Vita di Giacomo Leopardi/Capitolo VII
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Capitolo VII.
LO «ZIBALDONE» E GLI «APPUNTI E RICORDI.»
1819.
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Sommario: Lo Zibaldone. — Passaggio del poeta dallo stato antico al moderno, ed origine del suo pessimismo. — Il manoscritto e la materia dello Zibaldone. — Incertezza e lotte nell’animo del poeta. — Il poeta corca di conciliare il suo pessimismo con le dottrine del Cristianesimo. — Il sentimento della nullità di tutte le cose e la spiritualità dell’anima umana. — I pensieri dello Zibaldone dopo l’anno 1819. — Pensieri letterari e ricordi di cose osservate dal vero. — Similitudini. — Opere non composte di cui rimangono le tracce nello Zibaldone. — Memorie della mia vita. — Il manoscritto degli Appunti e Ricordi. — Carattere autobiografico degli Appunti. — Appunti di un romanzo sul genere del Werther e dell’Ortis. — Importanza degli Appunti e Ricordi.
Fino dalla metà del 1817 il Leopardi aveva cominciato a scrivere quel suo Zibaldone di pensieri, che è stato recentemente pubblicato col titolo di Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, datogli in principio dall’autore, e poi mutato da lui stesso nell’altro di Zibaldone.1 A tutto l’anno 1818 lo Zibaldone era arrivato appena ad una trentina di pagine: nel triste anno seguente arrivò a cento. E questo l’anno nel quale il poeta formò, come abbiam visto, il disiderato proposito di fuggire dalla casa paterna, l’anno in cui, per le accresciute miserie della sua vita, avvenne la totale mutaziono del suo io, il passaggio, come egli dice, dallo stato antico al moderno. «Privato dell’uso della vista, scrive egli nello Zibaldone e della continua distrazione della lettura, cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più tenebroso, cominciai ad abbandonar la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose (in questi pensieri ho scritto in un anno il doppio quasi di quello che avea scritto in un anno e mezzo, e sopra materie appartenenti sopra tutto alla nostra natura, a differenza dei pensieri passati, quasi tutti di letteratura), a divenir filosofo di professione (di poeta ch’io era).»2
In queste parole c’è la confessione sincera e la spiegazione vera dell’origino della filosofia del nostro autore. Dalla infelicità sua, che cominciò a sentire in un modo più tenebroso, fu condotto a sentire l’infelicità certa del mondo, a sentire cioè nel dolore suo il dolore mondiale; e per effetto di questo sentimento, cominciando a riflettere sopra le materie appartenenti alla natura umana, divenne, com’egli dice, filosofo; cioè rintracciò l’intima essenza delle cose nel dolore e nel male.
Dal 1819 in poi, per alcuni anni, quasi non passò giorno ch’egli non scrivesse qualche pagina dello Zibaldone: non rari erano i giorni nei quali ne scriveva più d’una; non rarissimi quelli nei quali ne scriveva molte: tanto che nel corso di circa dodici anni le pagine raggiunsero il numero di 4526. Nell’anno 1820 ne scrisse 366; nel 1822, 345: i due anni nei quali ne scrisse un numero veramente straordinario, più di due terzi dell’intero Zibaldone, furono il 1821 e il 1823; nel ’21 ne scrisse 1851; ner23, 1344: degli ultimi sei anni i soli due nei quali superò le cento pagine furono il 1824 e il 1828. Il 1829, nel quale ne scrisse 97, si può considerare come l’ultimo anno dello Zibaldone, non essendoci dopo di esso che due sole pagine degli anni 1831 e 1832.
