Storia di Milano/Capitolo IV
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CAPO QUARTO
(950). Già erano trascorsi più di sessanta anni dacchè l’Italia non aveva più connessione alcuna co’ regni di Francia nè con quello di Germania, quando Berengario marchese d’Ivrea ascese sul trono italico l’anno 950. Gl’Italiani eleggevano liberamente un re, e il Papa lo incoronava imperatore. Frattanto nella Germania erano succeduti a Carlo il Grosso Arnolfo di lui nipote, poi Lodovico, figlio di Arnolfo, nel quale finì il sangue di Carlo Magno: a questo fu sostituito Corrado I, conte di Franconia, indi Enrico I duca di Sassonia, a cui succedette Ottone I, che già da quattordici anni regnava sulla Germania, quando il Marchese d’Ivrea fu incoronato in Pavia. Questi re di Germania, sebbene non dimenticassero l’Italia, e pensassero a regnarvi scacciandone quelli che la dominavano col titolo di Re o d’Imperatore, non ebbero però nè occasioni nè mezzi per eseguirne il disegno. Già si è veduto come il duca del Friuli Berengario I, per opera dell’arcivescovo Anselmo, ottenesse il regno d’Italia; poi da Giovanni X sommo pontefice fosse incoronato imperatore. Si è pure veduto come i duchi di Spoleti, Guido, poi il di lui figlio Lamberto, da Stefano V incoronati augusti, regnassero interrottamente. Questi Italiani, innalzati al trono italico ed alla dignità imperiale, dai Tedeschi vennero considerati come usurpatori, non meno di quello che consideravano Rodolfo, Ugone e Lotario, Svizzeri e Provenzali chiamati a regnare sull’Italia. Noi Italiani all’opposto non abbiamo collocato nella serie degli augusti nè Arnolfo, nè Luigi, nè Corrado, nè Enrico, dagli oltramontani inseriti nella cronologia degl’Imperatori; sebbene non incoronati dal Papa, e sebbene nè Corrado nè Enrico ne’ loro diplomi si siano mai dato il titolo d’Imperatori. Dal che nasce una confusione assai feconda di equivoci; perchè Enrico I imperatore dagli oltramontani si chiama Enrico II; e così i Tedeschi contano sette Enrici nella serie, dove noi non ne annoveriamo che sei; e quindi le denominazioni oltramontane eccedono d’una unità le nostre. Io Italiano debbo servirmi della cronologia italiana, e ne prevengo i miei lettori, per non ripeterlo ogni volta; e credo che sia ragionevole di non qualificare nè Corrado nè Enrico con un titolo che mentre erano in vita non credettero essi medesimi fosse loro dovuto. Era adunque asceso sul trono d’Italia il marchese d’Ivrea Berengario, e a questa proclamazione sommamente aveva contribuito Manasse, da Berengario istesso violentemente intruso nella sede arcivescovile. Fremevano i Milanesi al vederlo sul trono, non solamente abborrendo la recentissima scelleraggine d’aver egli avvelenato l’innocente giovinetto re Lotario suo benefattore, e l’altra che esercitava sull’infelice regina vedova Adelaide; ma in lui ravvisando un ingiusto oppressore del loro legittimo arcivescovo Adelmano. È assai probabile che da ciò fosse mosso Adelmano, e lo fossero i Milanesi, ad invitare secretamente Ottone re di Germania a scacciare dal trono quel pessimo uomo, e ad unire il regno d’Italia agli altri ch’ei già possedeva. Ottone spedì a Milano cautamente il di lui figlio Litolfo, per concertare l’impresa; e ciò accade appena un anno dopo che marchese d’Ivrea Berengario era re, cioè nel 9511. Venne Litolfo a Milano, e poco dopo scese il re Ottone nell’Italia. Con quali aiuti poi si conciliasse l’arcivescovo Manasse il favore di quel re, non lo sappiamo; ci rimangono però dei diplomi di Ottone spediti in Pavia appunto nel 951, dai quali si conosce ch’egli aveva creato Manasse arcicappellano.2 Pare che al comparire di Ottone si ecclissassero Berengario II e Adalberto. (952) Tutto piegossi al re Ottone, il quale senza contrasto in Pavia assunse il titolo di Re d’Italia; poi ritornato in Germania, dovettero colà portarsi Berengario e Adalberto, abbandonandosi alla generosità di Ottone, da cui a titolo di feudo vennero in Augusta nel 952 investiti del regno d’Italia, e da ciò ne fa nascere il Muratori il diritto che pretesero in seguito i re di Germania di avere sopra l’Italia.
Passati appena i torbidi giorni, e liberati dall’imminente peso del re Ottone, Berengario col suo figlio Adalberto ritornati in Italia, dalla viltà passarono alla prepotenza; solito costume delle anime basse d’insultare quando la fortuna è loro prospera, e annichilarsi quando è loro contraria. Il loro governo era diventato insopportabile. Lo scisma della Chiesa Milanese era finito dopo cinque anni, e la reggeva Valperto; quando, nel 957 il principe Litolfo venne alla testa di un’armata nell’Italia, speditovi dal re Ottone di lui padre, che occupato negli affari di Germania, non potea venire in persona a contenere i due tiranni. Litolfo però fu degno di venire invece di un gran re. Berengario e Adalberto fuggirono nell’isola di Giulio sul lago di Orta. Il luogo era assai forte. Litolfo si mosse per forzarli. Una masnada di militi traditori, come dovevano essere coll’esempio di tai padroni, consegnò nelle mani di Litolfo lo stesso Berengario, da cui erano stipendiati. Litolfo aveva l’anima grande, si sdegnò di vincere senza gloria e di profittare dell’infamia; generosamente lo fece scortare libero nella fortezza. In que’ tempi, sotto Ottone, sembra che qualche lampo si vedesse dell’antica magnanimità romana; e questo ci fa risovvenire di Camillo e di Fabricio. Ma il valoroso Litolfo, amato e venerato allora dagl’Italiani, poco dopo morì, non senza sospetto di veleno. Tali erano le armi di Berengario. Così que’ due cattivi uomini, degni di un infame patibolo, ripigliarono il dominio del regno, per essersi dispersi gli armati colla morte del condottiero. L’arcivescovo Valperto andossene dal re Ottone in Germania, implorando la sua venuta, per liberare Milano e l’Italia da coloro. Giovanni XII, sommo pontefice, spedigli dei legati pregandolo di venire, e offrendosi d’incoronarlo imperatore. (961) Scese finalmente in Italia il re Ottone nel 961, e in Milano nella chiesa di Sant’Ambrogio fu solennemente incoronato re d’Italia, e così ce lo descrive Landolfo Seniore. Interea Valperto mysteria divina celebrante, multis episcopis circumstantibus, rex omnia regalia, lanceam, in qua clavus Domini habebatur, et ensem regalem, bipennem, baltheum, clamydem imperialem, omnesque regias vestes super altare beati Ambrosii deposuit... Valpertus, magnanimus archiepiscopus, omnibus regalibus indumentis, cum manipulo subdiaconi, corona superimposita, astantibus beati Ambrosii suffraganeis universis, multisque ducibus atque marchionibus, decentissime, et mirifice Ottonem regem, collaudatum et per omnia confirmatum, induit, atque perunxit. Ho riferito le parole istesse di Landolfo, che scriveva circa un secolo dopo, acciocchè si veda che nessuna menzione in que’ tempi si faceva della corona ferrea, come nemmeno se ne trova cenno nelle precedute incoronazioni dei re d’Italia; e parimenti le ho riferite per dar luogo a riflettere che i suffraganei si chiamano beati Ambrosii, non già Barnabae apostoli. Il Muratori ha scritto da quel gran maestro ch’egli era, per disingannare sulla corona ferrea. Altri hanno dissertato sopra la seconda opinione. E l’una e l’altra di queste opinioni sono state immaginate molto tempo dopo di Ottone, la incoronazione del quale è probabilmente la prima che siasi fatta in Milano: non potendosi chiamare incoronazione quella fatta pure in Sant’Ambrogio sedici anni prima, quando il giovane Lotario vi fu proclamato. Forse non si fece questa solenne incoronazione in Pavia nella chiesa di San Michele, come era costume, perchè il palazzo reale era stato distrutto da Berengario, siccome accenna il conte Giulini appoggiato al testimonio di alcuni scrittori.
