XII. La prova

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XI XIII

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XII.

La prova.

Quando la sala del Conservatorio fu gremita del solito pubblico che assiste tutti gli anni al saggio finale e gli allievi pronti al loro posto aspettavano che venisse il loro turno, Ippolito si concentrò tutto nella gran prova. Scolaro mediocre, aveva forse presunto troppo scegliendo un tema di così alto volo quale è il Cantico dei cantici; era questa almeno l’opinione della maggior parte de’ suoi condiscepoli. Egli no. Egli si sentiva calmo, grave ma calmo.

Zio Remo, che si era portato a Bergamo apposta per la solenne circostanza, gli aveva detto: «Dal momento che tu hai messo nel tuo lavoro tutto l’impegno di cui sei capace non devi temere di nulla. Il Signore ti aiuterà».

Il buon uomo era andato egli stesso, calmo e sereno, a collocarsi sulla balconata dove sogliono prender posto i parenti degli allievi, scegliendo il cantuccio più umile e meno in vista accanto ad una grossa matrona alla quale domandò scusa per il disturbo.

Il saggio si aperse con una suonata a quattro mani, al cembalo, eseguita da due signorine.

— Bravissime! — esclamò Remo quando ebbero finito. [p. 162 modifica]

E a tutti quelli che vennero dopo, allievi di violino, di canto, d’arpa, egli ripetè invariabilmente «Bravissimo!» con una gioia profonda di maestro avvezzo all’indulgenza, persuaso che bisogna incoraggiare, che bisogna compatire. Accompagnava l’applauso con un tentennamento del capo, sorridendo, con tutta l’anima affacciata ai dolci occhi rotondi.

— Ella ha qui un figlio? — gli chiese la matrona.

Rosso rosso, Remo rispose:

— Figlio no; non sono ammogliato. Ho un nipote, un caro giovine che studia per organista. È l’autore della composizione che daranno nell’ultima parte del programma.

— Ippolito Brembo allora!

— Precisamente.

— L’eroe dell’incendio? — fece la matrona: — Oh! ha già un nome celebre. È un buon principio.

Lo zio gongolava, ma per modestia non voleva mostrarlo; ed anche per non mortificare la matrona, la quale doveva pure avere qualcuno fra gli allievi, figlio o nipote, che non era ancora un eroe. Man mano poi che i pezzi eseguiti lasciavano più breve il tempo prima della comparsa di Ippolito, la sua bella serenità si veniva appannando di una commozione sentimentale che lo rendeva un po’ inquieto. È per [p. 163 modifica] questo che tamburinava, senza far rumore, sul parapetto della balconata, quasi accompagnando il ritmo della musica giù nell’ampia sala, e allungando e torcendo il collo con un movimento tra il comico e il patetico fissava ansiosamente l’uscio per il quale entravano gli allievi pensando: «Egli è là!»

Venne finalmente l’ultimo pezzo, preannunziato da un silenzio abbastanza lungo. Ippolito apparve pallido, cogli occhi che sembravano ancor più neri su quel pallore.

— Bello! — bisbigliò qualche fanciulla all’orecchio della compagna.

Egli sedette all’organo senza guardare nessuno, ma fin dalle prime note un’alta figura femminile, chiusa in veli bianchi, si rizzò contro la parete di fianco a lui. Ippolito non poteva scorgerne il volto protetto dal velo e dalla oscurità della sala in quel punto, eppure trasalì..., perchè l’aveva riconosciuta.

«O tu che l’anima mia ama» — intuonò la voce profonda dell’organo con una accentuazione così appassionata che parve agli astanti di udire lo spasimo di una voce umana. Tutte le sue forze centuplicate da quella apparizione vibravano con una foga insolita, sorprendendo gli allievi e i maestri che non vi erano preparati, sorprendendo lo stesso pubblico delle mamme e dei dilettanti avvezzi alle interpretazioni [p. 164 modifica] corrette ma accademiche dei saggi per esame.

Un brivido corse per la sala quando le note svolsero la frase: «Chi è costei che sale dal deserto simile a colonna di fumo profumata di mirra e d’incenso?»

