Una passione/XI
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | X | XII | ► |
XI.
Amore.
Ippolito non si capacitava di avere rivelato con tanta franchezza a zio Remo un sentimento che non gli era ancora riuscito di confessare a se stesso. Ma era anche singolare che Remo glielo avesse domandato, per cui la sua risposta affermativa si perdeva in uno di quegli impulsi irragionevoli ed irragionati che sfuggono all’analisi. Non si pentiva nemmeno dello scatto spontaneo, conoscendo il candore di Remo e l’uso prudentissimo ch’egli avrebbe fatto della confidenza; ma, a guisa di suggello levato che apre l’adito al liquore nascosto, quella dichiarazione recisa fatta ad un altro non gli permetteva più di conservare l’inganno verso se stesso. La benda era caduta, vedeva chiaro oramai nel suo cuore.
Nato in circostanze eccezionali il suo sentimento per una donna sconosciuta, che forse non avrebbe neanche mai tentato di avvicinare, restò per i primi tempi nel limbo dei sogni, aiutato dalla lontananza e dall’indole sua poco intraprendente che ne faceva un contemplativo più che un uomo di azione. Quel soave profumo di donna giunto fino a lui in una busta immacolata, quel mistero fantasioso di due anime comunicanti senza il tramite del corpo, gli riusciva nuovo e simpatico. La sua vagabonda immaginazione di artista, imprigionata ancora tra veli, spaziava in questo mondo della chimera che riconosceva per un segreto intuito e di cui cercava, nell’ombra, i verdeggianti sentieri.
Quando però la splendida creatura gli era apparsa con tutti i fascini della più squisita femminilità, in quel primo sguardo ricambiato in cui egli aveva sentito trasalire tutte le sue viscere, la gran fiamma della passione era divampata subitamente. Vedeva in Lei l’ideale della donna, una di quelle potenti regine che con un solo sguardo trasformano un fiacco in eroe, una di quelle sante giovani, belle e ardenti, che entusiasmano, una di quelle fate che avevano sorriso alla sua immaginazione di fanciullo. Quante volte aveva sognato di conoscere uno di questi esseri straordinari, quanto tempo l’aveva cercata senza trovarla! Ed ora avrebbe voluto baciare lo strascico del suo vestito, abbracciare stretto qualche oggetto suo e aspirarne l’olezzo e piangere di gioia. Si svegliava qualche volta al mattino con l’impressione di avere avuto una improvvisa fortuna, e tutto gli sembrava bello, e cantava, e avrebbe voluto trovarsi in un luogo chiuso, romito, per pensare a Lei senza occuparsi più di nulla, per ricordare esattamente il colore de’ suoi occhi, la forma delle sue labbra, la sua andatura meravigliosa. Che cosa voleva? Che cosa sperava? Non se l’era mai chiesto, ma avrebbe voluto stare con Lei eternamente.
Per quanto egli non avesse incontrato fino allora una donna così fulgidamente bella come Lilia, non era di sola bellezza che si componeva il suo fascino e quel corollario appunto di grazia e di intelligenza che accompagnava ogni suo gesto, ogni suo motto, era il gran segreto delle passioni profonde che sapeva ispirare, che si protraevano al di là del desiderio. E Ippolito al desiderio non era giunto ancora, chiuso nella torre d’avorio della sua selvaggia giovinezza a cui facevano baluardo le credenze religiose, le abitudini di famiglia, l’eredità di tradizioni patriarcali. Vederla, ascoltarne la voce, scrutare i suoi pensieri, cogliere a volo i suoi sorrisi, trattenere nella retina degli occhi la sua immagine tutta intera talchè, chiudendo le palpebre, gli sembrava di serrarla sul cuore, per lungo tempo furono queste le sue gioie.