Il manoscritto autografo dello Zibaldone è composto di fogli staccati, tutti della stessa misura, salvo alcuni in principio un po’ più piccoli: i fogli sono tutti pieni dall’una parte e dall’altra di una scrittura fitta e minuta, senza nessuna pausa o interruzione, con soltanto, dal 1820 in poi, al fine di ogni pensiero, o di una serie di pensieri, la data del giorno in cui furono scritti; e se nel giorno ricorre una solennità religiosa, la indicazione di essa. Le feste e i santi della Chiesa cattolica non sono mai dimenticati, anche alla fine di qualche pensiero tutt’altro che religioso. Ciò che dimostra quanto fossero tenaci nel Leopardi le abitudini contratte nella prima età. Mentre la meditazione e lo studio lo venivano staccando lentamente dalle dottrine del Cristianesimo; mentre egli faceva dei lunghi ragionamenti per dimostrarne i danni e gli errori, sentiva quasi istintivamente il bisogno di tenersi almeno per qualche parte attaccato ad esso, di non abbandonare almeno certe forme e consuetudini nelle quali si conservavano tanto memorie della sua prima giovinezza.
Lo Zibaldone non è semplicemente una raccolta di pensieri e meditazioni morali e filosofiche, come potrebbe far credere il titolo; è una specie di enciclopedia, che abbraccia tutto lo scibile, e rappresenta tutta la vita intellettuale vissuta dall’autore in quei dodici anni della sua maturità dal 1818 al 1829. Lo scrittore è sopra tutto un letterato, un poeta, un pensatore; ma alla sua letteratura non è chiuso nessun campo del sapere umano. Lo disciplino filosofiche, archeologiche, linguistiche; lo teologiche e lo metafisiche; le scienze Uniche e naturali; la storia dei popoli antichi e dei moderni; le loro religioni, i loro costumi, lo loro costituzioni sociali o politiche, le arti loro; tutto ciò insomma che gli uomini di ogni tempo di ogni razza, fecero, pensarono, disputarono, tutto è argomento delle suo indagini, delle sue meditazioni, dei suoi ragionamenti; i quali, anche in mezzo alle più desolate e desolanti conclusioni, sono talora illuminati da qualche sprazzo di luce poetica e quasi sempre tendono a sollevar l’animo dalle bassezze e miserie umane additandogli i più nobili ideali della vita, ch’egli chiama illusioni.
Insieme coi pensieri veri e propri, sono nello Zibaldone molti e lunghi appunti di letture di ogni genere, con osservazioni e disquisizioni dell’autore; abbozzi di dissertazioni e discorsi, quasi ragionamenti che l'autore fa con sé esponendo il pro e il contro delle questioni che agita; talora sono disegni e schemi di veri e propri trattati. Non di rado un pensiero, una questione, una discussione, è ripresa, ampliata, corretta a distanza di qualche tempo, e più d’una volta. Non mancano, anzi sono frequenti ed interessanti, i ricordi di cose o fatti osservati dal vero, le memorie della vita dell’autore, le note messe come in serbo per qualche componimento da scrivere quando che sia. Più rari, né molto notevoli per singolarità d’arguzia, i motti spiritosi, che tuttavia Giacomo notava, se io non mi inganno, con una certa compiacenza.
Leggendo lo Zibaldone, noi assistiamo giorno per giorno agli studi dell’autore, all’erudirsi della sua mente, allo svolgersi del suo pensiero, e per effetto di esso, alla trasformazione della sua coscienza. Il distacco dalle credenze religiose non avvenne in lui senza che fosse preceduto da molte incertezze, senza che nel suo spirito si combattessero lunghe e gravi lotte. Naturalmente ebbero non poca influenza nello svolgersi del suo pensiero le letture ch’egli fece in quel tempo, delle quali troviamo non poche tracce nello Zibaldone. Ma dalle osservazioni ch’egli fa intorno a quelle letture appare ch’ei mantenne sempre pienissima l’indipendenza della sua mente. Uno degli scrittori più spesso citati nel 1819 è la Stàel, a proposito della quale confessa che non credè di essere filosofo finchè non ebbe letto alcune opere di lei. Dal Rousseau accettò l’opinione che gli uomini, creati dalla natura per essere buoni e felici, fossero stati corrotti dalla civiltà.
In questo primo periodo della trasformazione della sua coscienza il Leopardi non ha fatto e non fa che eseguire ciò che, quasi incosciamente, aveva annunziato nel Saggio sopra gli errori popolari. Fino allora egli, in fatto di religione, aveva creduto le cose che gli erano state insegnate, che aveva sentite dire: ora comincia ad esaminarle.
