Vae Victis/Parte terza/XX
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XX.
Il Feldwebel Karl Sigismund Schwarz giaceva nel pendio interno di un cratere, sotto un cielo vespertino cosparso di nuvolette rosse. Aveva gli occhi chiusi, ma non dormiva. Stava dicendo a sè stesso che bisognava muovere il braccio sinistro. Aveva qualche cosa di anormale quel braccio; un peso infinitamente grave pareva schiacciarlo; se lo sentiva plumbeo e infocato. Certo bisognava muoverlo; bisognava alzarlo e agitarlo nella fresca aria serale perchè vi tornasse la circolazione.
Sì, sì, tra un momento avrebbe mosso il braccio.
Presa questa decisione, Feldwebel Karl Sigismund Schwarz si sentì in diritto di riposare da tanto sforzo mentale, e si addormentò.
Si risvegliò più che mai deciso che bisognava muovere il braccio. E per muovere il braccio cosa bisognava fare? Dov’era questo braccio? E lui stesso, Karl Sigismund Schwarz, dov’era?... E cos’era quel violoncello che gli suonava così da vicino?... Se lo sentiva vibrare profondamente nelle orecchie e nella testa: «Zuum... zuum-zuum... zuum-zuum....»
Ah, un momento!... Ecco — adesso sapeva dov’era. Era a Charlottenburg, nel Caffè des Westens e il direttore d’orchestra — l’ungherese Makowsky — suonava il contrabasso. Precisamente. Zuum... zuum-zuum... Gli altri dell’orchestra aspettavano il loro turno per cominciare... Ma intanto cosa diavolo aveva al braccio?
Gemette forte e fece per alzarsi sul gomito destro. Non vi riuscì. Ma nel volgere la testa scorse a pochi passi da lui un uomo in uniforme belga, steso a terra col profilo rivolto al cielo.
Ma allora — si disse Schwarz — non si era a Charlottenburg? No; si era nelle Fiandre, vicino a un’infetta città chiamata Ypres, e lui stava sdraiato in una buca fatta da una mina.
Gettò di traverso un’occhiata al belga; poi urlò forte:
«Olà! dite un po’ — cos’ho io al braccio?»
Ma costui non rispose, nè si mosse; e Schwarz riflettè che probabilmente non capiva il tedesco, e che più probabilmente era morto.
Allora Karl Sigismund Schwarz si riabbandonò supino, e stette ad ascoltare il contrabasso che gli ronzava nella testa.
Il tramonto purpureo era svanito in un crepuscolo grigio, quando a sua volta il belga aprì gli occhi. Sospirò e si rizzò a sedere; e vide sdraiato accanto a sè, colle gambe tese e inerti, con un braccio sfracellato e il volto incrostato di sangue, un tedesco ferito.
Costui aveva gli occhi aperti, e il belga lo salutò con un cenno del capo. «Eh bien? Ça va, mon vieux?»
«Verfluchter Schweinehund,» rispose il tedesco. E Florian Audet, non comprendendo l’improperio gli fece un altro amichevole cenno col capo.
Poi tacquero entrambi, occupato ognuno dai propri pensieri.
Florian cercò di comprendere ciò che era accaduto. Mosse prudentemente un braccio; poi l’altro; poi i piedi e le gambe. Indi si spostò un poco colle spalle. Tutto pareva sano. Non sentiva che un dolore sordo alla nuca, una specie di crampo che gli saliva fino alla sommità del cranio. Del resto in complesso niente di male.
Oh, come mai si trovava qui? Riordinò alla meglio gli sconnessi ricordi; c’era stato l’ordine di attaccare... Lui e i suoi soldati si erano slanciati sulla bianca via di Ypres, e traverso i campi verso il sud.... poi — poi un formidabile rombo, una scossa immane....
Ed eccolo a giacere in questa buca, colla terra smossa che ogni tanto gli scendeva a cascate sulla testa e sulle spalle. Chissà il resto della sua compagnia dov’era e come era andato l’attacco?... Si udiva ancora, non molto lontano, il fragore di spari.