Da Milano passò a Roma Ottone, che ben si merita il nome di Grande. L’arcivescovo Valperto lo presentò al papa, da cui venne incoronato augusto nel 962. Appena celebrata questa sacra cerimonia se ne venne l’imperatore a Pavia; Berengario e Adalberto stavano ricoverati nel forte castello di San Leone. Villa, donna crudele e degna moglie di Berengario, erasi appiattata nell’isola di San Giulio sul lago d’Orta: Ottone assediò l’isola, fece prigioniera la regina, e poi che l’ebbe, la fece nobilmente scortare fino al castello di San Leone, e la lasciò al marito. Due anni dopo si dovette rendere alle armi di Ottone Augusto anche San Leone, e allora Berengario e la moglie furono relegati nella Germania. La generosa e mite condotta del saggio augusto merita rispetto e lode. Egli dovette in Roma usare del rigore. Volle esserne il padrone; nè entrerò io ad esaminarne i titoli. L’amor nazionale ha forse dettata al chiarissimo Muratori la disapprovazione ch’ei ne fa. Io onoro quel gran maestro; ma nelle azioni di Ottone vi è sempre un non so che di grande e di generoso che le abbellisce; e s’egli voleva comandare agli uomini oltre i limiti, almeno convien confessare ch’egli era degno di un tal comando. Sotto di lui la zecca di Milano ha battuto moneta, ed io ne ho nella mia collezione. Il cronista Sassone, pubblicato dall’Eccart, dice che Ottone: Mediolanenses subjugans, monetam iis innovavit, qui nummi usque hodie Ottelini dicuntur. Vi è chi ha opinato che la nuova moneta fosse di cuoio; ma la moneta è di argento buono, simile a quello delle monete di Ugone e di Lotario, scodellata come quelle, e perciò innovavit potrebbe intendersi, o per avere posta in azione la zecca, o per averla collocata in nuovo sito, e forse quello antichissimo che diede il nome alla vicina chiesa Alla Moneta, dove quell’officina si è conservata per più di otto secoli sino all’anno 1778. Nulla di più ci somministra la storia di Milano sotto di Ottone I, che morì l’anno 973, nè sotto il di lui figlio Ottone II, che fu pure augusto e regnò sulle tracce del padre. Sotto due regni attivi e rispettati, nulla poteva somministrarci la storia d’una città la quale non influiva nel regno italico se non colla sagacità dell’arcivescovo metropolitano; importantissima sotto un monarca debole, e annullata sotto di un vigoroso. Durante la dominazione di Ottone I e di Ottone II per lo spazio di ventidue anni, sino al 983, Milano obbedì e rimase tranquilla. Morì Ottone II in Roma, e colla di lui morte ritornò l’anarchia per quasi sei anni, ne’ quali non si riconobbe verun re, giacchè il fanciullo Ottone III era il soggetto delle dispute in Germania fra chi voleva essergli tutore, e gl’Italiani non conoscevano loro sovrano se non quello che fosse stato incoronato re d’Italia in Italia. Le carte di quell’epoca portano la data dell’incarnazione senza nominare il sovrano, siccome era e fu per lungo tempo il costume. Venne in Italia poi l’imperatrice Teofania correggente, e madre del giovine Ottone; il quale, coll’opera di lei, fu riconosciuto per sovrano; poi venne in Roma incoronato imperatore nel 996 da Brunone, ch’ei fece papa ed ebbe nome Gregorio V. L’imperatore Ottone III, contenendo l’ambizione dell’arcivescovo, soddisfaceva la di lui vanità, quando, nel 1001, lo destinò suo ambasciatore all’imperial corte di Costantinopoli per ricercare agli augusti Costantino e Basilio la principessa Elena in isposa. Descrive Landolfo quest’ambasciata, ed io lo farò colle parole di lui: Archiepiscopus, magno ducatu militum stipatus, quos pellibus martullinis, aut cibellinis, aut rhenonibus variis, et hermellinis ornaverat, quibus imperator mirifice eum imbuerat, si portò alla corte di Costantinopoli e si presentò ai greci augusti: Episcopalibus indumentis ornatus cum stola, sine qua nunquam foris, aut in civitate, ullis negotiis intervenientibus, aut perturbantibus, esse solitus fuit... et ab ipso admirabili monarcha magna susceptus honorificentia, satis episcopaliter conversatus est. L’ambasciata doveva essere pomposa. Era un augusto che la spediva ad un augusto, per una inchiesta solenne di nozze. Si vede che il lusso allora era nelle pellicce. Fra gli ornamenti vescovili ancora non eravi la mitra; e l’arcivescovo andava abitualmente vestito co’ suoi paramenti, come appunto continuano a praticare i sommi pontefici colla stola, che non depongono mai. Fu consegnata all’arcivescovo la sposa; ma, giunto egli a Bari, nel 1002, colla principessa, intese la morte seguita poco prima di Ottone III, per cui Elena rimase vedova prima di conoscere lo sposo. A quest’ambasciata, sostenuta dal nostro arcivescovo Arnolfo, siamo debitori del famoso serpente di bronzo, che tuttavia resta collocato sopra di una colonna in Sant’Ambrogio. Non è cosa nuova ne’ monarchi di premiare e ricompensare con donativi, il valore de’ quali non pregiudichi l’erario. Il serpente di bronzo fu donato dal tesoro di Costantinopoli, facendo credere al buon arcivescovo, che fosse il medesimo che Mosè innalzò nel deserto; e con questa bella antichità fu rimeritato della enorme spesa che fece.
