XIII. Ore felici

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XII XIV
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XIII.

Ore felici.

Lilia aveva detto a don Peppino: «Vendetemi, affittatemi o prestatemi quella vostra vecchia casa in fondo al lago: mi occorre subito». Don Peppino aveva risposto inchinandosi alla signora col garbo di un paladino antico: «È a vostra disposizione». E fu così che pochi giorni dopo questo contratto punto difficile Lilia e Ippolito prendevano posto sul battello a vapore [p. 180 modifica]che salpava da Como in uno splendido mattino di agosto.

Appoggiati al parapetto dell’ultima piattaforma, date le spalle ai curiosi, i due felici si sprofondavano in un bagno d’azzurro sospesi tra acqua e cielo, assolutamente immemori dell’universo. Che importava loro delle splendide ville sparse sulle due rive? dei crocchi eleganti convenuti intorno agli scali più alla moda? Appena se i loro occhi fissandosi sopra qualche sandolino solitario facevan loro desiderare l’intimità di quel piccolo nido a fior d’acqua. Allora Ippolito diceva:

— Anche noi, nevvero?...

E la risposta di Lilia, che stava col braccio nel suo braccio, era una stretta più forte e più tenera.

Quella specie di fuga che aveva tutte le dolcezze di un viaggio di nozze dopo il mese snervante trascorso — lui col martoro degli esami, lei nella noia della città spopolata — li riempiva di una ebbrezza giovanile e innocente che aggiungeva vigore a quell’altra ebbrezza della passione ricambiata. Per Lilia era il rinnovamento più fresco e più puro di altri amori; ma per Ippolito era il primo amore, il fiore unico che profuma tutta l’esistenza, che ne decide quasi sempre il corso. Nessuna immagine poteva meglio rispondere al suo stato d’animo di quel [p. 181 modifica]battello vigoroso solcante i flutti di un magnifico lago sotto un cielo d’estate senza nubi. Ed egli era felice della felicità immensa che consiste nel dimenticare tutto il creato, e la vita, e la morte, per dare le più intime vibrazioni dell’essere alla voce occulta che dai misteri dell’avvenire ci chiama a sè. Momento divino nell’esistenza di chi è destinato a perire.

Per quanto cercassero di nascondersi formavano fra tutti e due una coppia troppo rara al piacere degli occhi perchè i passeggieri non li avessero presi di mira fin dal loro primo apparire a bordo. Per un capriccio di Lilia che Ippolito aveva accettato senza discutere, vestivano entrambi un leggero abito di lana bianca con una cravatta celeste e un cappello canottiero di paglia bianca fasciato di celeste. Così giovani, così belli, questa eccentricità che tuttavia non usciva dalle norme del buon gusto li faceva meglio ammirare. Tutti li prendevano per due sposini forestieri. Solo un signore che conosceva Lilia, che ne era da lungo tempo tacito ed ignoto ammiratore, si domandava con sorpresa come facesse la deliziosa donna a dimostrare quel giorno sedici anni appena; e insieme al suo desiderio saliva, verso i due felici, da ognuna delle persone che si trovavano sul battello il palpito immutabile che nei cuori umani traccia due solchi ben distinti secondo il diverso modo di sentire; l’ammirazione o l’invidia. [p. 182 modifica]

— Ti amo, ti amo! — mormorava Ippolito cingendo colla mano impaziente la sottil vita di Lilia.

Uscendo dal bacino di Como, mentre il battello lambiva la terrazza di un giardino, un profumo acuto e voluttuoso fece sollevare a Ippolito le nari frementi.

— È l’olea fragrans, — disse Lilia, — il profumo speciale di questo lago. — E mostrò a Ippolito che non lo conosceva il fiorellino bianco aggruppato sugli alberelli dal lucido verde di smeraldo.

— Soave profumo! — mormorò il giovine seguendo con occhio di rimpianto gli alberelli che sparivano insieme alla riva.

— Ne troveremo ancora — aggiunse Lilia: — il lago ne è pieno.

Una nuova scoperta intanto colpiva Ippolito. Erano tutti quei nomi di donna scritti sulle ville, sulle piccole case, dovunque sporgesse la fronte di un tetto; nomi dolci, misteriosi, che apparivano a un tratto sul fondo bianco o roseo della facciata e subito sparivano inabissandosi tra il fitto fogliame, lasciando nella mente una curiosità vaga di bellezze nascoste, di amori rinchiusi...

— Oh! amarsi, qui, per sempre! Per sempre, Lilia!

