Storia di Milano/Capitolo III
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CAPO TERZO
Da Carlo Magno fino a Carlo il Grosso la dignità imperiale elettiva erasi mantenuta come per successione in una stessa famiglia, e la dieta tenutasi in Germania l’anno 887, deponendo Carlo il Grosso, pretese d’innalzare all’impero Arnolfo, di lui nipote, e perciò discendente da Carlo Magno. Ma gl’Italiani, senza il concorso de’ quali si era fatta l’elezione, ricusarono di riconoscerla per valida. Il papa, il quale solo poteva conferire la dignità imperiale all’incoronazione, come in quei tempi credevasi, cominciò a far uso di tale opinione per far cadere questo titolo sopra di un principe che, da lui riconoscendolo, fosse altresì meno da temersi; onde l’autorità del romano pontefice sempre più vivesse sicura, anzi a maggiore ampiezza si estendesse. L’arcivescovo di Milano doveva avere la stessa mira, dacchè aveva già assaporato il piacere di comandare nella sua città. Un principe debole era per essi preferibile, posto che le circostanze esigevano che uno ve ne fosse. Pareva dunque che gl’interessi d’entrambi fossero d’accordo; se non che per l’arcivescovo di Milano la potenza d’un superiore ecclesiastico stabilito in Roma era più da temersi che quella d’un laico, assente per lo più ed occupato negli affari dei regni oltramontani; e perciò la condotta degli arcivescovi poche volte s’accordava con quella dei papi, anzi bene spesso l’attraversava. Gl’Italiani elessero un nuovo re d’Italia, e fu Berengario, duca del Friuli, l’anno 888; e Anselmo arcivescovo di Milano, solennemente lo incoronò. Ma nell’anno seguente Stefano V, sommo pontefice, solennemente incoronò imperatore Guido, duca di Spoleti. E l’uno e l’altro di questi due principi per parte di madre discendevano da Carlo Magno. Oltre questi due, che si disputavano la signoria del regno italico, scese dalle Alpi il re Arnolfo, conducendo un’armata per sostenere la elezione fatta dai Tedeschi. Per diciotto anni di seguito è difficile l’assegnare a quale de’ tre pretendenti obbedisse l’Italia. Milano fu soggetta a Berengario, che risedeva in Pavia ed in Monza; poi si diede ad Arnolfo; poi fu conquistata dal figlio di Guido, che fu l’imperatore Lamberto. Arnolfo venne incoronato imperatore da papa Formoso, e così passarono gli anni sino al 906 fra i rivali imperatore Arnolfo, imperatore Lamberto e re Berengario, al quale ultimo cedettero i due competitori. Fra questi torbidi andava cautamente schermendosi il nostro arcivescovo, e cogliendo le occasioni d’ingrandirsi e di rendere sempre più importante la sua influenza nel regno d’Italia.
Nell’occasione in cui l’imperatore Lamberto conquistò Milano, accadde un fatto che merita luogo nella storia. Milano erasi data ad Arnolfo, ed era per lui custodita dal conte Maginfredo. Il re Arnolfo, che ancora non aveva il titolo di augusto, erasi allontanato dall’Italia, quando Lamberto augusto mosse le sue forze per sottomettere la città. L’onorato conte Maginfredo non volle abbandonare vilmente il suo posto, e si pose a sostenere l’assedio, il quale, per l’assenza del re, terminò finalmente con la conquista. L’imperatore Lamberto fece tagliare la testa al conte; nè pago ancora, volle punita la fede e il valore del padre anche in uno de’ suoi figli e nel genero, privati entrambi degli occhi1. All’atrocità unì Lamberto la più supina spensieratezza. Mosso da una simpatia veramente difficile a comprendersi, egli si lusingò di acquistare un amico e di guadagnarselo nella persona di Ugone, figlio pure del decapitato conte Maginfredo. Credette che il non averlo privato degli occhi potesse essere considerato come dono; e che i regali e l’affabilità che seco usava, potessero fargli dimenticare che egli era l’assassino della sua famiglia. Seco lo teneva famigliarmente alla sua corte in Pavia, e seco lo condusse al luogo di delizia Marengo, dove un giorno, sbandatosi l’imperatore Lamberto alla caccia, e alcuno non avendo seco, fuori che il giovine Ugone, alla mente di questi si affacciò in quel momento il teschio del buon padre grondante di vivo sangue, il fratello, il cognato ridotti allo stato deplorabile della cecità, la patria soggiogata, la sicura occasione, la facilità di vendicare sopra di un mostro così atroci delitti, e l’Imperatore si ritrovò morto disteso al suolo2; ed Ugone stesso raccontò dappoi al re Berengario di aver gettato da cavallo Lamberto con un valente colpo di bastone sul capo, e colla percossa avergli tolta la vita3. Non ci lagneremmo cotanto de’ tempi presenti, se meglio ci fossero noti i costumi de’ secoli passati. Non vi è certamente nella storia del nostro secolo un tratto di crudeltà così vile. La virtù si onora anche dalle armate nemiche; nella resa d’una piazza nessun comandante è maltrattato perchè siasi ben difeso; e nessun sovrano sceglie per favorito il figlio o il fratello di coloro che ha egli stesso consegnati al carnefice, il che è un misto della più insensata dabbenaggine colla più fredda crudeltà. Quello che rende ancora più strano il fatto si è che Lamberto venne ucciso nell’898, un solo anno appena dopo l’eccidio del conte Maginfredo; il che fa vedere che quel principe nemmeno aveva in favor suo il corso degli anni, per di cui mezzo, una lunga serie di beneficii avesse potuto rallentare nell’animo di Ugone il mordace sentimento della desolata sua famiglia.