L’impegno seriissimo dell’esame non gli permetteva di andarla a trovare durante il giorno. Non era che dopo le lezioni, col lento treno delle sedici che egli lasciava Bergamo, accontentandosi di un pranzo sommario per recarsi in quella recondita via Palestro, una delle più tranquille e delle più dimenticate nella rumorosa Milano moderna. Arrivava che erano quasi le venti; doveva accontentarsi di un’ora sola di felicità se voleva riprendere l’ultimo treno delle ventuna e venticinque che lo riconduceva a Bergamo. Ma quest’ora conquistata con tanto disagio e così rapidamente trascorsa non gli bastava più. Alla muta contemplazione dei primi tempi, che tanta dolcezza gli infondeva nel cuore, veniva sostituendosi una inquietudine, un malessere, un contare tormentoso dei minuti che fuggivano, uno scontento di sè che arrivava qualche volta ad una specie di rabbia sorda dove anche il sentimento dell’ammirazione sembrava intorbidarsi di nuove correnti occulte.
Sintomo grave del rivolgimento che stava compiendosi in lui si accorse di provare, dapprima inavvertita, poi via via crescente e indomabile, una insofferenza degli amici, degli adoratori, di tutto quel circolo prono davanti a Lilia, intento a carpirle uno sguardo, una parola; specie di Corte dove ognuno occupava un posto in ordine gerarchico e che si rinnovava di sempre fresche reclute. Il privilegio a lui concesso di intimi colloqui sul verone, quegli istanti incantevoli di voluttà e di poesia in cui più che vederla se la sentiva accanto, bianca visione, per lui, solo per lui, intanto che gli altri ciarlavano e ridevano nell’interno delle sale, quel privilegio che lo aveva reso fiero fino allora, gli acuiva adesso la disperazione di lasciarla mentre appunto tutto il suo essere vibrava del fascino di lei, e là, su quel verone, avrebbe voluto che incominciasse l’eternità.
Quante volte egli scendeva da Bergamo alta con un programma di audacia che andava svolgendo nello stretto vagone della funicolare, crescendolo lungo la strada fino a raggiungere le iperboliche proporzioni di una dichiarazione di amore!... Sì, era deciso a questo. Languiva, moriva, aveva bisogno di parlare, di dirle tutto! Ma giunto in quelle sale eleganti, sotto la luce delle lampadine elettriche sboccianti tra i fiori, di fronte alla siepe degli uomini vestiti di nero che lo guardavano d’alto in basso reprimendo per mera civiltà un sorriso ironico, tutto il suo coraggio sfumava. C’era l’oasi del balcone, è vero, ma anche là le ciarle vane, le risate importune, le apparizioni sulla soglia, il dubbio continuo di essere interrotto lo perseguitavano, avvelenandogli la preziosa brevità degli istanti concessi.
Una volta scrisse: scrisse che detestava la sua casa, la sua società, quelle visite misurate, quella gioia fuggevole, la lontananza, gli ostacoli, il mondo, tutto tutto ciò che si frapponeva tra loro due. Ma la lettera era riuscita troppo violenta; la stracciò, non fu capace di rifarla, e il giorno dopo le stette vicino muto, iroso, incomprensibile, quasi stupido, quasi villano: pazzo d’amore e di disperazione.
Lilia un po’ intendeva e un po’ s’arrabbiava. Abituata al dominio assoluto avrebbe preteso che anche Ippolito prendesse il suo numero nella schiera degli imploranti e si adattasse agli usi ed ai capricci che regolavano il piccolo regno. Quel bellissimo giovine così diverso dagli altri le piaceva immensamente, ma non le veniva ancora l’idea di sacrificargli le sue abitudini, quantunque a volte sentisse anche lei il tedio delle relazioni convenzionali e degli amori stereotipati. Il peggio era che nelle ore febbrili dell’attesa ognuno si fabbricava secondo il proprio desiderio lo stato d’animo che avrebbe voluto nell’altro, e non trovandolo conforme al piano immaginato si arrestava nello slancio, si perdeva nelle ipotesi, taceva, sembrava freddo, e intanto l’ora passava inesorabilmente.
