Era quella fanciulla uno sgomento:
Gobba, sbilenca, colle tempie vuote;
Un muso tutto naso e tutto mento,
Che litigava il giallo alle carote;
Ma per vera bellezza un ottocento
Di mila scudi avea tra censo e dote;
Per questo agli occhi ancor d’un gentiluomo
Parea leggiadra, e il babbo un galantuomo.
Non ebbe questi da durar fatica,
Nè bisognò cercar colla lanterna
Un genero, che in sè pari all’antica
Boria covasse povertà moderna;
Anzi gli si mostrò la sorte amica
Tanto, che intorno a casa era un’eterna
Folla d’illustri poveri di razza,
Che incrociarsi volean colla ragazza.
Di venti che ne scrisse al taccuino
A certi babbi-morti dirimpetto,
Un ve ne fu prescelto dal destino
A umilïare il titolo al sacchetto.
L’albero lo dicea sangue latino
Colato in lui sì limpido e sì pretto
Che dalla cute trapelava, e vuolsi
Che lo sentisse il medico da’ polsi.
La scritta si fissò lì sul tamburo:
E il quattrinaio, a cui la cosa tocca,
Dei parenti del genero futuro
Tutta quanta invitò la filastrocca.
Coi propri, o scelse, o stette a muso duro,
O disse per la strada a mezza bocca:
Se vi pare veniteci, ma poi
Non vi costringo.... in somma fate voi.