per le vene un freddo gel le corse,
Venere bella, e con puntura acuta
tarlo di novo dubbio il cor le morse;
onde tra’ suoi sospetti irrisoluta
fu d’indietro tornar piú volte in forse,
dal timor, dal dolor confusa tanto
che non sapea se non disfarsi in pianto.

130.Il gran tenor de le parole intese
fu saetta mortai che la trafisse,
tal che Triton ben vide e ben comprese
la cagion di quel duol, che sí l’afflisse.
Quindi il corso tra via lento sospese,
e ’n pietos’atto a lei si volse, e disse:
— Deh qual cura noiosa or la tua luce
conturba si, ch’a lagrimar t’induce?

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131.A quella smorta e lagrimosa faccia,
al Sol di que’ begli occhi, or fatto oscuro,
chiaro ben m’avegg’io, quanto ti spiaccia
l’alto presagio del gran mal futuro,
ch’orribil morte al bell’Adon minaccia
pria che sia de’ verd’anni il fior maturo.
Ma per cose giá mai gioconde o meste
alterar non si deve alma celeste.

132.Del sovrano Motor l’amata prole,
di quanto Amor governa alta Reina,
che non fará? che non potrá, se vòle?
Qual legge astringer può forza divina?
Facile, o Dea, ti fia, s’al tuo bel Sole
perpetua notte empio destin destina,
con quell’impero che lassú t’è dato,
vincer Natura, ed ingannare il fato.

133.Spesso per grazia a l’uomo il Ciel concede
le sue tempre eternar caduche e frali.
Arianna non conto, e Ganimede,
ch’a l’alte Deitá son fatti eguali,
e per Bacco e per Giove ancor si vede
che tra le stelle vivono immortali.
L’essempio piú vicin solo ti mostro
d’un noto cittadin del regno nostro.

134.Glauco, che da Nettuno in fra lo stuolo
ascritto fu de la marina classe,
pria ch’entrando nel mar, lasciando il suolo,
fatto scaglioso Dio forma cangiasse,
era vii pescatore, avezzo solo
a le reti, a le canne, ed a le nasse.
Ma per somma ventura ottenne in sorte
(ben che mortai) di superar la morte.

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135.Sovra la spiaggia un dì del mar Beoto
vestito ancor de la terrena spoglia
d’un’erba estrana e di vigore ignoto
còlse e gustò miracolosa foglia,
e nascersi nel cor di girne a nuoto
di sùbito sentì pensiero e voglia,
e ’n tutto uscito de l’umana usanza
altra natura prese, altra sembianza.

136.Mutò figura, il corpo si coperse
tutto di conche, e divenn’alga il crine,
ed a pena in tal guisa ei si converse
che saltò da le sponde al mar vicine;
e poi ch’entro le viscere s’immerse
de le vaste e profonde acque marine,
purgato il velo uman da cento fiumi,
s’assise a mensa alfin con gli altri Numi.

137.Or il pianger che val? perché le ciglia
non volgi omai di torbide in serene?
Ben lice a te, che del gran Dio sei figlia,
da cui felice ogn’influenzia viene,
con simil privilegio e meraviglia
sottraendo al gran rischio anco il tuo bene,
operar quel che fu talor concesso,
non ch’al divin favore, al caso istesso.

138.Se ben la falce ria troncar la vita
disegna in breve al giovinetto acerba,
del debito commun puoi con l’aita
francarlo tu di quella incognit’erba;
e torcendo al suo fil linea infinita
malgrado de la Parca empia e superba,
farlo passar, pria ch’ella abbia a ferire,
a l’immortalità senza morire. —

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139.La Dea que’ detti ascolta, e non risponde,
ma tace alquanto, e sta tra sé pensosa.
Pensando va com’aver possa, e donde
quella mirabil erba aventurosa,
dentro le cui bennate e sacre fronde
vive virtú sí singolare ascosa,
ché ritrovar non sa via piú spedita
d’assecurar la vita a la sua vita.

140.Rotto alfine il silenzio, ella gli chiede
in qual parte abbia Glauco il suo soggiorno,
e se volendo ir a cercarlo, ei crede
di poterla condurre, e far ritorno,
tanto che possa poi, quand’egli riede,
a Cithera arrivar l’istesso giorno,
perché convien che per la via men lunga
quella sera medesma ella vi giunga.