Ucciso così l’imperatore Lamberto, il re Berengario rimase solo sovrano d’Italia in Pavia, poichè Arnolfo quasi nel tempo istesso aveva cessato di vivere, assediando Fermo. Liberato dai due rivali, ogni apparenza indicava l’augurio di un placido regno a Berengario. Ma un regno placido e uniforme d’un monarca che da Pavia signoreggiava Milano, non era quello che dovesse piacere al nostro arcivescovo Andrea. Chiunque posseda una dignità ragguardevole acompagnata da molta ricchezza, e sia avvezzo a influire nelle vicende di un regno, difficilmente antepone la tranquilla obbedienza alla tumultuosa inquietudine di spargere sopra un grande numero di uomini la speranza e il timore; nè l’arcivescovo era giunto a tal grado di filosofia. Si cercò un rivale che potesse disputare a Berengario il regno, e s’invitò Lodovico, re di Provenza, a ricevere la corona d’Italia. Scese Lodovico dalle Alpi, e sorprese Berengario, che potè appena aver tempo di rifuggiarsi in Verona: e Lodovico, collocatosi in Pavia, venne l’anno 900 proclamato re da una dieta d’Italiani, e in un suo diploma egli stesso ce lo insegna: Venientibus nobis Papiam in sacro palatio, ibique electione et omnipotentis Dei dispensatione in nobis ab omnibus episcopis, marchionibus, comitibus, cunctisque item majoris, inferiorisque personae ordinibus facta4. Da queste parole si conosce che il regno d’Italia dal re istesso era considerato elettivo e dipendente dalla libera volontà de’ signori italiani, e si conosce pure che il sacro palazzo di residenza continuava tuttavia ad essere in Pavia, siccome costantemente lo fu dappoi. Milano fu suddita al nuovo re, il quale dal papa venne incoronato imperatore, ma poco potè godere di sua fortuna, poichè ben tosto venne scacciato dall’Italia da Berengario che, rinvenuto dalla sorpresa, radunò forze bastanti da opporsi al suo competitore. In fatti veggonsi dei diplomi del re Berengario del 903 dati in Pavia, in palatio ticinensi, quod est caput regni nostri5, e da altri si scorge ch’egli soggiornava in Monza. Un nuovo tentativo fatto dall’imperatore Lodovico III per discacciare dal soglio il re Berengario gli costò la perdita degli occhi, che il vincitore Berengario gli fece guastare; onde quell’augusto ebbe il nome di Lodovico il Cieco, e nel 906 lasciò libero il trono d’Italia al re Berengario, che da diciotto anni ne portava il titolo combattendo l’imperatore Guido, l’imperatore Lamberto, l’imperatore Arnolfo e l’imperatore Lodovico III. Così, assicurato sul trono Berengario, tranquillamente cominciò a regnare senza nemici. Aveva la sua corte in Pavia, e per dieci anni continui non se ne dipartì, come ci fanno vedere i diplomi che ne portano la data. Se ne allontanò nel 916 per portarsi a Roma, ove il sommo pontefice Giovanni X volle incoronarlo Augusto, dopo ventotto anni da che era stato incoronato re d’Italia; indi se ne ritornò a Pavia. Tre anni dopo sappiamo dalle carte che questo augusto dimorava in Monza; la villa favorita da lui era Olona.
Nulla sappiamo nemmeno di questi tempi, che possa bastare a tessere la storia di Milano. Vediamo unicamente che, dopo il glorioso arcivescovo Ansperto, i prelati suoi successori avevano acquistata molta considerazione, e si occupavano di oggetti grandi. Abbiamo indizi che la città si andava popolando. V’erano monasteri di vergini dedicate a Dio entro della città di Milano. Il monastero di Santa Radegonda chiamavasi San Salvatore di Vigelinda; quello di Santa Margarita chiamavasi Santa Maria di Gisone; il Bocchetto aveva la denominazione allora di San Salvatore di Dateo; le monache di Santa Barbara in porta Nuova si chiamavano di Santa Maria di Orona; il monastero Maggiore chiamavasi Santa Maria inter Vineam; e per quei tempi, da’ quali non è giunto a noi veruno scrittore che abbia registrate le cose della patria, e ne’ quali ancora era nascente la città, questo basta per conoscere che vi dovea essere radunato discreto numero di popolazione. L’instancabile conte Giulini ha dovuto mendicare dalle antiche pergamene, dai diplomi de’ principi, dalle sentenze de’ giudici, dai testamenti e dai contratti che tuttora conservansi negli archivi, le notizie isolate di questi tempi, le quali appartengono per lo più a private persone, alla cronaca di qualche ordine monastico, alla erudita ricerca su i confini di qualche giurisdizione o distretto, alla dotazione od erezione di qualche chiesa; ma non possono servire alla storia. Di che, ben lungi dal farne io un rimprovero al saggio scrittore, gli tributo l’encomio che ha meritato colla immensa fatica da lui sopportata, e colla esatta critica adoperata esaminando fatti che meritavano la luce, e per essere preziosi avanzi di que’ tempi, e per la possibilità che servano a beneficio di private persone; sebbene non sieno materiali servibili per tesserne una storia.
Erano già trascorsi quindici anni dacchè l’augusto Berengario regnava senza contrasto sull’Italia; e l’arcivescovo di Milano giaceva come ogni altro suddito, senza avere altro di più che la venerazione inerente al carattere del metropolitano. L’imperatore stipendiava gli Ungari, di cui si era servito felicemente nelle vicende passate; e questi, valorosi alla guerra ed egualmente esperti predatori, avevano talmente imparata la strada d’Italia, che quasi ogni anno facevano una comparsa, e ne partivano con buona preda. Costoro lo stesso eseguivano nella Baviera, nella Suabia e nella Franconia. La Germania e l’Italia erano esposte al saccheggio; e allora quasi ogni borgo dovette cingersi di mura per vivere con sicurezza. Questo aveva reso odiosissimo il nome degli Ungari e fatto molti malcontenti dell’imperatore Berengario, che aveva per essi molti riguardi. Lamberto, arcivescovo di Milano, secretamente fomentava gl’inquieti, ed era avverso all’imperatore, anche per la tassa che aveva dovuto pagare a quell’augusto per essere da lui collocato sulla sede arcivescovile, a cui era stato canonicamente innalzato dai voti del clero6. Questa tassa fu proporzionata a quanto bisognava per pagare la famiglia bassa di corte, camerieri, uscieri, uccellatori e simil gente7. Si era secretamente introdotto un trattato con Rodolfo, re dell’alta Borgogna, invitandolo a venire nell’Italia, coll’offerta della corona. Berengario scoprì la congiura; fece arrestare Olderico, conte del palazzo, e lo confidò incautissimamente alla custodia dell’arcivescovo Lamberto, ch’ei credeva fedele, anche per l’assenso che poco prima gli aveva accordato ponendolo al possedimento della dignità arcivescovile. Poco dopo, l’Imperatore conobbe d’avere malamente scelto il custode d’un prigioniero che non poteva restare libero senza pericolo di lui, e quindi lo richiese. L’arcivescovo lo ricusò collo specioso titolo che non dovea consegnare il prigioniero a chi poteva porlo in pericolo della vita. Lamberto non si arrestò al rifiuto; lasciò in libertà l’affidatogli Olderico, il quale tosto andò ad unirsi con Adalberto marchese d’Ivrea, e con Gilberto conte, e levatasi la maschera comparvero disposti a detrudere colla forza l’Augusto Berengario; il quale assoldato un corpo di Unni, vinse i ribelli, rimanendo estinto sul campo Olderico, prigioniero Gilberto e fuggitivo il Marchese. L’imperatore Berengario diede un generoso perdono a Gilberto conte, e resegli la libertà. L’uso che fece di questo dono l’ingrato Gilberto, fu