Storia di Milano/Capitolo V
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Dissensioni civili pel cambiamento della disciplina ecclesiastica dopo la metà del secolo XI
La rivoluzione di cui sono per trattare in questo capitolo, ha cagionato più di trenta anni di fazioni nella nostra città. Stragi, incendii, odii, scandali, risse, questa è la scena che ci si apre davanti. Vorrei cancellare dalla storia la memoria di que’ tristi avvenimenti; ma essi influirono sopra i posteriori, e furono troppo lunghi ed importanti. Costretto a riferirli, io lo farò più colle parole altrui, che colle mie. La libertà ecclesiastica era stata depressa all’estremo dall’imperatore Enrico II, come già accennai. Il pontificato istesso di Roma già da una serie di anni era abbassato all’ultimo segno. Romano, console, duca e senatore di Roma, a forza di denaro si era fatto eleggere sommo pontefice col nome di Giovanni XIX nel 1024. Teofilato, di lui nipote, fanciullo ancora e appena cherico, a forza pure di denaro speso da’ suoi parenti, gli succedette col nome di Benedetto IX. La vita libertina, le rapine, le crudeltà che esercitava, indussero i Romani a scacciarlo. L’imperatore Corrado, colle sue armi, lo collocò di nuovo sulla sua sede; ivi però, circondato dalla detestazione pubblica ben meritata, vendette il sommo ponteficato a prezzo d’oro all’arciprete Giovanni Graziano, che fu Gregorio VI. L’imperatore Enrico II, successor di Corrado, volle che Gregorio VI fosse deposto in un concilio a Sutri. Poi costrinse i Romani a riconoscere per sommo pontefice Svidger, vescovo di Bamberga, ch’egli aveva dalla Germania condotto in seguito, e si chiamò Clemente II. Morto questo, l’imperatore Enrico elesse a sommo pontefice Poppone, vescovo di Brixen, e lo spedì a Roma, dove ebbe nome Damaso II; a cui l’imperatore stesso in Worms destinò per successore Brunone di Egesheim, che fu in Roma chiamato Leone IX. Gli fu successore Geberardo, vescovo di Eichstat, scelto in Magonza, il quale in Roma si chiamò Vittore II. Così si facevano allora le elezioni. Ildebrando, nato nella Toscana, monaco in Roma, poi cardinale, viveva in que’ tempi. Dotato di somma accortezza e di quella energia d’animo che caratterizza gli uomini grandi, fermo ne’ suoi principii, audace, cautamente violento, fremeva nel mirare rovesciata la disciplina ecclesiastica, calpestata l’antica libertà delle elezioni canoniche, soggiogata l’Italia da continue invasioni, umiliata Roma all’obbedienza, e collocati sulle sedi vescovili uomini talvolta i più vili e i più indegni d’occupare quel sacro luogo. Ildebrando era nato a tempo, poichè il disordine era al colmo. L’evidenza de’ mali pubblici, cresciuti a un dato segno, dispone gli uomini a desiderare e seguire una mente superiore riscaldata per una rivoluzione. In ogni altro tempo più placido l’inerzia prevale; e il vigoroso entusiasmo sbalordisce e dispiace. La stima de’ Romani l’aveva innalzato a tale ascendente, che Vittore II era pienamente governato da lui; ch’egli creò, si può dire, Alessandro II; e che erano già quasi vent’anni ch’ei dirigeva il sommo pontificato quando vi ascese col nome di Gregorio VII, nome che ei rese famoso nella storia. Egli si propose di assoggettare alla chiesa romana la milanese; di rendere il papato potente colla soggezione de’ vescovi, e così opporre alla forza dell’Impero la forza ecclesiastica ecclesiastica riunita: mezzo che forse era il solo per allontanare la simonia nelle elezioni, e restituire alla Chiesa pastori degni dell’Apostolato. La Chiesa Milanese era la più importante di ogni altra, per il numero grande delle chiese da essa dipendenti, per l’opinione antica, per la venerazione del suo rito e per l’influenza che aveva l’arcivescovo nella elezione del re d’Italia. In fatti vedremo con quanta ostinazione Ildebrando abbia seguitato il suo piano senza mutare giammai consiglio, malgrado le gravissime difficoltà che vi si frapposero.
Nell’anno 1056 era morto l’imperatore Enrico II, e restava collocato sul trono imperiale un bambino di sei anni, Enrico III, in mezzo alle turbolenze della Germania, sotto la tutela dell’imperatrice Agnese, di lui madre. Durante una lunga serie di anni l’Italia rimase come se non vi fosse un re, ed era libero il campo ai maneggi d’Ildebrando. Cominciarono essi appunto in quell’anno 1056. In quel tempo la Chiesa Milanese ordinava, siccome accennai, sacerdoti anche gli uomini che avevano moglie, e permetteva loro di convivere con essa. Non però ammetteva al sacerdozio coloro che fossero passati a seconde nozze, ovvero avessero presa per moglie una vedova. Non si proibiva poi che un sacerdote, rimasto vedovo, passasse a nuove nozze; ma gli restava sempre interdetto l’esercizio delle funzioni sacerdotali. Pretendevano i nostri sacerdoti che tale fosse il patrio rito sino dai tempi di Sant’Agostino, il quale, come nella forma del Battesimo e in altra parte della liturgia aveva adottata la pratica della Chiesa Greca, così ne avesse accettata anche la disciplina, che accorda il matrimonio ai sacerdoti. Questa opinione è stata contrastata con molta dal nostro Puricelli in una sua dissertazione, in cui volle provare non avere mai sant’Ambrogio permesso il matrimonio ai sacerdoti. Citavano allora i nostri ecclesiastici un testo del santo dottore del suo primo libro de officiis ministrorum, con queste parole: De monogamia sacerdotum quid loquar? quum una tantum permittitur copula, et non repetita; et haec lex est non iterare conjugium. Ma questo passo ora si legge così: De castimonia autem quid loquar, quando una tantum nec repetita permittitur copula. Et in ipso ergo conjugio lex est non iterare conjugium. Non consta nemmeno che gl’impugnatori del matrimonio de’ sacerdoti allora accusassero di malafede i nostri sacerdoti, che pubblicamente si appoggiavano a quella testimonianza; anzi in un’aringa pubblica si pretese allora che la seguente fosse dottrina di sant’Ambrogio: Virtutum autem magister apostolus est, qui cum patientia redarguendos docet et contradicentes, qui unius uxoris virum praecipiat esse, non quod exortem excludat conjugii, nam hoc supra legem praecepti est, sed ut conjugali castimonia fruatur absolutionis suae gratia; nulla enim culpa coniugii, sed lex. Apostolus legem posuit dicens: Si quis sine crimine est unius uxoris vir; ergo qui sine crimine est unius uxoris vir, teneatur ad legem sacerdotii supradicti; qui autem iteraverit conjugium, culpam quidem non habet coinquinati, sed’ praerogativa exuitur sacerdotis. Questo passo del santo dottore ora si legge così: Virtutum autem magister apostolus est, qui cum patientia