Tre tribuni studiati da un alienista/IV
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Il terzo tribuno.
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CAPITOLO IV.
Il terzo tribuno, o meglio, il nuovo mattoide che tentò in questi ultimi tempi tribuneggiare, colle armi moderne della stampa e del Parlamento, è, come il pubblico ha già sentenziato, Sbarbaro.
La naturale pietà per un collega negli studi, e per un uomo vittima di troppe e, in apparenza, immeritate sventure, mi ritenne per molto tempo dal parlare come e quanto avrei voluto, di questi, che era uno dei classici tipi di quella psicopatia da me introdotta nel mondo scientifico. Ogni riserva, però, mi parve, in questi ultimi tempi, inutile, perchè il pubblico, perfino i magistrati, così riluttanti ad accordarsi cogli alienisti, avevano già da un pezzo adottato questa diagnosi, e perchè egli raggiunse, per quanto per vie dolorose e vergognose, quella notorietà che era tutto il suo sogno, e perchè, infine, qui la vera pietà era quella che mettendo a nudo il suo morbo, dava modo di curarlo, o almeno di scusarlo.
Per quanto più in su si rimonti nella sua vita, la nota che tu trovi ad ogni passo è la lotta, o meglio, la lite, la polemica personale, violenta, e in cui qualche nobile e grande idea tenta far capolino, ma soffocata, sempre, da una sfrenata ambizione personale, di cui quell’idea non serve che di arma o di pretesto.
Studente, a 16 o 17 anni, mena nel suo giornale, il Salvatore, violenti tirate contro il clero e la religione, sicchè Cavour, in una lettera ch’egli stesso ha pubblicata, lo esorta ad esser meno violento ed a riserbare le sue ire contro i cattivi preti e contro la Curia Romana; fatto questo assai interessante, visto che, più tardi, doveva, per amor del paradosso, diventare un arrabbiato protettore delle fraterie, e viceversa nel 1870 farsi promotore di un esaltato conciliabolo.
A 19 anni, a Voghera, al Congresso delle Società operaie, prese una parte attiva in favore delle Società operaie, e combattè fieramente Mazzini e Montanelli. E già si proponeva di salvare la dinastia. Poi scrive nella Bollente di Acqui, nel Goffredo Mameli, e nell’Italia e Popolo; fonda, poi, il Saggiatore di Savona, che durava tre anni senza infamia e senza lode, e che riempieva di polemiche locali.
Nel 1863 — a 24 anni — conseguiva la laurea, e dettava già lezioni pubbliche, pare, molto applaudite.
In quel turno, credo, dirige il Corriere delle Marche, che pullula di nuove polemiche.
A 25 anni era professore di economia politica e di filosofia del diritto a Modena: vegliava la notte e dormiva il giorno, con poco profitto, pare, dei suoi studenti; ma egli, al povero preside che mitemente ne lo redarguiva, rispondeva una volta con una sfida, un’altra col dire: «Che, se pur faceva poche lezioni, una delle sue valeva tutte quelle che i suoi colleghi davano in una settimana»; il che ripetè poi più tardi.
A 30 anni si agita contro la Regìa dei tabacchi.
Scialoja gli toglie la cattedra, ed egli scrive feroci lettere contro di lui: tempesta tutti i giornali, sicchè era diventato un uomo proverbiale. Fu in quel turno, se non erro, ch’egli, proprio come il persecutore di Buchner (vedi sopra, pag. 16), fondava la lega degli uomini onesti contro il Governo, lega di cui egli era, pare, il solo membro effettivo!
Sorta l’agitazione pel macinato, egli propose (nientemeno!) di tradurre il Ministro Sella davanti al Senato per violata costituzione.
Era il 1876 (Giornale italiano di Macerata, 1884, N. 691); a Macerata ferveva bollente la lotta tra due deputati: Allievi ed Oliva. Sbarbaro tentennò tra i due; ma poi la popolarità lo travolse per l’ultimo, che... forse in grazia dell’aiuto suo, non riescì. Parecchie dimostrazioni avvennero il giorno della lotta, e la sera, al teatro, all’improvviso, si vide agitarsi Sbarbaro e gridare:
— Cittadini di Macerata, se avete sangue, e non sciroppo di salsapariglia nelle vene, seguitemi.
E alla testa di una coorte di 400 persone, andò a fischiare, casa per casa, tutto il Comitato avverso, a cominciare dal Sindaco. Se ne fece un processo, ma egli fu assolto, malgrado parlasse, dicesi, quattordici ore (?).
L’esordio incominciava così: «Nella mia fede di cristiano — nella mia coscienza di filosofo — nella mia dignità di cittadino — nel mio apostolato di professore — nel mio diritto di uomo di Stato.....».
Quel giorno Sbarbaro anatemizzò la canizie contaminata di Depretis, da lui proclamato, pochi giorni prima, il salvatore della patria.
Nell’aprile 1878 pretendeva ad ogni costo che quella Facoltà Giuridica nominasse professore onorario Aurelio Saffi. Il Rettore avendogli obbiettato che i regolamenti non lo permettevano, egli si diede ad eccitargli contro gli studenti; ma la Facoltà si adunò e votò perchè fosse rimosso dall’ufficio. Il Coppino lo sospese: egli si ribellò contro il Ministro, sostenendo non potesse sospenderlo; disse che gli studenti avevano riprovato il contegno del Ministro. Ma pare, anzi, che questi, stanchi, a loro volta, del loro rumoroso Tribuno, lo fischiassero di santa ragione, sicchè egli si appellò dagli studenti al Saffi.
Schiaffeggiato dal Pierantoni, pochi anni dopo, ne loda poi in un pubblico giornale la dottrina, l’eloquenza, dopo che egli assistette ad una sua lezione, a Macerata, di enciclopedia giuridica, e di nuovo lo brindava ed elogiava quando fondava il così detto Istituto di diritto internazionale; un’idea sua, diceva lui.