di portarsi immediatamente dal Re di Borgogna, e nello spazio di un mese guidarlo nell’Italia, e fino a Pavia, di dove spedì Rodolfo un diploma nel 992 riferitoci dal Muratori8; e l’imperator Berengario per la seconda volta dovette vedere un oltramontano chiamato a discacciarlo coll’opera dell’Arcivescovo di Milano; e per la seconda volta sorpreso, gli convenne fuggirsene al suo asilo di Verona, per l’invasione prima di Lodovico re di Provenza, ed ora di Rodolfo re di Borgogna. Quasi nella guisa medesima con cui Berengario scacciò dall’Italia nel 902 Lodovico dopo due anni, ne’ quali rimase rinchiuso in Verona; dopo due anni pure, ne’ quali Verona fu il suo ricovero, riacquistò quanto gli aveva occupato Rodolfo. Convien credere che l’imperatore avesse ragioni per risguardare i Pavesi complici dei mali che aveva sofferti, poichè, nel 924, assediò co’ suoi Ungari quella città, la prese e la distrusse. Frodoardo e Liutprando descrivono questo esterminio con espressioni forse esagerate. Pretendono che quarantatre chiese vi fossero atterrate e incenerite; che vi fossero rovinate tute le abitazioni; e che appena ducento abitatori abbiano potuto salvate la vita. Se questo fosse, non si potrebbe spiegate come poi nello stesso anno vi soggiornasse Rodolfo, il che si raccoglie da un suo diploma del diciotto agosto 974, di cui tratta il conte Giulini9. Sebbene poi anche a molto meno riducasi il danno della saccheggiata Pavia, egli è verosimile che un tale infortunio dovette essere favorevole alla crescente città di Milano. L’imperatore Berengario appena dopo la presa di Pavia ritornossene a Verona, città che gli era fedele, e che doveva esser ben munita di valida difesa. Ivi però una persona a lui cara, ed a cui aveva fatto l’onore di levare un figlio al sacro fonte, tramò insidie per assassinare quel buon principe. Costui chiamavasi Fiamberto; venne scoperto il traditore, e l’augusto Berengario, fattolo venire a sè, con umanità senza pari gli parlò della vergogna che va in seguito al tradimento; dei rimorsi che produce l’ingratitudine; della felicità che accompagna la virtù, a cui la via rimane aperta anche dopo di avere infelicemente trascorso. Gli perdonò come già aveva fatto al conte Gilberto; l’assicurò che dimenticava il passato, e l’avrebbe beneficato in avvenire; e in prova, sul momento, donògli una preziosa coppa d’oro. Principe troppo incauto nell’usare della generosità; poichè, pochi giorni dopo, l’empio Fiamberto lo sorprese alle spalle e lo trafisse. Così terminò i suoi giorni Berengario, che tenne il regno d’Italia per trentasette anni, e la dignità imperiale per nove; principe degno d’essere collocato fra i migliori, se non avesse portato la clemenza a un estremo vizioso; poichè la libertà data a Gilberto cagionò al regno i mali gravissimi d’un’estera invasione, e la generosa sua bontà verso Fiamberto privò anzi tempo l’Italia d’un buon monarca. Non sapeva egli che quell’eroico perdono, bastante a richiamare al dovere un’anima generosa e sensibile, traviata in un eccesso di passione da cui fu sedotta, non giova mai per acquistare l’anima bassa di colui che tranquillamente si è determinato ad un’azione perversa. La vista del magnanimo che ha saputo perdonare, diventa insopportabile al traditore. I principi illuminati conoscono che il perdono e la clemenza non sono lodevoli, se, lasciando in libertà il malvagio, per beneficar lui, si espone la società intera al pericolo di nuovi danni.
Estinto appena l’augusto Berengario nell’anno 924, il re Rodolfo rimase in Pavia senza chi gli disputasse il regno italico; ma nemmeno avea egli un partito bastante per essere proclamato re d’Italia. Una donna celebre per la bellezza, non meno che per l’arte scaltrissima di prevalersene; donna che sapeva far nascere l’amore e schermirsene, e che collocava la somma voluttà nel regolare il regno a suo talento, Ermengarda, vedova di quell’Adalberto marchese d’Ivrea di cui poc’anzi feci menzione, avea formato il progetto di collocare sul trono o Guido duca di Toscana di lei fratello, o qualche altro di sua famiglia. Rodolfo invitato, come dissi, al soglio italico dal marchese defunto, credeva che la vedova fossegli favorevole. Essa ordiva la trama di scacciarlo; e nel mentre che l’avea adescato anche cogli amori, colle arti medesime animava molti signori potenti a secondare il disegno di lei. Il re Rodolfo stavasene a Verona, ed Ermengarda, unita ai fratelli, si impadronì di Pavia nel 925. Il re conobbe allora il disegno dell’ingannatrice donna, e si determinò a scacciarla da quella città, e, coll’aiuto dell’arcivescovo Lamberto, radunò un esercito e marciò alla volta di Pavia. Liutprando ci racconta che, in seguito d’uno scritto che la marchesa Ermengarda potè fargli giugnere, quel re furtivamente, di notte, abbandonò i suoi, e secretamente entrò come un’amante in Pavia, e si lasciò persuadere a segno ch’egli credette suoi mascherati nemici e l’arcivescovo e gli altri principi che si erano armati per lui, e che l’assistevano con buona fede. L’arcivescovo allora abbandonò quel sovrano, e propose la scelta di un nuovo re d’Italia nella persona di Ugone, conte del Delfinato e re di Provenza, al quale l’arcivescovo istesso spedì l’invito10. Lo schernito Rodolfo a stento potè uscire dal labirinto in cui la spensieratezza avevalo condotto. Si partì quindi d’Italia per raccogliere un’armata ne’ propri Stati, e con essa ritornossene, e giunse verso Ivrea; ma non trovandosi forte a segno di tentare da solo l’impresa, e conoscendo che assai importante riuscivagli il soccorso dell’arcivescovo, a lui spedì Burcardo, il più incapace signore che potesse mai scegliere per conciliargli l’ajuto di Lamberto arcivescovo, deluso sotto Pavia, e impegnato già col re di Provenza. Burcardo, orgoglioso ed incauto, nel portarsi a Milano, osservando le torri e il restante dell’antica fabbrica sacra ad Ercole, ove trovavasi e tuttavia si trova la chiesa di San Lorenzo, si spiegò in lingua tedesca, che ivi voleva fabbricarsi una fortezza con cui tener sottomessi, non i Milanesi soltanto, ma molti principi d’Italia: Eum ibidem munitionem construere velle, qua non solum Mediolanenses, sed et plures Italiae principes coërcere decrevisset11. Altri discorsi di quest’indole andava tenendo mentre cavalcava. Vi fu chi intendeva assai bene la lingua tedesca, e ne fece rapporto all'arcivescovo, il quale urbanamente e con ogni splendidezza accolse l’ospite illustre, giacchè Burcardo era suocero dello stesso re Rodolfo; gli diede una caccia del cervo nel parco, cosa che Lamberto arcivescovo non soleva fare se non co’ più grandi e co’ più cari amici. Concessit cervum, quem is in suo brolio venaretur, quod nulli unquam nisi carissimis, magnisque concessit amicis; così dice Liutprando: in somma dissimulò ogni risentimento per tutto quello che Burcardo aveva detto; e non si sa con qual riscontro, ma certamente con molta officiosità, lo lasciò partire. Ma Burcardo non ebbe tempo di riferire al re di Borgogna il risultato della negoziazione; poichè assalito ne’ contorni di Novara da alcuni armati vi lasciò la vita; dopo di che il re Rodolfo abbandonò per sempre l’Italia. Fra le altre cose che Liutprando asserisce dette da Burcardo alla vista de’ Milanesi, dum juxta murum civitatis equitaret, vi è la seguente: Lingua propria, hoc est Teutonica, suos ita convenit. Si