redarguendos doceat contradicentes; qui unius uxoris virum praecipiat esse, non quo exortem excludat conjugii (nam hoc supra legem praecepti est) sed ut conjugali castimonia servet ablutionis suae gratiam: neque iterum ut filios in sacerdotio creare apostolica invitetur auctoritate, habentem enim dixit filios, non facientem, neque conjugium iterare. Il testo odierno è precisamente contrario a quello che allora si allegava in pubblico, senza che alcuno accusasse chi lo citava, di mala fede; e gli scritti di sant’Ambrogio dovevano essere noti al clero ambrosiano, che faceva professione di conservare i particolari instituti di quel santo vescovo. In seguito a ciò, leggesi anche presentemente il passo in questi termini: Ideo apostolus legem posuit dicens: Si quis sine crimine est unius uxoris vir, tenetur ad legem sacerdotii suscipiendi: qui autem iteraverit conjugium, culpam quidem non habet coinquinati, sed praerogativa exuitur sacerdotis. Cresce anche al di più la difficoltà sul testo del santo dottore, osservando come poco dopo, a tal proposito, presentemente leggesi: Patres in concilio Nicaeno tractatus addidisse, neque clericum quemdam debere esse qui secunda conjugia sortitus sit; il che non si sa come spiegarlo, poichè ne’ venti canoni del concilio Niceno nessuna menzione si fa de’ cherici bigami; nè è presumibile che il santo dottore Ambrogio ignorasse gli atti di quel primo concilio generale della Chiesa, che era celebrato appena settantun’anni prima del tempo in cui egli scriveva quelle parole; meno poi che allegasse l’autorità di quella celebre unione di trecento diciotto vescovi sopra un argomento di cui il concilio non avesse trattato. Il testo del santo padre allora era diverso da quello d’oggidì; quale sia la genuina lezione a me non appartiene il deciderlo. I nostri ecclesiastici allora interpretavano letteralmente i testi di san Paolo: Bonum est homini mulierem non tangere; propter fornicationem autem unusquisque suam uxorem habeat; e l’altro: Oportet ergo episcopum irreprehensibilem esse, unius uxoris virum, sobrium, prudentem, etc. Questa opinione, che attribuiva a sant’Ambrogio la disciplina favorevole al matrimonio de’ sacerdoti, si vede ancora nell’antica cronaca di Dazio, riferita da Galvaneo Fiamma: In synodo Damasi Primi, centum quadraginta episcoporum, celebrata in Costantinopoli, ubi beatus interfuit Ambrosius, gravissima dissensio exorta est inter sacerdotes uxoratos ex una parte, et inter sacerdotes sine uxore viventes ex altera, qui sacerdotes sine uxore dicebant sacerdotes uxoratos salvari non posse. Summus pontifex hanc quaestionem commisit beato Ambrosio, qui sic ait: Perfectio vitae non in castitate, sed in charitate consistit, secundum illud apostoli: Si linguis hominum loquar et angelorum etc. Ideo lex concedit sacerdotes semel virginem uxorem ducere, sed conjugium non iterare. Si autem, mortua prima uxore, sacerdos aliam duxerit, sacerdotium amittit. Questa opinione durava ancora al principio del secolo decimoquarto, quando scriveva Pietro Azario, il quale, descritta che ebbe la gerarchia ecclesiastica di Milano, aggiunge: Iis omnibus benedicens beatus Ambrosius, una uxore uti posse concessit, qua defuncta et ipsi vidui in aeternum permanerent. Quae consuetudo duravit annis septingentis usque ad tempora Alexandri papae, quem civitas Mediolani genuerat. E anche un secolo dopo così credevasi; di che ci fanno testimonianza le seguenti parole del Corio, e concesse loro che potessero avere moglie vergine, la quale morendo, restassero poi vedovi, come chiaramente si legge nella prima a Timoteo; parole che trovansi nelle prime edizioni di Milano 1503, e di Venezia 1565, ma che si tralasciarono nelle posteriori ristampe. Quantunque questa opinione di sant’Ambrogio sia considerata erronea; e la pratica di ammettere al sacramento dell’ordine le persone che avevano già il sacramento del matrimonio, si risguardi come un abuso introdottosi posteriormente; egli è però certo che i sacerdoti che vivevano nel 1056, erano nati ed allevati con questo costume e con questa opinione che il matrimonio fosse permesso agli ecclesiastici, e che, almeno da cento anni, tale fosse la loro pratica; il che lo attesta il conte Giulini, che pure è poco amico di que’ nostri ecclesiastici: così egli: Non era così antico, a mio credere, come quello della simonia, nella nostra città l’altro abuso del matrimonio degli ecclesiastici, non avendone io trovato qualche indizio che nel secolo decimo.
Quand’anche io credessi migliore la disciplina ecclesiastica che permette le nozze ai sacerdoti, dell’altra che impone loro l’obbligo del celibato, io tacerei per riverenza verso della Chiesa, che ha stabilito generalmente il secondo. Ma tutto bene esaminato, parmi che il celibato sia lo stato più conveniente ed opportuno agli ecclesiastici; perchè meno legami gli attaccano alle brighe della società; più imparziali e liberi conservansi nell’esercizio del santo loro ministero; più tranquillità loro rimane per occuparsi negli studi sacri; minori ostacoli hanno d’intorno, e possono interamente consacrarsi al bene degli uomini; i beneficii ecclesiastici possono essere ripartiti ai poveri, senza che i sentimenti della natura verso i figli allontanino il beneficiato dal distribuirli; finalmente i figli degli ecclesiastici, che vivono co’ beni della Chiesa, contraggono con una eduzione civile i bisogni ai quali totalmente viene a mancare la base colla morte del padre, e corre pericolo la società di avere pessimi cittadini, a meno che le cariche ecclesiastiche non diventassero feudi transitorii ne’ figli. Quest’ammasso di ragioni mi persuaderebbe in favore del celibato, per i pochi cittadini trascelti per servire al ministero dell’altare, anche allor quando si disputasse se convenga non ammettere se non uomini che siano determinati a questo genere di vita giudicato più perfetto, e più dal popolo riverito. Ma questo non mi induce però a chiamare i sacerdoti della chiesa milanese di que’ tempi concubinari, siccome in questi ultimi tempi sogliono fare alcuni; poichè essi nè difendevano il concubinato, nè generalmente erano accusati di questo; e nemmeno li chiamerò incontinenti, eretici, scismatici, nicolaiti, voci adoperate per un male inteso zelo, poichè nessun rimprovero venne loro fatto sul loro dogma. La questione è stata unicamente per la disciplina del celibato, che da noi non si credeva una condizione essenziale per il sacerdozio. Posto così lo stato della questione nel suo vero aspetto, vediamo ora per quai mezzi Ildebrando abbia incominciata in Milano la rivoluzione che si era prefissa.