Quando De Sanctis giunse al potere, egli chiesegli una cattedra di primo ordine, e vedendonelo riluttante, lo minacciò di pubblicare aver egli venduto, essendo Ministro, i segreti di Stato agli speculatori di Borsa; lui, il De Sanctis, che visse e morì povero!
A Napoli, dove venne poi mandato come incaricato dal Coppino, promuoveva, con un discorso che stancò mezzo mondo, l’anti-concilio ecumenico, l’agitazione per la riforma religiosa e per la pace universale, egli che ne era così poco fautore in particolare!!
Un nuovo Ministro, il Perez, nel 1872 l’allontana da Napoli e lo nomina a Parma; egli protesta, ma poi vi va; e nel 1880 vi lesse una buona parte dei suo enorme volume, una bagattella di 549 pagine, sulla libertà; e iniziò proteste per la nomina d’un suo collega per influenza parlamentare.
Nel 1880 prese a patrocinare una causa, in parte giusta, contro il Baccelli, che pure essendo liberale, aveva commesso un atto, apparentemente dispotico, contro alcuni giovani studenti sardi che si dichiaravano repubblicani; la ragione l’aveva lui: ma i modi suoi erano tali da dargli completamente torto.
Ed allora cominciava una iliade, in parte grottesca, in parte tragica, contro tutti coloro che non lo favoriscono, in ispecie il Baccelli, e contro tutti, anzi, i Ministri precedenti.
Demolì Presidi e colleghi, provocò dimostrazioni, sicchè la Facoltà nel 1882, quando egli fu sospeso, e, pare, a torto, temendone il ritorno, lo dichiarò incompatibile colla dignità del Corpo, a cui era aggregato, ed egli allora voleva che i colleghi fossero deferiti al Consiglio Superiore; pretendeva soddisfazioni dal Ministro, eccitava i giovani a dimostrazioni in suo favore. Chiamato a dar spiegazioni dei suoi atti e scritti in seno alla Facoltà, esce in ingiurie tali da parer un pazzo furioso.
Poco dopo, stampa insulti contro il direttore del giornale La Luce, e quando questi gli manda poi due padrini, egli si mise a gridare: «Canaglia, assassini, sono percosso, assassinato»; li percosse, ferì e chiusili in casa, andò alla pubblica sicurezza a denunciarli come assassini.
Il Ministro della Pubblica Istruzione, preoccupato di questi disordini, invitò il Rettore a convocare i professori dell’Università in assemblea generale perchè si pronunziassero in proposito.
A questa assemblea non solo interviene egli, ma pretende assumerne la presidenza, e nel momento della votazione rovescia calamai, tappeti e libri addosso ai colleghi, e poi gridando: «Ammazzerò tutti», tenta di spegnere i lumi dell’anticamera, sicchè l’assemblea decreta «che sia allontanato un professore, che insulta tutto e tutti, che pubblica libelli la cui violenza non è neppure raggiunta dalla stampa più avventata, che mette il disordine nell’Università e reca onta all’onorato ufficio suo con degradanti umiliazioni, non meno che con spavalderie da pazzo furioso».
Fu deferito al Consiglio Superiore, e, malgrado la sua splendida difesa, fu destituito.
Da quel giorno gettò una valanga d’ingiurie, di minaccie, di ricatti ai giudici, ai Ministri, alle loro mogli, figli, amici - ingiurie spesso prese sul serio - e pur troppo vendicate, come se fossero il parto d’una mente sana, e vendicate così severamente da rivolgere in simpatia il ribrezzo che potevano meritare.
In complesso, questo uomo che si potrebbe dire un vortice animato di liti politiche e personali, riproduce, esattissimamente, il tipo di quel mattoide querulante di cui abbiamo dato la descrizione poco sopra, salvo la differenza che ne viene da un ingegno non comune e da una non comune coltura.
Per chi rifuggisse dalle descrizioni generiche, offro queste note ufficiali di Lasegue, Blanche e Tardieu su un altro querulante politico, Léon Sandon, anch’esso d’ingegno singolare, che invece di tormentare Baccelli e Depretis, ebbe a dar noia, e non poco, a Billault e Napoleone III1.
«Nella sua giovinezza, Sandon, avvocato ambizioso oltre misura, si trovava in una posizione assai bassa. Si attacca al Billault, suo compagno di scuola, da cui viene elevato a posti superiori al suo merito; abbandonato, poi, da lui quando ne capì la pazzia, gli addossa la responsabilità dei suoi errori, e dei malanni che si era attirati.
Si lagna d’esser oggetto di persecuzioni inaudite; ed invece si fa egli organizzatore d’un sistema di calunnie, per cui tutti i mezzi, anche il falso, sono buoni, e col quale cerca di comprometterlo.
E passa dal più stolto orgoglio e dalla più impudente presunzione alla più bassa vigliaccheria; ora minaccia ed ora si umilia. Sogna amori, gloria, e poco dopo domanda piangendo che lo si dimentichi. Vuole che si ragioni con lui come con uno che rappresenti un partito, e poi, senza transizione, afferma che si contenterebbe d’un posto in una casa di salute come un povero malato.
Nè tali contraddizioni si manifestano solo in modo astratto: così riguardo a Billault, nella stessa lettera in cui «lo minaccia di farlo assassinare, gli chiede del pesce, gli affida la cura d’eseguire le sue ultime volontà, e gli designa il luogo dove vuole riposino le sue spoglie mortali; minaccia lui e suo genero d’una sanguinosa riparazione, e nel tempo stesso gli promette che se più tardi una rivoluzione lo farà Ministro, egli proteggerà la sua famiglia, e magari lui stesso». — Era un pensionato dal Ministero dell’Interno e dalla Prefettura di Polizia, e si diceva loro vittima!