Italienses omnes uno uti tantummodo calcari, informesque non fecero equas caballitare, non sum Burchardus. Fortitudinem siquidem muri hujus, seu altitudinem nihili pendo; jactu quippe lanceae meae adversarios de muro mortuos praecipitabo. Veramente così non parlò Cesare alla cena, nè Augusto alla vista del simulacro di Bruto. L’orgoglio dei popoli rozzi è feroce e muscolare; l’orgoglio de’ popoli colti nobilmente grandeggia colla virtù. Lo stolido Burcardo fu troppo punito, e la vendetta non fu nobile e generosa. L’arcivescovo forse non vi ebbe altra parte, se non coll’averne resa informata Ermengarda. Ma Burcardo non doveva simulatamente chiedere soccorso da un popolo che altamente disprezzava, nè cercare l’assistenza degli Italiani, affine di ridurli poi ad una vituperosa depressione: il progetto non era nè generoso nè eseguito nobilmente. Le anime che non sono volgari, considerano che la terra è la patria a tutti comune; che gli uomini formano una famiglia che diradatamente l’abita; che l’essere domiciliati qualche grado più al polo, ovvero all’equatore, non costituisce una diversità nella specie; che la fortuna, la gloria, la felicità passano da un popolo all’altro col girare de’ secoli, e succedonvi la servitù, l’avvilimento e la miseria; e che niente è più meschino quanto l’odio nazionale, e niente più ingiusto quanto il rimproverare altrui d’essere nati ove lo furono; e niente più inutile e incauto, quanto il mostrare disprezzo verso una nazione la quale, se un tempo sia stata gloriosa e resti sensibile, sarà sempre sconsigliato partito l’offenderla. I Romani non vollero lasciare queste tracce; essi camminarono per altro sentiero, e si resero padroni della terra.
Da questi fatti bastantemente si conosce che l’arcivescovo di Milano era già diventato un personaggio di somma considerazione fra i principi del regno d’Italia; che le mura di Milano erano forti e tali da potervisi confidare; che Pavia non era distrutta a segno che non vi si abitasse tuttavia e non fosse capace di una difesa. Il parco poi dell’arcivescovo chiamato Brolio, in cui manteneva i cervi, era immediatamente fuori delle mura di que’ tempi, e si stendeva dalla chiesa di Santo Stefano a quella di San Nazaro, e questo diede l’aggiunta in Brolio alle due nominate chiese; nè questo è da confondersi coll’orto chiamato Broletto, che aveva l’arcivescovo al sito in cui vedesi oggidì la ducal corte.
Abbandonata che fu l’Italia dall’incauto Rodolfo, e ritiratosi nell’alta Borgogna nel 926, Ugone, conte di Vienna e re di Provenza, già invitato, come dissi, dagl’Italiani, sen venne: Venit Papiam, cunctisque conniventibus regnum suscepit12. Qui non sarà inutile l’osservare che sotto la denominazione di Alta Borgogna comprendevasi il paese degli Svizzeri, il Vallese, Ginevra e parte della Savoia; chiamavasi questa la Borgogna transjurana, ovvero l’alta Borgogna, e con ciò facilmente comprendesi la somma celerità colla quale Rodolfo si fece venire nell’Italia a danno di Berengario augusto, e la rapidità con cui, partitosene, ritornò con un’armata. Ugone per cinque anni regnò solo in Italia, ed ebbe moltissimi riguardi per la vedova marchesa d’Ivrea Ermengarda, sorella di lui per parte di madre; e molta attenzione fece all’arcivescovo Lamberto, a cui doveva il soglio d’Italia. Di questi cinque anni ne rimane un vestigio nella moneta milanese che conservo nella mia raccolta. Nell’anno 931 associò sul trono Lotario suo figlio, ed allora i diplomi, non meno che le monete, ebbero la leggenda di Hugo et Lotharius reges, anzi in modo assai più scorretto e rozzo, come si vede nella moneta che ho presso di me. Ugone non aveva la condotta inconseguente dell’incauto Rodolfo; egli pensava d’innalzarsi all’Impero, e faceva servire gli amori al regno, quando il primo aveva fatto l’opposto. La famosa Marozia, vedova duchessa di Toscana, fu sposata da Ugone, acciocchè con quell’appoggio non vi fosse chi gli disputasse l’Impero; e lo avrebbe ottenuto, se in Roma istessa non avesse con insulto irritato Alberico, figlio di Marozia, al segno che, sollevatasi la città, dovette infelicemente ritornarsene in Pavia l’anno 933. Erano state in questo frattempo, per lo spazio di sette anni, tranquille le cose di Lombardia, e naturalmente i primi signori, e fra questi l’arcivescovo di Milano, che opportunamente profittava quando gli affari erano in movimento, dovevano essere annoiati. V’era un partito per richiamare al regno Rodolfo; quindi Ugone entrò in trattato con quel principe, al quale cedette una parte de’ suoi Stati di Provenza, cioè la Borgogna Cisjurana; e con tal mezzo si fece interamente cedere ogni di lui pretensione sul regno d’Italia. La fazione medesima aveva poi fatto invito ad Arnoldo, duca di Baviera, il quale, nell’anno 934, era comparso e s’era impadronito di Verona; ma Ugone lo vinse e lo fece scomparire dall’Italia. L’arcivescovo Lamberto aveva cessato di vivere; eragli succeduto un prelato di più mite carattere. Ma il re Ugone, da accorto politico, non valendo colla forza a contenere chi occupava la cospicua sede, pensò a farne cadere alla prima occasione la scelta sopra di un soggetto di cui interamente fidarsi, e questo fu Teobaldo, che gli era figlio naturale, partoritogli da Stefania, donna romana, che era la terza concubina del re. Per non violare le costumanze e le ragioni de’ sacri canoni, lo fece tonsurare e ascrivere fra i cardinali della santa Chiesa milanese, che già anche avevano il titolo di Ordinarj13; e così con finissima politica, onorando quel ceto di potenti ecclesiastici, fra’ quali già si annoveravano de’ principali cittadini milanesi e de’ figli di conti e marchesi, dignità allora cospicue, si assicurò la tranquillità. Ma il progetto, immaginato con avvedutezza, fu da Ugone medesimo, per impazienza, rovinato; poichè durando a vivere l’arcivescovo Arderico più che non desiderava il re, ansioso questi di vedere alla dignità innalzato il figlio Teobaldo, ordì la trama che, mentre in Pavia si radunavano per di lui comando i primari del regno nel 944, i suoi facessero nascere una briga co’ Milanesi, procurando fra il tumulto di uccidere l’arcivescovo. Il colpo andò a vuoto; venne sparso il sangue di molti , ma fu salvo Arderico14, il che rese i Milanesi alienissimi dal pensare a secondare le mire del re. Da quel punto pensarono anzi a liberarsene, e, secondo ogni probabilità, l’arcivescovo Arderico non ebbe poca parte nell’invitare Berengario, figlio di Adalberto marchese d’Ivrea, che si era sottratto dalle insidie del re Ugone, ricoverandosi in Germania. Questi era un signore possente, e vedendosi favorito dall’arcivescovo e da’ signori suoi aderenti, comparve in Italia alla testa di alcuni armati. Nel 945 venne a Verona, d’onde passò a Milano. In Milano si radunò la dieta de’ primari Italiani. Ma non avendo il re Ugone forze per disputare contro dell’avversa fortuna, abdicò la corona d’Italia; pregò la dieta di non volerla togliere al figlio Lotario; e passò a reggere i suoi Stati nella bassa Borgogna, dopo di avere sostenuta la corona italica per dicianove anni, ne’ quali tenne per lo più la sua corte in Pavia, non potendo o non volendo soggiornare in Milano, o perchè ancora non ben popolata e costrutta, o per la pericolosa vicinanza del potente arcivescovo. Così restò semplice cardinale ordinario il figlio reale Teobaldo.