Già nell’anno 1021, siccome dissi, erasi da Benedetto VIII, nel concilio di Pavia, coll’autorità anche del re Enrico, fatta la legge che obbligava al celibato i sacerdoti. Anselmo da Baggio, ordinario cardinale della santa chiesa milanese, uomo di merito e di nascita distinta, e che godeva in Milano, sua patria, moltissima considerazione, fu il primo che cominciasse da noi a disapprovare il matrimonio degli ecclesiastici. Sappiamo che gli ecclesiastici erano del partito de’ nobili, e nobili essi medesimi comunemente. I discorsi di Anselmo stavano per cagionare dei torbidi nella città, dove le inimicizie fra i nobili e i plebei erano sopite, piuttosto che spente; e i popolari, prontissimi a cogliere l’occasione di umiliare gli ottimati. L’arcivescovo Guidone si adoperò in modo che l’imperatore Enrico II creasse Anselmo vescovo di Lucca; e per tal mezzo (che nelle circostanze era, se non il solo, almeno il più saggio e il più mite) credette di avere allontanato il pericolo di un fermento nella città. Anselmo da Baggio poi fu sempre ligio d’Ildebrando; con esso venne in Milano, siccome come vedremo in seguito; e non dimenticò mai l’oggetto di sottomettere l’arcivescovo alla giurisdizione romana, finchè fu innalzato al sommo pontificato per opera d’Ildebrando, col nome d’Alessandro II. Credette l’Arcivescovo di essersi assicurata la tranquillità coll’allontanamento dell’eloquente Anselmo. Ma se non si trovò un uomo di quella autorità, non perciò mancarono altri che decisamente cercarono di animare il popolo contro degli ecclesiastici. Tre uomini si collegarono, Arialdo, Landolfo e Nazaro: Arialdo era diacono; nessuno storico lo nega; Landolfo era cherico, se osserviamo quanto ne scrisse il beato Andrea; non era in modo alcuno ecclesiastico, se crediamo allo storico Arnolfo. Nazaro era uno zecchiere assai ricco, de’ quali due compagni di Arialdo, uno con l’autorità, l’altro col danaro diede molto vigore al partito de’ buoni, dice il conte Giulini1. Convien credere che appunto questo fosse il solo appoggio che Nazaro diede al partito; poichè di lui in nulla si fa menzione, nè io più lo nominerò. I due che figurarono furono Arialdo e Landolfo. Sono concordi i due partiti nell’asserire che Landolfo fosse uomo di nascita nobile; discordano sulla famiglia di Arialdo, gli uni volendola plebea, e gli altri al contrario. Arnoldo, che viveva, in que’ tempi, così comincia il racconto di questa dissenzione: Hac eadem tempestate horror nimius ambrosianum invasit clerum... ... cujus initium et seriem, quum res nostris adhuc versetur in oculis, prout possumus enarremus... Quidam igitur ex Decumanis, nomine Arialdus, penes Widonem Antistitem multis fotus deliciis, multisque cumulatus honoribus, dum studio, severissimus est divinae legis factus interpres, dura exercens in clericos solos judicia. Qui quum modicae foret auctoritatis, humiliter utpote natus, prævidit applicare sibi Landulphum, quasi generosiorem, et ad hoc idoneum, familiaris ejus factus assecla. Landulphus vero, quum esset expeditioris linguae ac vocis, nimiusque favoris amator, repente dux verbi efficitur, usurpato sibi, contra morem Ecclesiae, prædicationis officio. Hic, quum nullis esset ecclesiasticis gradibus alteratus, grave jugum sacerdotum imponebat cervicibus, quum Christi suave est, et ejus leve sit onus. Landolfo adunque dai privati discorsi passò ai pubblici, e lo storico istesso ci ha trasmessa la prima parlata con cui eccitò la plebe a disprezzare gli ecclesiastici, ed a saccheggiare le case loro. Ella è la seguente: Carissimi seniores, conceptum in corde sermonem ultra ritenere non valeo. Nolite, domini miei, nolite adolescentis et imperiti verba contemnere; revelat enim saepe Deus minori, quod denegat majori. Dicite mihi: creditis in Deum trinum et unum? Respondent omnes: credimus. Et adjecit. Munite frontes signo Crucis. Et factum est. Post haec, ait. Condelector vestrae devotioni, compatior tamen imminenti magnae perditioni. Multis enim retro temporibus non est agnitus in hac urbe Salvator. Diu est quod erratis, quum nulla sint vobis vestigia veritatis; pro luce palpatis tenebras, caeci omnes effecti, quoniam caeci sunt duces vestri. Sed numquid potest caecus caecum ducere? nonne ambo in foveam cadunt? Abundant enim stupra multimoda; haeresis quoque simoniaca in sacerdotibus et levitis, ac reliquis sacrorum ministris, qui, quum nicolaitae sint et simoniaci, merito debent abjici, a quibus si salutem a Salvatore speratis, deinceps omnino cavete, nulla eorum venerantes officia, quorum sacrificia idem est ac canina sint stercora, eorumque basilicae jumentorum praesepia. Quamobrem, ipsis amodo reprobatis, bona eorum publicentur. Sit facultas omnibus universa diripiendi ubi fuerint in urbe vel extra. Gli editori della raccolta Rerum Italicarum credono che quest’aringa sia una prova di eloquenza dello storico, e che unicamente Landolfo, parlando al popolo, acremente declamasse contro il matrimonio de’ preti: acriter intonuisse; ma non producono alcuna ragione. La storia ci fa vedere che in seguito il popolo saccheggiò le case degli ecclesiastici; e se crediamo a questo autore, che scriveva mentre attualmente accadevano le cose: Quum res nostris adhuc versetur in oculis, si vede che erano vaghe e generali le accuse per eccitare il popolo contro del corpo ecclesiastico. Landolfo il Vecchio, altro nostro scrittore di quei tempi, così più in breve ci descrive l’origine della dissenzione: Arialdus, cujusdam superbiae zelo gravatus, qui paulo ante de quodam scelere nefandissimo accusatus, et convictus ante Guidonem, adstantibus sacerdotibus hujus urbis multis, et partim quia urbani sacerdotes, forenses togatos urbem intrare minime consentiebant, et ecclesias civiles illis habere nisi per tonsuram illis non permittebant, per omnia occasionem quaerebat qualiter omnes sacerdotes ab uxoribus, populi virtutem sollicitando, removeret. Il conte Giulini a questo passo aggiugne: Quanto al delitto che gli appone il maligno scrittore, si scuopre questa per una mera calunnia, osservando che Arnolfo, storico nemico egualmente di sant’Arialdo, nulla affatto ne dice. Oltrechè, se fosse stato vero, non avrebbe lasciato Landolfo di spiegarne meglio le circostanze per renderlo credibile. Ma anche senza badare a ciò, la santità di quel buon servo di Dio in tutto il resto della sua vita lo difende abbastanza da tale manifesta impostura. I due nostri scrittori Arnolfo e Landolfo Seniore sono i soli che abbiamo di quel tempo. Essi erano stati testimonii, e forse partecipi delle miserie nelle quali venne ingolfata la città per queste dissenzioni: essi erano animati contro coloro che ne furono la cagione. È naturale altresì il supporre che essi fossero affezionati alla disciplina che avevano trovata in uso presso de’ loro padri; e questo basterà perchè non venga loro prestata ciecamente credenza nel male che dicono di Arialdo e di Landolfo. Se si fosse allora trattato unicamente di repristinare o dilatare la disciplina del celibato anche nella chiesa milanese, e non ammettere agli ordini sacri in avvenire se non coloro che si obbligassero alla vita celibe, la questione si sarebbe potuta discutere pacificamente: ma volendosi rimovere dall’altare i sacerdoti ammogliati, ognuno vede in quale angustia venivano riposti e i sacerdoti e i parenti delle loro mogli. Il metodo migliore per conoscere lo spirito dei partiti si è l’attenerci ai fatti non contrastati, e non far caso delle declamazioni.
Tra i fatti accordati dagli scrittori dell’uno e dell’altro partito, evvi il seguente: Arialdo, in un giorno solenne, radunò sulla piazza un buon numero di popolo, e alla testa della moltitudine entrato nella chiesa, mentre i sacerdoti celebravano i divini uffici, violentemente scacciolli tutti dal coro, e perseguitolli in tutt’i canti e rispostigli; poscia dispose un editto in cui si comandava il celibato, e costrinse gli ecclesiastici a sottoscriversi. Frattanto si saccheggiarono le case degli ecclesiastici ed alcune si diroccarono. Arnolfo così lo racconta: Die una solemni ad ecclesiam veniens [parla di Arialdo] cum turbis a foro, psallentes omnes violenter projecit a choro, insequens per angulos et diversoria; deinde providet callide scribi Pytacium de castitate servanda, neglecto canone, mundanis extortum a legibus, in quo omnes sacri ordines ambrosianae dioecesis inviti subscribunt, angariante ipso cum laicis. Interim praedones civitatis, praeter aedes aliquas in urbe dirutas, lustrabant parochiam, domos clericorum scrutantes, eorumque diripientes substantiam. Al qual passo di Arnolfo il conte Giulini così riflette: Era per altro ben giusta cosa che quegli ecclesiastici viziosi ed ostinati i quali non volevano cangiar vita, venissero castigati anche col braccio secolare. Egli è ben vero che i rimedi violenti non vanno per l’ordinario disgiunti da qualche disordine; ma pure talora sono necessari; il che suppone che quegli ecclesiastici fossero viziosi e legalmente provati tali; che il loro vizio fosse della classe di quelli che sono sottoposti al braccio secolare; che Arialdo fosse rivestito della pubblica autorità, che legittimamente lo costituisse vindice della disciplina; e finalmente che il modo per esercitare questa magistratura fosse legale, movendo la plebe a tumulto, profanando l’asilo del sacro tempio, e scacciandone i ministri: cose tutte che non mi paion vere. Ridotto adunque lo scandalo a questo eccesso, dopo di aver sin da principio adoperati tutti i mezzi possibili per guadagnarsi Arialdo e Landolfo, Guidone arcivescovo doveva ricorrere al mezzo che i sacri canoni proponevano, cioè alla convocazione d’un concilio in cui, radunati i vescovi suffraganei ed ascoltate le ragioni dell’una e dell’altra parte, si decidesse la questione, si restituisse la pace alla Chiesa, e il popolo ritornasse alla riverenza de’ pastori. Così appunto fece l’arcivescovo. Ma siccome il furore dei partiti rendeva troppo pericoloso il soggiorno di Milano, venne radunato il sinodo in Fontaneto, luogo del Novarese. Furono avvisati Arialdo e Landolfo di comparire al concilio, ed ivi esporre la loro dottrina e le querele contro del clero. Ma nè Arialdo nè Landolfo vollero presentarvisi, e quindi vennero da quel sinodo scomunicati. Questa scomunica sconcertò i disegni di Arialdo e del compagno Landolfo. La storia c’insegna quanto obbrobriosa e precaria fosse in que’ tempi l’esistenza di quell’infelice sul quale era stato pronunziato l’anatema. Arialdo perciò abbandonò Milano e portossi a Roma nel 1057, ove dal sommo pontefice Stefano X venne accolto con molta onorificenza. Landolfo aveva presa la strada medesima, e le insidie che trovò nelle vicinanze di Piacenza fecero che ritornasse ferito in Milano. Allora sembrava ritornata la quiete nella città.