Morto appena Ottone III, frettolosamente si radunarono in Pavia alcuni signori italiani, e ventiquattro giorni dopo la di lui morte, proclamarono re d’Italia Arduino, marchese d’Ivrea; e tosto venne incoronato nella chiesa di San Michele in Pavia. L’arcivescovo era assente per l’ambasciata, e quando ritornossene a Milano portossegli incontro il nuovo re, e fece di tutto per renderselo amico. Il regno degli Ottoni, vigoroso e assoluto, aveva mossi i magnati d’Italia a crearsi un re debole ed italiano, sebbene d’una famiglia che non aveva dato che re malvagi. Questo Arduino per dodici anni sostenne la contrastata figura di re d’Italia, scacciato ogni volta che vennero i Tedeschi, e nel 1015 terminò la scena col farsi frate e morire. I Milanesi non erano contenti di questo re Arduino, o perchè eletto senza aspettare l’opera dell’arcivescovo, ovvero per l’odiosa memoria di Berengario, marchese d’Ivrea, e questa memoria non era lontana che di quarant’anni. L’arcivescovo era del partito di Enrico, che era fatto re di Germania; ma cautamente si conduceva a seconda del tempo. Venne Enrico nell’Italia nel 1004, e in Pavia fu incoronato re d’Italia, e da noi chiamasi Enrico I; e Ditmaro c’insegna che venne in Milano il nuovo re, Sanctissimi praesulis Ambrosii amore. Tutte le carte che ci rimangono negli archivi, da quel giorno, portano il nome di Enrico I re d’Italia; dal che vedesi che, sebbene Arduino, partito il re Enrico, ripigliasse in gran parte il dominio d’Italia, Milano si mantenne fedele ad Enrico. Enrico fu, nel 1014, incoronato imperatore dal sommo pontefice Benedetto VIII, e cessò di vivere nel 1024. La memoria la più importante che ci resta di lui, è la legge ch’ei pubblicò nel 1021 per proibire ai sacerdoti il vivere colla moglie, mosso a ciò da un concilio tenutosi a questo fine in Pavia. Allora la chiesa ambrosiana non vietava le nozze al clero; ne vedremo in seguito la crisi, che riuscì assai crudele. Il conte Giulini, seguendo la traccia di altri autori, chiama questa costumanza concubinato, e i sacerdoti ammogliati concubinarii: io credo che sia più conveniente voce quella di matrimonio e di ammogliati; perchè nel nostro linguaggio comune, le prime parole significano una unione conosciuta illegittima da quei medesimi che la contraggono, e le unioni credute legittime chiamansi matrimoni anche fra gli ebrei e fra i pagani. Livia viene chiamata moglie di Augusto; Ottavia, moglie di Nerone; Domitilla, moglie di Vespasiano, e così diciamo di ogni unione d’uomo con donna, creduta e sostenuta e dai contraenti e nella opinione della loro città per legittima. Il celibato, a cui la Chiesa ha sublimato i ministri dell’altare, allora non era così generalmente osservato. I sacerdoti milanesi, come nel rito, così anche rispetto al celibato, si accostavano alla disciplina della chiesa greca. Disputarono, come vedremo, per conservare questa facoltà di ritenere la moglie. Dico ritenere, poichè il rito non permetteva ad alcun sacerdote di ammogliarsi e continuare nell’ufficio sacerdotale; ma unicamente concedeva agli ammogliati d’essere ordinati sacerdoti, e continuare a vivere colle loro legittime mogli; e perciò credo che sia un dovere di non macchiarli coll’odioso nome di concubinari: non già perchè io preferisca l’antica alla vigente disciplina, ma perchè l’imparzialità della storia mi determina a così fare. Questo concilio ebbe alla testa il sommo pontefice Benedetto VIII, che vi è sottoscritto, e dopo lui vi è immediatamente l’arcivescovo Ariberto: Sanctae mediolanensis ecclesiae archiepiscopus, così egli si qualificò, nè gli altri vescovi chiamarono santa la loro chiesa. Ma l’arcivescovo non si prese molta briga briga perchè fossero questi decreti nella sua diocesi bene eseguiti, dice il conte Giulini.3
Quest’arcivescovo Ariberto merita un luogo assai distinto nella Storia di Milano. Gli scrittori per lo più lo nominano Heribertus; ma egli si sottoscriveva Aribertus, e così lo chiama il conte Giulini, come io pure lo nominerò. Se Ansperto arcivescovo ebbe idee tanto generose e grandi da restituire le mura diroccate della patria e munirla di robusta difesa; opera degna d’un sovrano, e che eccedeva le forze e la comune inspezione d’un sacro pastore; Ariberto nacque a tempo per rianimare la patria, dargli colla sua indole ardita e grande un risalto ed una considerazione che ella conservò dappoi. Se noi risguardiamo questi due illustri cittadini come arcivescovi, certamente dobbiamo confessare che essi non professarono quella dolce mansuetudine e quel distacco dalle cose mondane che formano la base delle virtù di un ecclesiastico: ma se gli risguardiamo come due cittadini ricchissimi, costituiti in una eminente dignità, che, profittando delle occasioni, sacrificarono le ricchezze, il riposo, e cimentarono valorosamente la vita per la gloria e l’amore della patria che ad essi debbe il suo risorgimento, siamo costretti a ricordarli con una tenera venerazione. Ariberto era stato creato arcivescovo nel 1018, e nel corso di ventisette anni ch’egli occupò questa sede, Milano diventò la città precipua della Lombardia, e in questo primato si mantenne poi sempre in appresso. Da Uraja ad Ariberto passarono appunto i cinque secoli di depressione per Milano. Ariberto da Antimiano era nel 1007, suddiacono della santa Chiesa Milanese, cioè Cardinalis de ordine, dal che ne venne il vocabolo di Ordinario, nome che conservano tuttavia i Canonici maggiori della Metropolitana. Egli era allora custode della chiesa di Galliano, che era capo di Pieve in quel tempo. Cinque anni dopo che fu fatto arcivescovo, eresse uno spedale pe’ poveri al luogo ove trovavansi, non ha guari le monache Turchine, lo dotò di molti e vasti poderi proprj ("de nostris proprietatibus", come egli dice), e assegnò il fondo per mantenervi ad assisterlo e regolarlo dodici monaci, i quali dovessero osservare la regola di San Benedetto.4 Sanno gli eruditi che i monaci allora erano subordinati all’arcivescovo di Milano, come ogni altro ecclesiastico5, e che i monasteri per lo più avevano uno spedale vicino, in cui dai monaci si albergavano e nodrivano i poveri. Questo monastero era presso la Basilica di San Dionisio.
Morto Enrico Augusto senza figli nella Germania, fugli eletto per successore Corrado il Salico, duca di Franconia. I signori italiani invitati non comparvero in Germania, ma si radunarono in Pavia per passare alla elezione d'un re. Era tanto combattuta la dignità reale nell'Italia, che non potevansi mantenere senza una incessante forza; e perciò il re di Francia Roberto, il duca d'Aquitania Guglielmo, e qualche altro principe, cui venne offerta la corona italica, non vollero accettarla. Era il regno nuovamente nello stato d'una anarchia, quando l'arcivescovo Ariberto: suorum comparium declinans Heribertus consortium, invitis illis, ac repugnantibus adiit Germaniam, solus ipse Regem electurus Teutonicum; così ce lo Arnolfo, nostro milanese, scrittore di quel secolo6; dal che vedesi abbastanza il carattere deciso e intraprendente di Ariberto, che non si curava de' pari; e posto che doveva avere un re da riconoscere per suo sovrano, voleva averlo ei solo in qualche modo trascelto, e che a lui dovesse la sua corona. Wippone, cappellano del re Corrado scrive questo arrivo dell’arcivescovo in Costanza, ove trovavasi il re Corrado, al quale dice che Ariberto promise che, tosto che fosse venuto in Italia, l’avrebbe acclamato e incoronato re: Ipse eum reciperet, et cum omnibus suis ad dominum et regem publice laudaret, statimque coronaret il che gli promise con giuramento e col pegno di ostaggi. Questo produsse che il nuovo re concedette all’arcivescovo: praeter dona quamplurima, Laudensem Episcopatum; ut sicut consacraverat, similiter investiret Episcopum; e con ciò oltre il dritto, che era del Metropolitano, di consacrare il vescovo suffraganeo, venne donato ad Ariberto il dritto di investitura, ossia di collocare al possesso della dignità e dei beni il nuovo vescovo: dritto che in que’ tempi pretendevasi dal sovrano, non come un semplice placet, ma come una investitura; la quale cagionò poi gravi sconcerti e guerre fatali fra il sacerdozio e l’Impero. Forse questo dono fatto al nostro arcivescovo, che in qualche modo gli dava la sovranità sopra di Lodi, fu cagione funesta dell’abuso che i Milanesi fecero della loro potenza ad esterminio de’ Lodigiani, da che ne vennero fatali conseguenze per noi medesimi. Che che ne sia, l’arcivescovo, al dire del citato Arnolfo, rediens securus in omnibus, totam suis legationibus evertit Italiam, alios re, re, alios spe benevolos faciens. Tale era il carattere di quell’uomo, fatto o per rovinare o per innalzare sè stesso. Ariberto incoronò in Milano Corrado l’anno 10267, o almeno assai convincenti sono le ragioni per crederlo. Venne Corrado poi l’anno dopo coronato imperatore in Roma dal sommo pontefice Giovanni XIX. L’Arcivescovo era ricco e splendido a segno, che per più settimane alloggiò signorilmente il nuovo Augusto e la sua corte a spese proprie; poi gli somministrò l’ajuto per soggiogare i Pavesi che ricusavano di riconoscerlo. Partitosene l’imperator Corrado verso la Germania, Ariberto dispoticamente elesse un nuovo vescovo di Lodi; e sul rifiuto che i Lodigiani fecero di accettarlo, mosse verso Lodi alla testa di un numero d’armati bastante per costringere, siccome fece, i Lodigiani a riconoscerlo ed obbedirgli. In que' tempi non era cosa insolita il vedere dei vescovi nelle armate: merita però riflessione il fatto di Ariberto, che tanta forza e autorità si era acquistata da potere da sè fare la guerra8. I Pavesi e i Lodigiani, così, diventarono nemici dei Milanesi.