Berengario, alla venuta di cui partissene il re Ugone, era figlio, siccome dissi, di Adalberto, marchese d’Ivrea, e di Gisla, figlia dell’imperatore Berengario, di quell’Adalberto che si collegò con Gilberto conte e con Olderico per deprimere il suocero e collocare Rodolfo, re di Borgogna, in di lui luogo. Matrigna di Berengario era la marchesa Ermengarda, illustre per la sua bellezza, per la sua inquietudine politica, e pe’ suoi amanti. Questo Berengario era un oggetto che non lasciava tranquillo il sonno allo scaltro Ugone, che lo conosceva troppo ardito, troppo forte ed illustre più di quanto l’avrebbe egli desiderato. Pensando Ugone al modo di liberarsi da un tale oggetto, ricorse alla insidia, solito mezzo di un principe debole, spaventato e senza morale. Simulò la maggiore amicizia che aver si potesse per il giovine Berengario; ogni volta che di lui ragionava, palesava una simpatia, una stima di Berengario somma; ogni arte pose in opera per invitarlo a venire a Pavia alla corte d’un re che tanto fingeva di amarlo. Tutto era disposto per arrestarlo, poichè fosse caduto nella rete, e cavargli gli occhi; operazione che in que’ secoli di ferro era pur troppo frequentemente praticata. Il re Lotario, figlio di Ugone, venne a sapere quale trattamento dal padre fosse riserbato al sedotto Berengario; egli quindi, sensibile alla compassione, inorridito all’aspetto del tradimento, risparmiò al padre la macchia d’aver eseguito l’infame progetto, e rese avvisato Berengario dell’occorrente: di che Liutprando non arrossì di biasimarlo15: tanto le idee della virtù erano smarrite in que’ tempi, non solamente nel turbine delle passioni, ma persino anche nell’animo di uno scrittore che tranquillamente raccontava gli avvenimenti! Tale fu il motivo per cui Berengario vivea da alcuni anni nella Germania, lontano dalla sorda insidiosa politica del re Ugone, di cui la storia non ci ha lasciato nessuna bella azione che in qualche modo bilanci i tratti di bassezza e di atrocità che hanno macchiato il suo regno. Il Muratori lo chiama una solennissima volpe: io non credo che vi facesse bisogno di tanta accortezza per ascendere a un trono a cui era invitato; per vivervi fra le insidie e i pericoli senza potere ottenere giammai dal papa la corona imperiale; per fuggirsene vilmente al primo comparire dei torbidi; per vivere nell’angustia, e lasciare di sè alla posterità un’infausta memoria. Se l’accortezza è tale, e che sarà mai la dappocaggine? La vera accortezza è quella che, conciliando al principe la riverenza e l’amore de’ popoli, lo assicura sul trono; lo rinfianca contro gl’insulti nemici; e dopo una vita segnata colla giustizia, colla beneficenza e col valore, lascia alla fama il carico di eternare la sua gloria e trapassare alle età che nasceranno la memoria delle sue virtù.
Nella dieta radunatasi in Milano al giugnervi del marchese d’Ivrea Berengario, l’anno 945, per unanime consenso de’ signori d’Italia, fu collocato sul trono abbandonato da Ugone, il re Lotario, di lui figlio; di cui l’ottima indole s’era meritata la comune opinione. A questa scelta probabilmente avrà contribuito Berengario istesso; se non per sentimento, chè l’anima di costui forse non ne era capace, almeno per decenza di comparire grato a un principe che l’aveva salvato dalle insidie del padre. Lotario altronde era già stato solennemente associato al regno, e proclamato re d’Italia da quattordici anni addietro; nè si poteva scacciare quell’innocente sovrano dal trono senza ribellione ed ingiustizia manifesta. Questa è la prima dieta del regno, e la prima proclamazione d’un re d’Italia che siasi fatta in Milano dopo la distruzione di Uraja nel 538, anno per sempre memorando. Anno 945Il regno del giovane Lotario fu puramente di nome, poichè in fatti tutto si mosse coi voleri del marchese Berengario; al quale spiacendo anche quell’embrione di re, che gl’impediva di sedersi egli stesso sul trono, col veleno, dopo appena due anni, fe’ terminare il regno dell’infelice Lotario, che, trasportato da Torino, ebbe la sua tomba nella chiesa di Sant’Ambrogio di Milano. Tale fu la ricompensa che il marchese Berengario diede al re Lotario, a cui doveva la luce del giorno. Dopo ventiquattro giorni appena estinto Lotario, l’anno 950, Berengario e Adalberto suo figlio vennero proclamati re d’Italia.