Nello scritto medesimo in cui indirizza alla figlia di lui le suppliche poetiche più appassionate, seguono i più violenti oltraggi (proprio come Sbarbaro con Baccelli).
La tinta d’opposizione politica di cui sembra si colori la pazzia di Sandon non resiste al più semplice esame. Egli compromette ed abbandona successivamente tutte le opinioni e tutti coloro che le rappresentano; nel tessuto delle sue menzogne ed illusioni è facile sorprendere l’influenza del delirio ambizioso, della pazzia affettiva e della perversione morale che le inspirano.
Il tempo delle elezioni politiche è per Sandon un pretesto naturale per sfogare la sua follia ambiziosa2. Egli attribuisce a Carnot la promessa formale di farlo nominare deputato di Parigi: tuttavia preferisce presentarsi nel suo paese (la Creuse), dove senza difficoltà troverà da 8 a 10,000 voti; malgrado ciò egli acconsentirebbe anche a presentarsi come candidato del Governo, il quale gli assicurerebbe l’unanimità; ma alla condizione d’essere sotto il patronato del conte di Persigny e non del duca di Morny. Ma poco dopo dichiara che accetterà roba per sua madre e per la sua serva, libri per sè, e andrà a vivere in un ritiro per farsi dimenticare.
Egli vanta l’amicizia più intima cogli uomini più altolocati, e dichiara che il suo banchiere ordinario è D’Haussonville, pronto per lui a pagare qualsiasi somma.
Nei suoi scritti si scorge facilmente com’egli creda che la Francia e l’Europa non si preoccupino d’altro più gravemente che della sua persona e della sorte che a lui è riserbata.
Egli la pretende a grande scrittore; si paragona a Montesquieu, e vedesi già aperte le porte dell’istituto grazie al suo Trattato sulla grandezza e la decadenza della democrazia, e in seguito a quanto gli avrebbe predetto Privat-Paradol.
E nulla diciamo della fecondità dei suoi scritti, della sua mania epistolare, che, in tutti i posti, a Parigi o a Telletin, in prigione o in libertà, dappertutto, tutti i giorni ed a tutti, gli fa riprodurre le stesse idee e le stesse frasi, senza che egli si arresti dinanzi al costante insuccesso della sua universale corrispondenza. Nelle lettere sue, poi, si notano numerosi poscritti e sottolineamenti moltiplicati, e la scrittura serrata che segnalano così bene gli scritti degli alienati.
Il Sandon è di costituzione vigorosa: il suo viso porta l’impronta d’una certa interna sofferenza, ha carnagione pallida, lineamenti ordinariamente contratti; egli porta spesso la mano al capo, e con un magistrato si lagna di sentirsi il cervello rosicchiato dai topi. È affatto incolto nell’abbigliamento, nè la sola povertà può giustificare la sordidezza e l’abbandono della persona. La sua parola è facile e prolissa, ma incoerente. Egli non risponde mai, direttamente, ad una questione, e per toccare fatti più recenti, comincia dal raccontare la vita passata e circostanze affatto estranee alla domanda.
Un giorno prega uno dei capi del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di venirlo a visitare a Mazas; appena esso viene, lo prende per una spia; poi pretende che egli stia per inserire in un giornale belga una nota contro di lui, nota che egli stesso aveva scritta, ecc.».
Ma quella forma non è la sola. Già il Mignan ha dimostrato che parecchi deliri s’innestano l’uno sull’altro, e Sbarbaro ne è un esempio singolarissimo. Due o tre forme di alienazione s’abbarbicano così intorno al ceppo dei mattoide persecutorio, che ne fanno quasi del tutto scomparire le linee essenziali.
E prima di tutto abbiam veduto come l’affettività ed il senso morale siano in costoro, quasi sempre integri, anche più vivi che negli altri. Ora se questo poteva dirsi di Coccapieller e di Sbarbaro giovane, non può pila dirsi di lui specialmente in questi ultimi anni3. Senza voler entrare nei sacrarî domestici che van sempre rispettati, gli affetti figliali e coniugali, di cui mena tanto scalpore come sempre chi
ne difetta, non furono in lui che un’eruzione intermittente. Il giorno stesso delle nozze, a cui aveva invitato nientemeno che Holtzendorff a testimonio, si perdette con questi ne’ suoi sproloqui così, che dal mattino si venne all’ora in cui stava per chiudersi l’Ufficio Municipale, ed intanto la sposa aspettava quasi sola sul lastrico. Altrettanto si dica dell’amore pel padre, che quasi mai negli ultimi tempi ebbe a vedere; e quella sola volta che andò a Savona appositamente per salutarlo dopo parecchi anni di assenza, avendo trovato degli amici, perdutosi seco loro nelle solite orgie di parole e di vino, se ne dimenticò affatto; e quando il poveretto lo raggiunse, non ebbe che il tempo di richiederlo delle sue valigie e di andarsene.
Un amore per gli uomini lo ebbe, ma, per quanto mi risulterebbe da parecchie informazioni, era, e fino dai 17 anni, un amore che proverebbe più la mancanza che la presenza del senso morale.
Quanto alle vere amicizie, egli ne iniziò molte, ma nessuna, che io sappia, che non tradisse e non convertisse in sorgente di odio e di accuse.
Lo stesso povero Mattiauda, che perdette per lui tanto tempo e denaro, ne fu gratificato solo con vili contumelie che diedero luogo all’ultima sua condanna; e così l’ultimo ospite suo in Isvizzera.
Un certo L... che spese forti somme a suo pro’, finì col riceverne l’onorevole battesimo di Sacco d’oro e di asineria.