Ella non rispose subito, chinandosi a toccare [p. 183 modifica]l’acqua colla punta dell’ombrellino, quasi volesse scrivere sulla mobile superficie un motto noto a lei sola, ma poi, sollevando la testa, sorrise al giovine amante.

Egli guardava l’orecchio di Lilia, piccolo, delicato, di una trasparenza rosea di perla orientale, provando il furioso desiderio di baciarlo; ma non osava. Sfiorò allora colle dita il velo bianco che cingeva il di lei cappello, col pretesto di accomodarlo, per sentire il fresco tepore di quell’orecchio; ed ella non cessava di sorridere colla bocca e cogli occhi, trascinata dallo stesso desiderio, sfidandolo quasi per accrescere l’intensità dell’ebbrezza che li dominava. E veramente, a guisa di ebbro che si appoggia al primo albero che incontra per non cadere, Ippolito tese il braccio verso un gruppo di case grige e nere appollaiate in aspetto di gufo, sulle asprezze della roccia:

— Nesso — fece Lilia.

Forse un raggio di sole passò in quell’istante fra i capelli di Lilia rendendoli più brillanti, forse fu una pozzetta nuova che si incavò nella sua guancia o una attitudine di eleganza raffinata e di civetteria profonda che diede le vertigini a Ippolito. Colla mano che teneva la bella vitina se la strinse improvvisamente contro il petto e il bacio, sospeso fino allora nell’aria scottante, cadde. [p. 184 modifica]

Una fanciulla brutta li stava guardando colle pupille imbambolate...

— Andiamo! — fece ancora Lilia, mettendo nell’accento una nota di severità quasi materna come l’hanno spesso le donne quando sentono tremare nella loro piccola mano la volontà di un uomo.

— È un supplizio, — mormorò Ippolito.

Ella si mosse, languidamente, colla sua maestà di giovane dea:

— Chi mi ama mi segua.

Scesero nel salotto deserto, dove lo specchio riflettendo la figura di Lilia parve animarlo ad un tratto e diffondervi una sùbita eleganza.

— Si sta meglio qui. Fuori c’è troppa luce.

Gli occhi neri di Ippolito scintillarono alla dolce bugia mentre rispondeva:

— Sì, si sta meglio.

Sedettero sul divano circolare, accanto all’entrata; così coloro che passavano non li potevano vedere. Avevano davanti un tavolino, dietro la minuscola finestretta che dava sul lago, intorno nessuno. Con un po’ di fantasia giunsero a credersi soli in un loro salotto, tanto la volgarità del ritrovo pubblico e degli oggetti comuni a tutti spariva, si idealizzava in quell’onda ardente dove la più piccola sensazione aveva un polso di febbre. E parlavano poco, a monosillabi, con una assenza assoluta di pensiero, sentendo che [p. 185 modifica]non era il momento di dir tutto e che era inutile parlare fuori di quel loro stato d’animo che trovava la maggior perfezione nel silenzio.

Stavano vicini vicini sullo stretto divano, le mani intrecciate, toccandosi colla spalla e col ginocchio attraverso il morbido tessuto della lana bianca che cedeva così dolcemente alla pressione. Guardando dal finestrino vedevano passare ancora ciuffi di olea fragrans e nomi di donna scritti sulle ville, luccicanti al sole tra il barbaglio dei vetri e del metallo dorato, oppure nascosti fra colonne d’edera quali giovani ninfe pudiche. Da una tenda sollevata, dallo sporto di un terrazzo appariva talvolta la visione di una chioma disciolta, di un braccio nudo o lo svolazzo di una sottana agitata nell’aria, e la visione fuggiva, rapida, lasciandosi dietro un solco di mistero.

Passata la punta di Balbianello, a sinistra, nel giardino di una grande casa colle persiane verdi, una giovinetta vestita di rosa passeggiava con un libro in mano. I due innamorati guardarono la leggiadra figurina e senza comunicarselo ebbero la stessa domanda in fondo al cuore: — Sarà ella mai felice come noi?

A Tremezzo, Lilia cercò collo sguardo un’altra casa dove aveva villeggiato un anno coi suoi genitori, quand’era bambina, e fu sorpresa di non provare la menoma commozione; aveva pensato dapprima di mostrarla a Ippolito, ma giudicò [p. 186 modifica]che non ne valesse la pena. Tutto ciò che esisteva prima del loro amore, esisteva veramente?