Il sentimento che ora lo occupa è la infelicità certa del mondo: da esso rampollano tutti i suoi pensieri, intorno ad esso si aggirano tutte le sue riflessioni; ma questi pensieri e queste riflessioni non iscuotono ancora la sua fede religiosa: egli perciò si studia di metterle d’accordo con le dottrine del Cristianesimo. Se qualche volta gli sorge in mente qualche osservazione contro il Cristianesimo egli cerca di attenuarne la portata.
Dalla infelicità degli uomini trae argomenti in favore della immortalità dell’anima e della esistenza di una vita oltremondana. «Tutto è o può essere contento di sé, eccetto l’uomo, il che mostra che la sua esistenza non si limita a questo mondo, come quella delle altro cose.» 3 Il qual pensiero è a breve distanza di tempo allargato in quest’altro. «L’infelicità nostra è una prova della nostra immortalità, considerandola per questo verso, che i bruti e in certo modo tutti gli esseri della natura possono essere felici e sono, noi soli non siamo né possiamo. Ora è cosa evidente che in tutto il nostro globo la cosa più nobile e che è padrona del resto, anzi quello a cui servi/io pare a mille segni incontrastabili che sia fatto, non dico il mondo ma certo la terra, è r uomo. E quindi è contro le leggi costanti che possiamo notare osservate dalla natura che l’essere principale non possa godere la perfezione del suo essere che è la felicità, senza la quale anzi è grave l’istesso essere cioè esistere, mentre i subalterni e senza paragone di minor pregio possono tutto ciò, e lo conseguono.»4
In questo pensiero l’autore cita in favore della sua tesi sulla immortalità dell’anima uraanii il fatto che gli uomini si credono padroni del mondo, e che il mondo e tutti gli esseri e le cose che in esso esistono siano state create per loro. Non passerà molto tempo, ed egli deriderà spietatamente, in versi ed in prosa, come un trovato della sciocca superbia umana, questa opinione, che ora gli sembra una verità.
L’uomo moderno non ha ancora, come si vede, abbandonato interamente le idee dell’antico; ed il suo pessimismo è subordinato alla religione. 11 pessimismo gli suggerisce che, la vita essendo infelice, meglio sarebbe non vivere; ma questa idea ripugna al suo sentimento religioso; ed egli scrive: «Può mai stare che il non esistere sia assolutamente meglio ad un essere che l’esistere? Ora così accadrebbe all’uomo senza una vita futura.»5 A questo modo cerca nella illusione religiosa di una vita oltremondana la speranza di quella felicità che sa di non poter trovare nel mondo. Sarà pur tristo il giorno, ahimè non lontano, nel quale, svanita affatto quella illusione, affermerà risoluto che il non esistere è assolutamente meglio che l’esistere.
Insieme al sentimento della infelicità necessaria di tutti i viventi, un altro sentimento lo crucciava, non meno doloroso, il sentimento della nullità delle cose. Ed egli anche in questo cerca (chi lo crederebbe?) argomenti in favore di ciò che la filosofia religiosa insegna circa la spiritualità dell’anima. «Come potrà essere, scrive, che la materia senta e si dolga e si disperi della sua propria nullità? E questo certo e profondo sentimento, massime nelle anime grandi, della vanità e insufficienza di tutte le cose che si misurano coi sensi, sentimento non di solo raziocinio ma vero, e per modo di dire, sensibilissimo sentimento e dolorosissimo, come non dovrà essere una prova materiale, che quella sostanza che lo concepisce e lo sperimenta è di un’altra natura? Perchè il sentire la nullità di tutte le cose sensibili e materiali suppone essenzialmente una facoltà di sentire e comprendere oggetti di natura diversa e contraria; ora questa facoltà come potrà essere nella materia?»6
Queste considerazioni, ed i tentativi che con esso fa di tenersi afferrato, quasi per un sottilissimo filo, alle dottrine del Cristianesimo e alla speranza di una vita futura, non valgono ad alleggerirgli il peso di quel terribile pensiero del nulla, che preme come un incubo sulla sua mente. Specie sulla fine del tristo anno 1819 questo pensiero del nulla non gli dà tregua. «Oh infinita vanità del vero!»7 esclama in un luogo dello Zibaldone quasi preludendo al notissimo verso: «E l’infinita vanità del tutto.» Un’altra volta scrive: «Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare, considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla.»8 E un’altra: «Pare un assurdo, e puro è esattamente vero, che, tutto il reale essendo un nulla, non v’è altro di reale, nò altro di sostanza al mondo che le illusioni.9 Ragionando su questo sentimento del nulla, egli dice che vi sono tre maniere di vedere le cose: Vuna, e la più beata, di quelli per i quali esse hanno più spirito che corpo; l’altra, la maniera naturale e più durevolmente felice, di quelli che considerano le cose quali appariscono e sono stimate comunemente e in natura; la terza, e la sola funesta e miserabile, e tuttavia la sola vera, di quelli per cui le cose non hanno nò spirito nè corpo, ma son tutte vane e sema sostanza.