Ippolito non si era mosso. Le sue mani scorrenti sulla tastiera sembravano incatenare a quella tutto il suo essere. Eppure egli sentiva senza vederla la bianca figura che palpitava a pochi passi da lui, ne indovinava la linea elegante sotto il vapore spumoso di veli. «Chi è costei che sale dal deserto» non era più una domanda nelle sue note potenti. Egli lo sapeva, egli lo affermava con un tremito di gioia: «Eccoti bella, amica mia, eccoti bella!»

Una delicata fioritura di note, simile ai misteri che si comunicano i nidi affondati nei boschi quando sorge su di essi l’aurora, interpretò la descrizione degli amori soavi come il miele nei dolci orti chiusi ove le fonti mormorano sommessamente. Si aveva l’impressione di udire il fruscìo delle ali fra gli alti steli tremolanti e il lento aprirsi delle rose sui cespugli languidi.

— Stupendo! — disse un signore seduto davanti a zio Remo: — Solamente, questa non è musica sacra.

Remo, che fin dai primi accordi non sapeva più in che mondo si trovasse, avrebbe voluto attaccar discorso con quel signore, ma, d’altra [p. 165 modifica] parte, la tema di disturbare fece sì che stesse pago a riguardare le vivaci approvazioni della matrona i cui occhi si atteggiavano ad una ineffabile espressione di rapimento.

Battagliera come uno squillo di tromba, la musica commentava ora le parole: «Lèvati, Aquilone! vieni, Austro!» Tutta la sala ne era scossa. I mantici dell’organo si sollevavano con un respiro da gigante e le arcate della volta apparivano anguste alla maestosa solennità della ispirazione che si levava sempre più alto. Quel filo diaccio che vibra nelle reni in certi momenti indescrivibili, che mozza il fiato e sospende i battiti del cuore, era l’impressione che provavano tutti.

Gli allievi del Conservatorio, in piedi, ascoltavano con attenzione intensa ed appassionata sentendo ognuno vibrare in quelle note i propri sogni: sogni di giovinezza, sogni d’arte, sogni d’amore e di gloria. Lo schietto entusiasmo de’ suoi compagni, frenato dal silenzio d’obbligo, giungeva pure a Ippolito indistinto e sottile, suscitandogli i primi palpiti d’orgoglio.

Ed era a Lei che Ippolito dedicava il suo trionfo, alla bianca figura di cui non scorgeva tutto il viso, ma con la quale comunicava per un segreto fluido magnetico. Quando colorì la frase: «Mettimi come un suggello sul tuo cuore, poichè l’amore è forte come la morte», la [p. 166 modifica] figura bianca ebbe un sussulto che si ripercosse in tutti i suoi nervi. Egli attaccò il finale con un vero delirio di passione e l’ultima nota non aveva ancor finito di vibrare che tutto il pubblico era già in piedi, inebriato, esaltato.

Nessuno ricordava un simile successo in quell’aula, perchè non trattavasi di un successo di scuola nè di insegnamento, nulla che somigliasse in alcun modo all’Accademia; si sarebbe forse discusso più tardi se quella fosse o non fosse musica religiosa, ma intanto il cuore del pubblico era stato ricercato e scosso come avviene solo quando il cuore di un artista lo solleva nei vortici della propria passione e gli comunica il suo ardore. Ancora una volta l’arte, la sublime benefattrice, raccogliendo un palpito vero lo imprimeva nel torpido cuore della folla aprendole le soglie dell’ideale.

Un battimano frenetico richiamò Ippolito che si era dileguato rapidamente. Dopo alcuni istanti riapparve col volto illuminato da un raggio così straordinario che tutte le donne presenti si sentirono impallidire. Egli non guardò che una sola, e questa volta i loro occhi, attraverso il bianco velo, si incontrarono in uno sguardo di fiamma.

— Ma sa che è un gran bel giovine suo nipote! — esclamò la matrona congiungendo le mani. [p. 167 modifica]

— Grazie: è sano — rispose Remo, cui tremavano le labbra per la commozione.