141.— Ben che per tutto il mar — soggiunse allora
il Trombetta de Tonde — abbia ricetto,
suol piú ch’altrove, in Ponto ei far dimora,
e per questa cagion Pontico è detto.
Ma se fia d’uopo, andar potrenvi ancora,
e volar per quest’acque io ti prometto.
S’avesse ancor ne l’Ocean l’albergo,
ne l’Ocean ti porterei su ’l tergo.

142.Pur che tu, da cui sol la piaga mia
può salute sperar, mi prema il dorso,
pur ch’afirenato e governato io sia
da sí soave e sí felice morso,
oggi sfidar per la cerulea via
i destrieri del Sole ardisco al corso,
e vo’ del Sol piú presto e piú leggiero
circondar de la terra il cerchio intero. —

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143.Tace, e rade pria Rhodo, isola dove
di Ciprigna e del Sol la figlia nacque,
e ’n cui la saggia Dea nata di Giove
i primi altari aver giá si compiacque,
onde colui, che l’Universo move,
oro in grembo le sparse in vece d’acque;
ricca del gran Colosso, immensa mole,
simulacro del Sol ch’offusca il Sole.

144.Quindi a Carpatho passa, e passa a Creta,
che per gran tratto entro ’l suo mar si sporge,
e di cento cittá pomposa e lieta
e del bosco di Giove altera sorge,
e ’l Labirinto onde l’uscir si vieta,
per infamia famoso, entro vi scorge,
e ’l monte Ideo, che ’l dittamo conserva,
fido refugio a la trafitta Cerva.

145.Ad Egla poi, che fu poi detta Sime
da la figlia d’Ialiso, ne viene.
E Telo incontra, che le glorie prime
de’ fini unguenti da la Fama ottiene.
De le Calinne le frondose cime,
d’Astipalea le pescarecce arene
varca, e pur degli Amori amato nido,
di duo porti superba, addita Gnido.

146.Scopre Nisiro, al cui pesante sasso
Polibote soggiace, e poscia vede
l’alto muro e ’l castel d’Halicarnasso,
de’ Principi di Caria eccelsa sede,
e ’l Mausoleo, che ’n quel medesmo passo
de la fé d’Artemisia altrui fa fede,
e non lontano Salmace, che ’n doppia
forma duo sessi (osceno fonte) accoppia.

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147.Indi gli appar la dilettosa Coo,
per Hippocrate chiara e per Apelle,
onde di stame e di lavoro Eoo
vengon le vesti preziose e belle;
e ’ngolfandosi a pien nel mar Mirtoo,
terre discerne e region novelle,
e senza intoppo alcun trascorre Claro,
Pathmo e Leria in un punto, Amorgo e Paro.

148.Vie piú lieve ch’augello, o che baleno,
tosto di Deio al sacro lido arriva.
Vede d’Ortigia, ove sgravata il seno
posò Latona, la felice oliva.
Xasso da Bacche tempestata, e Teno
costeggia, e di Micon tocca la riva.
Quella i figli di Borea in grembo chiude,
questa de’ suoi Giganti ha Tossa ignude.

149.Del vago corso a l’impeto fugace
forze raddoppia, e Siro attigne, e Rhena;
l’una a morbo mortai mai non soggiace,
l’altra di busti e di sepolcri è piena.
Visita Cithno d’ogni fior ferace,
e Sifno, che ferace è d’ogni vena,
e fin presso a Serifo allarga il giro,
dove le rane garrule ammutirò.

150.I verdi dumi poi scorge di Cea,
ricca d’armenti e fertile isoletta;
né tarda l’altra a discoprir, ch’Eubea
da la prole d’Asopo ancora è detta.
Caristo a man a man, che Tonda Egea
vagheggia intorno, a trapassar s’affretta,
ai cui bei marmi il Frigio, e l’Africano,
e Paro istessa si pareggia invano.

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151.Scorre a Gíaro, ov’han gli essuli il bando,
e ’n cui de’ topi la vorace fame
rode Tacciar, de’ Cafarei lasciando
lontano alquanto il promontorio infame.
Volgesi ad Andro, e vien forte vibrando
Tumide penne de Tazurre squame,
e fa l’estremo del suo sforzo tutto
per superare il capriccioso flutto.