Un amante di più? No, non era questo che Lilia voleva. Una relazione sentimentale nemmeno, perchè Lilia non era sentimentale; ma capiva pure che una brusca risoluzione avrebbe compromesso quell’incanto delizioso di un amore quale le era apparso lontanamente nei sogni dell’adolescenza, che non aveva incontrato mai prima d’ora, che la lasciava dubbiosa come dinanzi ad un nuovo congegno di cui non si conosce il meccanismo. Perchè Ippolito non le aveva mai chiesto di restare quando gli altri partivano? Ella avrebbe concesso sì o no, ma perchè egli non lo chiedeva?
I calori di luglio intanto erano scesi torrenziali sulla città, nè Lilia accennava a muoversi. I suoi amici non rinvenivano dalla sorpresa. Ancora a Milano in luglio? Una cosa mai vista.
— Oh! guardate, — le disse una sera il giornalista: — avrei scommesso di non trovarvi più coi trentaquattro gradi che abbiamo fatto oggi.
— E dove volevate che fossi?
— Che so io! magari a Bergamo...
Lilia si morse le labbra. La situazione diventava intollerabile, e per vendicarsi della malignità del suo antico adoratore raddoppiò sull’istante le premure verso Ippolito.
Il povero giovine si sentiva impazzire sotto gli sguardi di Lilia. Fra i due tormenti dell’esame e dell’amore la sua vita passava in un continuo struggimento. Don Peppino ripeteva ogni tanto a chi lo voleva ascoltare una certa strofa pescata chi sa dove e che egli sapeva condire colla sua bonomia ambrosiana:
Amor ciarliero è gioco
Che fa molto baccano e dura poco.
Amor silente è fuoco
Che cuoce la vivanda, il piatto e il cuoco.
Ma gli alberi dei boschetti lo sapevano un loro segreto che si rimandavano dal castano al tiglio, essi che proteggevano le notti ardenti di Ippolito, poichè non gli era più possibile distaccarsi da Lilia dopo un’ora sola di colloquio ed ormai aveva preso il partito di rimanere fino all’ultimo istante. Le giornate caldissime facevano prolungare la sera nell’appartamento simpatico, elegante, tutto fiorito. Lilia non lasciava il balcone prima della mezzanotte, e quando, licenziati gli amici, in molle accappatoio, coi bei capelli sparsi, prendeva ancora una boccata d’aria fresca affacciata al davanzale, non vedeva l’appassionato amante nascosto fra gli alberi, ma forse era il desiderio di lui irrompente, frenetico, che saliva a darle sì acute vertigini?... All’alba poi, mentre ella riposava nel morbido letto, Ippolito correva a Bergamo colle occhiaie dell’insonnia nel volto pallido e colla febbre nel sangue.
Fu in questo stato di violenza che egli compose il suo saggio per l’esame, ispirato al Cantico dei Cantici, dal quale aveva preso i passi più poetici e più profondi:
«O tu che l’anima mia ama, dimmi, ove pasturi la tua greggia?
«Rosa di Saaron, giglio delle valli, giglio tra le spine, tale è l’amica mia tra le fanciulle.
«Chi è costei che sale dal deserto simile a colonna di fumo profumata di mirra e d’incenso?
«Eccoti bella, amica mia, eccoti bella! Tu sei tutta bella e non vi è difetto alcuno in te.
«Quanto son belli i tuoi amori, o sposa, o sorella mia! Le tue labbra stillano miele. Tu sei un orto serrato, una fonte chiusa.
«Lèvati, Aquilone! vieni, Austro! spirate per l’orto mio e fate che i suoi aromi stillino.
«Mettimi come un suggello sul tuo cuore, come un suggello sul tuo labbro, poichè l’amore è forte come la morte.
«O tu che dimori nei giardini, amica mia, sposa mia, i compagni attendono la tua voce. Fammela udire!»