L’amore stesso per quella femmina ch’è sua moglie, la quale apparteneva, come è ben noto, ad una famiglia addetta alla monta degli asini, ed in cui non mancavano le note criminose (il che è bene ricordare quando si pensi all’importanza che hanno le affinità criminose per dimostrare le tendenze immorali), è, piuttosto, una sottomissione brutale, come accade alle tempre affatto astratte e teoriche innanzi ai caratteri pratici, d’azione, che non l’amore calmo ed eguale del coniuge.
Senza ricordare le pretese sue aspirazioni... principesche ed altre distrazioni più positive e meno alte basterebbe a dimostrarlo la scena che ebbe luogo alle carceri. Egli tempestava fieramente colla moglie gridando, battendo i pugni sul tavolo, ecc., perchè essa non s’era destreggiata in una data bisogna. Le ragioni della donna e le persuasioni anche severe del Direttore presente alla scena non servivano a nulla, quando colei senz’altro gli menò un potente ceffone. Bastò questo perchè e’ si calmasse e le chiedesse, raumiliato, scusa, commosso di quella singolarissima prova d’amor coniugale.
D’altronde, come ben accennò Bonghi al Tribunale, il suo altruismo è morboso; e troppo spesso gli alienisti vedono l’altruismo servir di vernice alle più egoistiche e criminose pazzie.
Non che la sua fosse mai una criminalità freddamente premeditata, abituale: era, come la sua bontà e come la sua genialità, un effetto di veri accessi impulsivi intermittenti, che appunto sono così frequenti nei pazzi morali e negli epilettici. È perciò ancora ch’egli, nello stesso giorno in cui fingesi, con carità santa, ad una famiglia d’orfani, debitore perchè ne accetti il denaro, affamato, perchè acconsenta di mangiare con lui, fa presso il Ministro da delatore al collega A... e tenta farlo destituire per succedergli.
È certo sotto altro simile morboso impulso, che egli, forse affatto inconscio, getta in faccia ai colleghi il calamaio, e sputa ai ministri. e schiaffeggia rivali, e scrive valanghe di oscenità, di insulti, di minaccie, di veri ricatti4, ed entra nel sacrario delle famiglie,
egli che, al di fuori di quei momenti, almeno così attestano persone rispettabili, è incapace della minima violenza e che già ebbe a scrivere nella sua Libertà «essere stoltezza ed immoralità l’entrare nei secreti dell’uomo privato»5.
È allora che gli si acuisce il delirio persecutorio per cui egli perseguita gli altri, mentre, e perchè se ne crede perseguitato: delirio che, come è il solito caso in costoro, egli rivolge contro a coloro che sono al potere, salvo ad adularli e lodarli quando ne siano caduti, quando ne abbia bisogno o quando sia cessata l’acuzie del male; con che si spiegano le vilissime lettere adulatorie a quelli che prima insultava, e le sue proteste di non aver inteso far ricatti ed insulti, e il suo metodo di scrivere un articolo d’elogio sopra un personaggio e mandargli poco dopo una lettera impertinente (Deposiz. Panizza).
Fu in uno di questi momenti, certo, che un giorno dicesi siasi mostrato nudo innanzi ad alcuni scolari, e che baciò pubblicamente sulla via una vecchia che non lo conosceva affatto, gridando: «Lo dovevo, lo dovevo, perchè assomiglia alla madre!».
In carcere, ogni tanti giorni, esciva in violentissime invettive contro il Re, contro i magistrati ed i colleghi, e poi, calmo, si meravigliava di esserne incolpato e lo negava recisamente e con perfetta sincerità.
Questa sua tendenza veramente epilettoide ed impulsiva si travede nella prima sua lettera minatoria diretta all’On. Baccelli, nella quale afferma che, prima di buttarsi nel Tevere, vuol dare un esempio all’Italia. «Non uso a mentire, prosegue, sento una vertigine che mi spinge a spezzarmi contro Baccelli».
Fra le lettere dirette a quell’egregio Ministro, ve n’ha una che comincia così:
«Signor Baccelli, ladro, la prego di ordinare il pagamento a me di lire 300, ecc.
Io non vedo l’ora di schiaffeggiarlo, perchè lo sputarle in viso mi ripugna».
Un’altra è di semplice preghiera fino a metà, poi si chiude colla minaccia d’uno scandalo.
Ben inteso che a questa forma impulsiva in cui si risolvono molti dei suoi reati sopratutto influisce l’offesa di quel sentimento esagerato della personalità che in lui è il fenomeno predominante. Da questo lato è bello raccogliere qui il giudizio di Spaventa, che sarebbe, con poche varianti, diviso da qualunque alienista:
«Ha un grande amore per la giustizia, ma la giustizia la concepisce in modo personale, vale a dire che ogni atto che egli creda ingiusto contro di lui è considerato da lui come un delitto, di cui egli applica la pena delle sue minaccie, delle sue ingiurie».
Anche Broglio e Pelosini deposero intorno a lui:
«Il suo impulso è nobile, ma finisce per mettersi dal lato del torto».
E Oliva: «Il punto di partenza è sempre giusto, ma si svia per strada» (Deposiz. Processo Sbarbaro, 1885).
Megalomania. — E s’aggiunge insieme il delirio erotico ed ambizioso, per cui egli, umile cittadino ed ammogliato per giunta, si crede alla vigilia di principesche nozze, di principesca progenie.
Pochi mesi fa, trovando a Savona uno scultore celebre, l’abbraccia esclamando: Ecco il genio (era lui!) che stringe la mano all’arte!
Una volta disse al Berti: Sbarbaro è capace di distruggere 25 generazioni (Deposiz. Berti; Processo).
«Fui giudicato (scrive egli di se stesso) nella medesima aula dove Galileo fu costretto a negare il moto della terra».