Un fatto accaduto circa questo tempo, cioè nel 1028, merita di essere riferito, perchè ci dà idea de’ tempi e del carattere di Ariberto. S’era sparsa voce che nel castello di Monforte nella diocesi di Asti vi fosse celata una nuova setta di eretici. Glabro dice che questa eresia approvava i riti de’ Pagani e de’ Giudei9, quasi che fossero componibili i due riti della unità di Dio e del politeismo, della detestazione e del culto degli idoli. Landolfo il Vecchio dice, che interrogati questi eretici rispondevano di essere pronti ad ogni patimento; che amavano la virginità, e vivevano castamente sino colle loro mogli; non mangiavano mai carne; digiunavano, e si distribuivano le orazioni in guisa che nessuna ora del giorno vi fosse in cui non offrissero a Dio le loro preghiere; che avevano i loro beni in comune; credevano nel Padre, nel Figliuolo e nello Spirito Santo; tenevano che vi fosse una podestà in terra di legare e di sciogliere; e riverivano i libri del nuovo e del vecchio Testamento, i sacri canoni. Così essi professavano la loro fede. Molti marchesi e vescovi e signori erano comparsi colle armi, per sottomettere quel castello di Monforte, ma inutilmente. L’arcivescovo Ariberto, girando, per la sua giurisdizione, sulle diocesi de’ vescovi suoi suffraganei, scortato da militi valorosissimi, sebbene ascoltasse da Gaiardo, uno de’ pretesi eretici, la professione di fede nella maniera che ho detto, credette di penetrare la malignità di quelle espressioni. Si posero loro in bocca molti sentimenti eterodossi sopra i santi misteri della Trinità e della Incarnazione; e si volle che, fra gli altri errori, coloro credessero che il matrimonio fosse cosa riprovabile, e che anche senza veruna opera di uomo sarebbero nati i fanciulli e continuato il genere umano. Ogni lettore che preferisca la verità alla opinione, giudichi se sia mai possibile che un ceto di uomini adotti e professi una tale dottrina! Certo è però che gli abitatori del castello di Monforte vennero in buon numero presi dai militi dell’arcivescovo, e tradotti a Milano insieme colla contessa di Monforte, signora del del castello; e l’Arcivescovo tentò di convertirli col mezzo di ecclesiastiche e pie persone; ma ciò non riuscendo, i Primati della nostra città temendo, dice il conte Giulini10, che non si spargesse più largamente il veleno, alzata da una parte una croce e dall’altra acceso un gran fuoco, fecero venire tutti gli eretici, e loro proposero l’inevitabil partito, o di gettarsi a piè della croce, e confessando i loro errori abbracciare la dottrina cattolica, o di gettarsi nelle fiamme. Ne seguì che alcuni si appigliarono al primo progetto; ma gli altri, ch’erano la maggior parte, copertisi il volto colle mani, corsero nel fuoco, da cui furono miseramente consumati; al che aggiunge Landolfo il vecchio, che un tal fatto accadesse per volere de' primati: Heriberto nolente. In que' tempi il glorioso nostro Sant’Ambrogio non si dipingeva punto in atto feroce con uno staffile nella mano; nè si credeva che avesse contrastato al sovrano, nè perseguitato gli eretici seguaci di Ario. Si sapeva che il santo Vescovo aveva pazientemente sofferta la persecuzione del Principe; e aveva tollerati con carità e mansuetudine i suoi fratelli che traviavano nella fede; e a Dio padrone di tutto supplice offriva le sue preghiere, acciocchè misericordiosamente li richiamasse alla strada della vita, senza adoperare egli altre armi o suggestioni, che la parola che persuade, l’esempio che persuade ancor più, e la fraterna compassionevole affezione, colla quale si distinse quel beato nostro Pastore. L’orgogliosa ambizione di sovraneggiare persino le idee, coprendosi col manto d’un religioso zelo,ha introdotta la persecuzione, la violenza, i roghi, i quali non hanno distrutto giammai il fanatismo; ma attizzandolo anzi, l’hanno alimentato, e resi irreconciliabili gli eterodossi. La umanità, la dolce insinuazione, la pazienza disarmano gli avversari, e li richiamano a venerare il vero Dio, con mansuetudine, con pace, colla benevolenza e coll’esercizio della virtù. Io mi sono prefisso di non considerare Ariberto come arcivescovo. Come uomo pubblico, cittadino, soldato politico, egli ha saputo rendersi padrone di quella rocca, il che in vano altri aveva tentato; e il suo cuore ricusò di approvare l’atto ingiusto e crudele del supplizio. Vi è molto anche da dubitare se veramente quegl’infelici fossero in errore nel dogma. Mi pare incredibile l’errore di fisica sulla generazione. Mi sembra assurdo l’altro errore loro imputato, cioè che fosse loro opinione dannarsi ciascuno se non moriva fra i tormenti. Ripugna poi affatto al buon senso il costume che volevasi loro attribuire, cioè che violentemente uccidessero i loro confratelli allorchè gravemente erano ammalati. Se ci fosse rimasto qualche scritto in cui alcuno di questi infelici avesse rappresentata la causa propria, saremmo un po’ meglio informati della verità. Forse erano costoro cristiani più pii e segregati dalla depravazione generale, e per ciò perseguitati. San Pietro Damiano, che viveva in quel secolo, così scriveva: ad tantam faecem quotidie semitipso deterior mundus devolvitur, ut non solum cujuslibet sive saecularis sive ecclesiasticae conditionis ordo a statu suo collapsus jaceat, sed etiam ipsa monastica disciplina, solo tenus, ut ita dixerim, reclinata, ab assueta illa altitudinis suae perfectione languescat. Periit pudor, honestas evanuit, religio cecidit, et veluti facto agmine, omnium sanctarum virtutum turba procul abscessit11: così quel Santo descriveva i costumi di que’ tempi infelici. Il supplizio adunque de’ nominati abitatori di Monforte fu certamente atroce e poco cristiano; l’errore se vi fosse è cosa dubbia. Così leggiamo che dai pagani si trattassero i martiri; ma così non si legge che gli apostoli dilatassero la santa e mansueta religione di Cristo. Questa però è la prima memoria e la più antica di persecuzioni e patiboli adoperati da’ Cristiani per causa di religione, e mi dispiace che questo primo esempio, che ne’ secoli posteriori è stato seguìto da tanti altri funesti, sia stato dato in Milano l’anno 1028.