Florian tentò di rizzarsi in piedi, ma pareva che il terreno si alzasse con lui; non poteva staccare le mani da terra. Il cratere e il cielo gli turbinavano d’intorno e dovette tornarsi a sdraiare.
Sorse dal tonante oriente la notte, e spense il crepuscolo.
Frattanto il Feldwebel Karl Sigismund Schwarz era di nuovo nel Caffè des Westens. Sì, sì, era perfettamente così. Il Caffè des Westens. L’orchestra di centomila contrabassi gli rimbombava nelle orecchie, ed egli batteva, a tempo colla musica, il suo braccio pesante sul marmo della tavola; e gridava al cameriere Max che gli portasse qualche cosa da bere.
Max arrivava correndo e gli porgeva un vassoio carico di bevande: grandi schoppen ghiacciati di Münchener e Lager, e bicchieri colmi di limonata gelida — scegliesse. Quale voleva? E Karl non poteva decidersi. Colla gola arsa, collo stomaco in fuoco dalla sete stava a guardare quelle fresche bibite, le birre gelide, le limonate aspre e ghiacciate — e sentiva di non poter prenderne una per non lasciare le altre. Avrebbe voluto versarle tutte insieme sul fuoco che gli ardeva dentro. Vediamo.... beverebbe prima la birra — no, prima la limonata — no, prima la birra....
D’un tratto si avvide che la Wasserleiche — (sapete bene, la Wasserleiche del Caffè des Westens.... quella donna che chiamano «l’Annegata» perchè ha l’aspetto così cadaverico, le carni così verdognole, come se fosse rimasta sott’acqua due giorni e poi ripescata...) ebbene, l’Annegata si slancia sul cameriere e lo abbraccia. E giù i bicchieri dal vassoio!... Ping! — pang! — giù tutti! tutti fracassati! — Ping! — pang!
Quando mai si è sentito dei bicchieri fare un fracasso simile?... E non restava più nulla da bere; nulla — in tutto il mondo!...
Allora il Feldwebel Schwarz si mise a piangere. Egli stesso si udiva gemere e mugolare mentre l’Annegata gli pizzicava il braccio...
E poi non era Max che l’Annegata aveva abbracciato. Già, quella non abbracciava mai gli uomini. No; era la sua amica Mélanie, che adesso stava lì anche lei e rideva colla bocca aperta come ne aveva il vezzo, mostrando il palato roseo e i piccoli denti da lupacchiotto, bianchi e aguzzi.
Il cameriere Max susurrò a Karl Schwarz che se voleva qualche cosa da bere doveva fare la corte a Mélanie. Allora per lusingare quella viperetta Karl volle cantare la canzone della famosa contessa sua omonima:
«Unter Bäumen
«süsses Träumen
«liebte Gräfin
«Mélanie!»
Ma, strano a dirsi, invece di quelle parole gliene venivamo sulle labbra delle altre:
«Die Flundern —
«Werden sich wundern.»
Cantò innumerevoli volte questo brano di romanza da Cabaret senza mai arrivare a finirla. Il cameriere Max, sdraiato per terra in mezzo ai bicchieri rotti, applaudiva rumorosamente.
Era insopportabile il fragore di quegli applausi; gli penetravano nel cervello, gli spaccavano il cranio.... e Mélanie frattanto non gli dava nulla da bere. Allora cercò di abbracciarla, ma l’Annegata, che non permetteva a nessuno di abbracciare Mélanie, si slanciò su di lui rabbiosamente e gli morse il braccio.
Karl gridò per lo spasimo; e allora anche Mélanie si curvò su di lui, mostrando i suoi denti da lupo, ed anche lei lo morse al braccio.
Gli strappavano, gli sbranavano le carni; non gli riusciva di liberare il braccio da quelle due terribili creature.
«Verdammte Sauweiber!» urlò. E quell’urlo stesso lo svegliò.
Vide il cielo notturno tempestato di stelle: e là accanto giaceva ancora la figura prona del belga. Probabilmente — pensò Karl — quelle belve, Mélanie e l’Annegata, avranno azzannato e sbranato anche costui. Bisognava tenerle lontane ad ogni costo. Perciò egli dovette seguitare a cantare colla sua gola arsa ed arida:
«Die Flundern,
«Werden sich wundern...»