Non poteva il cardinale Ildebrando, motore, siccome dissi, di questa rivoluzione, essere contento della sentenza proferita dal concilio di Fontaneto; per cui presso il popolo veniva screditato il partito contrario agli ecclesiastici e confermata la loro disciplina. Il fine era di sotto mettere alla giurisdizione di Roma la chiesa milanese: mezzo unico forse, come accennai, per impedire le elezioni simoniache e collocare prelati migliori al reggimento della Chiesa, alla quale non era più possibile lo restituire l’antica libertà, toltale dal potere dei re. Ildebrando istesso venne a Milano, e condusse con seco il vescovo di Lucca Anselmo da Baggio, primo autore della novità. L’arrivo de’ due legati, che opravano in nome del sommo pontefice Stefano X, risvegliò più che mai le fazioni. La discordia era cresciuta a segno ch’era diventata guerra civile, e sì da un partito che dall’altro le fazioni insieme crudelmente combattevano: i legati, temendo il furore del popolo, adunati di nascoso quanti cittadini potettero, dichiararono simoniaco Guidone arcivescovo, e detestabili tutte le sue operazioni; così il conte Giulini: al che aggiugne questo pio e cauto scrittore che lo storico Landolfo Seniore, che ci narra il fatto, essendo nemico de’ legati, è sospetto di parzialità. Si dee credere che la loro condotta sarà stata molto più regolare di quello che l’appassionato storico non la dipinga; e che non saranno giunti ad una sì rigorosa sentenza se non dopo un maturo esame, e dopo aver perduta ogni speranza di ridurre l’arcivescovo a qualche onesto accomodamento. L’animosità di deprimere la chiesa ambrosiana era allora tale in Roma, che nemmeno più si volle permetter dal papa che i monaci di Monte Cassino usassero del canto ambrosiano, che è il più antico della chiesa latina; e venne ordinato che introducessero un nuovo canto. I due legati partirono, lasciando la città immersa più che mai nella discordia. Arialdo era ritornato. Varii rimproveri gli furono detti pubblicamente. Un sacerdote così lo apostrofò: Numquid tu solus per execrabilem Pataliam, et quamplurima sacramenta prava et detestabilia, populi flammam, quae impetu ut mare versatur, super nos accendis?. Da altro ecclesiastico distino era stato così ripreso: Dum hujus inauditae Pataliae placitum cogitasti commovere, qualiscumque intentionis esses, ab aliquo religioso viro prius multis cum jejuniis debuisses consiliari. La voce patalia era quella colla quale si qualificava una dottrina nuova e discordante dalla opinione ortodossa; e coloro che sostenevano opinioni riprovabili chiamavansi patalini, patarini o catari, come oggidì chiamansi novatori. Così i due partiti, protestando ciascuno di sostenere l’ortodossia, vicendevolmente accusavano gli avversari di prevaricare, e si ingiuriavano a vicenda co’ nomi di nicolaiti e di patarini. Le risse, i saccheggi, i tumulti sempre continuavano, anzi andavano frattanto crescendo. Il partito d’Arialdo, rinvigorito dalla sentenza de’ legati, s’ingrossò col numero de’ plebei animati ad umiliare i nobili, e l’accanimento giunse a segno che molti nobili, non avendo più forza per sostenere i sacerdoti, dovettero allontanarsi dalla città, e ritrovarsi un asilo tranquillo nelle terre: Ast nobiles urbis, quorum virtute sacerdotes paulo ante tuebantur, nimia ira et indignatione commoti, alii urbem exiebant, alii ut procellosae calamitati finem imponerent, tempus expectabant. Abbandonati così gli ecclesiastici, il partito della plebe si era unito ad Arialdo; ed è facile l’immaginarsi quale doveva essere lo stato civile e religioso di Milano in quel tempo del quale, e del potere d’Arialdo allora, e del suo partito, dice lo storico nostro Tristano Calchi, che era forte: Fere cunctorum civium concursu, qui clericorum probra libenter audiebant: alii inopia, vel aere alieno pressi, et spem omnem in praeda et rapinis locantes, nihil minus quam pacem et civitatis concordiam optabant.
La sedizione era giunta al colmo, e il partito fomentato da Ildebrando aveva depresso gli avversari. Era giunto il momento opportuno per assoggettare la chiesa di Milano. Se i primi legati, incontrato l’ostacolo de’ nobili e de’ fautori del clero, ancora capace di sostenersi (per lo che non senza pericolo dimorarono in Milano) prontamente se ne partirono, condannando, siccome dissi, l’arcivescovo; ora la venuta de’ legati doveva essere più sicura, e la loro commissione più facile ad eseguirsi. Ciò non ostante non trovò a proposito di venirvi il cardinale Ildebrando. Furono destinati a quest’ufficio nuovamente Anselmo da Baggio, vescovo di Lucca (il primo autore, come si disse, del partito) e gli si assegnò per compagno il vescovo d’Ostia, Pietro di Damiano, che è conosciuto col nome di san Pier Damiano. Questa nuova legazione accadde l’anno 1059. Sebbene però Ildebrando non venisse ad eseguire l’impresa, egli interamente la diresse, come ce ne fanno fede le lettere di san Pier Damiano a lui indirizzate su di questa negoziazione. Non si potevano trascegliere due legati più opportuni per ottenere l’intento. Il primo cospicuo nostro cittadino, appoggiato a’ parenti ed a clientele; l’altro, eloquente, dotto e d’una pietà celebratissitna. Non perciò fu la cosa senza qualche difficoltà, e questa la ritroviamo in una delle lettere scritte da san Pier Damiano al cardinale Ildebrando: Factione clericorum repente in populo murmur exoritur. Non debere ambrosianam ecclesiam romanis legibus subjacere, nullumque judicandi, vel disponendi jus romano pontifici in illa sede competere. Nimis indignum, inquiunt, ut quae sub progenitoribus nostris semper fuit libera, ad nostrae confusionis opprobrium nunc alteri, quod absit, Ecclesiae sit subjecta! Così scriveva il vescovo d’Ostia. Questa fazione naturalmente sarà nata, perchè il partito medesimo della plebe secondava le mire di Roma, sin tanto che queste la conducevano alla depressione dei nobili, ch’erano stati incauti a segno di opprimerla; ma un impegno nazionale poi la rendeva ritrosa nel secondarle, per assoggettare la Chiesa propria alla giurisdizione della romana. Il vescovo d’Ostia avendo cercato nelle funzioni solenni di precedere al nostro metropolitano, il popolo se ne sdegnò. Cominciarono a vedersi dei torbidi; quindi i legati cautamente temperarono la pompa, e si posero a sbrigare sollecitamente gli affari. Imposero varie penitenze ad alcuni, differirono a giudicare di altri in migliore occasione; furono mutate le antiche costumanze, introdotte leggi nuove, e col favore del partito furono costretti l’arcivescovo e gli ordinari di porvi il loro nome. Così di san Pier Damiano scrive il Calchi: Deinde fasto legationis inflatus voluit se in publicis actionibus archiepiscopo nostro praeferre: sed populus in propria dioecesi temerari ambrosianam dignitatem non laturus, frendere, ac tumulum circa facere coepit. Eo metu deterritus Ostiensis proposito destitit, et quae instabant negotia confecit: atque iis qui quid deliquerant, pro magnitudine delicti, varias ultor poenas irrogabat: alios, dilatione data, in aliud judicium reservabat. Denique, ut novus censor, et rerum nostrarum arbiter, veteres consuetudines mutat; novas leges inducit; litteris signisque suis adfirmat; iisdem ut subscriberent archiepiscopus et ordinarii Mediolani, incitata multitudine nî obsequerentur, effecit. Queste pene, delle quali fu dispensatore