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— È lei il signore che attendeva il signor Ippolito Brembo?
Indeciso se dovesse rallegrarsi o tacere, Remo rispose con voce strozzata:
— Sono io.
— Ho una lettera per lei. La portò un facchino della stazione.
La lettera conteneva queste sole parole scritte a matita: «Non spaventarti, caro zio, non togliermi il tuo affetto se oggi non ritorno a casa. Ti darò poi la spiegazione a voce narrandoti tutto. Intanto perdonami e fammi perdonare. — Ippolito».
Remo lesse, rilesse, inarcò le ciglia, battè sul tavolino i polpastrelli delle dita, trasse un altro profondo sospiro e si persuase che per il momento non c’era proprio altro a fare tranne che prendere da solo la strada dell’ovile. Ciò che fece subito.
Era però un caso singolarissimo. Già tutta la giornata era stata singolare: il saggio al Conservatorio, quella musica, il successo strepitoso, gli applausi e poi... e poi... Male non voleva pensare assolutamente. Dal momento che aveva scritto non c’era da inquietarsi. Ma che cosa avrebbe detto a Romolo? Questo era il punto difficile. Per suo conto, dopo il terrore di una disgrazia, non gli pareva vero di saperlo vivo e sano. — Scappatelle di gioventù! — disse a