152.Fa senza indugio a Doliche tragitto,
dico di Prannio a la vinosa valle,
e dovunque la via taglia per dritto,
vedi di spuma innargentarsi il calle.
Eccol giá dove cadde Icaro afflitto,
ecco che Samo ha giá dopo le spalle.
Efeso giá si mostra, e giá comparso
il bel tempio s’ammira, ancor non arso.

153.Sorge incontro ad Arvisia, e vede Chio
di generosi pampini feconda,
e Lesbo, che gli accenti estremi udio
de la fredda d’Orfeo lingua, circonda,
e di Tenedo sacra al biondo Dio
prende e poi lascia la malfida sponda,
che Toste greca ascose entro il suo porto
per far a Troia sua l’ultimo torto.

154.Trattien la bella Dea su le ruine
d’ilio le luci alquanto intente e fise,
e sospirando del gran regno il fine,
piagne gli error del suo giá caro Anchise.
Ma quando mira poi Tacque vicine
di Simoe, ove il bel parto in terra mise
da cui dee propagarsi il suo legnaggio,
acqueta il duolo, e seguita il viaggio.

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155.Tant’oltre il nuoto suo spedito e pronto
stende Tritone, e tanto innanzi passa,
che non che de l’Egeo, de l’Hellesponto
il vastissimo sen dietro si lassa;
e giá l’altero corno, onde col Ponto
cozza la Thracia, ad incontrar s’abbassa,
e de le Cianee sprezza gli orgogli,
sassi guerrieri, ed animati scogli.

156.Sbocca alfín ne l’Eusin, ch’ai raggi vivi
fiammeggia de la Dea del terzo lume.
Ed ella pria ch’a la magione arrivi,
chiede novelle del ceruleo Nume.
Ma da molte Nereidi ode che quivi
ben che d’usar sovente abbia costume,
son molti di che piú non vi soggiorna,
e rade volte ad abitar vi torna.

157.E la cagion che ’l tragge e l’allontana
dal patrio loco, è la beltá di Scilla,
Scilla orgogliosa Vergine Sicana,
per cui tra Tacque gelide sfavilla.
Ei, da che la privò d’effigie umana
magica forza, e in mostro convertilla,
lá dove il Faro in gran tempeste ondeggia
la visita ogni giorno, e la corteggia.

158.Sinistro augurio allor Venere prende,
che sia la speme al suo pensier precisa.
Ma di trovarlo un tal desir l’accende
che risolve d’andarvi in ogni guisa.
Tritone intanto, che ’l disegno intende
di lei, che tien su l’ampia groppa assisa,
volgesi indietro, e si raggira e guizza,
e ratto invèr Sicilia il camin drizza.

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159.La coda, ch’egli in vece usa di briglia,
move il destrier del mare, e ’l mar ne sona,
e ’n poche ore a fornir vien molte miglia,
sí l’amoroso stimulo lo sprona.
L’alto sentier del Bosforo ripiglia,
e de l’immenso Eusin Tacque abbandona,
e rivede Bizanzio, e non lontano
il Calcedone lascia a manca mano.

160.Corre verso Posidio, e giá somuota
la Bitinia, e la Misia, e giá travalca
la Propontide tutta, e scherza e rota
con stupor de la Dea che lo cavalca.
Di Cizico e di Lampsaco, devota
al suo sozzo figliuol, la spiaggia calca,
e di novo ripassa il varco infido
d’Helle, che pianger fe’ Sesto ed Abido.

161.L’Egeo succede, entro ’l cui flutto insano
Thaso, c’ha di fin or vene feconde,
e Lenno vede, ove mantien Vulcano
officina di foco in mezo a Tonde,
e Sciro ancor, ch’ai Greco astuto invano
tra sue false latebre Achille asconde,
e lá dove colui, che chiara tromba
è de l’uno e de l’altro, ha poi la tomba.

162.Lasciasi a tergo Pagase ed folco
e Pelio, onde materia ebbe il lavoro
del primo legno, che condusse a Coleo
Argo rapace de la spoglia d’oro,
quando seppe Giason, traendo al solco
fertile d’armi l’indomabil Toro,
ed appannando al fier Dragon le ciglia,
d’Ete incantar l’incantatrice figlia.

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163.Qui negli angusti guadi entra del mare,
che da l’Abante separa il Beoto.
Opunte in prima, e Thebe indi gli appare,
dove i sassi dal canto ebbero il moto,
ed Aulide, ov’i Greci in su l’altare
l’alta congiura confermár col voto;
e col rapido Euripo oltre sen fugge
al Sunio estremo, ove ’l mar latra e mugge.