Frattanto che l’imperatore Corrado dimorava lontano dall’Italia, la potenza d’Ariberto andava ogni dì crescendo, e la città si avvezzava sempre più a considerare l’arcivescovo come il capo della Repubblica. A tanto giunse il potere d’Ariberto, che, unitosi con Bonifacio marchese di Toscana formarono un esercito, e sormontato il gran S. Bernardo, si portarono in vicinanza del Rodano ad unirsi all’armata dell’imperatore Corrado, che pretendeva il regno della Borgogna occupato da Odone duca di Sciampagna. Wippo attesta il luogo in cui quest’aiuto venne ad unirsi all’Imperatore, e i nemici furono sconfitti, rimanendo il regno a Corrado; di che ne fa una menzione distinta lo storico nostro Arnolfo 12. Poi ritornato Ariberto alla patria, sempre più militare ed animoso, avvenne che un buon numero di militi milanesi, malcontenti di lui, cercarono il modo di contenerlo; e memori della violenza usata da Ariberto contro i Lodigiani, passarono a Lodi, ed eccitarono quanti più poterono a prendere le armi e seco loro unirsi per fiaccare la potenza di lui. Ariberto andò incontro a costoro, avendo fra i suoi anche altri vescovi suffraganei. Seguì una zuffa assai ostinata, e il partito dell’Arcivescovo rimase con poco vantaggio, e fra gli altri uccisi si annoverò il vescovo di Asti suo suffraganeo, che rimase sul campo13. Venne poi l’imperatore Corrado in Italia nel 1037; e si portò a Milano. Cosa veramente gli accadesse, non lo sappiamo; si parla dagli autori di inquietudine sofferta, di tumulto popolare. Quanto sappiam di certo, si è che quell’Augusto ben tosto portossi a Pavia, dove l’arcivescovo Ariberto lo raggiunse. Ma, sia che quell’Augusto avesse attribuito ad Ariberto la poca sicurezza ritrovata in Milano, sia che l’Arcivescovo usasse di un tuono poco rispettoso e sommesso, la storia c’insegna che Ariberto ivi fu arrestato, e sotto buona scorta trasportato a Piacenza prigioniero. Io non trovo difficiltà a credere che realmente Ariberto non fosse contento che in Milano soggiornasse un uomo maggiore di lui; che egli indirettamente potesse aver fomentata la licenza del popolo per farne partire l’Imperatore; e che confidando sull’autorità che possedeva, o sulla illusione del Principe, si presentasse a lui a Pavia con sicurezza. A custodire il prigioniere Ariberto l’Imperatore aveva destinati i suoi più fidi, ai quali l’Arcivescovo offrì una lauta cena, abbondante singolarmente di scelti vini. I custodi cedettero alla ghiottoneria, e la secondarono sino alla ubbriachezza; e questo era appunto lo stato al quale aveva pensato di ridurli l’Arcivescovo per sottrarsi, come fece, alla loro custodia. Così egli ricuperò la libertà, e cautamente portossi a Milano, accolto dalla città con somma allegrezza. Poichè Corrado intese il fatto, si mosse, e alla testa de’ suoi s’accostò a Milano per farne l’assedio, ad oggetto singolarmente di riavere l’Arcivescovo in suo potere; ma i tempi erano assai cambiati. Milano non era più la città spopolata, distrutta e languente; era maxima multitudine munita, come ci attesta Wippo; e i Milanesi gli andarono incontro, e più volte si azzuffarono cogl’Imperiali. Tutti i tentativi dell’Imperatore riuscirono vani; ei potè devastare i campi e le ville, ma dovette abbandonare il pensiero di aver Milano. La collera dell’Imperatore scelse allora un’altra specie di guerra. Pensò egli di deporre l’arcivescovo Ariberto, e nominò Ambrogio prete cardinale della Santa Chiesa Milanese in sua vece, forse credendo che alla città medesima, stanca per avventura della dominazione di Ariberto, piacer dovesse la nuova scelta; ma nessuno de’ cittadini da questa novità fu commosso14. Vedendo riuscir vano il colpo, un altro ne rimaneva da provare, ed era di animare il sommo pontefice contro dell’arcivescovo; e Corrado perciò portossi a Roma, e indusse Benedetto XI a scomunicare Ariberto: ma nemmeno perciò l’arcivescovo cambiò punto pensiero o sistema15, e quindi Corrado il Salico abbandonò l’Italia, e nella Germania poco dopo cessò di vivere nel 1039.
Rimase così quasi sovrano Ariberto alla testa della sua città. Enrico figlio di Corrado era stato già proclamato re di Germania. Ho accennato che dopo l’infeudazione fatta da Ottone in Berengario e Adalberto, i re di Germania credevano che l’Italia fosse una parte della loro corona, e gl’Italiani diversamente credevano che il loro fosse un regno distinto, e che non si acquistasse se non colla proclamazione e incoronazione in Italia. Prima che non seguisse la incoronazione, le carte milanesi non facevano menzione alcuna del re. Il re Enrico fu poi imperatore, e fu il secondo che ne assumesse il titolo, e da noi perciò chiamasi Enrico II, sebbene gli oltramontani lo chiamino III. Enrico era lontano; e l’impazienza del carattere facendo sembrare noioso il tempo della tranquillità, disgraziatamente animò i Milanesi ad una guerra civile fra i nobili e la plebe. Questo primo germe di discordia non si estinse mai più, sebbene per intervalli venisse sopito. Tutta la storia seguente ne farà testimonio. L’arcivescovo era alla testa del partito de’ nobili, come quasi sempre lo furono gli altri suoi successori. La cosa è assai naturale, perchè i cardinali erano scelti fra le più nobili famiglie, e l’arcivescovo era trascelto dal loro numero. La plebe era trattata con molta durezza dai nobili. La nazione aveva già preso un’educazione militare, e questa ha per solo rapporto fra un uomo e l’altro il comando e l’obbedienza. Un resto ancora rimaneva di servitù longobarda, per cui un nobile era proprietario di molti uomini. I costumi erano ancora agresti, e spiravano il secolo di ferro. La plebe, che aveva col suo sangue contribuito anch’essa a difendere la patria, non poteva soffrire di vedersi così non curata e depressa cessato che fu il pericolo. La plebe di Roma abbandonò la patria e si ricoverò sul monte Sacro. Convien confessare che quella di Milano trovò uno espediente migliore; poichè invece ella scacciò dalla città l’arcivescovo e tutti i nobili: e ciò avvenne l’anno 1042. Per più di due anni continui si mantennero i plebei ben muniti e difesi in Milano; tentando Milano, tentando incessantemente i nobili, o per assedio o per sorpresa, di rientrarvi; e sempre respinti colla loro peggio. Vi volle un giusto timore che il re Enrico approfittasse di questa discordia, per riunire almeno in apparenza gli animi e calmare i partiti. L’arcivescovo Ariberto, nel 1045, finì la sua gloriosa carriera. Mentre egli era ammalato e vicino a morte, Uberto fedele suo milite, mostravasi afflitto, e l’Arcivescovo placidamente lo consolò, dicendogli: Io vado sicuro ai piedi di Sant’Ambrogio, tuo e mio padre. - Landolfo seniore ci descrive la religiosa pietà del nostro Ariberto: Convocatis sacerdotibus et diaconibus, summa cum devotione omnium peccatorum poenitentia accepta, atque confessione coram omnibus facta, atque absolutione a sacerdotibus per impositionem manuum, Spiritu Sancto cooperante, donata, sanctam Eucharistiam humiliter ac devote suscepit16; e poco dopo morì; uomo che nel carattere ebbe molta grandezza; buon soldato, buon principe; aveva i costumi e la religione de’ suoi tempi; egli nacque opportunamente per la sua gloria, e per rianimare la sua patria, che dall’epoca sua può contare il vero suo risorgimento.