La maestosa ampiezza del lago in vista di Bellagio li avvinse ancora per un istante tenendoli stretti davanti al finestrino, ma il tepore dell’omero di Lilia dava troppo alla testa del giovine, a cui ogni attenzione concessa agli oggetti esterni parve un furto fatto all’amore e da quell’istante non si mossero più, non guardarono più nulla, assorbiti, annientati nell’esuberanza della gioia di vivere.

Quando discesero a una delle ultime stazioni del lago avevano l’aria di uscire da un sogno. Un uomo metà domestico metà campagnolo, più campagnolo forse, ma che per la circostanza si era messo i suoi abiti migliori, li stava aspettando e si annunciò subito per il custode della villa. Lilia, che fu la prima a rimettersi dall’amoroso stordimento, gli domandò dove fosse questa villa.

— Eccola là!

Si vedeva subito, bianca di un bianco carnicino, eretta ad una certa altezza sopra il lago e circondata da un fitto viluppo di alberi d’ogni specie.

— Dieci minuti di strada, — disse l’uomo precedendoli sopra un sentiero di erbe e di sassi che saliva sul fianco della montagna.

Le rive del lago in quel punto ampie, quasi [p. 187 modifica] severe, si distendevano ad anfiteatro accogliendo rare abitazioni collocate a molta distanza fra di loro. Non era più l’aspetto gaio e civettuolo del bacino di Como, ma veramente quella solitudine romantica descritta una volta da don Peppino.

— Siamo finalmente fuori del mondo! — esclamò Lilia correndo e battendo le mani: — Smanio di vedere il nostro rustico nido.

— Qui — disse l’uomo, arrestandosi dinanzi ad un piccolo cancello di ferro dietro al quale saliva una lunga scala erbosa tracciata nel vivo sasso, perdentesi nella massa degli alberi.

— Qui? Curiosa entrata per una villa, ma graziosissima dopo tutto. Sembra di andare in un bosco. Vedi tu qualche cosa che rassomigli ad una villa, Ippolito?

Ippolito non vedeva altro che la snella persona di lei la quale sembrava volare su per la scala; la raggiunse con un salto. Allora Lilia si pose a correre più veloce ed egli a inseguirla, finchè giunsero in cima colle guance infiammate e gli occhi scintillanti del nuovo piacere.

Un fabbricato largo e basso, non molto simmetrico ma dall’apparenza comoda e signorile, stava dinanzi a loro, coi muri di un bianco carnicino, il tetto di embrici all’antica e i fumaioli in forma di torre. Ippolito cercò istintivamente un nome sul frontone. [p. 188 modifica]

— Il nome non c’è, — disse Lilia: — tanto meglio. Sarei stata un po’ gelosa.

— C’è l’olea fragrans! — gridò Ippolito con accento di trionfo.

— Ed è l’importante, — aggiunse Lilia con gravità.

Fioriva l’olea in quantità straordinaria. Ippolito ne prese d’assalto una pianticella e ne colse tanta da infiorare tutta l’amata.

— «Eccoti bella, amica mia, eccoti bella!» Le rose di Saaron non potrebbero olezzare più di questi fiori. Senti? Senti? È il profumo del nostro amore.

Lilia assentì con uno sguardo dolcissimo. Così incoronati e festanti entrarono nel vestibolo dove una donna stava ad aspettarli in attitudine serena.

— Mia moglie, — disse il custode.

Ippolito provò un momento di imbarazzo e volse a Lilia un tacito sguardo.

— Caro cugino, questi saranno i nostri nuovi amici, — soggiunse Lilia con naturalezza.

Egli le fu grato di aver trovato così prontamente il ripiego della parentela per potersi dare un contegno davanti a quel Filemone ed a quella Bauci, ma le susurrò piano all’orecchio:

— Crederanno?

— Oh! di questo non mi importa affatto. Mi basta di aver dato loro l’imbeccata. Dunque, [p. 189 modifica] siamo cugini, non dimenticarlo; e, in ogni caso pensa che l’amore fra cugini è permesso.

— I signori avranno appetito — chiese la donna.

— Perbacco! — disse Ippolito: — Me ne ero scordato. Ho una fame rabbiosa. Ma voi che cosa avete da darci?

— Il padrone ci ha ordinato di preparare una refezione per lor signori; come s’è potuto... compatiranno... siamo lontani dall’abitato. Quando c’era la povera contessa faceva venir tutto da Milano.

— Bene! bene! — interruppe Lilia; — regoleremo queste faccende in seguito. Intanto portate quello che c’è. Non saremo schizzinosi, nevvero cuginetto? A rigor di termine io mi accontenterei di una tazza di latte e di due pesche.