Con Lilia parlava qualche volta de’ suoi studi, ma essi erano troppo mescolati al suo amore perchè la discussione potesse svolgersi serena.
— A quando gli esami? — domandò lei.
— Dovrebbero essere in agosto, se pure non anticipano per ragioni d’igiene.
E poi? Al poi non pensavano nè l’uno nè l’altra. Era sceso su di essi il velo incantato che sottrae gli amanti a tutte le considerazioni umane. Appena Lilia resisteva ancora alla paura del ridicolo per uno squisito senso di signorilità che si sposava nel suo temperamento a un perfetto equilibrio di mente. Sentiva il peso di tutti quegli occhi aperti su di lei, di tutte quelle curiosità intente a spiarla, di tutte quelle invidie o gelosie pronte a coglierla in fallo; nello stesso tempo che l’ingenuo ardore di Ippolito la sospingeva verso una forma d’amore il più possibilmente vicina alla perfezione.
Una domenica era capitato improvvisamente a metà della giornata. Trovò Lilia sola al piano; essendo entrato, senza farsi annunziare, si fermò sulla soglia ad ascoltarla, e fu sorpreso della di lei virtuosità. Aveva un tocco che avrebbe fatto la fortuna di un pianista di professione. Glielo disse, ed ella arrossì al complimento con una modestia da educanda, levandosi in piedi di scatto. Era vestita di una sottilissima mussolina color di cielo con maniche aperte fino alla spalla, ricadenti lungo il fianco a guisa di ali in riposo, ed aveva alla cintura un mazzo di gelsomini. Ippolito credette di vedere un angelo.
Ma come parlare, come, se il sangue gli affluiva a fiotti verso il cuore e si sentiva nello stesso punto di fuoco e di gelo?
Andarono a sedere sul divanino, su quel divanino dove per abitudine non sedeva che lei e che parve a Ippolito una iniziazione alle gioie del paradiso. In qual modo osò prenderle le mani, e stringergliele, e coprirle di baci? Eppure ciò avvenne, e la memoria di quei primi baci timidi, quasi furtivi, doveva seguirlo a lungo con un prolungamento di ebbrezza nei sogni.
Finalmente si trovavano soli e quantunque non si avverasse nessuna delle scene deliranti che egli aveva tante volte immaginate, era pure una delizia sovrumana quella di sentirsela così vicina, tutta per lui, cogli occhi volti a lui solo, attenta, avida, fremente, col busto eretto e tuttavia molle a guisa di calice dischiuso. Ad ogni lieve movimento percepiva lo scricchiolìo della seta nascosta sotto i veli e gli veniva insieme dall’intimo mistero della bella persona un delicato effluvio ignoto come di fiore senza nome. Vedeva le sue mani per la prima volta o almeno gli sembrava che fosse la prima volta; certo non le aveva mai vedute così bene. Erano mani lunghette, sottili, agili, aristocratiche, dalle tinte sfumate della madreperla. Egli ne osservava le dita ad una ad una mentre ad una ad una le baciava religiosamente, con un fervore da devoto e insieme una grazia di fanciullo che faceva sorridere Lilia. Ella aveva all’anulare della sinistra una magnifica turchese oblunga circondata di brillanti. Ippolito la guardò per un istante ed ella la posò in una coppa vicina dicendo con un sorriso enigmatico:
— Potrebbe pungerla, non voglio.
All’urto lieve delle braccia i gelsomini che aveva alla cintura le caddero in grembo. Ippolito li raccolse tutto tremante, in estasi.
Fu lei che dovette avvertirlo del tempo che passava, lei padrona, sicura di sè, lei che sapeva ogni gioia protratta e rapita all’ingorda rapacità dell’attimo una promessa di voluttà future più intense.
— Fanciullo!
Così disse Lilia a Ippolito che si chinava un’ultima volta a baciarle le dita ad una ad una. Ed egli si raddrizzò cogli occhi spalancati, quasi volesse accogliere dentro alla pupilla la vaga immagine della donna sorridente nella sua gloria.