— E non mi ha l’aria di voler andare a suonar l’organo in chiesa, — aggiunse il signore che aveva già fatto una osservazione consimile: — No, perbacco! C’è stoffa di drammaturgo lì dentro. Scommetto che fra qualche anno il mondo sentirà parlare di questo Ippolito Brembo.

— Troppa indulgenza, troppa bontà! — si schermì ancora Remo nella sua invincibile modestia.

Ma per quanto fosse agguerrito contro il peccato della superbia, il brav’uomo sentiva pure le clamorose accoglienze fatte a Ippolito e quel batter delle palme l’una contro l’altra gli produceva un certo effetto singolare di tenerezza per cui gli venivano i lucciconi grossi come nocciuole.

— È una bella soddisfazione, — replicò la matrona appoggiando per simpatia il fazzoletto sugli occhi.

Giù, nella sala, le persone che non avevano visto bene il giovane trionfatore salivano in piedi sulle sedie, non stancandosi mai di richiamarlo. Liberato da costoro, gli allievi lo circondarono, chiassosi, vociferanti, assediandolo di domande. Ippolito rispondeva a tante dimostrazioni con brevi sorrisi, con qualche parola; ma [p. 168 modifica] la sua anima era altrove. Facendosi strada un po’ colla preghiera, un po’ colla violenza, raggiunse la corrente della folla che usciva lentamente dal portone. Nella stretta via una carrozza da nolo aspettava e verso quella si diresse la bianca apparizione che Ippolito inseguiva. Stava appunto per salire quando egli la raggiunse.

— Grazie! — mormorò con una voce che tremava d’amore.

Ella nulla disse, ma con un invito nello sguardo gli accennò il posto in carrozza vicino a lei.

Smarrito, inebriato, Ippolito stava forse per ubbidirla; quando si accorse di cento occhi fissi su di loro e fra quelli vide le pupille estatiche di zio Remo. Si inchinò allora profondamente.

— Alla stazione! — ordinò ella al cocchiere. E sparve.

Ma la curiosità eccitata si offrì da se stessa in pascolo delle congetture.

— Chi è quella bella creatura?

— È la contessa Colleoni.

— Ma che! È una forestiera.

— Una della colonia protestante.

— No, non si è mai vista in Bergamo.

— Mi pare la marchesa Belli.

— La marchesa è più vecchia. E poi sarebbe qui colla sua carrozza, non con una vettura da nolo. [p. 169 modifica]

Zio Remo non ascoltava queste ciarle per lui indifferenti. Aveva visto Ippolito mentre salutava rispettosamente la signora; ma il fatto, in quel momento, non gli parve di grande importanza. Appena la carrozza ebbe svoltato l’angolo, mosse direttamente incontro a suo nipote e gettandogli le braccia al collo lo baciò su ambedue le guance sonoramente. L’agitazione alla quale lo trovò in preda era troppo naturale perchè potesse destargli alcun sospetto. Non era egli stesso tutto tremante e commosso?

— Ippolito, caro figliolo, la benedizione di Dio è proprio scesa su di noi. Fatti animo. I giorni cattivi sono passati; ora che hai trovato la tua strada non ti resta che percorrerla sempre dritto. Che musica ispirata! Io non me ne intendo molto e non oserei giudicare, ma vedevo anche l’effetto che faceva sugli altri. E l’esecuzione! Santa Cecilia pregava certo per te. Bravo, bravo Ippolito mio...!

Ippolito, dopo di avere ricambiato i baci dello zio, se ne stava perplesso in mezzo alla strada, guardando in apparenza gli ultimi gruppi della folla che si andava sciogliendo, ma dando furtive occhiate al suo orologio.

— Hai finito qui, nevvero?

— Sì, credo.

— Allora andiamo a casa insieme. E Romolo che non brontolerà questa volta!... E Rosalba? [p. 170 modifica]Povera Rosalba, ha il sangue un po’ inacidito, ma non è cattiva. Festa oggi, festa!