I suoi articoli politici recenti sono rigonfi di continue litanie di citazioni, e specialmente di nomi proprii seguiti ciascuno dalla scorta di un’ingiuria o di una lode, immeritata quasi sempre, sempre esagerata, e ciò secondo che i nominati abbiano favorito o contrariato il suo delirio fastoso.
«È (dice di lui Dario Papa, Italia, 1882) una mente malsana, allargata dalla scienza in modo che ci si sono gonfiate dentro non si sa quante bolle di sapone. Ed ogni bolla di sapone è un’idea grandiosa di se stesso che riflette alla luce dell’egoismo meriti sublimi del mattoide. Se pone una taglia per ottenere qualcosa, la pone perchè crede di compiere un’opera di giustizia verso se stesso, uomo più grande fra i grandi, apostolo, mistico, politico, scientifico. Quest’uomo che non si compra col danaro, si prostituisce per ottenere una lode. Non basta: si prostituisce per ottenere un biasimo. L’ho sentito io stesso dire una volta: «A me basta che si parli di me, e non mi curo d’altro, e sono felice quando costringo la gente ad occuparsi di me».
E non manca infine il delirio alcoolico, poichè abusa enormemente di liquori, e la maggior parte de’ suoi scritti è dettata in istato d’ebbrezza.
E questo ci spiega i suoi strani errori di logica che parrebbero proprii, solo, dei grandi indebolimenti mentali, per cui spedisce insolenze al Ministro in carta da bollo da 1,20, e sentenzia:
«Un libro buono può integrare delle lezioni non fatte», ed «Un professore che abbia fatto degli errori non può essere nominato».
E per ciò egli che ha ardente voglia di essere nominato deputato, a’ suoi elettori di Savona dichiara che non farà loro nessun favore, nemmeno un lampione, e fa lunghe prediche per convertire i suoi compatriotti, uomini pratici e dati agli affari, al socinianesimo, all’unità religiosa, il che si spiegherebbe in un Catone, in uno Spaventa, non in lui che intanto adula il clero ed i repubblicani avanzati per farsi nominare, il che è peggio che concedere a tempo, a loro, un fanale.
Grafomania. — Ma la forma più caratteristica è la grafomania, che in lui s’associa con la logorrea. È noto com’egli fosse il terrore dei giornali e degli amici, perchè usava affogare gli uni con valanghe di lettere ed intrattenere gli altri per intere notti della sua eterna e monotona parola; e già vedemmo in lui gli affetti di sposo e di figlio tacere innanzi a quelli del parlatore.
«Il parlare non gli costa che vento, e Sbarbaro non sente che questo bisogno; ha bisogno di parlare con dieci, con venti persone alla volta, magari, su argomenti diversi» (Dario Papa).
L’elenco de’ suoi scritti sarebbe un troppo lungo capitolo; ma, oltre l’abbondanza, qui si osservano altri caratteri speciali ai mattoidi. E prima di tutto: La minutezza degl’inutili incidenti che ci ricordano il pittore della Tavola, e che non giovano, ma fanno perdere anzi di vista l’insieme.
Ciò si nota fin nelle prime sue opere, o meglio elucubrazioni, perchè appunto per ciò nessuno de’ suoi lavori raggiunse la forma organica del libro.
Il libro Della libertà (1873) è un’introduzione di più di 500 pagine! E quest’introduzione è poi a sua volta una grande bibliografia cogli eterni elogi e biasimi a’ suoi avversari e con quelle minuzie fratesche, naturali nei letterati del secolo scorso, ma che stonano in lui. Per esempio, sostituisce (e lo fa osservare in apposita nota) parlamentale e elementale a parlamentare e elementare, e non manca dei soliti giochetti di parole prendendosi la libertà di dedicare quel libro alla Libertà.
Parlando del metodo sperimentale, lo chiama «osservativo», o come anche oggi si dice, positivo; e nella sua Filosofia della ricchezza perde una quantità di pagine per mostrare che l’economia politica si deve chiamare la filosofia della ricchezza!!
Un articolo speciale delle Forche dedica per studiare con qual nome si debba chiamare il secondo figlio del nostro Re, figlio... che ha ancora da nascere.
In quest’abuso dell’inutilità egli ha delle singolarità tutte sue, o meglio tutte speciali dei mattoidi; una è quella di collocare insieme molti nomi proprii con un epiteto laudativo od infamante a seconda de’ suoi capricci; per poche linee ciò parrebbe un vezzo umoristico, ma egli è capace di foderarne volumi; così nel numero 26 delle Forche trovo questo giocherello seguito nientemeno che per 114 linee, e tutto ciò a proposito, o meglio a sproposito della etimologia di polizia «per cui città e Stato formavano una cosa sola, come sarebbe a dire Perino e quattrini, diritto e statura, Luzzati e pensiero, Carie e vita nel diritto, De Zerbi e colera» e via via.
Un altro che con questo si connette è quello delle digressioni, e delle minuterie futili. Tutto il suo libro — Regina e Repubblica — è un ammasso di digressioni.
Qualche volta una parentesi vi si caccia dentro nell’altra, e le più senza altro significato o ragione che di sfogare la smania di scrivere.
A proposito dei nemici delle sue idee, fa una digressione sul salame eccellente che il deputato Lagosi fa assaporare ai suoi colleghi (pag. 23).
Una pagina e 1/4 tratta della veridicità storica e del famoso detto di Ferruccio a Maramaldo, e ciò a proposito dell’amministrazione disonesta d’Italia (pagina 17-18),
E qui, come in altre sue opere, perde delle intere facciate per dimostrare che si deve dire parlamentale e non parlamentare.