Non vide la scala, non vide la strada. Mai in tutta la vita si era sentito tanto felice. Era un delirio pazzo, sfrenato. Avrebbe voluto abbracciare tutti, fare tutti contenti e felici come lui; gridare di giubilo, cantare un inno di grazia. Chi gli avrebbe detto un giorno che si potevano gustare nel mondo simili gioie? Era dunque l’amore, era l’amore!
Il passato, l’avvenire, l’esistenza, la società, il mondo intero, che valore avevano oramai? Tutto spariva. Non restava che Lei. Chiudeva le palpebre e se la sentiva vicina col suo profumo inafferrabile che lo avvolgeva in un’onda di dolcezza, e la vedeva, terribilmente bella, nella sua linea di stelo fiorito su cui due astri si erano posati come ad un convegno di tutte le bellezze.
Sfibrato, sfinito, tentò invano quella sera di dormire. Dormire erano ore perdute per la felicità; meglio abbandonarsi ancora all’ebbrezza dei ricordi e fantasticare e affogare in quel mare di sogni. Quando l’alba entrò nella sua camera, chiese a sè stesso se non fosse vittima di una allucinazione. Aveva sognato? Perchè il cuore gli batteva così forte? Perchè il sangue sembrava tumultuare nelle sue vene? Era vero, era vero ch’ella lo amava?
Contro ogni aspettativa ricevette una lettera di Lilia il giorno dopo. Poche parole appena che gli annunciavano una assenza improvvisa, senza dire dove; ma per compensarlo gli mandava un pezzetto del nastro celeste che ella aveva alla cintura l’ultima volta che si erano visti e che odorava ancora di gelsomini.
Per quanto fosse gentile il messaggio, Ippolito sentì darsi una stretta al cuore. Che cosa era egli per quella donna? Quale vincolo li univa?... Tutta la sua gioia cadde d’un colpo. Era dunque niente altro che una illusione?... Eppure l’amava, l’amava da impazzirne, da morirne; e questo amore cresceva disperatamente di giorno in giorno, d’ora in ora, di minuto in minuto. Sentiva di non poter più vivere lontano da lei, e sentiva anche che non gli bastava più starle vicino in attitudine di amico. Gli era venuta una frenesia di abbracciarla, di stringerla al petto, quasi così facendo potesse tenerla avvinta per sempre e non lasciarla più, non staccarsene più.
Pazientò quattro giorni, poi corse a Milano. Lilia non c’era. La portinaia non sapeva nulla. Fece il giro della casa, vide le finestre tutte chiuse, chiuso il balconcino dove aveva passato tanti istanti felici: vide la panchina sotto i boschetti, testimonio delle sue notti ardenti, e gli venne un groppo alla gola, un sentimento vago di abbandono e di terrore quale deve provarlo un bambino perduto in una città sconosciuta. Roventi ed amare alcune lagrime gli inumidirono le palpebre.
Ora sì l’amore gli si manifestava in tutta la sua potenza di Iddio crudele; l’aculeo gli era penetrato fino in fondo alle carni e lavorava profondamente. Invano faceva sforzi per scacciare coll’occupazione quel continuo tormento dell’attesa. Leggeva, pensava, scriveva; ma credeva di leggere, di pensare, di scrivere: in fondo al suo pensiero non c’era che Lei. Una sola era la ispirazione: Lei! Sempre Lei che lo circondava, lo accecava, lo inebriava, lo induceva a parlare da solo come un pazzo, a invocarla nel cuore della notte: «Lilia! Lilia! sono tuo. Non vi è nulla ormai al mondo che io tema, nulla che mi spaventi, nulla ch’io ricordi, nulla ch’io brami, nulla ch’io debba, nulla ch’io senta, nulla ch’io creda. Tu! Tu! Tu!»
· | · | · | · | · | · | · | · | · |
La sera prima dell’esame prese una forte dose di cloralio per poter riposare qualche ora.