L’arcivescovo Ariberto, le di cui armi portarono la vittoria oltre le Alpi, e seppero fare insuperabile resistenza all’Imperatore, fu quello che inventò l’uso di condurre nell’armata il carroccio, nome conosciutissimo, sebbene poco ne sia conosciuto l’oggetto. I nostri scrittori ci rappresentano questo carroccio come una superstizione, ovvero come una barbara insegna. Io credo che piuttosto debba riguardarsi come una invenzione militare assai giudiziosa, posta la maniera di combattere di que’ tempi. Nel tempo in cui dura un’azione, egli è sommamente importante il sapere dove si trovi il comandante, acciocchè colla maggiore prestezza a lui si possa riferire ogni avvenimento parziale; egli è parimenti opportunissimo il sapere dove precisamente si trovino i chirurgi, per ivi trasportare i feriti; parimenti è necessario che il sito in cui trovasi il comandante, e in cui si radunano i feriti, sia conosciuto da ognuno, acciocchè si abbia una cura speciale di accorrere a difenderlo. Questo sito deve essere mobile a misura degli avvenimenti; e a tutti questi oggetti serviva il carroccio, ch’era un’assai eminente antenna, alla sommità della quale stava un globo dorato assai lucido e distinguibile, sotto il quale pendevano due lunghe bandiere bianche, e al mezzo dell’albero stavavi una croce. Avanti di quest’antenna eravi l’altare, sul quale celebravansi i sacri misteri per l’armata; e tutto ciò era conficcato sopra di un carro assai vasto e sicuro per servire di base a questo enorme vessillo, e trasportarlo. Un gran numero di bestie si adoperava per moverlo. Non è punto inverisimile il credere che su di quel carro o carroccio si ponesse la cassa militare, la spezieria, e quanto più importava di avere in salvo e pronto uso. Nemmeno sarebbe inverisimile il dire che con varj segnali da quell’altissimo stendardo si dessero gli ordini per un mezzo prontissimo, come si costuma anche ora nella guerra di mare. Terminata la guerra, si riponeva il carroccio nella chiesa maggiore, come cosa sacra e veneranda; e così anche l’opinione religiosa contribuiva a fare accorrere alla di lui preziosa custodia i combattenti. Pare adunque che il comandante o rimanesse vicino al carroccio, o ivi almeno lasciasse l’indizio del sito a cui si volgevaper subito rinvenirlo; che vicino al carroccio si portassero i feriti, sicuri di trovare ivi ogni soccorso, lontani da ogni pericolo; che dal carroccio si diramassero gli ordini per mezzo di segnali con somma rapidità; che ivi si custodisse quello che eravi di prezioso; e che gli occhi de’ combattenti, di tempo in tempo rivolti a quel vessillo, conoscessero quali azioni ad essi comandava il generale, e quale fosse il luogo più importante di ogni altro da custodirsi. Nella maniera di guerreggiare dei tempi nostri riuscirebbe inutile una tal macchina, ben presto rovesciata dall’artiglieria, che ridurrebbe quel contorno più d’ogni altro pericoloso; il fumo impedirebbe spesse volte che quello stendardo fosse visibile: ma prima dell’invenzione della polvere, il carroccio inventato da Ariberto certamente fu con accortezza immaginato; e perciò anche le altre città della Lombardia, quando, coll’esempio de’ Milanesi, acquistarono l’indipendenza e si ressero col loro municipale governo, adottarono ciascheduna il proprio gran vessillo, ossia carroccio. Così facilmente intendiamo come la perdita del carroccio fosse un avvenimento che funestasse una città; non già per un’idea di Palladio, o per una vana opinione d’onore soltanto; ma perchè la perdita del carroccio era prova di una totale sconfitta, al segno di non aver potuto preservare quello spazio che sommamente era cura di ciascuno il difendere.
La riconciliazione fra i nobili e i plebei era stata momentanea; e durava tutt’ora, come dappoi continuò, lo spirito di partito. Acciocchè il governo degli ottimati sia fermo, conviene che la costituzione ponga una distanza grande fra il ceto dei pochi, presso i quali sta il comando, e il vasto ceto ceto di quelli che sono destinati alla passiva obbedienza. La loro persona deve comparire al popolo sacra e veneranda; ma conviene che ciascuno ottimate, al deporre che fa la toga e la pubblica persona, diventi popolare; e così la plebe ama i padroni, e riceve come un beneficio que’ momenti ne’ quali discendono con lei i magnati. Niente di questo eravi nella informe costituzione nascente di Milano. L’autorità de’ magnati non aveva l’augusto appoggio delle leggi, e il loro costume, violento e duro, insultava il popolo, e lo indisponeva ad obbedire ad un’autorità incautamente adoperata. Morto appena il grande Ariberto si rinnovarono i partiti, e cominciò la plebe a pretendere di avere essa pure influenza nell’elezione dell’arcivescovo, dignità diventata assai più politica che spirituale17. Non fu possibile di terminare la controversia fra di noi; l’ostinazione era insuperabile, e quindi fu risoluto di ricorrere al re Enrico, e lasciare a lui la nomina del nuovo arcivescovo. Vennero adunque presentati al re i nomi di quattro cardinali della santa Chiesa Milanese, acciocchè ne facesse la scelta. Ma il re profittò dell’occasione e nominò arcivescovo certo Guidone, Milanese bensì, ma uomo ignobile, e conseguentemente che non era del ceto de’ cardinali ordinari: e così collocò sull’importante sede metropolitana una sua creatura, interamente da lui dipendente; si affezionò il partito de’ plebei, abbassò i magnati, e si aprì la strada per essere più padrone del regno d’Italia, che non potè esserlo il di lui padre Corrado. Vi volle tutta l’astuzia di Guidone, tutto il timore che si aveva del re Enrico, e molto denaro per ottenere che consacrato il nuovo arcivescovo. Il partito de’ nobili fu talmente offeso nel vedere collocato un plebeo a loro dispetto sulla sede arcivescovile, che in un giorno solenne l’indecenza fu portata a segno di piantare abbandonato solo all’altare il nuovo arcivescovo, essendosi sottratti i cardinali in mezzo della sacra funzione, come ci attesta Landolfo Seniore. Non si può a meno di non compiangere con san Pietro Damiano la misera condizione di que’ tempi, e consolarci nel vedere i sacri ministri dell’altare de’ giorni nostri ben diversi, col loro esempio insegnando al popolo la riverenza che si deve al santuario, e colla loro mansuetudine allontanandolo dal perseguitare i nostri fratelli sotto pretesto di religione. Pare che in quel secolo infelice la religione, in vece di contenere le malvagie passioni degli uomini, da essi fosse sfrontatamente adoperata, servendosene di pretesto per farvi un più libero corso.