san Pier Damiano, furono date ai simoniaci; poichè, per un abuso assai antico, si gratificava dagli ordinandi il vescovo che li consacrava, e davano per essere suddiaconi duodecim nummos, diciotto per essere diaconi, e ventiquattro per il presbiterato: sul qual proposito così scrive il conte Giulini: A coloro che avevano pagato la solita tassa già stabilita ab antico, e che quasi non sapevano che ciò fosse peccato, furono dati cinque anni di penitenza, nel qual tempo dovevano due giorni ogni settimana digiunare in pane ed acqua, e tre giorni nelle settimane delle due quaresime, cioè quella avanti il Natale, e quella avanti Pasqua, ecc.. Questa sommissione poco spontanea diede motivo allo storico Arnolfo di esclamare: O insensati Mediolanenses! Qui vos fascinavit? Heri clamastis unius sellae primatum: hodie confunditis totius Ecclesiae statum: vere culicem liquantes, et camelum glutientes. Nonne satius vester hoc procuraret episcopus? Forte dicetis: veneranda est Roma in apostolo. Est utique: sed nec spernendum Mediolanum in Ambrosio. Certe certe non absque re scripta sunt haec in Romanis Annalibus. Dicetur enim in posterum subjectum Romae Mediolanum. Così Arnolfo, che viveva in que’ tempi: il di cui passo riferendosi dal conte Giulini, vi aggiugne: Se Arnolfo e gli altri nostri ecclesiastici in que’ tempi credevano che la città milanese non fosse punto soggetta alla romana, vivevano in un grandissimo errore. Egli è ben vero che prima la chiesa romana non esercitava tanto la sua giurisdizione sopra la milanese, quanto l’esercitò dipoi; ma ciò fu utile cosa, anzi necessaria, acciò non nascessero in avvenire i disordini che già eran nati dianzi: onde questa mutazione nella gerarchia ecclesiastica, di cui il citato storico fa tanto romore, non fu se non vantaggiosa alla chiesa ambrosiana, la quale perdette, a dir vero, alcun poco della primiera libertà, ma acquistò un miglior regolamento, e maggiore quiete e felicità. Appena l’arcivescovo Guidone fu dai legati pontificii assoggettato, che dal sommo pontefice Nicolò II venne chiamato a Roma per intervenire ad un sinodo: Ecce metropolitanus vester, prae solito, romanam vocatur ad synodum, dice Arnolfo, continuando l’apostrofe ai Milanesi; ed il conte Giulini a questo passo dice: anche qui Arnolfo doveva parlare con maggior moderazione, perchè non era cosa insolita affatto che il sommo pontefice invitasse l’arcivescovo di Milano ai concilii. Il dotto conte Giulini, che per altro non tralascia di esporre le più minute circostanze nei fatti, che esamina e che con molto ordine e chiarezza è solito di porre in vista le ragioni delle opinioni che avanza, non ha allegato alcun fatto che provi come fosse stata in prima soggetta alla giurisdizione romana la chiesa milanese; nè ha nominato alcuno arcivescovo che siasi portato a Roma per un concilio. Anzi non solamente non ne ha dato cenno in quel luogo, il che pure sarebbe stato opportuno per ismentire uno storico di quel secolo, ma nemmeno nei tre secoli precedenti, dei quali con tanta esattezza egli ha posto in ordine le notizie, non vi si legge alcun fatto che dia valore ai rimproveri ch’egli fa ad Arnolfo. In quest’ultimo caso non si tratta di un invito trascurato dall’arcivescovo, ma di una chiamata, alla quale dovette obbedire portandosi a Roma, ove fu obbligato a giurare sommissione ed obbedienza al papa; avvenimento sul quale poi lo stesso conte Giulini ha ragionato così: non può negarsi che allora il sommo pontefice non ottenesse molti punti importantissimi, con cui venne a dilatare non poco l’uso della sua giurisdizione sopra dell’arcivescovo di Milano. Il primo fu che il nostro prelato, chiamato a Roma ad un sinodo, prontamente vi si portasse; il secondo, ch’egli promettesse solennemente ubbidienza al papa; cosa che prima di Guidone non si era, ch’io sappia, mai praticata; il terzo finalmente, che ricevesse da lui l’anello; quando il costume o l’abuso di quei tempi portava di riceverlo dal sovrano. Pure siccome tutte queste pretensioni del sommo pontefice erano giuste, così fu giusto che l’arcivescovo le accordasse.
I castighi che avevano dati i legati apostolici cadevano principalmente sopra i simoniaci; cioè sopra quelli ecclesiastici che avevano pagata la solita retribuzione per essere ordinati. Continuavano per altro gli ammogliati a vivere colle loro mogli e figli, e sembrava che quasi fosse dimenticata la questione sul matrimonio de’ sacerdoti. (1061) Qualche riposo ebbe la nostra città frattanto sino al 1061; anno in cui morì il papa Nicolò II, e per opera del cardinale Ildebrando fu innalzato alla sede pontificia il vescovo di Lucca, Anselmo da Baggio, che prese il nome, siccome ho detto, di Alessandro II. Lo storico nostro Tristano Calchi, ad altra opportunità nominando Ildebrando, così parla di lui: Id quod maxima arte et astutia Hildebrandi monaci factum traditur, qui Soana Haetruriae urbe uriundus, promptitudini ingenii non mediocrem sacrarum litterarum eruditionem junxerat; et statim ob ingens meritum in ordinem cardinalium adscitus fuit: et cum vigore animi cunctis praestaret, facile primarium locum inter sacerdotes obtinuit. Maggiore accortezza non poteva certamente adoperarsi per consolidare la dipendenza da Roma, quanto il creare papa un Milanese; obbedendo al quale, il popolo, che poco vede e prevede pochissimo, non si accorgesse di obbedire ad una estranea giurisdizione. Appena dopo che fu creato, papa Alessandro II scrisse una lettera: Omnibus Mediolanensibus clero, et populo, nella quale, dopo molte affettuosissime espressioni, diceva: Speramus autem in Eo qui de virgine dignatus est nasci, quia nostri ministerii tempore sancta clericorum castitas exaltabitur, et incontinentium luxuria cum caeteris haeresibus confundetur. Questo fu un avviso che precorse le nuove imprese contro de’ sacerdoti ammogliati; la tranquillità dei quali da due anni goduta si può attribuire anche alla lunga malattia di Landolfo, che fu il primo, siccome abbiamo veduto, ad animare la plebe colla parola. Ma egli, dopo di avere perduta la voce per molti mesi, finalmente dovette soccombere. Arnolfo lo attribuisce a punizione del cielo, che, per avere colla parola peccato, gli facesse soffrire un tal genere di malattia: Quum vero placuit Altissimo, qui renes scrutatur et corda, ille qui alienam diu meditatus fuerat lassitudinem et inopiam, doluit sui ipsius aegritudinem: quumque langueret biennio pulmonis vitio, vocis privatur officio, ut in quo multos affecerat, in eo quoque deficeret, dicente Scriptura: per quae quis peccat, per haec et torquetur. Sed ne mortuos accusare videamur, de illo penitus taceamus. San Pier Damiano gli ricordò di mantenere il voto che aveva fatto a Dio, di prendere l’abito monastico; voto che Landolfo fece nell’occasione d’un tumulto popolare che lo aveva posto in angustia. Questo si raccoglie dalla lettera di san Pier Damiano, la quale trovasi al lib. V delle sue epistole, ed è diretta: Landulfo, clerico et senatorii generis, et peritiae litteralis nitore cospicuo. Landolfo non si fece monaco. Taluno sostenne che Landolfo servisse meglio Dio non facendosi monaco, e occupandosi, come fece, in Milano. Il cardinale Baronio lo ascrive nel catalogo de’ santi. La Chiesa però non rende verun culto a Landolfo, il di cui merito, e come cristiano e come cittadino, resta un libero soggetto di esame.