Ma lasciamo qualche spazio fra gli orribili casi di quel secolo crudele; ivi contempli ciascuno a qual grado di depravazione fosse disceso l’uman genere; esamini, chi il brami, più minutamente gli storici, e veda poi se le querele sopra i costumi presenti sieno fondate; ovvero se in vece non vi sia ragione di offrire umili voti di riconoscenza a Dio. Dalla infelicità di quel secolo si conosce che vizio e miseria stanno collegati con nodi indissolubili; e che se qualche poco di bene e di felicità può godersi sulla terra, questa è riserbata per l’uomo retto e saggio. Una occhiata sullo stato delle arti e delle lettere in que’ barbari tempi, servirà a distraerci dai veneficii, dagli accecamenti e dalle insidie che compongono la storia di quegli anni. Poichè si dovette tumulare in Milano l’estinto re Lotario, tanto era lontana ogni idea della erudizione, che, per formarne l’urna sepolcrale, si ruppe una gran tavola di marmo, in cui eravi scolpita un’iscrizione di Plinio, e segata questa, si formò l’avello, rovesciando dalla interior parte del sepolcro i caratteri; di che ce ne fanno testimonianza il Calchi e l’Alciati, i quali la riconobbero e ne pubblicarono i frammenti16. La lingua latina scrivevasi coi più strani solecismi: alcuni pochi esempi ne daranno idea. Un diploma di questi tempi comincia così: Dum in Dei nomine, civitate Pisa ad Curte Domnorum regum, ubi Domnus Hugo et Lotharius gloriosissimi regibus preessent, subtus vites, quod topia vocatur, infra eadem Curte, ec.17 Una sentenza comincia così: Dum in Dei nomine, ad monasterium sancti, et Christi confessoris Ambrosii, hubi ejus umatum corpus requiescit, ubi Domnus Lambertus piissimus imperator preerat, in Domum ejusdem Sancte Mediolanensis Ecclesie, in Laubia ejusdem Domui, in juditio resideret Amedeus Comes Palacii, una cum Landulfus, vocatus Archiepiscopo, singulorum hominimum iustitiam faciendam, ed deliberandam, ec.18 Altra sentenza così comincia: In Dei nomine, Civitatis Mediolanensis, curte ducati, infra Laubia ejusdem Curtis in juditio ressederet Magnifredus Comes Palatii, et comes ipsius Comitati Mediolanensis, singulorum hominum justicias faciendas, ressedentibus cum eo Rotcherius Vicecomitis ipsius Civitatis, ec.19 Vero è che ancora più scorrette carte ritrovansi di un secolo prima: e tale è quella riferita dal conte Giulini nel primo tomo, alla p. 17, ove così leggesi: Confirmo ut omnes Servos ed Ancellas meas sint Aldiones, et pertinentes mundium eorum ad ipso Xenodochium, habentes per caput unusquis mascolis et femine solidus singolus; et ita volo, ut illi homines meis, qui consueti sunt cum suas anonas opera mihi faciendi, instituo, ut quandoque opera fuerint faciendi, ut cum anona ejusdem Xenodochii operas ipsas perficiant. Ma convien confessare che assai barbaro era il modo col quale comunemente si scriveva anche nel decimo secolo. Nel testamento dell’arcivescovo Andrea, il quale pure, per la eminente sua dignità ecclesiastica, doveva essere uomo colto, egli, nel 903, così scriveva: Senodochium istum sit rectum et gubernatum per warimbertus humilis diaconus de ordine sancte mediolanensis ecclesie nepoto meo, et filius bone memorie ariberti de besana diebus vite sue20. Da ciò comprendesi qual grado di coltura poteva esservi in que’ tempi. Certamente dovevano rimanere sconosciuti gli autori de’ buoni secoli preceduti; poichè per poco che un uomo si addomestichi a leggerli, non sarebbe possibile che così scrivesse. Non sarà forse inverosimile l’opinione che sino da que’ tempi si parlasse in Milano un dialetto poco dissimile da quello che si parla oggidì; e che nello scrivere si adoperasse una lingua diversa da quella che volgarmente si parla. In fatti anche presentemente nello scrivere si adopera la lingua italiana, anche dalle persone meno colte; le quali parlando, non mai d’altro fanno uso che del loro dialetto, tanto sformato, che sarebbero inintelligibili ad un Toscano. Se dunque, anche a’ nostri giorni i Milanesi, scrivono quella lingua che chiamasi italiana, e nel discorso non se ne servono comunemente mai, non vi può essere difficoltà a comprendere come nei bassi tempi scrivessero quella lingua che chiamavano latina, mentre parlavano il dialetto proprio. Quello che mi fa credere che la lingua che serviva per la scrittura, non fosse la usata nel parlare, si è che non vi trovo analogia veruna fra una carta e l’altra. I barbarismi, le sconcordanze sarebbero costanti se fossero state in uso nel parlare; nè può intendersi questa varietà di errori, se non supponendo che ciascheduno s’ingegnasse di dare una desinenza latina, come meglio sapeva, alle cose che cercava di esprimere. Alcuni persino adoperavano latinizzati gli articoli del volgare da due parti, dalla terza, dalla quarta; come in una carta del 941. Coëret ei da duos partes tenente ursone, item de insola comense, de tercia parte terra sancti victori de masalia, da quarta parte terra sancti petri de clevade21. Dallo stato della lingua può conoscersi che affatto erano ignote le lettere; e di quei tempi nemmeno abbiamo veruno scrittor milanese che stendesse le memorie degli avvenimenti della città; siccome cominciarono poi a fare nel secolo undecimo Arnolfo e Landolfo il Vecchio. Un’altra ragione poi mi persuase che, anche ne’ secoli bassi, in Milano e nella Lombardia si parlasse a un dipresso il dialetto che il popolo tuttavia conserva; e ciò perchè le vocali u ed eu pronunziate coll’accento francese, e così altre desinenze della lingua francese, non mi sembrano innesti fatti colla dominazione dei Franchi, ma una emanazione dell’antica lingua gallica originale, siccome disopra accennai. Gli Spagnuoli ne’ due ultimi secoli dominarono il Milanese, e appena tre o quattro parole spagnuole ci sono restate, infado, amparo, giunta, desdita e poco più. I Longobardi regnarono per più lungo tempo che i Franchi, e poche voci abbiamo che traggano la sua origine dal tedesco. Questa generale pronunzia francese più che italiana, adunque, è una tradizione da padre in figlio, che ascende sino all’antica venuta de’ Galli, e per conseguenza non interrotta. In queste materie la dimostrazione non può sperarsi; le sole probabilità ci determinano, ed esse mi sembrano favorevoli a questa opinione. Un contadino del milanese potrà in breve tempo intendersela con un contadino provenzale; e più difficilmente s’intenderanno fra di loro due contadini, uno milanese e l’altro calabrese; tanto il nostro dialetto appartiene più alla lingua di Francia che all’italiana!
L’architettura, il disegno, la pittura non erano però avvilite al segno al quale lo erano le lettere. Oltre l’atrio della chiesa di Sant’Ambrogio, ci rimangono di quei tempi l’altare della chiesa istessa, i bassi rilievi del palio d’oro, il mosaico del coro e la tribuna. La porta della chiesa di San Celso, l’altare di San Giovanni in Conca sono di que’ tempi: cose tutte lontane della eleganza che soddisfi un delicato conoscitore; ma però non affatto barbare, anzi lavori di qualche sorta di merito. Gli organi erano adoperati nelle chiese anche in Milano; ma erano fabbricati in Costantinopoli, dove rimaneva ancora ricoverato qualche avanzo di manifatture. Lodovico il Pio aveva ricompensato un prete veneziano che da Costantinopoli aveva portato l’arte di fare gli organi. Il papa Giovanni VIII aveva chiesto in grazia dal vescovo di Frisinga un organo, e chi lo suonasse, l’anno 873; il che ci fa vedere che nemmeno la musica aveva luogo nell’Italia.