Qualche volta, specie negli ultimi scritti, le digressioni sono anche sudicie, ma di quell’oscenità tabaccosa, fratesca, che è più indizio dell’impotenza che della vigoria straripante e festiva del giovane; è una oscenità, insomma, che sente più il P. Soarez che lo Stecchetti od il Mantegazza.
«La calunnia avrà le gambe più corte d’una p... attaccata alle coscie lanose del ministro X.».
«La differenza, p. es., che intercede tra l’opulenza delle anche stecchettiane e le due isolette aleardiane, che sempre si guardano e spesso si toccano». E a proposito di questa che è già una digressione (digressione 1ª), ne interseca altre, inutili tutte. «Benchè il poeta non se ne sia mai accorto, ed abbia fatto come Cesare Rossi (digressione 2ª) quando nella commedia monachile di Marengo, ora presidente del liceo Chiabrera nella mia Savona (digressione 3ª), entrando in scena, vede il bersagliere in congedo che stringe la contadinotta dalle anche copiose» (digressione 4ª) — il che tutto è osceno, se vuolsi, ma non converge a nessuna dimostrazione, nemmeno lontana.
«La Camera ha confermato Capoduro (Cittadino di Savona, 20 dicembre 1886) — Che bel nome, per rappresentare la virilità del pensiero politico in Italia, ed io prego il vostro Proto, scusate, che non è un prodigio di delicatezza, a stamparmi delicatezza con due z e Capoduro con un p solo e non due... avvegnachè (e qui una lunga digressione) se il Cittadino stampasse due... si altererebbe la rappresentanza del nostro Rappresentante; egli non sarebbe più l’emblema della virilità della coscienza incorruttibile degli Italiani...».
Minutezze da pazzo e sudicerie da ubbriaco, e che notai, si fanno più frequenti quando parla di una delle più gentili e venerate dame d’Italia, e più suscitano, perciò, schifo e ribrezzo.
Nella Regina e Repubblica dopo aver scherzato scioccamente sulla frase Margaritas ante porcos, si lagna di non poter convertire o fabbricare salami eccellenti dei porci indegni di accogliere la buona novella; e poi dichiarando «ch’egli scende come un cavaliere antico portando per la quarta volta i colori della donna adorata, una delle più gentili d’Italia, subito soggiunge, ch’egli vuol spezzare la lancia contro la lue che minaccia di far passare l’Italia al sifilicomio della tirannide».
Tutti conoscono la sua tendenza ai giochi di parole, alle pompierate... che noi vedemmo essere così frequente nei mattoidi: «Appuntare la punta (pag. 305) inappuntabile dei loro stivalini nella parte più notabilmente sferica (Regina e Repubblica).
...«Bastava che ci fosse un Visone per vedere.
«I miei provvedimenti compiranno la bonificazione dell’agro. Ed al dolce non ci pensa? (Idem).
Baccelli, i bacilli!
Baccarini, ingegnere di educazione, s’ingegni».
Nè manca nemmeno, come dissimo, in quel ponderoso volume sulla Libertà.
È inutile fermarsi sulle sue contraddizioni, almeno per quanto tocca le persone.
«Boccardo, detto nelle opere sue vastissimo intelletto e vera biblioteca ambulante, al N. 6, 20 luglio, delle Forche, è trascinato al tribunale supremo della gente dotta, ed è conosciuto reo di untosa ignoranza.
Crispi, il secondo uomo di Stato, dall’anima gigante, Crispi il Capaneo della rivoluzione, il solo intelletto dopo Mancini, nei suoi volumi, ecc., è divenuto un ciarlatano (Forche, N. 1), e più tardi (N. 4) uno sciagurato causidico.
Marco Minghetti, uomo di Stato di maggior nerbo, di ingegno, e di grandezza di concepimenti, diventa poi fiacco, improvvido, senza bussola come Mancini, meno la scienza giuridica.
I volumi di Lampertico gli danno il vomito e il capogiro (N. 14); ma nella Libertà a pag. 13 lo avea detto lume dell’erudizione, della critica e della scienza economica in Italia.
Guido Baccelli era prima per lui l’oratore dalla romana facondia, che difese nella politica dello Zanardelli il grande verbo del reprimere e non prevenire.
Di Sella, ch’egli volle porre in istato di accusa, conserva con gli autografi, anche uno..... sigaro.
Il Mancini, ch’era il principio ed il segno d’una quarta epoca dell’umanità inaugurata dal pensiero italiano, non sa scrivere una circolare»6.
Lato buono. — È però vero che in alcuni dei suoi principii teorici, l’unitarismo religioso, il rafforzamento del poter regio, egli persistette con costanza rara anche negli uomini politici più sani.
Ed è verissimo che qua e là nei suoi libri brillano dei tratti geniali. - Eccone alcuni:
«L’uomo che non sente odio per le cose laide o inique che ingombrano la nostra vita sociale è una menzogna di cittadino, un eunuco di mente e di cuore (Forche, 21).
I sistemi parlamentari non fungono bene perchè non permettono che gli ottimi sieno in alto ed i nulli in fondo (Forche, 3)», il che è però tolto alle Decadi di Macchiavelli.
«Un uomo che porta nel cranio un’idea sarà sempre più forte di un milione d’uomini che non abbiano in tasca che un interesse (n. 27).
Io credo la libertà più salvaguardata da un suffragio ristretto che da un suffragio allargato.
La nazione è venuta in termini di così profonda anarchia morale che può dar occasione e materia anche all’ultimo dei cittadini di suscitare un incendio, una rivoluzione morale, una santa insurrezione civile contro mali che offendono la monarchia.
Temeva l’avanzarsi della vituperosa e mala compagnia dei demagoghi, temeva le sorti dell’America dove l’oltrapotenza della canaglia politica, dove i filibustieri politici hanno invaso ormai stampa, comizi, tribuna, e i galantuomini delle classi più elevate si ritirano a poco a poco dall’arringo politico contaminato dalla feccia della repubblica (pag. 382).