. . . . . . . . . . .
«Die Flundern
«Werden sich wundern...»
Gli pareva che queste parole dovessero esercitare qualche occulto potere contro le sue tormentatrici; e così egli continuò a ripeterle per tutta la notte.
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Verso le due del mattino Florian Audet riaprì gli occhi e girò il capo per guardarsi intorno. La voce del tedesco ferito — una voce rauca e rantolante — l’aveva strappato al sonno; o al deliquio, forse. Ora, desto, si domandava vagamente che cosa mai potessero significare quelle parole continuamente ripetute: «Die Flundern werden sich wundern....» Forse era qualche frase nazionale, un grido di vittoria o di sfida, come sarebbe: «La libertà o la morte!» o «Tutto per la Patria!» Certo doveva essere qualche cosa di simile.
Il suono mugolante di quelle parole gli si conficcò nel cervello.
Girando appena il capo Florian vedeva, alla sua sinistra, la figura supina del nemico, colle molli gambe distese, i piedi abbandonati rivolti in su negli scarponi gialli infangati, e udiva nel respiro già rantolante il suono spezzato di quelle parole: «Die Flundern.... werden sich wundern....»
Una subitanea immensa pietà lo invase, pietà di quel corpo spezzato accanto a lui, pietà di sè stesso, pietà del mondo intero. Con uno sforzo eroico, poichè gli pareva di avere le membra infrante, egli si volse sul fianco e si trascinò penosamente vicino al moribondo.
Quando l’ebbe quasi raggiunto riposò alquanto, poi si cercò indosso la fiaschetta del cognac, la trovò, l’aprì e tendendo il braccio l’accostò al viso del morente.
«Prends, bois!» disse. Ma il tedesco non si mosse ed in breve il respiro rantolante cessò.
Florian mosse le mani plumbee e si trascinò ancora più vicino all’altro; con un immenso sforzo riuscì a passargli un braccio sotto al capo sollevandoglielo un poco. Allora, alla scialba luce del giorno nascente, vide sgorgare da una ferita che quell’uomo aveva alla testa un fiotto scuro che gli piovve giù per la faccia.
Il tedesco aprì gli occhi: che cosa facevano ora quelle donne diaboliche? Gli versavano del vino caldo sulla testa?... Traverso quel tiepido velo scarlatto gli occhi morenti fissavano Florian pieni di infinito terrore e smarrimento.
Un’onda di mortale debolezza e nausea invase Florian. Allentò il braccio, e su di esso ricadde all’indietro la spaventosa testa insanguinata del nemico. Florian si abbattè accanto a lui svenuto.
Così giacquero per lunghe ore, fianco a fianco, come fratelli — il vivo e il morto, l’ufficiale belga col braccio intorno al soldato tedesco. E così due militi della Croce Rossa li trovarono nei brividi dell’alba, allorchè scesero a sdruccioloni entro il pendio del cratere portando tra loro una barella ripiegata.
Erano entrambi giovanissimi i due militi; avevano troncato a mezzo i loro studi di filosofia all’Università di Bonn allo scoppio della guerra, lasciando da parte Kant e Hegel per intraprendere un rapido corso di chirurgia. Il più giovane dei due — che aveva i capelli biondi come il miele — si dilettava a scrivere delle insensate poesie latine ch’egli asseriva essere nello stile di Lucrezio.
Deposero la barella. Stettero silenziosi e immobili a guardare quelle due figure irrigidite nel fraterno abbraccio; quell’atteggiamento narrava tutta la storia dell’agonia. La mano di Florian poggiava sul petto del tedesco morto tenendo ancora nelle dita rilassate la fiaschetta aperta del cognac; il volto sanguinoso del loro camerata posava fidente sul braccio ripiegato del nemico.
Un’emozione profonda strinse alla gola i due che guardavano. Il più giovane — quello che scriveva i versi latini — si chinò e pose la mano quasi invocando una benedizione, sulla fronte pallida di Florian.
Trasalendo si volse al compagno.
«È vivo!» esclamò.