Come potesse vivere il popolo in que’ tempi in mezzo a una tale ignoranza, fra i torbidi dei magnati del regno, sotto il governo di sovrani che col veleno e cavare gli occhi cercavano di mantenersi sul trono, in un regno elettivo, esposto a invasioni straniere, facile è lo immaginarselo. Il visconte di Milano, che fra gli altri obblighi della sua magistratura, aveva quello di patrocinare i pupilli e convalidare gli atti che si facevano in loro nome, nell’876 non potè firmare una carta che anche oggidì conservasi nell’archivio di Sant’Ambrogio, e vi fece in luogo del suo nome una croce per non sapere esso scrivere; e di sedici persone che intervennero a quel contratto, appena sette poterono fare il loro nome, e nove, per non saper scrivere, vi apposero la croce22. Anche da ciò facilmente comprendiamo in quale misero stato dovessero trovarsi gl’interessi de’ cittadini. La carica di Viceconte era immediatamente subalterna del Conte, che reggeva la città in nome del re, come la carica di Vicedomino era immediatamente subalterna dell’Arcivescovo, e il nome di queste dignità fu poi origine del cognome che ne prese la famiglia Visconti. I cognomi non ritornarono in uso se non verso la fine del secolo undecimo. Le leggi poi sotto le quali si viveva in que’ tempi, erano quali lo potevano permettere i tempi stessi. Si credeva che bastasse l’ordinare una cosa per vederla eseguita. Negli anni di carestia la legge comandava che non si vendessero i generi troppo cari. Si fissavano limiti a quei che negoziavano fuori dello Stato. Si proibiva l’esportazione delle armi agli esteri. In somma tutto si credeva di poter fare con leggi vincolanti; o almeno si credeva il legislatore d’avere bastantemente eseguito il dovere della sacra e terribile sua carica, comandando agli uomini d’essere felici, in vece di ascendere alle cagioni, e impedire che i mali nascessero. È da notarsi che le leggi stesse molto si estendevano contro coloro che col mezzo della magia devastavano colla grandine le messi, e si ordinava all’arciprete della diocesi il modo di costringerli a confessare il supposto delitto, onde punirli23; e questo ci basta per conoscere lo stato de’ nostri antenati in que’ miseri tempi. L’ignoranza, la ferocia, l’infelicità, torno a ripeterlo, sono compagne indivisibili in un popolo corrotto; i lumi, l’urbanità, la felicità pubblica caramente si abbracciano24.
Non credo che possa descriversi con esattezza qual fosse la costituzione civile di Milano in que’ tempi oscuri, ne’ quali principiava a risorgere. Il governo passato della Polonia potrebbe darci qualche idea del governo d’Italia in que’ tempi. Un re elettivo; il primate, che ha molta influenza in tutti gli affari; la plebe degradata sotto la potenza dei grandi divenuti formidabili al re; la facilità delle rivoluzioni; la frequenza delle invasioni straniere; la concorrenza di più rivali che coll’armi disputano il trono; la vera sovranità collocata nella dieta: queste sono le rassomiglianze che si ravvisano. Ma noi avevamo di più la rozzezza dei tempi ne’ quali mancando l’arte dello scrivere, e non essendovi nomi di casati, nemmeno poteva esservi una costante tradizione di nobiltà. Quindi non solamente era difficile il modo per fare le risoluzioni, ma era un altro oggetto di confusione il verificare chi fosse o non fosse nobile, chi avesse o non avesse titolo per dare il voto; la quale controversia in un tale sistema doveva portare la confusione all’ultimo grado. Carlo Magno fu un gran principe, gran soldato, e col diritto di conquista dominò assolutamente sull’Italia. La politica gli suggerì di rendere sacra la sua persona colle ecclesiastiche unzioni solenni, celebrate per il regno d’Italia in Pavia e per l’Impero in Roma. I successori di lui non ebbero un vigore e un genio che lo pareggiasse. S’indebolì la potenza del sovrano; e l’acclamazione de’ magnati e la sacra cerimonia divennero condizioni pretese essenziali alla costituzione di un sovrano. Quindi nacque la potenza dell’arcivescovo di Milano, il quale, gettandosi ora da un partito ed ora dall’altro, riceveva doni continui di terre e accresceva l’opinione, vera ed unica base del potere politico, e giunse ad essere creduto il solo che colla incoronazione potesse creare un legittimo re d’Italia. Come poi i re d’Italia potessero donare poderi e terre così frequentemente all’arcivescovo, e ad altre chiese e persone, essi, che per lo più da paese estero erano recentemente chiamati a regnare; come fossero in poter dei re questi campi e queste terre, onde ne facessero un dono della loro proprietà ai privati, non è facile lo spiegarlo; ammeno che non si creda, siccome a me pare credibile, che la successione fiscale alle eredità vacanti fosse allora incomparabilmente più frequente che non lo è ai dì nostri; per la ragione che, non essendovi cognomi delle famiglie, e pochi essendo coloro che sapessero scrivere, sì tosto che un uomo non aveva figli o fratelli o nipoti, facilmente non si conosceva più nessun parente a cui dovesse passare l’eredità; e quindi cadeva come un fondo vacante nelle mani del re. Questa potenza poi che s’andava ingrandendo nell’arcivescovo, cagionò un inconveniente; e fu che i sovrani, laddove lasciavano in origine la libertà dell’elezione al clero a norma de’ sacri canoni e della tradizione, non consentirono più che una dignità divenuta pericolosa al loro regno cadesse indifferentemente sopra chiunque; ma anzi, ora con modi indiretti, ed ora coll’aperto comando, costrinsero a riconoscere per arcivescovo colui dal quale speravano di temer meno in avvenire, e che, riconoscendo dal re la dignità, a lui fosse anco più ligio ed ossequioso. Quindi si sconvolse l’ordine; la venalità aprì la strada alla dignità ecclesiastica; fu di mestieri di venire a rimedi, che gettarono poi, siccome vedremo, la nostra patria fra le stragi civili e fra i torbidi dell’anarchia; e perdette la Chiesa Milanese interamente la sua antica costituzione. Sotto Carlo Magno e sotto i primi suoi successori, l’Italia fu immediatamente diretta da governatori in nome del sovrano, dei quali alcuni ebbero il non dovuto titolo di Re, come lo ebbe Pipino, figlio di Carlo Magno, Bernardo, figlio di Pipino, e alcuni altri dei quali non ho fatta menzione. Comandavano in Milano il Conte, i Messi Regj, il Visconte, l’Arcivescovo chiamato anche Dominus, il di lui Vicario Vicedomino, e ciò a vicenda e confusamente, ora più, ora meno, a misura della circostanza del momento.