Questa è, soggiungo, la maniera «dei filosofi e degli uomini per lo più di sentimento, che dopo l’esperienza e la lugubre cognizione delle cose, dalla prima maniera passano di salto a quest’ultima senza toccare la seconda, e trovano e sentono da per tutto il nulla e il vuoto, e la vanità delle cure umane e dei desideri! e delle speranze e di tutte le illusioni inerenti alla vita, per modo che senza esse non è vita.»10
⁂
La trasformazione della coscienza di un uomo come il Leopardi, ha, specialmente nelle origini, un grande interesse per lo studioso della vita di lui; e perciò mi sono trattenuto un po’ lungamente sui pensieri dello Zibaldone dell’anno 1819. Dopo quell’anno i pensieri filosofici (cioè pessimistici, perchè oramai la sua filosofia è il pessimismo) divengono più rari; e spesseggiano invece, per quasi tutto il 1820, i pensieri di letteratura, d’estetica, di critica letteraria, di morale, di storia, di politica. Uno degli autori più spesso citati nel 1820, le cui opere porgono argomento alle sue considerazioni di vario genere, sopra tutto storico-politiche, è il Montesquieu: ma tanto nei pensieri del 1820 quanto in quelli degli anni precedenti, specie del 1818, compaiono i nomi di parecchi altri scrittori antichi e moderni, italiani e stranieri, che probabilmente stava leggendo, o aveva letti di fresco: ne cita e discute le opinioni, ne giudica le opere. Parla di Omero, di Orazio, di Dante, del Petrarca, e con loro e per loro della poesia antica; parla del Chiabrera, del Testi, del Guidi, del Filicaia, e dalle loro poesie prende occasione ad esporre le sue idee intorno alla lirica; parla dell’Ossian, del Byron (che giudica talvolta severamente), del Goethe, del Thomas, del Bossuet (di cui sfata l’eloquenza); parla più volte, e a lungo, delle poesie del Monti.
Anche da questi fugaci accenni si capisce quale prezioso aiuto siano i pensieri dello Zibaldone a intendere l’opera letteraria del Leopardi, e lo svolgersi del suo ingegno. Se i pensieri filosofici ci spiegano la trasformazione della coscienza dell’uomo, ed i letterarii la larghezza e solidità della dottrina e la forza della mente dello scrittore, i ricordi delle cose osservate dal vero hanno pur essi la loro importanza, come quelli che mostrano quanta novità e profondità di pensieri suscitassero nella mente del poeta i più piccoli accidenti della vita comune.