— Speriamo vi sia dell’altro, — espresse Ippolito con una specie di apprensione che dava la misura del suo appetito giovanile e che fece ridere insieme Lilia e la moglie del custode.

Sembrava oramai che si fossero sempre conosciuti.

— Mio marito li condurrà nelle loro camere intanto che io dò una occhiata in cucina. Del resto, tutto è pronto.

Una bella scala di marmo a destra del vestibolo guidava al piano superiore dove sopra una galleria all’uso delle vecchie case veneziane si aprivano quasi tutte le camere. [p. 190 modifica]

— Se la signora crede di prendere questa, è la camera della povera contessa — disse il custode, — altrimenti vi è la camera di don Peppino e quelle dei forestieri. Non abbiamo preparato prima perchè l’ordine del padrone era di lasciare a loro la scelta.

— Oh! — fece Lilia prontamente — ci bastano le camere dei forestieri. Eccone una assai carina.

Era un sentimento delicato che le faceva rispettare l’intimità dei padroni della villa; ma non perdette nulla nel cambio, perchè l’alloggio da lei scelto si apriva sul giardino con una balconata cinta di rampicanti ed aveva al di sopra delle pareti, ricoperte di una fresca tappezzeria a fogliami, un curioso volto affrescato dove, sullo sfondo di un cielo pallidamente azzurro alcuni amorini stendevano a guisa di padiglione un velo bianco trapunto.

— Se non starò qui come in paradiso, la colpa sarà tutta mia.

Ippolito alzando gli occhi al soffitto provò un leggero movimento di gelosia verso gli amorini, ma tuttavia disse che era stupendo. E siccome si trovavano in quel periodo delizioso della passione, quando ci si intende senza parlare o la parola che si dice è immancabilmente quella che l’altro vorrebbe dire, si sorrisero di nascosto con una muta intesa. [p. 191 modifica]

Un rapido gesto liberò Lilia dei guanti e del cappello, intanto che Ippolito si sceglieva una camera vicina dove in luogo degli amorini correva sulle pareti una caccia sfrenata.

— Vieni a vedere, Lilia.

Ella andò; e di ogni piccola cosa insieme osservata come di una grande scoperta godettero e risero giocondamente, sentendo stringersi di minuto in minuto il nodo che li avvinceva, provando la strana sensazione di essere una persona sola.

— Lilia?

— Ippolito?

Sì, erano essi, felici in modo inenarrabile. E il mondo sembrava non accorgersene, il cielo restava immoto, l’aria tranquilla: i cacciatori vestiti di rosso, sulla parete, galoppavano accanto alle loro dame dalla gonna azzurra, chi sa da quanti anni, forse un secolo!

— La colazione è servita, — annunciò la moglie del custode affacciandosi sulla soglia.

— Hai osservato, cugina, la posa antica di quella donna? Ella tiene le braccia ripiegate sul grembo in atto placido, la mano destra appoggiata mollemente sul gomito sinistro, la mano sinistra sul gomito destro. Ciò non si vede più se non nei quadri. E come guarda mite e serena!

— Che nome avete? — le chiese Lilia.

— Mansueta, ma la signora contessa mi [p. 192 modifica]chiamava Mansa, ed anche don Peppino quando veniva fuori da giovane mi chiamava Mansa; mia madre è stata la sua nutrice. Gli piaceva allora a star qui; poi si è annoiato; ma è naturale, un signore!

Sorrideva dolcemente, la donna, nel suo volto onesto solcato da poche rughe a cui facevan lume due chiare pupille intelligenti e buone.

La sala da pranzo era molto gaia, coi mobili laccati in color verdino tenero, la dispensa a grandi vetrate dietro le quali occhieggiavano i vecchi piatti di Faenza; tutto in giro pendevano quadri di uccelli, di frutta, di fiori, quasi un invito al tripudio della mensa, la quale sorgeva nel mezzo ricoperta da una fine tovaglia a disegni antiquati, lucida e morbida, con un lontano odore di spigo rimastole dalla lunga permanenza nel guardaroba.

— Compatiranno..., — disse ancora Mansa.

— Questa casa è deliziosa. Non mi sarei mai immaginata di trovare in provincia tanta grazia elegante e originale.

— È appunto in provincia — replicò vivacemente Ippolito: — solo in provincia che è possibile di incontrare ancora una certa originalità. Le grandi città del progresso si assomigliano tutte come caserme. Io mi sento qui in patria.