Il re Enrico venne in Italia; portossi a Roma; depose varii che si dicevano sommi pontefici; e fece eleggere dal clero o dal popolo Svidger, sassone, ch’egli aveva al suo seguito condotto a Roma. Nel giorno medesimo in cui Enrico fece incoronare papa Svidger col nome di Clemente II, Clemente II incoronò imperatore Enrico. Così quel sovrano, coll’assoluta sua autorità, eleggeva il papa e l’arcivescovo, e aveva annientato il potere de’ sacri canoni e la libertà dell’ecclesiastiche elezioni. Da ciò nacquero le discordie, che durarono per secoli, a separare i cristiani in due partiti, gli uni a favore della sovranità, gli altri a favore della libertà ecclesiastica; e se questo furore di partito finalmente nella vita civile è tolto, ne rimane però sempre qualche qualche seme, almeno presso degli scrittori che ne raccontano la storia. Non può, a mio parere, imputarsi a delitto se i vescovi, vedendo soggetta la loro città a un sovrano elettivo, indifferente per lo più al ben essere del suo popolo; vedendo il saccheggio, la rapina, la miseria essere diventati lo stato naturale e costante della città; non si può, dico, imputar loro a delitto, se, adoperando le pingui loro rendite per ripararne le mura, per assicurarne la difesa, con questo mezzo acquistarono la rispettosa riconoscenza del loro popolo. Nè si può fare alcun rimprovero ai prelati se procurarono, colle forze acquistate e col loro credito, di accrescersi i mezzi per meglio difendere gli uomini della loro diocesi. Sin qui non si può che venerare la loro condotta. Vero è che al comparire di re migliori, avrebbero essi ottimamente operato, se, limitandosi al sacro loro ministero, avessero abbandonato le cure del regno al sovrano: ma dagli uomini non si può pretendere che, per essere rivestiti d’un carattere pio e santo, cessino d’essere uomini e si trasmutino in altrettante divinità. Ecco il modo col quale i vescovi diventarono potenti.
Niente poi è più naturale del partito che allora presero i sovrani mischiandosi nelle elezioni de’ vescovi, la scelta dei quali era essenziale per la sicurezza della loro corona; partito che non aveva l’appoggio della tradizione; contrario alle opinioni di quei tempi, ma assolutamente necessario per restare tranquilli sul trono. Questo turbamento essenzialissimo, che rovesciava dai fondamenti la gerarchia ecclesiastica non solo, ma la disciplina istessa e il costume; che faceva collocare sulle sede vescovile soggetti inettissimi e affatto indegni di ascendervi; che apriva un alla simonia, e faceva diventare un articolo di finanza per il sovrano l’investitura de’ vescovadi e de’ beneficii; era un oggetto turpe e luttuoso, meritevole di riforma; e nessun altro poteva tentarla fuori che il sommo pontefice capo della Chiesa. L’impetuoso zelo di Gregorio VII fu spinto da questo universale disordine. In ogni cosa umana, quando si ha da combattere, si corre rischio di trascorrere più in là del giusto. Così è accaduto ai due partiti più di una volta, abusando delle circostanze favorevoli. Scegliendo i fatti della storia con impegno per un partito, e tacendo que’ che non torna conto di ricordare, si trova una serie che prova e convince; tanto fecondi sono i casi favorevoli ora al sacerdozio ed ora al trono. Io non ardirò di mischiarmi nella gran contesa; tralascerei anzi di parlarne, se fosse possibile l’omettere nella storia di Milano i fatti importanti e più interessanti per la loro influenza: ma giacchè la fatica che ho intrapresa, e il corso degli avvenimenti mi conducono a scrivere que’ fatti che risguardano la città, io lo farò, mosso dal sentimento di compassione de’ mali che da un tale dissidio sono nati; conoscendo il dissidio originato da una serie di cose che lo rendevano necessario; e sempre ricordandomi che la debolezza, la illusione e le passioni sono compagne degli uomini in tutti i secoli e in tutte le condizioni. Ma di ciò tratteremo nel capo seguente.
Per ora ci può servire, per avere idea del governo della città in quei tempi, un passo del Fiamma, che così c’insegna: Insuper archiepiscopus mediolanensis quosdam alios maximos redditus imperiali auctoritate recipiebat; quia super stratas regales, in exitu quolibet de comitatu, habuit teloneum, et dum intrabat aliquis extraneus in in equo vel cum curru, aut pedibus, dabat telonario archiepiscopi, immo innumerabilibus telonarii scensum, et archiepiscopus tenebatur custodiri facere passus, et omnibus damnificatis intra territorium restituere de suo tantum quantum damna fuissent aestimata18. Da queste parole molte cognizioni si ricavano. Primieramente il sovrano è sempre stato considerato il re d’Italia o l’imperatore, e da lui, o per tacita o per espressa concessione, doveva provenire ogni diritto pubblico per essere considerato legittimo. L’arcivescovo realmente non è stato mai sovrano di Milano, e mi sembra una favola evidente la pretesa donazione che si asserisce fatta dal re Lotario nel 949 della zecca di Milano all’arcivescovo; giacchè due anni dopo quest’epoca le monete di Milano portarono il nome di Ottone, e dipoi degli Enrici, dei Federici, dei Lodovici, indi dei Visconti e degli Sforza, non mai ebbero il nome di verun arcivescovo trattone quello dell’arcivescovo Giovanni Visconti, che fu successore di Lucchino nella signoria di Milano, e che la dominò per titolo ereditario di sua famiglia, e non per la dignità ecclesiastica. Questa supposta donazione della Zecca ha per appoggio una bolla di Alessandro III sommo pontefice, il quale poteva essersi ingannato nel suo fatto, e nella quale si considera come legittimo arcivescovo Manasse, sebbene tale non fosse. Questa bolla fors’anco è stata composta ne’ tempi posteriori per altri fini, senza che il papa l’abbia spedita giammai. L’arcivescovo adunque riscuoteva per concessione del sovrano il tributo, e doveva l’arcivescovo istesso tenere difeso il contado, e risarcire del proprio i danni secondo la stima che ne venisse fatta. Il sistema fu introdotto dall’imperatore Ottone. Sappiamo che il tributo s’impone per supplire ai mezzi della difesa dello Stato. È strano il sistema che il sovrano confidi al pubblicano medesimo la cura della difesa: ma la sovranità elettiva d’un monarca per lo più lontano, in tempi ne’ quali non si tenevano milizie stabilmente assoldate, poteva renderne il progetto spediente. Dovevano temersi le scorrerie degli Ungheri, e da essi forse avevano anche imparato i vicini a depredare. Non era sicuro il contadino di raccogliere e conservare la mèsse del suo campo. I Pavesi, Lodigiani, Novaresi e i Comaschi venivano furtivamente a predare i Milanesi; e questi altretanto facevano fuori de’ confini. Non v’era giudice che avesse una giurisdizione estesa per punire il delitto commesso da un uomo che abitava fuori di contado. Perciò ogni distretto doveva essere custodito, e questa custodia era confidata all’arcivescovo, personaggio il più facoltoso e autorevole della città, ma non però l’arbitro di essa; poichè v’erano i messi ed i giudici regii, che potevano e dovevano condannare l’arcivescovo al rinfacimento, tosto che per negligenza di lui gli estranei avessero portato danno a un Milanese. L’autorità dei conti, che in origine comandavano la città in nome del sovrano, si andava indebolendo ogni anno. La potenza dell’arcivescovo non era dunque illimitata, anzi avendo preteso i fratelli dell’arcivescovo Landolfo, præ solito, civitatis abuti dominio, venne scacciato per questa insolita pretenzione l’arcivescovo dalla città, la quale, tempore Ottonis imperatoris primi, Bonizio...... virtute ab imperatore accepta, velut dux castrum procurando regebat.