La torre del borgo suonava le ore, e il Leopardi notava nello Zibaldone: «Sento dal mio letto suonare l’orologio della torre. Rimembranze di quelle notti estivo nelle quali essendo fanciullo e lasciato in letto in camera oscura, chiuse le sole persiane, tra la paura e il coraggio sentiva battere un tale orologio. O pure situazione trasportata alla profondità della notte o al mattino ancora silenzioso e all’età consistente.» I canti notturni della gente che passa per via gli suscitavano questi pensieri: «Dolor mio nel sentire a tarda notte, seguente al giorno di qualche festa, il canto notturno de’ villani passeggeri. Infinità del passato che mi veniva in mente, ripensando ai Romani così caduti dopo tanto romore e ai tanti avvenimenti ora passati, ch’io paragonava dolorosamente con quella profonda quiete e silenzio della notte, a farmi avvedere del quale giovava il risalto di quella voce o canto villanesco.»11
Un’altra volta il poeta scrive questo verso, Vedendo meco viaggiar la luna; un’altra prende questo appunto: «Stridore notturno delle banderole traendo il vento:»12 fatti in apparenza di nessuna entità, ma che a lui dicevano chi sa quante cose! Altre volte gli passano pel capo immagini buone da servire per similitudini, e scrive: «Una similitudine nuova può esser quella dell'agricoltore, che nel mentre che miete ed ha i fasci sparsi pel campo vede oscurarsi il tempo ed una grandine terribile rapirgli irreparabilmente il grano di sotto la falce; ed egli quivi tutto accinto a raccoglierlo, se lo vede come strappar di mano senza poter contrastare.» E poi: «Uomo còlto in piena campagna da una grandine micidiale e da essa ucciso e malmenato, rifugiantesi sotto gli alberi, difendentesi il capo con le mani ec.: soggetto di una similitudine.»13
Qui siamo sempre nel campo della poesia: uno dei pensieri citati diventò La sera del dì di festa; un altro suggerì un passo delle Ricordanze: ma è notevole anche qui la tendenza del poeta a descrivere della vita umana i fenomeni tristi e dolorosi; a vedere nella natura, non la madre, ma la matrigna de’ suoi figliuoli. E notisi che a questo tempo il Leopardi professava, come dicemmo, la dottrina del Rousseau, che cioè gli uomini, creati dalla natura per essere buoni e felici, erano stati corrotti dalla civiltà.
Proseguendo nella lettura dello Zibaldone, ci troviamo il processo e il compimento di quella trasformazione della coscienza leopardiana, della quale finora abbiamo veduto l’inizio; ci troviamo, in forma meno perfetta, e talora quasi in embrione, pensieri che poi sono divenuti la sostanza principale delle opere dell’autore; ci troviamo i germi e i materiali di altre opere, che gli fu impedito di compiere dalla mancanza di salute e dalla brevità della vita.
Di alcune di queste opere (lo vedremo a suo tempo) è cenno in una lettera del marzo 1829 a Pietro Colletta; di altre sorprendiamo i titoli negli indici dello Zibaldone scritti dallo stesso Leopardi: di queste, ad esempio: Trattato delle passioni, Manuale di filosofia pratica, Teorica delle arti e delle lettere, Memorie della mia vita. Sotto ciascuno di questi titoli sono richiamati, col numero della pagina, tutti i pensieri dello Zibaldone che dovevano fornire materiali a ciascuna di queste opere. Probabilmente i pensieri raccolti sotto il titolo Memorie della mia vita dovevano servire, almeno in parte, a quella Storia di un’anima, della quale il Leopardi non scrisse che un breve proemio e queste poche parole: «Nacqui di nobile famiglia in una ignobile città delle Marche.»14