L’altro a sua volta toccò la fronte del belga; poi ne sollevò la mano inerte per sentirgli il polso.
Inginocchiati accanto a lui gli versarono dell’acquavite in bocca; indi con tutti i mezzi noti alla scienza, muti, tenaci, persistenti lo contesero alla morte; dopo qualche tempo un tremulo soffio di vita alitò su quelle labbra cenericcie e le spente pupille azzurre oscillarono in uno sguardo vago.
I due tedeschi si rimisero subito in piedi. Finchè il belga giaceva svenuto col braccio attorno al collo del loro morto compagno, egli era per loro un eroe e un amico. Ora, vivo, con gli occhi aperti, era il loro nemico e prigioniero.
Gli rivolsero la parola, non scortesemente, in tedesco; poi, un po’ più bruschi, in francese. Ma quegli non rispose. Una stupefazione torpida lo teneva; sembrava paralizzato. Non poteva nè parlare nè reggersi in piedi. Allora lo sollevarono e lo posero sulla barella.
«Poveraccio,» mormorò il più giovane accomodandogli lungo i fianchi le braccia inerti, e indicando al compagno la manica dell’uniforme belga inzuppata di sangue tedesco. «Poveracci! Potevamo tralasciare di salvarlo. Per mandarlo a quell’inferno di Wittemberg, tanto valeva —»
«Già. Povero diavolo,» mormorò l’altro.
«Senti un po’» esclamò il biondo poeta, «e se gli lasciassimo una via di scampo? Perchè non abbandonarlo al caso?... Affidarlo al capriccio della sorte?...
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Florian non seppe mai in qual modo e per quali circostanze egli venne a trovarsi sdraiato su una coperta da campo in una cascina per metà demolita. Alzando il capo indolenzito per guardarsi intorno vide accanto a sè, per terra, una scodella di latte, una pagnotta e del cognac. Vi era anche un pacchetto di sigarette, qualche fiammifero ed una tavoletta di cioccolatta. Bevve avidamente il latte, ingoiò un sorso di cognac e si levò in piedi. Traballava e aveva la vista torbida; una terribile vertigine gli dava nausea allo stomaco; tuttavia potè reggersi in piedi e stette così ritto qualche istante appoggiandosi con una mano al muro calcinato. E tutt’a un tratto si avvide di essere completamente nudo. Intorno a sè non una traccia d’indumento, non una vestigia della sua uniforme. Nulla.
In mezzo al pavimento stava un paio di scarpe gialle e fangose che gli ricordavano quelle vedute ai piedi del tedesco ferito sul pendio del cratere. Queste scarpe e la coperta di lana grigia stesa per terra, ecco tutto ciò che avrebbe potuto mettersi indosso.
Nulla rimaneva di quanto era stato suo; perfino il cognac era in una fiaschetta che non aveva mai veduto.
Florian si guardò intorno nel luogo deserto; notò le mura sbrecciate e crollanti, demolite da bombe ed obici; in un angolo un aratro rotto e rugginoso e qualche arnese agricolo poggiavano al muro. Null’altro. Dopo breve riflettere Florian si decise a mettere quelle scarpe. Poi finì il latte, il pane e il cognac. Finalmente annodò in un angolo della coperta la cioccolatta, le sigarette ed i fiammiferi, poi avvolgendosi la ruvida flanella grigia intorno al corpo uscì ad affrontare il mondo.
Era un mondo vuoto e desolato. Sulla strada fangosa che attraversava la pianura non si vedeva che il gonfio cadavere di un cavallo. Giudicando dal sole Florian si disse che potevano essere le sette del mattino. Gli parve di riconoscere la località: doveva trovarsi a due o tre chilometri dal terreno di combattimento del giorno innanzi. Sì, ecco, lì, a sinistra, la via bianca e diritta che va da Poperinghe a Ypres.... ben riconosceva quel duplice filare di alberi...
Ed ora, dove andare? In quale direzione si trovavano le linee belghe? Florian si sentiva ancora assai debole, le ginocchia gli tremavano e nel cervello vuoto non aveva che una confusione di suoni insensati. Le parole che il tedesco morente aveva continuato a ripetere per tutta la notte gli ronzavano nella testa incessantemente, ed anch’egli si trovava a mormorarle sommesso: «Die Flundern werden sich wundern...»