Si erano avviati lentamente sul Mercato delle scarpe; Ippolito distratto, Remo guardandosi in giro se vedeva degli amici, delle persone di conoscenza, salutando per il primo ogni viso che non gli riuscisse del tutto nuovo, con un bisogno di espansione in cui sfogava l’esuberanza della sua gioia.

Il carrozzino della funicolare li trasportò in pochi minuti nella città bassa.

— Senti, — disse improvvisamente Ippolito, — io devo fare una corsa alla stazione per salutare un amico che parte. Mi aspetti al Caffè Centrale?

— Volentieri — rispose lo zio col suo più bel sorriso: — Già sarà questione di poco tempo; per via di Romolo: sai che è un po’ impaziente...

— Mezz’ora, zio, non di più.

Ippolito divorò più che non percorse il viale della stazione, portato dai mille desideri che i suoi vent’anni gli sollevavano intorno in quel giorno bellissimo della sua vita. Remo sedette a un tavolino del Caffè Centrale ordinando una tazza di birra.

Dopo le commozioni al Conservatorio il buon maestro trovò piacevole la semi-oscurità del caffè riparato da grosse tende di tela, coi [p. 171 modifica]tavolini pressochè deserti in quell’ora e i piccoli divani accantonati sotto le alte specchiere. Scelse, secondo il solito, il posto meno in vista, e bevendo a piccoli tratti la sua birra pensava che decisamente, se vi sono al mondo ore penose non mancano per compenso quelle della felicità. Una mosca ronzava intorno al suo bicchiere ed egli la mandava lontano senz’ira con un lieve movimento del fazzoletto, guardandosi dal farle male. «Poverina, ha diritto di vivere anch’essa!»

Il cameriere vedendo quell’avventore pacifico gli portò i giornali locali: La Gazzetta di Bergamo e il Giopì. Ma Remo si trovava in uno stato d’animo ideale che gli sarebbe parso di guastare con le misere questionelle della politica. Preferì dar fine alla sua birra, guardando alternativamente i rosoni del soffitto, le cornici degli specchi e le rare persone che passavano in quell’ora sul Sentierone, vedendo attraverso ognuna di queste cose il suo proprio nipote, Ippolito, quale era poco prima, seduto all’organo e traendo quei suoni divini che facevano andare in visibilio l’uditorio. Si provò anche a ripetere qualcuno dei motivi della composizione così tra sè e sè, senza dare nell’occhio, ma questo era più difficile.

La mezz’ora intanto era trascorsa. Remo pagò la birra e attese. Gli dispiaceva quel ritardo, [p. 172 modifica] non tanto per sè quanto per Romolo, che non poteva soffrire la mancanza di puntualità all’ora del desinare. E la strada da percorrere era lunga!

Per essere più pronto si portò sulla soglia del caffè, tenendo le pupille rivolte all’Arco dal quale Ippolito doveva rientrare in città. Così passò un’altra mezz’ora.

— Non capisco, — ruminava il buon uomo, le cui idee erano sempre molto semplici: — alla stazione ci si va in meno di dieci minuti. Il tempo di dire all’amico: «Addio, buon viaggio; zio Remo mi aspetta»: ed ecco fatto. Non vorrei gli fosse capitata una disgrazia....

Nello stesso tempo che il suo placido viso stava per rannuvolarsi, un signore entrando nel caffè gli battè amichevolmente sulla spalla chiamandolo a nome.

— Che miracolo al Centrale!

— Un miracolo davvero, — rispose Remo, riconoscendo un vecchio amico che non vedeva quasi mai per la differenza delle loro condizioni, della vita, delle consuetudini che li tenevano lontani.

— Esci o entri?

— Aspetto qualcuno... Ippolito... mio nipote.

— E non puoi aspettare dentro, dove si sta meglio, con questo caldo?

— Gli è che... [p. 173 modifica]

— Andiamo, via, dopo tanto tempo che non ci incontriamo! Che cosa fai a Bergamo? Ti credevo mummificato nel tuo villaggio. Bevi con me un bicchierino di Marsala.

— Ho già preso una tazza di birra.