Noi non dobbiamo faro un esame dell’intero Zibaldone, che è stato già fatto egregiamente da altri, e che qui sarebbe inopportuno: ci basti avere accennato a quello parti di esso, che, mentre bastano a dimostrarne l’importanza, giovano ad illustrare la vita del nostro autore nel punto di essa al quale siamo giunti. Parleremo in seguito delle altre parti, quanto ci parrà utile allo scopo del nostro lavoro. LO < ZIBALDONE > E GLI < APPUNTI EC. > 139
Nel capitolo secondo, parlando della fanciullezza, e nel quinto, parlando dei primi amori del Leopardi, riferii alcuni appunti e ricordi di lui da un mano- scritto delle carte napoletane ora in corso di stampa. Gli appunti sono scritti l' uno di seguito all' altro, senza nessun segno di divisione, o d'interpunzione, salvo qualche virgola dove un appunto finisco e co- mincia un altro, senza nessun ordine, in otto piccoli foglietti di carta, diseguali di forma e di dimensione, con carattere minutissimo, ed occupano per intero le due pagine di ciascun foglietto. Probabilmente manca qualche foglietto dopo i primi sei, poiché fra essi e gli ultimi due apparisce qualche lacuna. Il mano- scritto, come appare da alcune date che vi si leg- gono, deve essere dell'anno 1819, e tirato giù, in pochi giorni, senza grande intervallo di tempo fra l'uno e l'altro. Perchè il lettore abbia un'idea di questo singolare manoscritto, ne riferirò per saggio le prime linee del primo foglietto. < S. Cecilia considerata più volte dopo il pranzo desiderando e non potendo contemplar la bellezza, baci dati alla figlia e sospiri per la vicina partenza che senza nessuna mia invidia pur mi turbavano in quel giuoco a cagione ec, prevedo ch'io mi guasterei coi cattivi compagni coU'esempio massimamente ec, e perciò che nessun uomo non milenso non è capace di guastarsi, mal d'occhi e vicinanza al suicidio, pen- sieri romanzeschi alla vista delle figure del Kempis e di quelle della piccola storia sacra ec, del libro dei santi mio di Carlo e Paolina del Goldoni della storia santa francese, dei santi in rami dell' occhio di Dio in questa miniatura, mio disprezzo degli uo- mini massime nel tempo dell'amore e dopo la lettura 140 CAPITOLO VII. dell'Alfieri ma già anche prima come apparisce da una mia lettera al Giordani. > Il manoscritto seguita così fino in fondo, senza che apparisca un nesso fra un appunto e l'altro. Tuttavia mi sta in mente che alcuni almeno di questi appunti e ricordi dovessero esser materia per un lavoro che il Leopardi aveva in animo di fare ; forse una specie di romanzo autobio- grafico sul genere del Werther e dell'Ortis. Parecchi appunti, come quelli del saggio che ho riferito, hanno carattere autobiografico; e quasi tutti sono del genere dei pensieri dello Zibaldone. Viene quindi naturale la supposizione che l'autore non li mettesse lì appunto per la ragione da me indicata, che cioè nella sua mente fossero destinati ad un de- terminato lavoro. Che il lavoro potesse essere quello che ho accennato si può desumere da alcuni degli appunti stessi. In uno si legge : « Eugenio romanzo (Werther) frammenti. > Questo medesimo titolo tro- vasi, con le identiche parole, in una lista di scritti in verso ed in prosa proposti dall'autore a sé stesso. In un altro appunto vien fuori un altro nome, Bene- detto, forse immaginario; e accanto al nome queste parole : < Storia della sua morte. > Innanzi ad un ri- cordo riguardante Teresa, la figlia del cocchiere, è questa parentesi < (nel proemio) ; > e in altri luoghi e più volte quest' altra parentesi < (nel fine) >, per indicare che quei tali appunti e ricordi dovevano ser- virò a luoghi, credo, del romanzo. A proposito della morte di Benedetto ci sono vari appunti. Uno dice: < Ecco dunque il fine di tutte lo mio speranze de' miei voti e degl'infiniti miei desiderii (dice Werther mo- ribondo e può servirò pel fino); > un altro: < desi- derio di morire in un patibolo stesso in guerra. > Più caratteristici sono questi altri ricordi. < (Nel