Sedettero lietamente al desco, vicini vicini come già avevano fatto nel salotto del battello, e [p. 193 modifica]poichè Mansa si era allontanata, lasciandoli soli, essi compirono quel loro primo pasto con tutta la solennità di un rito, tenendosi per la mano, mordendo nello stesso frutto e accostandosi al medesimo bicchiere, non senza scambiare qualche volta le labbra per la coppa.

— Dimmi che mi ami.

— Ti amo.

— Dillo ancora.

— Ti amo.

Alla affermazione recisa, accompagnata da uno sguardo del quale conosceva oramai tutta l’ebbrezza, Ippolito si chetava; ma per poco. Era dentro di lui un vulcano tumultuante, un appassionato bisogno di baci e di amplessi.

Dopo che Mansa ebbe loro servito un eccellente caffè entro certe tazzettine trasparenti come l’ambra, i due amanti uscirono in giardino seguiti dallo sguardo senza malizia della buona donna, la quale sembrava felice di vedere finalmente qualcuno nella vecchia casa abbandonata e con la inconsapevole filosofia del suo temperamento ottimista non chiedeva di più all’attimo che passa. Ella aveva inoltre il dono prezioso e raro dell’ammirazione per tutto ciò che è bello, sia pure nell’ordine fisico o nell’ordine morale. Il solo aspetto di quelle due creature belle la rallegrava.

— Mi pare che se la intendano molto questi [p. 194 modifica]cugini, — osservò il custode, gattone vecchio pratico del mondo.

— Che vuoi! è la loro età, — rispose Mansa: — abbiamo fatto così anche noi. Ciascuno alla sua volta, non è vero?

Il giardino, trascurato da otto anni, presentava l’aspetto di una foresta. Fu un piacere nuovo per Lilia l’inoltrarsi sui sentieri di cui restava appena traccia, sotto gli alberi fronzuti, fra cespugli fantastici di ortensie che approfittando liberamente dello spazio allargavano all’ombra i loro gracili corimbi dalle tinte di porcellana, mentre nelle radure dove meglio batteva il sole l’olea fragrans rizzava le bianche stellucce il cui profumo dava a Ippolito una vertigine di voluttà.

— Vi sono anche delle rose, — disse Lilia giulivamente procedendo alla scoperta.

— Rose, rose, rose! — gridò Ippolito raggiungendola.

Una specie di cupola verde tutta fiorita di rose stava in cima ad un piccolo rialzo, ma il sentiero che vi conduceva era così intricato che Ippolito dovette rompere parecchi rami per potervi penetrare, facendo fuggire i ragni che vi avevano disteso le più argentee e vaporose tele che si potessero immaginare.

— Trine di Bruxelles! — disse ancora Ippolito sollevandone una col dito. [p. 195 modifica]

Lilia abbozzò il sorriso indulgente che hanno le donne quando gli uomini pronunciano una parola del loro dizionario femminile.

Anche questi piccoli incidenti vestivano agli occhi dei due felici un sapore misterioso, come se tutto ciò che dicessero o facessero avesse un legame invisibile col desiderio unico che li infiammava e come se ogni sillaba, per quanto apparentemente insignificante, perchè pronunciata da quelle labbra, e per ciò solo, volesse dire: amore.

— Oh! il delizioso boschetto! — esclamò Lilia penetrando sotto la fitta vôlta di fronde dove la luce stessa appariva verde e dove dondolavano, pendenti, i rosei boccioli delle rose dischiusi a guisa di lampade discrete nel loro dolce colore di fiamma coperta da un velo.

L’ammirazione di Ippolito restò muta. Egli trasse un lungo respiro in cui parvero filtrare tutte le voluttà della terra.

Una rosa più sporgente delle altre sfiorò la fronte del giovane, lasciandogli una lieve incisione di spina. Nell’allontanarla con la mano Ippolito sentì distintamente una voce dentro di sè che diceva: «Io sono colei che punge». Si toccò la fronte e vide una stilla di sangue; ma nel medesimo tempo la bocca di Lilia appoggiavasi molle e tenace sulla ferita e tutto ciò che era senso di realtà sparve dai suoi occhi. [p. 196 modifica] L’ebbrezza lo dominava intero, in quella alcova formata dalla natura per l’amore, nel meriggio d’agosto incombente sulla campagna, tra il profumo vicino delle rose e quello poco lontano dell’olea fragrans che accompagnava, orchestra invisibile, il prorompere della passione vittoriosa.

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