— Benone. Il Marsala sopra la birra è indicatissimo.

— Ho paura che il vino mi riscaldi.

— Che pregiudizio! Quando il sole entra in leone bibit bibit cum pistone.

Al latino maccheronico dell’amico, Remo rispose internamente con un’altra sentenza: Semel in anno licet insanire, e si acconciò al disordine del vino di Marsala.

— Si può sapere quale buon vento ti ha condotto fra noi?

L’interrogazione diede agio a Remo di raccontare per filo e per segno il successo del nipote, nel quale argomento si addentrò con tanta compiacenza che alle due mezz’ore già trascorse se ne aggiunse una terza.

— Questo bisognerebbe beverlo alla salute di tuo nipote, — disse l’amico versando un altro bicchiere — alla sua carriera! al suo avvenire!

Come era possibile rifiutare? Remo non lo tentò neppure, quantunque non ne avesse mai preso in vita sua più che due dita alla volta. Ma il ritardo di Ippolito, intanto che lo zio beveva alla sua salute, diventava sempre più incomprensibile. [p. 174 modifica]

Partito l’amico, riconosciuto sull’orologio proprio e su quello del caffè che più di un’ora era trascorsa, il brav’uomo ebbe l’ispirazione di muovere incontro al disertore, e così, passo passo, guardando a destra ed a sinistra acciò non gli sfuggisse, prese lentamente il viale della stazione.

Il sole calava sull’orizzonte. Le vie e i negozi che avevano sonnecchiato fino allora nell’afa del pomeriggio si destavano a nuova vita. Una brezza soave veniva dalle Prealpi a smorzare gli ardori di quella calda giornata. Proprio allora Romolo doveva essere seduto a capo di tavola, col pugno serrato, il braccio ad arco, bestemmiando contro gli assenti.

E sul piazzale della stazione Ippolito non c’era; non c’era nell’atrio; non nelle sale d’aspetto; non sotto la tettoia. Non c’era, insomma.

Remo, cui i due bicchieri di Marsala avevano aumentato l’ottimismo corroborandolo con una certa dose di audacia, interrogò l’un via l’altro tutto il personale della stazione cercando notizia di suo nipote. Invano. Troppa gente va e viene da una stazione perchè se ne possa occupare.

Appunto era partito da poco il diretto per Milano che aveva ingombrato le sale di viaggiatori e se al momento si trovavano vuote ciò si [p. 175 modifica] spiegava col fatto che per due ore non partiva più nessun treno.

Queste delucidazioni, in apparenza molto chiare, lasciarono Remo più perplesso di prima.

O dove era allora Ippolito?

A capo chino, vedendo avvicinarsi una complicazione di avvenimenti in stridente contrasto colla letizia a cui aveva aperto l’animo, non volendo pensare che fosse morto o ferito, eppure tornando suo malgrado a una ipotesi tragica, rifece il viale della stazione verso la città. Passando davanti al lavoratore di marmi che offre al pubblico da tanti anni la sua triste merce di cippi funerari e di croci, Remo distolse gli occhi sospirando. Tra le massime che egli insegnava a’ suoi scolaretti non vi era anche quella che Dio permette il dolore accanto alla gioia affinchè non dimentichiamo di pensare alla eterna salute?

Ma che cosa doveva fare adesso? Dove cercare Ippolito? Dove appostarlo? Gli venne in mente di tornare al Caffè Centrale, caso mai si fossero incontrati senza vedersi e, invertendo le parti, suo nipote fosse là ad attenderlo. Il sentimento di soggezione che stava per impadronirsi di lui all’idea di doversi ripresentare nello stesso caffè gli fu per buona sorte alleviato subito dal cameriere che gli venne incontro ossequioso e sorridente: [p. 176 modifica]

— È lei il signore che attendeva il signor Ippolito Brembo?

Indeciso se dovesse rallegrarsi o tacere, Remo rispose con voce strozzata:

— Sono io.

— Ho una lettera per lei. La portò un facchino della stazione.