«Se io sono un malcontento, disse al Consiglio di pubblica istruzione, ciò mi fa onore: il progresso si deve ai ribelli e ai malcontenti. Era un ribelle, un fazioso, Cristo.»
«Le grandi riforme sociali s’iniziano da un rivolgimento di pensieri e non dalle leggi; le leggi vengono dietro il progresso come l’ombra i corpi. Se la coscienza umana non s’impregna d’una dose maggiore di giustizia, le più belle impalcature a nulla approderanno, anzi potranno permutarsi in arnesi di perdizione, come era l’inquisizione fondata nell’idea che il salvar l’anima eretica col bruciarne il corpo fosse opera meritoria.»
«Primieramente si deve vedere il modo, il metodo, che il Governo adopera e segue per la conservazione dell’Ordine, imperocchè è in ciò che spicca la differenza caratteristica dei Governi buoni, liberi, dai cattivi e dispotici. L’ordine è mantenuto a Londra quanto a Pietroburgo, a Costantinopoli come a Filadelfia. Ma dove nei paesi dispotici questo visibile effetto della materiale sicurezza si consegue col metodo preventivo dell’assoluto sacrificio di tutte le libertà del cittadino, nei paesi liberi, invece, il medesimo risultamento s’ottiene colla custodia, e colla conservazione legale di tutte quelle libertà. Voi, vedete, voi non avete provato ancora nulla col dire che l’ordine è una grande e bella e buona cosa. Se l’uomo fosse un animale, la distinzione or fatta, avrebbe poca importanza. Invero: che una mandria di pecore, un branco di porci, ecc. beva, mangi, pascoli senza confusione e con ordine o per magistero di bastonate o per opera di vocali comandi del mandriano nulla rileva. Ma trattandasi di società di uomini la questione del mezzo piglia un carattere ben più grave, delicato e complesso. Bisogna, per muovere le volontà libere d’un popolo verso un complesso di fini, eleggere fra i tanti mezzi quelli solo che non offendono il sacro carattere dell’Umanità scolpito in tutti i cittadini d’un libero paese.»
«Voi sacrificate sistematicamente alle esigenze dell’ordine materiale le esigenze dei principii dell’ordine morale. E tremate per ogni lieve scompiglio. Insensati! Voi v’impaurite sopra ad ogni cosa dei pericoli che corre l’ordine materiale della Nazione: ebbene! Un illustre conservatore, il Tocqueville, vi insegnò, che il vero pericolo delle nazioni democratiche non è l’anarchia, il disordine delle strade, ma sapete quale è? Precisamente quello che voi custodite con tanta sollecitudine, quello a cui sacrificate dignità di patria, indipendenza di giudici, moralità di stampa, decoro di Governo, l’Ordine materiale che per voi è il capolavoro della politica e dell’amministrazione! Imbecilli!» (Forche, 22).
Nella Libertà ribadisce con Cavour e La Farina che, tutte le più grandi rivoluzioni sono, in fondo, economiche perchè le più nobili idee per divenir fatto hanno dovuto congiungersi col soddisfacimento dei naturali bisogni.
E bella, per quanto rettorica, vi trovo quest’osservazione: «Un pubblicista francese parla del paganesimo degli intelletti che ancora regna; ma vi è di peggio, il paganesimo delle coscienze, una paganeità superstite nel sentimento, nelle passioni collettive, negli istinti politici delle nazioni, tanto più turpe quanto più si copre delle forme di giustizia sociale»; ed in prova ne adduce il procedere rivoluzionario, gli incameramenti ecclesiastici.
È felice sopratutto negli epiteti o meglio negli insulti personali che trascinavano al riso per la fusione di due o tre giochi di parole in una, e per la malvagia o sottile ironia simile a quella che ispira le formazioni gergali e che piace alla gente poco delicata che forma le masse. — Così, per lui, l’ordine di S. Maurizio è l’ordine equino; Romano sempre finisce in mano; Pierantoni, uomo altissimo e colonnello della territoriale, è colonnello Tellurico; Lombroso è un flebotomo che trascina l’obesa nullità dappertutto; Depretis è Cincinnato da barbabietole.
In complesso, però, egli ebbe, sì, alcune idee veramente originali, ma non seppe completarle in forma organica; egli intravvide alcuni veri, ma non li dimostrò. Nè pare ad alcuno grande se non perchè è audace, e perchè moltissimi sono vili e ignorano dove sia di casa la sincerità, e si meravigliano in chi ne faccia uso.
I suoi scritti sono molto più pesanti e abbondanti che seri e concludenti; l’ingegno fa capolino sì ma come un’eccezione o meglio come un’eruzione vulcanica, mentre la scoria e l’inorganico predominano; le eccezioni sono l’effetto, per lo più, oltre che della educazione classica, dei momentanei accessi di genio, paralleli ed analoghi, nell’energia e nella origine, agli impulsivi a lui sì fatali, in cui trova colla chiaroveggenza incosciente del sonnambulo, la nota giusta; oppure converge le punte affilate dall’epigramma con effetti potenti; ma questi lampi sono molto rari e confusi, e finiscono col perdere ogni efficacia colle trovate che gli sgorgano negli altri momenti ben più frequenti in cui prevale la pesante e monotona logorrea, senza la più lontana scintilla d’ingegno.
«Ogni tanto una nota giusta (scrive bene di lui Dario Papa, Italia, 1885) la trova nell’acrobatismo da trapezio del pensiero convulsionario.
In lui c’è l’arena mobile di tanti sedimenti scientifici male connessi, e su quell’arena mobile non è possibile nessun edificio, che non rassomigli ai castelli di carte che si sfasciano e si ricostruiscono dai bambini».