fino) si discorrerà, per duo momenti in questa piccola cittj\ della mia morto, o poi ce; apri la finestra oc, ora l'alba ec. ce. Non aveva pianto nella sua malattia ho LO < ZIBALDONE > K GLI < APPUNTI KC. > 141 non di rado, ma allora il vedere ec. per T ultima volta ec, comparare la vita della natura e la sua eterna giovinezza e rinnovamento col suo morire senza rinnovamento appunto nella primavera della giovinezza ec, pensare che mentre tutti riposavano egli solo, come disse, vegliava per morire ec. ; tutti questi pensieri gli strinsero il cuore in modo, che tutto sfinito cadendo sopra una sedia si lasciò cor- rere qualche lagrima né più si rialzò; ma entrati ec. morì senza lagnarsi né rallegrarsi, ma sospirando, com'era vissuto. Non gli mancarono i conforti della religione, ch'egli chiamava (la cristiana) l'unica ri- conciliatrice della natura e del genio colla ragione per l'addietro, e tuttavia (dove questa mediatrice non entra) loro mortale nemica. (Dove ho detto qui so- pra come disse, bisogna notare eh' io allora lo tìngo solo). Scrisse (o dettò) al suo amico quest'ultima let- tera (muoio innocente, seguace ancora della santa natura ec non contaminato ec). A Giordani nell'apo- strofe (se queste carte, morendo io, come spero, pri- ma di te, ti verranno sott' occhio ec. ec). > Probabilmente, se la mia supposizione che questi appunti e ricordi fossero materia preparata per un romanzo, o uno scritto qualunque di genere narra- tivo, si accosta al vero, Teresa e qualche altra delle donne nominate negli appunti stessi avrebbero avuto parte nel romanzo, trasformate, s'intende; e certa- mente il romanzo sarebbe riuscito un' opera d' arte diversa dal Werther e dall' 0r</5. Ma indipendentemente dal romanzo, e così come sono pervenuti a noi, rozzi ed informi, questi Appunti e Bicordi hanno una importanza, se non superiore, certo non inferiore, allo Zibaldone, del quale possono considerarsi come una Appendice. La materia dei ri- cordi può dividersi in tre categorie, ciascuna delle quali ha larga corrispondenza nei pensieri dello Zi- haìdonc. Prima categoria: ricordi concernenti l'autore, 142 CAPITOLO VII. le sue qualità fisiche e morali, i suoi sogni, le sue considerazioni su la vita e sul mondo, aneddoti della sua fanciullezza e della prima gioventù ; seconda ca- tegoria : ricordi concernenti altre persone, fra le quali alcune donne; terza: impressioni di cose vedute, pae- saggi e scene dal vero, accennati spesso con poche parole. Dei ricordi della prima e seconda categoria i let- tori hanno già avuto un saggio nel secondo e nel quinto capitolo di questo libro ; tuttavia mi piace ri- ferirne ancora uno della prima, per la sua singolarità. < Tenerezza di alcuni miei sogni singolare, moven- domi affatto al pianto (quanto non mai maissimo m' è successo vegliando) e vaghissimi concetti, come quando sognai di Maria Antonietta e di una canzone da mettergli in bocca in una tragedia che allora ne concepii, la qual canzone per esprimere quegli afietti eh' io aveva sentiti, non si sarebbe potuta fare se non in musica senza parole. > Questa tragedia, della quale faremo parola a suo luogo, fu non solamente concepita, ma cominciata nel luglio del 181G. Più importante ci sembra un ricordo, appartenente alla terza categoria, col quale chiuderemo questi brevi cenni sul manoscritto degli Appunti e liicordi. < Io era malinconicissimo, e mi posi a una finestra che metteva sulla piazzetta ec. : due giovanotti sulla gradinata della chiesa abbandonata ce, erbosa ec, sedevano scherzando sotto al lanternone ce, si sbal- lottavano ec. Comparisco la prima lucciola ch'io ve- dessi in quell'unno ce; uno dei due s'alza, gli va addosso ce; io domandava fra me misericordia alla poverella, l'esortava ad alzarsi