Gli pareva di essere ancora nelle spire di un sogno faticoso e incoerente. Doveva fare un grande sforzo mentale per persuadersi che realmente lui, Florian, s’aggirava per il mondo vestito d’un paio di scarpe e d’una coperta da campo. Probabilmente nulla di tutto questo era vero. «Probabilmente» — si disse Florian — «io sono ferito, sono in un ospedale con qualche lesione al cervello, e questo è parte del mio delirio.» Era inverosimile, era impossibile che qualcuno potesse avergli rubato tutti i suoi abiti lasciandogli in cambio il latte, la cioccolata e le sigarette. Come conciliare la viltà da parte di chi lo aveva derubato quand’era incosciente, collo spirito di fraternità e di affetto dimostrato nell’avergli fatto trovare a portata di mano latte e cognac, cioccolatta e sigarette?... Era tutta una cosa assurda e fantastica.
«Di due cose, l’una,» ragionò Florian procedendo nella direzione di un bosco che vedeva non lontano, e inciampando ad ogni passo nella sua coperta: «o sono stato la preda di un pazzo, oppure sono io che in questo momento non ho la testa a segno... («Die Flundern werden sich wundern.»)
Dovette fare un enorme sforzo per non dire quelle parole insensate ad alta voce; sentiva che se le diceva sarebbe impazzito davvero. Gli pareva che finchè se le teneva chiuse dentro al cervello ne era padrone lui, ma guai se gli sfuggivano di bocca: sarebbero diventate più forti di lui, e certamente avrebbe continuato a dirle e a ripeterle come quel povero tedesco delirante... Ah, sì; decisamente non aveva il cervello a posto; bisognava tenersi bene in freno. Non bisognava.... «Die Flundern werden sich wundern.»
D’un tratto vide uscire dal bosco dei soldati a cavallo. Li riconobbe subito per una pattuglia tedesca. Pensò di tornare indietro e nascondersi nella cascina; ma ormai era tardi. Già l’avevano scorto e venivano a grande galoppo verso di lui.
«Basta; la partita è persa,» disse Florian tra sè e sè; l’avrebbero preso. Già non poteva uccidere nè sè stesso nè altri con un pezzo di cioccolatta e un pacchetto di Josetti. Sostò, incrociò le braccia e attese, ritto e immobile, il loro arrivo. («Die Flundern werden sich wundern.»)
Gli otto o dieci cavalleggeri arrivavano al galoppo e Florian potè notare anche da lontano il loro sbigottimento alla sua vista. Gli gridarono qualche cosa in tedesco, ma egli non rispose. Ritto, come una statua egli disse a sè stesso che incontrerebbe il suo fato con dignità.
Ma non aveva fatto i conti col suo grottesco abbigliamento. Due soldati smontarono ed uno di loro gli rivolse la parola in tedesco, mentre tutti lo guardavano da capo a piedi con un largo sorriso.
Ma l’altro — un giovane ufficiale — imponendo bruscamente agli altri di tacere si volse a Florian con fosco cipiglio e gli domandò in francese cosa diavolo facesse vestito così.
«Dov’è la vostra uniforme?» chiese, aggrottando minaccioso le ciglia.
Anche Florian aggrottò le ciglia e lo fissò senza rispondere. Aveva deciso che non aprirebbe bocca. («Die Flundern werden sich wundern.»)
L’ufficiale diede un ordine; due soldati lo presero per le braccia e gli strapparono da dosso la coperta. Egli rimase così, nelle sole scarpe, nudo alla grande luce del giorno, col viso, le mani e i capelli imbrattati di fango. Era una forte e magnifica figura d’uomo.
L’ufficiale e gli uomini avevano rivolto la loro attenzione al nodo nell’angolo della coperta. Lo sciolsero e vuotarono del suo contenuto quella tasca improvvisata. Si guardarono l’un l’altro; poi riguardarono l’uomo nudo. Il cioccolatto era tedesco; le sigarette erano tedesche; le scarpe erano tedesche. — E l’uomo cos’era?