La lettera conteneva queste sole parole scritte a matita: «Non spaventarti, caro zio, non togliermi il tuo affetto se oggi non ritorno a casa. Ti darò poi la spiegazione a voce narrandoti tutto. Intanto perdonami e fammi perdonare. — Ippolito».

Remo lesse, rilesse, inarcò le ciglia, battè sul tavolino i polpastrelli delle dita, trasse un altro profondo sospiro e si persuase che per il momento non c’era proprio altro a fare tranne che prendere da solo la strada dell’ovile. Ciò che fece subito.

Era però un caso singolarissimo. Già tutta la giornata era stata singolare: il saggio al Conservatorio, quella musica, il successo strepitoso, gli applausi e poi... e poi... Male non voleva pensare assolutamente. Dal momento che aveva scritto non c’era da inquietarsi. Ma che cosa avrebbe detto a Romolo? Questo era il punto difficile. Per suo conto, dopo il terrore di una disgrazia, non gli pareva vero di saperlo vivo e sano. — Scappatelle di gioventù! — disse a [p. 177 modifica]se stesso con un sorriso quasi birichino. Invece di un amico saranno stati sette od otto; lo avranno circondato, stordito, che so io! Per ottenere la pace si sarà deciso di andare a pranzo con loro; un rifiuto, in seguito al trionfo d’oggi, poteva sembrare superbia. Dunque, pranzo, brindisi, qualche bicchierino di più...

A tal punto del monologo l’onesto pedagogo si sovvenne di avere egli stesso ceduto in quel giorno al bicchierino; e sorrise di nuovo, bonariamente, con una punta di malizia dove rilucevano le ultime gocce del vino di marsala. Bagattelle! Bagattelle!

Con tale grido e roteando leggermente la canna si presentò sulla soglia della cucina dove la servetta rimase a bocca aperta a contemplarlo.

La faccenda camminò meno liscia, anzi si guastò addirittura, quando dovette annunciare a Romolo che tornava solo. Come non bastasse il ritardo, anche solo doveva essere? E dove si trovava, poi, Ippolito? A questa domanda categorica Remo non poteva rispondere in verun modo, ma si ingegnò a descrivere l’aspetto del Conservatorio riboccante di gente, il successo della composizione, gli applausi, l’entusiasmo, la gloria futura...

— Dov’è Ippolito? — ruggiva il colosso al colmo del malumore. [p. 178 modifica]

Ricondotto al passo, fatale come un bambino davanti alla medicina amara, Remo dovette rassegnarsi a narrare per filo e per segno lo svolgimento dell’avventura tra le bestemmie di Romolo e le esclamazioni ironiche di Rosalba.

— Ma lo hai visto, tu, questo amico? — domandò Romolo.

— No, non l’ho veduto.

— Siete usciti insieme dal Conservatorio? Ha parlato con qualcuno?

— Insieme proprio no, ma quasi. Egli era davanti a me e si fermò a salutare una signora.

— Una signora? — garrì subito Rosalba — Chi era?

— Questo non so. Una signora vestita di bianco, in carrozza.

— Bella? Giovane?

Remo si fermò un istante a raccapezzare le idee e poi rispose con una esplosione ammirativa nella quale il suo spirito travagliato parve rifugiarsi come in una oasi di pace:

— Un sole!

Rosalba allora uscì fuori nella più stridula risata che potesse offendere un cuore sensibile, e mentre Remo, mortificato, non sapeva in qual modo interpretarla, vi aggiunse questo corollario:

— Ecco l’amico. Bisogna proprio essere uomini, e avere studiato, e insegnare agli altri [p. 179 modifica] sui libri stampati per non comprendere mai nulla della vita.

— Sarebbe a dire? — balbettò Remo.

— Dico che un giovanotto non svapora così da un momento all’altro senza che ci sia di mezzo una donna. Non l’avete ancora capita? Era Lei!

Ma non contenta di vincere, Rosalba volle aggiungere il calcio dell’asino e disse col suo accento più spregiativo:

— Il vampiro!!

— Oh! vampiro poi no — protestò lo spirito cavalleresco di Remo: — è troppo bella.