ce, ma la colpì e gittò a terra e tornò all'altro ce Intanto la iiglia del coc- chiere ec, alzandosi da cena e affacciatasi alla fine- stra per lavare un piattello, nel tornare dice a quei dentro : — stanotte piove davvero. Se vedeste che LO < ZIBALDONE > E GLI < APPUNTI EC. > 143 tempo. Nero come un cappello. — E poco dopo spa- risce il lume di quella finestra ec. Intanto la lucciola era risorta ec; avrei voluto ec. ; ma quegli se n'ac- corse, tornò: — porca buzzarona; — un'altra volta la fa cadere giù, debole coni' era, ed egli col piede ne fa una striscia lucida fra la polvere ec, poi ec, fin- ché la cancella. Veniva un giovanotto da una stra- della in faccia alla chiesa prendendo a calci i sassi e borbottando ec; l'uccisore gli corre a dosso e ri- dendo lo caccia a terra, e poi lo porta ec. S' accre- sce il giuoco, ma con voce piana, come pur prima ec, ma risi un po' alti. Sento una dolce voce di donna, che non conoscea né vedea, ec — Natalino, andiamo eh' è tardi. — Per amor di Dio, che adesso adesso non faccia giorno — risponde quegli ec. Sentivo un bam- bino, che certo dovea essere in fasce e in braccio alla donna e suo figlio, ciangottare con una voce di latte suoni inarticolati e ridenti, e tutto di tratto in tratto e da sé senza prender parte ec Cresce la bal- doria ec C ò più vino da Girolamo? Passava uno, a cui ne domandarono ec Non e' era ec La donna venia ridendo dolcemente con qualche paroletta ec oh che matti! ec (e pure quel vino non era per lei, e quel danaro sarebbe stato tolto alla famiglia dal marito), e di quando in quando ripetea paziente- mente e ridendo l' invito d' andarsene, e invano ec Finalmente una voce disse loro, oh ecco che piove: era una leggera pioggetta di primavera ec; e tutti si ritirarono, e s' udiva il suono delle porte e i cate- nacci ec; e questa scena mi rallegrò (12 maggio 1819). > Lo Zumbini, che riferì nel primo volume de'suoi Studi sul Leopardi, la prima parte di questo appunto, vede in essa come V abbozzo di tm infero idillio; e dalla tenerezza del poeta per la povera lucciola ch'egli avrebbe voluto salvare, prende occasione a ravvici- nare i sentimenti di lui a quelli del poeta scozzese Burns, che compiangeva la sorte del topolino al quale 144 CAPITOLO VII. — LO < ZIBALDONE > EC. egli stesso, arando, aveva disfatto il nido, e quella della margherita, di cui allo stesso modo aveva spezzato il fragile stélo.^ Il ravvicinamento è giusto e commo- vente : in ambedue i poeti era egualmente vivo il sen- timento della natura e l'affetto per le creature de- boli e oppresse: e la parte dell'appunto scelta dallo Zumbini per farci le sue considerazioni è certo la più gentile, ma anche la parte ch'egli omise mi pare importante come rappresentazione dal vero di quelle scene paesane, eh' egli ritrasse con tanta vivezza ne- gli idilli e in alcuni dei canti. Manca alle parole il ritmo del verso, ma nella loro rude e affrettata sem- plicità c'è r essenza vera della poesia. • B. ZuHBiNT, Studi sul Leopardi; Firenze, Bai-bèra, 1902, vo- lume I, pag. 216, 217.
Note
- ↑ Firenze, Successori Le Monnier, 1898-1900
- ↑ Giacomo Leopardi, Pensieri di varia filosofia ec., vol., I, pag. 250. — Qui ometto alcune parole, il cui significato non è chiaro: e forse vi è errore.
- ↑ Pensieri di varia filosofia ec., vol. I, pag. 110.
- ↑ Pensieri di varia filosofìa ce. voi, I, p.ig. 146. Vodi anclm il i)eusiero a pag. ISS, 131).
- ↑ Idem, pag. 158.
- ↑ Pensieri di varia filosofia ec., vol. I, pag. 217, 218.
- ↑ Idem, pag. 181.
- ↑ Idem, pag. 195.
- ↑ Pensieri di varia filosofia ec., voL I, pag, 210.
- ↑ Idem, pag. 214.
- ↑ Pensieri di varia filosofia ec. vol. I, pag. 131, 157.
- ↑ Idem, pag. 108, 150.
- ↑ Idem, pag. 174, 195.
- ↑ Dalle carte napoletane in corso di stampa.