Molti hanno notato nello Sbarbaro quel fenomeno che io diedi per caratteristico del mattoide: di mostrarsi a parole più savio assai che in iscritto.
La sua difesa al Consiglio superiore fu un capolavoro, e commosse e convinse uomini che certo non gli erano parziali.
Il suo primo discorso al Parlamento parve a tutti assennatissimo. — Anch’egli a parole seppe con mirabile disinvoltura dare una spiegazione plausibile alle sue più bizzarre trovate: ciò giova bene a spiegare il suo successo presso i meno colti.
Non è dunque l’ingegno che manca a costui, ma sono appunto l’esuberanza, l’ineguaglianza dell’ingegno, anzi, che ne segnalano la malattia, che non permettono, direi, ai cristalli dell’idea di organarsi tranquillamente, formandone un solido nucleo: non dando luogo che ad uno scoppiettìo, più spesso monotono che piacente, e sterile sempre.
Non ho notato i caratteri fisici, le note degenerative che mancano, per quanto io sappia, in lui completamente, come in quasi tutti i mattoidi (v. pag. 6), malgrado un largo sprazzo di eredità morbosa7. Ma quando le opere parlano e così chiaramente, non è indispensabile, quanto lo è pur negli altri casi di pazzia, ove scarseggiano e mancano simili dati, l’osservazione dei caratteri fisici e nevropatologici; ed a me si può credere in questo caso, a me, che forse non ho altro merito nel mondo scientifico, tranne di aver pronato ed attuato — quando pochi in Italia vi pensavano — l’esame clinico ed anatomico nello studio dei pazzi8; e che ne raccolsi sì larga messe d’ingiusti biasimi.
Il termometro è utile, necessario, anzi, in clinica come in chirurgia, ma una frattura od una pseudomembrana si può diagnosticare anche senza il suo aiuto.
Note
- ↑ Étude méd.-lég. sur la folie, 1866.
- ↑ Idem vedremo per Sbarbaro.
- ↑ Benvenuti (Proc. Sbarbaro 1885) depone: aver conosciuto Sbarbaro nel 1862, e nei 1870; allora era buono e mite; nel 1880 era cambiato: irritato, irritabile, con volubilità strana di carattere.
- ↑
Al Ministro De Sanctis.
«Bologna, 27 luglio 1878.
«.....Ella non solo non mi fa paura, ma m’ispira un profondo ribrezzo e disprezzo: specie dopo che ho in mano tanto da farlo uscire subito dai Consigli di un Re Galantuomo.
«Alludo al mercato da Lei fatto in Torino dei segreti di Stato, la prima volta che Ella fu ministro.
«.....Le ripeto sul viso che è un buffone, uno svergognato, un codardo. Coraggio là, coraggio; mi trascini innanzi al Consiglio superiore. Lo esigo! Le ripeto che Ella è un miserabile, un mentitore! Coraggio! Io l’aspetto a Roma.«P. Sbarbaro».
Al Ministro Guido Baccelli.
«Roma, Campo Marzio 84, li 18 di luglio 1882.
«...Badi, eccellenza, che io nè la prego nè la importuno per questa traslocazione. Io l’attendo senza neppure la disposizione di essere a lei Baccelli minimamente grato, e di perdonarle l’oltraggio codardo e sanguinoso che mi ha fatto, e che prima di morire, od in un modo od in un altro vendicherò.
«... Ho comprato un revolvers a cinque canne (motivo per cui non posso restituire al signor avv. Augusto Baccelli le sue lire quindici), e con quest’arma soddisferò tutti, facendomi saltare le cervella dopo di lei e dopo Struver, lo straniero a cui Ella impose di mentire per oltraggiarmi.
«... E inauguri l’amministrazione dell’insegnamento superiore col trasferirmi a Bologna».Ministero Istruzione Pubblica.
«... L’insultare una donna, codardo, non è esercizio di attribuzioni amministrative, ed io ti rompo la testa, sfidandoti a denunciarmi fin d’ora all’autorità giudiziaria, poltrone senza preterito, e senza avvenire.«Sbarbaro».
- ↑ «Vi è un secreto, un mistero che circonda in certa misura ogni più antica ed accettata instituzione privata, onde sarebbe non solo stoltezza, ma immoralità pretendere di alzare il velo che la buona educazione come la civiltà prescrive di religiosamente rispettare. Così, per atto di esempio, ha il suo secreto inviolabile, ha i suoi misteri la vita domestica, la famiglia, nè alcuno ha mai ragionevolmente preteso di sapere ciò che si passa nelle domestiche pareti in ordine alle faccende religiose od a qualsiasi altro negozio di questa e dell’altra vita».
- ↑ Vedine una raccolta curiosa nel libro del prof. Pierantoni: Sub lege Libertas. — Roma, 1884, 2a ed., pag. 83, 85, 108, III.
- ↑ Ha cranio calvo ma voluminoso e armonico, leggermente doligocefalo come i Liguri. Quanto ai suoi congiunti: il padre era negoziante alla marina; generalmente lo stimavano per un brav’uomo, e un pizzico di vanità morbosa si notava in una certa prodigalità strana in lui ligure, nella smania di parer più ricco di quanto fosse.
La madre pare commettesse delle stranezze, ma non era matta. Una sorella soffrì di malattia mentale; peggio un fratello, girava per la città, fermando tutti, declamando degli sproloqui senza senso, ma non dava noia ad alcuno, se non lo tormentavano.
Una sorella, monaca, è sana di mette; però non volle vedere suo padre morente. - ↑ V. Lombroso, Klinische Beiträge zur Psychiatria, Leipzig, 1871. — La medicina legale degli alienati studiata col metodo sperimentale, Padova, 1866.