Sarebbe restato inoperoso il partito contrario agli ecclesiastici in Milano, se il solo Arialdo doveva tenerlo in moto. In fatti la malattia e la morte dell’accreditato Landolfo avevano calmata la fazione contraria al matrimonio de’ preti. Un fratello del morto Landolfo trovavasi a Roma: il suo nome era Erlembaldo; egli era milite, e portato per il mestiere delle armi; il papa Alessandro II lo destinò a tener luogo del fratello. Quel papa che, scrivendo ai Milanesi suoi concittadini, gli aveva chiamati Vos autem, dilectissimi, membra mea, viscera animae meae, armò solennemente campione della santa chiesa romana Erlembaldo; gli consegnò un vessillo in un concistoro; gl’impose che si portasse a Milano, che si unisse con Arialdo, e che combattesse sino allo spargimento del sangue. Venne a Milano Erlembaldo; si unì con Arialdo; cominciarono le fazioni, e il papa contemporaneamente spedì un ordine che nessuno potesse ascoltare la messa di un prete ammogliato, la qual proibizione, dice il conte Giulini, dee singolarmente notarsi, perchè cagionò i più gravi rumori in questa città. (1063) Questo avvenne l’anno 1063, che era il settimo della guerra civile. Rianimatosi con tali aiuti il partito di Arialdo, si pose egli a combattere generalmente tutt’i riti della chiesa ambrosiana; e predicando dopo la festa dell’Ascensione ne’ giorni nei quali, secondo l’antichissimo nostro rito, si fanno le processioni e il digiuno, che chiamiamo le Litanie e le Rogazioni: Inanem esse ritum dictitat, nulla Christi vel discipulorum instituitione traditum; ab antiquis tantum idolorum cultoribus usurpatum, qui vere ambire agros in honorem Bacchi, Cererisque solebant; così il nostro Tristano Calchi ci riferisce aver sostenuto Arialdo, che quel digiuno e quelle pie processioni non fossero cristiane, ma un avanzo del gentilesimo. Predicò adunque biasimando quella penitenza, e invitando il popolo a pascersi bene e rallegrarsi nel tempo pasquale. Non è punto da maravigliarsi se a tale invito il popolo lo abbandonasse, anzi si rivoltasse contro di lui. La morale severa predicata concilia partito, perchè si crede santa, e perchè ognuno ama che generalmente gli uomini la pratichino; chi predica il contrario, perde la stima e viene riguardato come un seduttore pericoloso. Declamando in favore del celibato, ebbe fautori; declamando contro il digiuno, rimase in preda al furore del popolo, dal quale fu ridotto a mal partito, e tale, che non si sarebbe salvato, se non fosse opportunamente accorso Erlembaldo. La chiesa nella quale predicava Arialdo è la canonica che sta fuori del ponte di porta Nuova. Ivi corse il popolo con furore. Mal per lui, dice il conte Giulini, se si fosse trovato colà, che il furor del popolo non gli avrebbe lasciata la vita; e male per que’ santi edifizi, se non accorreva prontamente sant’Erlembaldo con gli altri fedeli armati, i quali posero in fuga gli ammutinati, e fecero rendere alla Chiesa quasi tutto ciò che l’era stato rapito. Nè questo avvenimento rallentò punto l’ardore di Arialdo; il quale poco dopo, vedendo nella chiesa un sacerdote che cominciava la messa, e sapendosi che aveva moglie, si credè lecito di strappargli i paramenti d’indosso, e scacciarlo dall’altare, per lo che il popolo, fremendo, se gli avventò, e fortunatamente ottenne d’essere ascoltato, e con tal mezzo salvarsi. Di questi fatti ne era continuamente informato il cardinale Ildebrando, che era l’arbitro sotto un papa creato da lui, e da Roma riceveva Erlembaldo sæpe numero legationes, e lettere apostolicis praenotatas sigillis, come ci assicura Arnolfo. Ma questi due contrari moti del popolo nuovamente cagionarono alcuni mesi di calma; nel qual tempo Erlembaldo portossi a Roma.
(1066) Il ritorno di Erlembaldo da Roma portò la fermentazione all’ultimo periodo. Ciò avvenne l’anno 1066; quando, giunto in Milano, ei presentò all’arcivescovo Guidone le bolle della scomunica pronunciata dal papa. L’arcivescovo colse l’opportunità del vicino giorno solenne della Pentecoste, e poichè radunato fu gran numero di gente nella chiesa, vi comparve l’arcivescovo colle bolle in mano; e con esse riscaldò il popolo animandolo a non soffrire l’ingiuria che si faceva alla chiesa ambrosiana. Il tumulto scoppiò nel tempio del Dio della mansuetudine. Si venne ad una zuffa ai piedi dell’altare. Arialdo, che era nella chiesa, venne assalito, percosso, e rimase a terra creduto morto. L’arcivescovo dovette soffrire delle violenze, e la scena terminò colla sentenza d’interdetto che l’arcivescovo pronunziò sulla città, proibendo il celebrarvi i divini misterii, sintanto che non uscissero dalla città i novatori. Il consiglio pubblico si unì coll’arcivescovo, e impose la pena di morte a chi ardisse nemmeno di suonar le campane, sin che durava l’interdetto. Allora Arialdo ed Erlembaldo si ricoverarono fuori della città, ed Arialdo fu preso e ucciso al lago Maggiore, e così nel 1066 terminò la sua predicazione; da martire secondo alcuni, appoggiati al fatto di Alessandro II, il quale un anno dopo la sua morte lo ascrisse nel numero de’ santi; e con fama diversa secondo altri, i quali, vedendo che nessun culto offre la chiesa ad Arialdo, considerano quell’autorità come l’opinione d’un privato dottore, che rimase isolata, in tempi ne’ quali si trascuravano i giudizi lunghi e minuti che presentemente si fanno precedere. Questo nuovo colpo ammorzò per alcuni altri mesi il furor di partito.
Ogni altro fuori che Ildebrando, si sarebbe stancato per tante difficultà, ma la fermezza e l’ostinazione erano la base dei suo carattere. Già da più di dieci anni la guerra civile era accesa. Un partito si era creato; si era rianimato con più mezzi; s’erano riparati i colpi che pareva lo dovessero distruggere per sempre: ma non per questo si era sottomessa la chiesa milanese se non per un momento. I preti ammogliati continuavano a esercitare il loro ufficio. L’arcivescovo Guidone nessun caso faceva delle bolle della scomunica, nè il popolo lo guardava come legittimamente scomunicato. I nobili stavansene fuori d’una città abbandonata al furore de’ partiti; potevano rientrare questi conducendo armati. Il re Enrico s’andava accostando all’età di regnare; poteva quel principe, con una discesa in Italia, distruggere il frutto del sangue sparso, dei saccheggi, dei tumulti. Conveniva perciò cambiare oggetto, e tentare una stabile sommissione per altro mezzo. Sin che sulla sede arcivescovile vi stava Guidone, eletto da Enrico II, offeso da Roma per la forzata umiliazione, non era sperabile che il partito d’Ildebrando colla forza tenesse costantemente depresso il ceto dei nostri ecclesiastici. Era necessario il collocare sulla sede metropolitana un arcivescovo, il quale dovesse pienamente questo beneficio a Roma, e le fosse suddito per animo e per riconoscenza. Tale appunto fu il progetto col quale Erlembaldo, che nuovamente si era portato a Roma, rientrò nella patria l’anno 1068. Questa proposizione, che tendeva a deporre l’arcivescovo Guidone, cominciò a serpeggiare. Guidone già da ventiquattro anni reggeva la chiesa milanese: stanco di vivere fra torbidi e pericoli continui, indebolito dagli anni, bramoso di godere il restante della vita in pace, pensò di rinunziare la dignità, prima che la violenza del partito ve lo costringesse. Trascelse Gotofredo, cardinale ordinario della chiesa ambrosiana, e a lui rinunziò l’arcivescovato. Non era questi il soggetto che piacesse a Erlembaldo. Quindi col ferro, col fuoco, colla devastazione de’ campi, colle nuove scomuniche di Roma si oppose al nuovo arcivescovo Gotofredo, il quale non potè conseguire mai la possessione nè della carica, nè delle entrate. Guidone pensò allora a ripigliare la dimessa dignità, poichè non si voleva che Gotofredo ne fosse rivestito. Guidone credette alla fede di Erlembaldo; si collegò incautamente con lui, e venne infatti da lui accompagnato sino a Milano. Ma quivi lo tradì e lo rinchiuse in un monastero, ove lo tenne custodito sin che morì. Il conte Giulini paragona Guidone all’eroe del Macchiavello: io non saprei sostenere quest’opinione. Egli fu bensì tradito, ma non tradì mai: promise una fedeltà al papa, che non gli mantenne, è vero, ma in questo io ravviso piuttosto l’uomo debole, che il politico astuto. Egli cercò, per quanto gli fu possibile, di sedare il partito; di conservare la sua Chiesa come l’aveva trovata; non fece che la guerra difensiva: in somma non parmi un uomo meritevole di quella taccia. Il buon criterio del conte Giulini si conosce nella giudiziosa critica che generalmente esercita; ma conviene accordare che nell’esposizione di questi fatti egli credette che fosse pietà l’esser parziale.
