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«E’ vivo!» esclamò.
L’altro a sua volta toccò la fronte del belga; poi ne sollevò la mano inerte per sentirgli il polso.
Inginocchiati accanto a lui gli versarono dell’acquavite in bocca; indi con tutti i mezzi noti alla scienza, muti, tenaci, persistenti lo contesero alla morte; dopo qualche tempo un tremulo soffio di vita alitò su quelle labbra cenericcie e le spente pupille azzurre oscillarono in uno sguardo vago.
I due tedeschi si rimisero subito in piedi. Finchè il belga giaceva svenuto col braccio attorno al collo del loro morto compagno, egli era per loro un eroe e un amico. Ora, vivo, con gli occhi aperti, era il loro nemico e prigioniero.
Gli rivolsero la parola, non scortesemente, in tedesco; poi, un po’ più bruschi, in francese. Ma quegli non rispose. Una stupefazione torpida lo teneva; sembrava paralizzato. Non poteva nè parlare nè reggersi in piedi. Allora lo sollevarono e lo posero sulla barella.
«Poveraccio,» mormorò il più giovane accomodandogli lungo i fianchi le braccia inerti, e indicando al compagno la manica dell’uniforme belga inzuppata di sangue tedesco. «Poveracci! Potevamo tralasciare di salvarlo. Per mandarlo