164.Su la destra poi torna inverso Atene,
e d’Eaco a la gran reggia appresso giunge,
sí che può di Corinto appo barene
l’Isthmo veder, ch’i duo confin congiunge.
Spingesi ad Epidauro ed a Trezene,
e Scilleo lascia, e lascia Argo da lunge;
e quindi di Malea corre veloce
a declinar la perigliosa foce.

165.E lungo il mar Lacon per le remote
spelonche, onde non senza alto spavento
da Tenaro a Pluton passar si potè,
a Messenia si cala in un momento,
e si scaglia di lá fino a le Piote,
che da’ duo figli del piú freddo Vento
quando seguir le tre sorelle rie
ebbero il nome de le sozze Arpie.

166.Di Zacinto al bel margine s’accosta,
che ’n spessi boschi in mezo a l’onda è steso,
né molto da Melena si discosta,
che da Cefalo poscia il nome ha preso.
D’Ithaca schiva la sassosa costa,
picciolo scoglio e sterile e scosceso,
ma per Ulisse suo chiaro riluce:
cosí sola Virtú gloria produce.

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167.Resta Dulichio indietro, e ’ndietro resta
de la famosa Elea la piaggia bella,
ch’ai destrier vincitor la palma appresta,
onde il lustro e poi l’anno Olimpia appella
Indi per colá dove aspra tempesta
le rive ognor di Lepanto flagella,
striscia, serpe, volteggia, e nel ritorno
l’isole degli Echini aggira intorno.

168.Passando per l’Echinadi la Dea
a quel tragico mar rivolse il ciglio,
che del sangue Latin prima devea,
e del Barbaro poi farsi vermiglio.
— O sacre al crudo Marte acque — dicea
quant’ira, quant’orror, quanto scompiglio?
quai l’Europa da voi? quai l’Asia attende
sciagure e mali in due battaglie orrende?

169.Di due pugne famose e memorande
sarai campo fatai piaggia funesta.
Per l’una celebrar Roma la grande
deve al suo vincitor trionfo e festa.
Per l’altra alte ruine e miserande
Bizanzio piangerá misera e mesta.
E per questa e per quella in mille lustri
Leucate fia ch’eterno grido illustri.

170.Questo (e sará pur ver) ceruleo flutto,
che diè nel mio natal culla al gran parto,
sepolcro diverrá sanguigno e brutto
del vinto Egizzio, e del fugace Partirò.
D’alghe invece e di pesci, avrá per tutto
di cadaveri immondi il grembo sparto,
e tutta coprirá l’onda crudele
di rotte antenne, e di squarciate vele.

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171.Piango i tuoi casi Antonio, e duoimi forte
che t’appresti Fortuna oltraggio e danno,
poi che quei che t’induce a sí rea sorte,
è pur l’autor del mio mortale affanno.
Ma chi potrá, se non tormento e morte,
sperar giá mai dal perfido Tiranno,
se ’n piú misero stato ed infelice
condanna anco a languir la genitrice?

172.Tu da l’armi di Cesare sconfitto
fuggi del Nilo a le dilette arene,
ma da la strage del naval conflitto
la bella fiamma tua teco ne viene.
10 da quelle d’Amore il cor trafitto
porto, e partendo (oimè) lascio il mio bene;
né so se per destino unqua mi tocchi
che l’abbian piú da riveder quest’occhi.

173.L’altro esterminio, onde di por s’aspetta
al Turchesco furor morso e ritegno,
fia d’ingiuria immortai poca vendetta
contro il distruggitor del mio bel regno.
Xo no, fuggir non puoi, malvagia setta,
11 castigo del Ciel ben giusto e degno
d’aver guasti ad Amor gli orti suoi cari,
e cangiati in meschite i nostri altari.