L’arcivescovato di Milano restò vacante per circa sette anni, dopo la rinunzia fattane da Guidone; perchè Gotofredo non potè mai farne le funzioni per la potenza di Erlembaldo, che glielo impediva. Erlembaldo, di propria autorità, pretese di creare un arcivescovo, e innalzò a questo grado un giovane chiamato Attone. Herlembaldus, dice Landolfo Seniore, producens quemdam Attonem, sibique consentientem, coram omni multitudine, ore suo inlicito elegit. Hoc videns majorum et minorum multitudo tam suorum quam adversariorum, quae noviter fidelitatem imperatori juraverat, sumptis armis, magnoque praelio, Attonem noviter electum, multis cum plagis, et sacramentis, archiepiscopatum inremeabiliter refutare fecit: su di che veggasi il conte Giulini. Papa Alessandro II tenne un concilio in Roma, in cui dichiarò scumunicato l’arcivescovo Gotofredo, valida l’elezione di Attone, e nulla la rinunzia da lui fatta. Nel primo sabbato di quaresima del 1071 era avampato un grandissimo incendio in Milano, nell’anno 1075 un secondo incendio furiosissimo la devastò più che mai; e queste deplorabili sciagure forse non a caso piombavano sulla città. Ad Alessandro II era succeduto Ildebrando, col nome di Gregorio VII. Egli non acquistò influenza maggiore di quella che in prima aveva da più anni: seguitò il sistema introdotto; nuovamente scomunicò l’arcivescovo Gotofredo, che pure era stato consacrato dai suffraganei, animò il vescovo di Pavia ad unirsi con Erlembaldo per sostenere Attone. Nella settimana Santa gli ordinari celebravano l’antica funzione di battezzare; Erlembaldo, colla forza, venne di mezzo ai sacri ministri, gittò a terra il Sacro Crisma, col motivo che fosse questo stato benedetto da un vescovo scismatico. In mezzo a questo cumulo di strane miserie, i nobili finalmente vedendo i mali giunti all’estremo, e non tollerando che affatto rimanesse la loro patria un mucchio di rovine, si collegarono, e dalla campagna ove, come dissi, stavano ritirati, presero il partito di ritornare unitamente in città, conducendo una buona scorta de’ loro vassalli armati, per discacciarne Erlembaldo. Erlembaldo, armato di tutto punto sopra d’un generoso destriero, preso il vessillo romano, si pose alla testa della sua fazione per disputarla; ma infelicemente per lui, che sul campo rimase ucciso. L’allegrezza nata nella città per tal fatto meglio è l’udirla dallo storico contemporaneo Arnolfo: Eadem hora, post hoc insigne tropheum, cives omnes triumphales personant hymnos Deo, ac patrono suo Ambrosio, armati adeuntes ipsius ecclesiam. In crastinum, simul cum clero laici in letaniis, et laudibus ad sanctum denuo procedentes Ambrosium, reatus praeteritos confitentur alterutrum; absolutione vero a sacerdotibus, qui praesto aderant, celebrata, reversus est in pace populus universus ad propria. Hic jam apparet schismatis hujusce terminus, decem novem per annos semper ab ipsa radice pullulando protensi. Pochi anni dopo Urbano II riconobbe Erlembaldo per santo, e trasportò solennemente le sue reliquie. La Chiesa però non celebra la memoria di Erlembaldo, e di lui può liberamente la critica esaminare il merito e la virtù.
Le forze di Roma rimasero dissipate affatto con questo avvenimento; si rivolse perciò Gregorio VII ad un altro partito. Primieramente egli sottrasse molti vescovi suffraganei dalla dipendenza dell’arcivescovo di Milano. Qualche leggiero distacco n’era già seguìto in prima. Pavia, già fino dal settimo secolo, s’era sottratta, e il di lei vescovo, come vescovo della città dominante, si era reso indipendente dal metropolitano: indi Giovanni VIII, nell’874, aveva dilatata la giurisdizione del vescovo di Pavia a scapito della diocesi di Milano; ma Ildebrando sottopose Como al patriarca d’Aquilea; Aosta all’arcivescovo di Tarantasia; Coira all’arcivescovo di Magonza. Così la dignità del metropolitano venne a scemarsi. Secondariamente, per i maneggi della contessa Matilde, ligia e mossa in tutto da Gregorio VII, Milano si ribellò al re Enrico III, che allora era imperatore, per quei mezzi istessi pe’ quali se gli ribellò Corrado II, di lui figlio; e così Milano, spontaneamente e quasi per stanchezza di resistere, dopo trentatrè anni di guerra, si rese soggetta a Roma, e l’arcivescovo divenne semplicemente il vicario del sommo pontefice. Se alla fine del capitolo primo indicai con quali riguardi i sommi pontefici trattavano nelle loro lettere gli arcivescovi di Milano, ora non potrò più riferire che scrivessero: Reverendissimo et sanctissimo confratri, ma dirò che Urbano II, nel 1093, scriveva: Discretioni nostrae videtur quatenus, secundum praecepti nostri tenorem... facias. Vero è che non per ciò immediatamente la creazione dell’arcivescovo potè appropriarsela il papa; per qualche tempo durò un resto di libertà nell’elezione. Ma i papi cominciarono a deviare dalla consacrazione de’ suffraganei; e l’anno 1095, Urbano II volle che il nuovo arcivescovo Arnolfo venisse consacrato dall’arcivescovo di Salisburgo, dal vescovo di Passavia e dal vescovo di Costanza. S’introdusse il rito che l’arcivescovo non portasse il pallio, se non ricevuto che l’avesse dal papa. In appresso si volle che dovesse portarsi il nuovo arcivescovo in Roma per ricevere il pallio e giurare obbedienza. Poi si sottrassero dalla giurisdizione dell’arcivescovo i monaci, i quali, sino allora, erano stati a lui soggetti, come tutti gli altri ecclesiastici. Quindi si posero ad accordare delle indulgenze; e la più antica che ne ha ritrovata il conte Giulini, è dell’anno 1099. In seguito Genova venne sottratta all’arcivescovo, e creata arcivescovato; Bobbio fu staccato dal metropolitano, e assoggettato a Genova. Gradatamente furono la maggior parte de’ vescovi suffraganei, o dichiarati dipendenti immediatamente dalla santa sede romana, ovvero incorporati con altre chiese arcivescovili. Così la gran mole della Chiesa ambrosiana venne a rendersi assai meno importante, e in ogni sua parte interamente sommessa alla giurisdizione romana.