Dello stato della popolazione nel decimo secolo nulla abbiamo di preciso. Mi pare verosimile che dovesse essere mediocremente popolata Milano. Le terre erano coltivate parte da servi e parte da liberti, i quali chiamavansi Aldiones. Molta parte del Ducato era bosco. In qualche luogo che ora si coltiva, forse ancora v’erano delle acque stagnanti. Non credo che ancora si coltivasse il riso, ma varie sorta di grano si coltivavano, e si coltivava anche il lino. Le terre, che prima si misuravano a pedatura, già nel principio del nono secolo si misuravano a pertiche e tavole, come oggidì si costuma; la misura del fieno era a fascio, quella del vino a stajo ed a mina, nella misura delle terre però eranvi juges, misura equivalente a dodici pertiche.
Il rito della Chiesa Milanese era l’ambrosiano, come continua ad esserlo. Moltissimi cangiamenti vi si sono fatti col passare dei secoli. Fu più volte per essere abolito, e una di queste fu sotto Carlo Magno, che aveva preso concerto col papa di uniformare al rito romano tutte le chiese de’ suoi dominj: e perciò in Milano allora si fece il possibile per ritirare tutti i libri ambrosiani. Certo Eugenio vescovo, non si sa di qual diocesi, ottenne, per riverenza al santo Istitutore, che non venisse abolito25. Fra le mutazioni accadute nel rito ambrosiano, vi è in parte quella del battesimo, che allora si eseguiva immergendo nel sacro fonte, non porzione del capo soltanto, ma tutto il corpo del neofito; e perciò eranvi due battisterj. Quello per le donne chiamavasi Santo Stefano alle fonti, ed era dove ora trovasi Santa Radegonda, ove stavano nel decimo secolo le vergini sacre a Dio di Vigelinda, che assistevano alle fanciulle nel loro battesimo: massimamente finchè durò il costume di non conferire comunemente quel sacramento a’ bambini, ma a’ fanciulli già dotati di qualche uso di ragione, come insegna il conte Giulini26. L’altro battisterio chiamavasi San Giovanni alle fonti, destinato per gli uomini; ed è tuttavia in piedi, sebbene mutato di forma. Ognuno può ravvisarlo al capo della chiesa di San Gottardo, nella Regia Ducal Corte, ed è quel fabbricato poligono in cui sta riposto l’altar maggiore; e quello è appunto l’antichissimo battisterio in cui probabilmente Sant’Agostino venne battezzato dal nostro santo arcivescovo Ambrogio27. Oltre la universale ignoranza di quei tempi si può avere un’idea della religione, dalle prescrizioni che si fecero in un concilio tenutosi in Pavia l’anno 850, a cui presedeva l’arcivescovo di Milano. Si proibisce in quel concilio ai nobili che non andavano alle chiese, ma ne’ privati oratorii facevano celebrare i divini misteri, di non farli celebrare se non da un sacerdote: Docendi igitur saeculares viri, ut in domibus suis mysteria divina jugiter exerceri debeant, quod valde laudabile est; ab his tamen tractentur, qui ab Episcopis examinati fuerint, et ab ordinatoribus suis commendatitiis litteris comitati probantur, cum ad peregrina forte migrare est. Si quid ergo contemptores canonum extraordinarie et illicite ministrantes, et divina sacramentaliter violantes inveniuntur, primum ab Episcopo uterque amoveatur, et vagans scilicet Clericus, vel Sacerdos, et is qui ejus usurpativo fruitur officio, et si noluerit se ab hac temeritate compescere, excommunicetur28. Nel medesimo concilio si prescrive ai vescovi di non cagionare tante spese girando per la cresima, di non appropriarsi i beni delle pievi, e di non vivere con donne sospette. Questi fatti s’ignorano da coloro che vorrebbero indistintamente richiamare la pietà degli antichi tempi.
Note
- ↑ Il conte Giulini, tomo II, pag. 61.
- ↑ Liutprand. lib. I, cap. 22
- ↑ Rer. Italic. tomo II, Chron. Novaliciense.
- ↑ Antiquit. Medii Aevi, tomo I, pag. 87.
- ↑ Ivi, pag. 779.
- ↑ Liutprand. lib. II, cap. 15.
- ↑ Il conte Giulini, tomo II, pag. 153.
- ↑ Med. Aev. tomo VI, pag. 525.
- ↑ Tomo II, pag.163.
- ↑ Il conte Giulini, tomo II, pag. 167.
- ↑ Liutprand. lib. III, cap. 4.
- ↑ Liutprand. lib. III, cap. 5.
- ↑ Liutprand. lib. IV, cap. 6. — Arnulph. Rer. Italic. Script. tomo IV, lib. I, cap. 1 e 2.
- ↑ Il conte Giulini, tomo II, pag. 208.
- ↑ Liutprand. lib. V, cap. 4 e seg.
- ↑ Tristani Calchi Hist. Patr, Lib. I, pag. 18 — Alciati, lib. II, pag. 125.
- ↑ Muratori, Antiq. Med. Aev. tomo I, pag. 953.
- ↑ Il conte Giulini, tomo II, pag. 473.
- ↑ Detto, tomo II, pag, 469.
- ↑ Detto, tomo II, pag. 110.
- ↑ Il conte Giulini, tomo II, pag. 199.
- ↑ Il conte Giulini, tomo I, pag. 366 e 471.
- ↑ Il conte Giulini, tomo I, pag. 72.
- ↑ Sembra questo in contraddizione con quanto s’è asserito; cioè che quando il genere umano fu più tormentato, gl’ingegni si sono riscossi, e ne è nata la coltura e la felicità. Ma l’apparente contraddizione scompare considerando che l’ignoranza produce la ferocia e l’infelicità, e queste giunte a un determinato grado scuotono gl’ingegni, tolgono il torpore e richiamano la sapienza; quindi tutto si anima e risorge; quindi spunta la felicità, nella quale nuovamente il genere umano diviene inerte, e successivamente ignorante, feroce e misero. Tale è la vicenda per cui circola e circolerà sempre la storia delle nazioni. Il male nasce dal bene, e il bene dal male.
- ↑ Landulph. Senior. lib. II, cap. 10. Rer. Italic. t. IV. - L'anno 1440 il cardinale Branda Castiglione, signore accreditatissimo, avendo sottratti i Rituali ambrosiani per introdurre il rito romano, corse pericolo di vita. Il popolo attorniò il suo palazzo; egli fu costretto gettare dalle finestre i libri ambrosiani, e finchè visse non s'arrischiò a porre mai pià il piede in Milano
- ↑ Tomo II, pag. 151
- ↑ Landulph. Sen. lib. I, cap. 9.
- ↑ Canon. XVIII. Synod. Regiaticini ann. 850, regnantib. piissim. Augg. Hlotario et Hlodovico. Labbé Concilior. tomo IX, pag. 1071. Edit. Venet. 1782, Albrizzi e Coleti.