174.Vedrò pur la tua Luna, empio Idolatra,
nemico al sommo Sol, Mastin feroce,
pallida, fredda, sanguinosa ed atra
romper le corna in questa istessa foce!
Fremi, furia, minaccia, arrabbia e latra
contro l’invitta e trionfante Croce.
Vedrò con ogni tua squadra perversa
l’armata Babilonica dispersa,

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175.grazie al valor del Giovinetto Ibero,
difensor de l’Italia e de la fede,
che del Corsar per molte palme altero
fiaccherá i legni e spoglierá di prede;
spaventerá l’Orientale impero,
fará di Costantin tremar la sede,
lasciando, Arabi e Scithi, i busti vostri
scherzo de Tonde, e pascolo de’ mostri. —

176.Qui tace, indi di perle inumidito
col vel s’asciuga de’ begli occhi il raggio,
che le sovien, che ’n quel medesmo lito
avrá l’essequie il maggior Dio selvaggio,
quando arrestando a meza notte udito
de’ naviganti stupidi il viaggio
fará lunge sonar gli Acrocerauni
l’ululato de’ Satiri e de’ Fauni.

177.Mentre Venere bella in flebil atto
del doloroso umor terge la guancia,
Tritone Azzio trascorre, e da Naupatto
verso gli orti d’Alcinoo oltre si lancia.
Soffia e sbuffa anelando, e per gran tratto
s’apre la via con la scagliosa pancia;
e tanto allarga le robuste braccia
ch’entro l’Ionio sen tutto si caccia.

178.E dagli estremi termini d’Epiro
di Iapigia il confine ultimo afferra,
scorrendo in lungo e spazioso giro
tutto il gran lembo che l’Italia serra,
fino a quel braccio da cui giá partirò
Tonde crucciose la feconda terra,
quando con fier divorzio a forza spinta
restò da Reggio l’isola distinta.

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179.Giunta in Trinacria alfin Ciprigna bella,
di Peloro e di Zancle a la costiera,
colá dove la misera donzella
presa avea forma di rabbiosa Fera,
Glauco cercando in questa riva e ’n quella,
s’accorse in somma pur, ch’egli non v’era;
e le compagne poi di Galathea
per certo ancor n’assecurár la Dea.

180.— È ver — dicean — che da che Circe in scoglio
mutata a questa Ninfa ha la figura,
spesso a narrar ne viene il suo cordoglio
a l’aspra selce, che di lui non cura;
ma perché colma d’ostinato orgoglio
piú tra l’onde de’ pianti ognor s’indura,
per medicar quell’amorosa piaga
ito è pur dianzi a ritrovar la Maga.

181.Ne la costa del Lazio, ov’ella stassi,
l’innamorato e desperato Dio,
molto non ha, con frettolosi passi
quinci a pregarla supplice sen gío,
o ch’almen per virtú d’erbe e di sassi
gli faccia il proprio mal porre in oblio,
o che tornata a le sembianza antica,
render la voglia a’ suoi desiri amica. —

182.D’aver tanto travaglio invan perduto
a la madre d’Ainor forte rincrebbe,
e del fiero pronostico temuto
l’infausto auspicio in lei sospetto accrebbe.
Ma temendo che troppo oltre il devuto
tardi tornata a suo camin sarebbe,
per ritrovarsi a la gran festa a tempo
differí quell’affare a miglior tempo.

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183.Impon che ’l corso il piú che può spedito
volga a Cithera, al corridor guizzante,
ch’essendo posta in su l’estremo sito
del paese di Pelope a Levante,
dal tempestoso e periglioso lito
di Sicilia non è molto distante.
Quegli ubbidisce, e ’n breve ecco ch’alfine
del bel loco le spiagge ha pur vicine.

184.Se ben non pensò mai la Dea d’Amore
di far per tante vie camin sí torto,
loda del mostro il dilettoso errore,
poi che in men che non crede è giunta in porto,
e con tanto paese in sí poche ore
l’Arcipelago tutto ha scorso e scorto,
le Cicladi, le Sporadi, e le rive
Pelasghe, Eolie, ed Attiche, ed Argive.

185.Per attuffarsi giá ne la marina
l’Auriga intanto lucido di Deio
precipitoso i corridori inchina
co’ morsi a l’acqua, e con le groppe al Cielo.
Vede stillar dal crin pioggia di brina,
da le nari sbuffar nebbia di gelo,
ma veder del bel carro altri non potè
piú che l’estremitá de l’aurce rote.

186.In quell’ora ch’a punto avea Giunone
de le faci notturne il lume acceso,
venne in Cithera a disgravar Tritone
il curvo dorso del suo nobil peso.
E poi che de la coda il padiglione
stanco in lunghi volumi ebbe disteso,
con verde giunco in su l’algose piume
sen gto del petto ad asciugar le spume.