Che accadesse ai sacerdoti ammogliati esattamente nol so. Nessuna memoria ritrovo da cui chiaramente si vegga accettata la proibizione di esercitare il sacerdozio a chi aveva moglie; anzi mi pare probabile che, rivoltesi le mire di Roma al punto della soggezione, poichè vide piegarsi le cose a seconda, non si volle insistere sopra un punto irritabile, e che poteva dare nuove scosse e rovesciare il disegno. Pare che si avesse di mira d’obbligare piuttosto indirettamente al celibato coloro che dovevansi promuovere ai sacri ordini, anzi che instare e costrignere i sacerdoti ammogliati alla dura scelta, o di perdere lo stato loro, o di abbandonare disonorata e senza condizione la moglie, e macchiare i figli. Questa opinione mi sembra confermata, esaminando gli atti d’un sinodo tenutosi in Milano, pubblicati dal dottore Sormani nel libro intitolato: Gloria dei santi milanesi. Questa sacra adunanza si tenne l’anno 1098. Il fine sembrò essere quello di consolidare il sistema dipendente da Roma, e di prescrivere una più santa disciplina al clero. In quel concilio si pronunziava l’esecrazione contro della simonia; e del matrimonio degli ecclesiastici non si parla: Sicut a sanctis patribus statutum legimus, simoniacam haeresim in sacris ordinibus, et in ecclesiarum beneficiis execramus, et ab ecclesia radicitus extirpare per omnia volumus; così leggesi in quegli atti. Delle due riforme la più facile certamente non era quella di far abbandonare le mogli ai sacerdoti; anzi quella sola fu impugnata. Del pagamento che facevasi per le ordinazioni, non ne venne nemmeno fatta difficoltà per abolirlo. O dunque questa legge contro la simonia è stata allora fatta, dappoichè in pratica erasi abolita la tassa, unicamente per avvalorare sempre più la riforma; e in tal caso non si sarebbe ommessa una dichiarazione uguale, sul non meno importante articolo del celibato, per rinfiancarne la perpetua osservanza, se già si era ciò ottenuto: ovvero la legge contro la simonia vogliam dire che supponesse ancora quella vigente; ed allora dovremmo supporre, essersi disimpegnato senza strepito alcuno l’oggetto intralciatissimo dei matrimoni, prima che si abolisse una tassa, che poi non era difficile l’abolire; e che il concilio nessun pensiero si prendesse del pericolo che la opinione tanto ostinatamente sostenuta pochi anni prima, ritornasse a prender partito, il che non mi pare verisimile. Il silenzio adunque di quel concilio sembra indicare una tolleranza per allora su quel punto di disciplina. Anzi mi sembra di ravvisare in quel concilio una legge che tende indirettamente al celibato degli ecclesiastici; quella cioè con cui si proibisce che nessun ecclesiastico possa godere qualsivoglia beneficio, se prima non rinunzia a quanto possiede di suo patrimonio. Con tal legge s’allontanava l’ammogliato dal cercare beneficii per non lasciare i figli nell’inopia. Ecco le parole del sinodo: Statuimus etiam juxta sanctorum patrum instituta, et primitivae ecclesiae, formam, nullum clericorum ecclesiarum beneficia possidere, nisi, abrenuntiatis omnibus propriis, velit fieri ejus discipulus in cujus sorte videtur esse electus. Si quis autem foris esse maluerit, non ei clericatum auferimus, tantum ecclesiastica beneficia interdicimus. Mi pare ancora più chiaramente provato che per allora si lasciavano al godimento dei loro beneficii i sacerdoti ammogliati, dall’altro canone dello stesso concilio, in cui si prescrive che, siccome per lo passato alcuni avevano ottenuto la successione ai beneficii goduti dal padre, quantunque il figlio all’atto di succedergli non fosse nemmeno cherico, così si minaccia la scomunica a chiunque in avvenire tentasse di usurparsi per successione i beneficii medesimi; il che fa vedere che alcuni beneficiati allora avevano i loro figli, e che v’era pericolo che continuassero i beneficii per eredità: Et quia nonnulli intra sanctam Ecclesiam tam clerici, quam etiam laici per paternam successionem... archidiaconatum, vel archipresbyteratum, cimiliarchiam, aut etiam aliquid de beneficiis ad ecclesiarum officia pertinentibus hactenus possidere conati sunt: in hoc sacro conventu praefixum est, et omnibus definitum, ut si quis, hujusmodi nefanda cupiditate ductus, ecclesiam alterius possidere tentaverit, et haereditate sanctuarium Dei obtinere praesumpserit, juxta profeticam vocem, quousque resipiscat, anathematis vinculo subiaceat. Così quel sinodo. Se le nozze dei preti fossero state proscritte, è naturale che, oltre di farne menzione, si sarebbero anche i figli de’ sacerdoti dichiarati illegittimi, e per questo titolo esclusi dai beneficii. Parmi adunque probabile che si lasciassero per allora vivere in pace i sacerdoti ammogliati, e che siasi poi introdotto poco a poco anche da noi il celibato, senza violenza, puramente colle ordinazioni date solamente ai celibi. Difatti, nell’anno 1152, certo canonico di Monza Mainerio Bocardo, nel suo testamento, che ritroviamo in quell’archivio, in pergamena segnata n. 4 (di cui ho avuta la notizia dal chiarissimo signor canonico teologo don Anton Francesco Frisi, conosciuto per le erudite sue dissertazioni sulle antichità monzesi) ordina che se gli celebri l’annuale il dì della sua morte, e che il di lui erede persolvat omni anno in annuali meo canonicis et decumanis et custodibus ipsius ecclesiae non habentibus uxorem, qui in annuali meo fuerint, per unumquemque canonicum denarios quatuor, custodibus et decumanis binos denarios; e poi più sotto vi si legge: Si vero aliquis ex istis canonicis fuerit infirmus, etiam si non fuerit in annualibus istis, volo habeat istam benedictionem, et si aliquis habuerit uxorem, nolo ut habeat istam benedictionem. Le quali parole sembrano assai concludentemente provare che sino alla metà del secolo duodecimo siasi continuata l’usanza di non escludere dagli ordini sacri gli ammogliati; e che, ottenuta che si ebbe la soggezione della chiesa milanese alla giurisdizione di Roma, si cessò di perseguitare il matrimonio dei preti; e lentamente soltanto, e col favor del tempo, si dilatò la legge del celibato.
Questa mutazione di stato della chiesa milanese rappresenta una serie crudele di partiti, tumulti, saccheggi, incendii, sacrilègi, profanazioni, orrori d’ogni sorta. Tutto fu opera d’Ildebrando, che tutto architettò e diresse. Se risguardiamo il fine di togliere dalla Chiesa gli abusi nelle elezioni, ci si diminuisce in parte il sentimento contrario ai mezzi usati. Se poi consideriamo Ildebrando da un altro canto, non possiamo ricusare la nostra stima al progetto che immaginò. Egli forse considerava l’Italia, un tempo signora, manomessa dai Goti, Vandali, Longobardi, Saraceni e Greci; divisa come ella era, doveva ubbidire ora ai Borgognoni, ora ai Provenzali, ora ai Bavari, ora ad altre straniere genti. Conveniva concentrare la forza d’Italia in un punto, ridurla ad uno stato unito per darle un’esistenza. Roma è la capitale; forza era adunque di assoggettare l’Italia a Roma, e così far fronte agli estranei. Il tempo era opportuno, per la debolezza di Enrico. La forza politica della Lombardia era principalmente collocata ne’ vescovi: sottomessi questi, era formata la romana potenza. L’oggetto era grande. Ma egli è giusto e ragionevole l’avventurare il riposo e la sicurezza della generazione vivente, che ha un dritto attuale di esistere bene, colla speranza incerta di procurare la tranquillità alle generazioni che nasceranno? È egli ragionevole e giusto un tal sacrificio, quando anche fosse sicuro il bene che procuriamo ai successori? Gli uomini che hanno fatto parlar di loro la storia e ottennero il nome di grandi, non hanno mai esaminate bene simili questioni.
- ↑ Tomo IV, pag. 14.
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