Alcune usanze ed opinioni di quel secolo meritano di essere ricordate. Continuava l’usanza, siccome ho detto, di considerare alcuni uomini come servi: a questi si tagliavano i capelli, e quando volevansi manomettere, era costume di presentare il servo a un sacerdote, che lo faceva passeggiare in giro intorno dell’altare, e, dopo una tal cerimonia, l’uomo era considerato libero. Per fare un atto solenne di donazione il costume esigeva che si adoperasse un coltello e un bastone nodoso, un ramo d’albero, ovvero un pampino di vite. Qualche altra volta si adoperava per tale atto un’altra cerimonia, ed era di porre sulla terra la carta e il calamaio, e il donante li prendeva dal suolo e li poneva nelle mani del notaio, pregandolo a scrivere la donazione e autenticarla. Il lardo era molto in uso presso la plebe. Abbiamo più legati pii ai poveri, che dispongono di distribuirne. Uno di questi è nel testamento fatto dall’arcivescovo Andrea, in cui vuole che il suo erede, nel giorno anniversario di sua morte, pascere debeat pauperes centum, et det per unumquemque pauperem dimidium panem, et companaticum lardum, et de caseum, inter quatuor, libra una, et vino, stario uno. Nella chiesa di Sant’Ambrogio avevamo tre oggetti di opinioni capricciose: un antico marmo rappresentante Ercole, e si credeva che l’Impero doveva conservarsi sin tanto che quella scultura rimaneva al suo luogo: di ciò scriveva Fazio degli Uberti.
Hercules vidi, del qual si ragiona
Che, fin che’l giacerà come fa ora,
L’Imperio non potrà forzar persona.
Avevamo la sede vescovile marmorea nel coro, sulla quale ponendosi a sedere le donne incinte, credevano di non poter più correre alcun rischio nel parto. In terzo luogo si credeva che quel serpente di bronzo collocato sulla colonna dal buon arcivescovo Arnolfo, qual prezioso dono de’ Greci, avesse la virtù di guarire i bambini dai vermi. Si credeva molto alle streghe, e si opinava ch’esse nulla potessero operare nelle case avanti le quali passavano le processioni delle Rogazioni; le quali sono assai antiche presso di noi. Quando le campagne avevano bisogno della pioggia si poneva una gran caldaia a fuoco in sito aperto; e vi si facevano bollire legumi, carni salate ed altri commestibili; poi si mangiava e spruzzavansi di acqua i circostanti. Nella vigilia del Santo Natale si faceva ardere un ceppo ornato di frondi e di mele, spargendovi sopra tre volte vino e ginepro; e intorno vi stava tutta la famiglia in festa. Questa usanza durava ancora nel secolo decimoquinto, e la celebrò Galeazzo Maria Sforza. Il giorno del Santo Natale i padri di famiglia distribuivano, sin d’allora, i denari; acciò tutti potessero divertirsi giuocando. Si usavano in quei giorni dei pani grandi; e si ponevano sulla mensa anitre e carne di maiale; come anche oggidì il popolo costuma di fare. V’è nell’archivio del monastero di Sant’Ambrogio una donazione, fatta nel 1013, da Adamo, negoziante milanese, all’abate del monastero; egli dona una casa, acciocchè col fitto di essa i monaci comprino de’ pesci, ed allegramente se li mangino nel giorno anniversario della morte di Falcherodo, monaco, e di Giovanni, prete: e ciò per sollievo dell’anima de’ trapassati. Sono anche curiose le parole: Emant pisces ad refectionem et hilaritatem annualem in die anniversario obitus eorum Falkerodi monaci et Johanni presbytero, pro animarum eorum remedio, quo ipsis proficiat at gaudium et anime salutem. Si credeva da molti che giovasse al riposo della anime de’ defunti l’accendere sulle tombe loro delle lampadi: Ut ipsa luminaria luceant pro anima ipsius. Altre donazioni ritrovansi colla condizione: Et faciat ardere in quadragesima majore super sepulturam ipsius quondam Andreae genitoris. Di varie superstizioni di quei tempi ne tratta la dissertazione dell’illustre Muratori, alla quale si può ricorrere per una più vasta erudizione.
Non v’è ai nostri giorni alcun giudice, per corrotto e meschino ch’egli si sia, che sfrontatamente ardisca di raccontare di avere venduta la sentenza. Allora l’imperatore Ottone III non ebbe difficoltà, in un diploma del 1001, di asserire di aver ricevuto dal vescovo di Tortona la metà dei beni disputati: Propter rectum judicium quod fecimus inter eum et Ricardum, ex jam praenominatis rebus. Facile è quindi il conoscere in quale stato fossero allora le leggi, la disciplina, le scienze. I vescovi erano soldati e vivevano più nelle armate che nella Chiesa. Così facevano gli abati. L’uso di decidere le questioni col preteso giudizio di Dio nel duello, sempre più rendevasi comune. I beni ecclesiastici si dilapidavano dagli stessi prelati; e così fece Landolfo, arcivescovo, il quale ecclesiae facultates et multa clericorum distribuit militibus beneficia; e più distintamente lo spiega l’altro storico nostro contemporaneo Landolfo: Pollicens illis omnes plebes, omnesque dignitates atque Xenodochia, quae majores ordinarii atque primicerius decumanorum, archipresbyteri, et cimiliarchi hujus urbis ecclesiarum tenebant, jurejurando asserens, pactum usque detestabile patratus. Io ripeterò più volte una verità che non sarà mai ripetuta abbastanza; cioè che le malinconiche declamazioni che si fanno contro i costumi del secolo in cui viviamo, suppongono una totale ignoranza della storia; e che, paragonando il tempo d’oggi ai tempi de’ quali tratto, dobbiamo umilmente benedire e ringraziare l’Essere Eterno che ci ha riserbati a vivere fra uomini assai più colti e ragionevoli, sotto governi assai più saggi e benefici, diretti da un clero assai più dotto, costumato e pio, mentre il vizio e il delitto cautamente fra le tenebre serpeggiano (poichè la terra è la loro abitazione) ma non innalzano la temeraria fronte, nè dettano precetti per confondere, come allora facevano, ogni idea di giustizia e di virtù.
- ↑ Leo Hostiens. lib. II, cap. ultimo.
- ↑ Il conte Giulini, tomo II, pag. 244.
- ↑ Tomo III, pag. 153.
- ↑ Il conte Giulini, tomo III, pag. 183.
- ↑ Detto, Tomo III, pag. 217.
- ↑ Rer.Italic.Scriptor.tomoIV,pag. 14.
- ↑ Il Conte Giulini, t. III, pag. 197.
- ↑ Arnulph. cap 7, e Giulini, t. III, pag. 211
- ↑ Glaber. Rodulph, lib. IV, cap. 2.
- ↑ Tomo III, pag. 222. Riferisce le parole d'un autore dei nostri giorni anzi che quelle di Landolfo contemporaneo perché il lettore s'appaghi d'essere il fatto non controverso, ma accordato da un illustre erudito e da un Guelfo.
- ↑ Muratori Med. Aev. Tomo V, pag. 65.
- ↑ Lib. II, cap. 8.
- ↑ Arnulph. lib. II, cap. 10. - Flam. Manip. flor. cap. 141.
- ↑ Il Il conte Giulini, tomo III, pag. 327
- ↑ Detto, tomo III, pag.334
- ↑ Landulph. Sen. lib. II, cap. 32.
- ↑ Il conte Giulini, tomo III, pag. 411.
- ↑ Fiamma, Chronic. Mediolan. cap 227.