«Meschugge,» mormorò il tenente, a spiegazione non della nazionalità di Florian, ma della sua condizione mentale.
«Meschugge! Meschugge!» Ripeterono gli altri sghignazzando.
Tuttavia l’ufficiale sembrava incerto. Dopo aver fissato lungamente Florian si volse a parlare a bassa voce cogli altri. Florian capiva che discutevano di lui. A quale decisione arriverebbero? L’arresterebbero come un astuto belga che, spogliatosi della sua uniforme, aveva rubato le scarpe e la coperta ed ora si fingeva muto e demente? O lo crederebbero un tedesco ammattito e lo manderebbero in un ospedale? Meglio se fosse così. Certo sarebbe più facile la fuga da un ospedale che da una prigione tedesca. Una prigione tedesca!... Florian digrignò i denti. Dall’atteggiamento dell’ufficiale Florian lo giudicò incline a quest’ultima decisione.
«Die Flundern werden —»
A momenti lo diceva forte! Sentiva nel palato una smania, un solletico, quasi una necessità fisica di pronunciare quelle parole insensate. Erano certamente quelle voci tedesche intorno a lui, era il suono gutturale di quegli accenti che gliele strappavano di bocca. Già le sue labbra si movevano a formularle....
L’ufficiale l’osservava intento.
Invano Florian strinse le labbra, morse la lingua tra i denti — d’improvviso le grottesche parole gli scapparono dalla bocca: «Die Flundern werden sich wundern...»
L’effetto di quella frase fu istantaneo e inatteso. Tutti ruppero in un grande scoppio di risa; persino il fosco volto dell’ufficiale si spianò in un largo sorriso.
I soldati ripetevano le parole, commentandole. «Avete sentito? Die Flundern!... Ah, bellissima! Sarà stata una canzonettista dell’Ueberbrettel a mettergli i topi nel cervello!» E si smascellavano dalle risa, battendogli le spalle nude e chiedendogli in quale Kabaret avesse lasciato il cuore ed il senno.
Di quanto dicevano Florian non capiva una sillaba; ma questo capì: era salvo. Almeno per il momento. Qualunque fosse il significato di quelle parole, certo ad esse doveva la sua salvezza e l’ilarità amichevole di quegli uomini. Per quanto ancor confuso e debole, ebbe la lucidità di prenderà un’immediata decisione: se quelle parole l’avevano salvato non ne pronuncerebbe altre.
E difatti fece così.
Un po’ più tardi aggiunse un vocabolo di più al suo repertorio:
«Meschugge.» Florian stesso non aveva la più lontana idea del significato di «Meschugge,» ma lo udì pronunciare molte volte dal tenente prussiano e dai soldati che lo ricondussero, dignitosamente avvolto nella sua coperta, alle linee tedesche.
«Die Flundern werden sich wundern,» e «Meschugge.» Con queste sei parole, mormorate a intervalli tre o quattro volte al giorno, Florian passò incolume il fronte e le retrovie tedesche; con questo frasario entrò in un ospedale da campo prima, e poi in una infermeria di Liegi.
Ufficiali e medici lo visitavano, ridevano, gli battevano sulle spalle. «Famoser Kerl!» Qui non c’era errore. Costui non poteva essere nè belga, nè francese, nè inglese. Giammai un forestiero avrebbe potuto scegliere dal ricco vocabolario tedesco proprio la parola «Meschugge,» nè avrebbe scoperto nella letteratura poetica tedesca il verso dei «Flundern.»
Ach nein! bisognava essere un autentico figlio del Vaterland per capirne puranco il significato. Questo bel matto arrivato fra loro in costume adamitico e scarpe gialle era un Berlinese purosangue!... Er lebe hoch!
⁂
E fu in questo modo che la famigerata Wasserleiche — l’Annegata del Caffè des Westens — e la sua amica Mélanie salvarono la vita ad un valoroso ufficiale belga.
Ed è questa, probabilmente, l’unica buona azione ch’esse abbiano mai compiuta nella loro deplorevole e sciagurata esistenza.