Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/XX. La nuova letteratura/IV.
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iv
Il movimento a Venezia rimase puramente letterario. C’era un centro toscaneggiante nell’accademia de’ Granelleschi, divenuta presto ridicola, della quale erano anima i fratelli Gozzi; e c’era dall’altra parte Goldoni con intenzioni piú alte, che attingevano l’organismo dell’arte. Il solo Gozzi presenti il significato politico del movimento e sonò la campana a stormo; ma nessuno rispose, perché il nemico non si trovò. Goldoni anche a Parigi non ci capiva nulla in quel vertiginoso rimescolio d’idee, e Rousseau non era per lui che un fenomeno curioso, un magnifico carattere da commedia, qualche cosa come il «burbero benefico». Questa sua concentrazione in un punto solo e la sua perfetta innocenza in tutto l’altro fu la sua forza e la sua debolezza. La sua idea fissa, ch’era rappresentare dal vivo e dal vero e non guastar la natura, era il principio rinnovatore della letteratura, negazione dell’Arcadia, ricostituzione del contenuto e della forma, incarnato in alcune commedie di esecuzione piú o meno perfetta, ma tutte indimenticabili per la chiarezza e la veritá della concezione, delle situazioni e de’ caratteri: qui fu la sua forza. E la sua debolezza fu il carattere meramente letterario della sua riforma, che lo tiene nella superficie e gli fa produrre un mondo locale e particolare, a cui la sua indifferenza religiosa, filosofica, politica, morale, sociale, la sua poca coltura, la scarsezza de’ suoi motivi interni toglie rilievo e vigore, toglie quella idealitá che viene da un significato generale e permanente. Cosa manca a Goldoni? Non lo spirito, non la forza comica, non l’abilitá tecnica: era nato artista. Mancò a lui quello che a Metastasio: gli mancò un mondo interiore della coscienza, operoso, espansivo, appassionato, animato dalla fede e dal sentimento. Mancò a lui quello che mancava da piú secoli a tutti gl’italiani e che rendeva insanabile la loro decadenza: la sinceritá e la forza delle convinzioni. Ciò che attestava una possibile rigenerazione era la riapparizione di quel mondo interiore negli spiriti piú eletti, che rimetteva in moto il cervello e svegliava il sentimento. Il maggiore impulso veniva dal di fuori. Ma l’entusiasmo pubblico mostrava che ci era la materia atta a riceverlo e che l’Italia dopo lungo riposo si rimetteva in via. Nel mezzodí l’attivitá speculativa, da Telesio a Cuoco, non mancò mai, e vi si era formata una scuola liberale, che avea per materia la quistione giurisdizionale, e si andava allargando a tutte le utili riforme nell’assetto dello Stato. Quando le nuove idee vi si affacciarono, trovarono gli spiriti educati e pronti a riceverle; e se ne fecero interpreti eloquenti ed efficaci Filangieri, Pagano e Galiani. Vi si andava cosí elaborando un nuovo contenuto in una forma piena di spirito e di movimento, spesso ingegnosa e appassionata: filosofia volgarizzata, col linguaggio vivo e spiritoso della gazzetta. Farse, tragedie, commedie, orazioni, dissertazioni, prediche, trattati, sonetti, canzoni, tutt’i generi della vecchia letteratura continuavano la loro vita solita e meccanica, senza alcun segno di movimento nel loro interno organismo: imitazioni, raffazzonamenti, contraffazioni, un mondo di convenzione accolto con applausi di convenzione. Giá Salvator Rosa avea a suon di tromba mosso guerra alla declamazione e alla rettorica, senz’accorgersi che faceva della rettorica anche lui. Un po’ di rettorica c’era pure in alcuno di quegli scrittori, massime in Filangieri; ma vivificata dalla novitá e importanza delle cose, e da quello spirito moderno e contemporaneo che desta sempre la piú viva partecipazione. Il sentimento puramente letterario, errante in quelle province tra il voluttuoso, l’ingegnoso e il sentimentale, ciò che vi rendea cosí popolari il Tasso e il Marino, stagnato il movimento letterario, s’era trasformato nel sentimento musicale, e vi educava Metastasio, e vi apparecchiava quella scuola immortale di maestri di musica, che furono i veri padri di un’arte serbata a cosí grandi destini. La musica sorgeva animata da quegli stessi impulsi che non trovavano piú soddisfazione nella imputridita forma letteraria; sorgeva tutta melodia, piena di voluttá, di spirito e di sentimento. Mentre l’attivitá speculativa e il sentimento musicale si andavano sviluppando nel mezzogiorno d’Italia, e Goldoni tentava a Venezia la sua riforma della commedia, Milano diveniva il centro intellettuale e politico della vita nuova, principali motori Pietro Verri e Cesare Beccaria. A Venezia c’era l’accademia de’ Granelleschi, a Milano c’era l’Accademia dei Trasformati. Li si concepiva la riforma come una restaurazione degú studi classici, e si combatteva il Goldoni, ch’era il vero riformatore. Qui dominava sotto tutti gli aspetti lo spirito nuovo, l’Enciclopedia vi era penetrata con tutto il corteggio degli scrittori francesi, vi si elaboravano non frasi, ma idee, e per maggior libertá si usava non di rado il dialetto e non la lingua. Ci erano i due Verri, il Beccaria, il Baretti, il Balestrieri, il Passeroni: ci era il fiore dell’intelligenza milanese. Si chiamavano i Trasformati, e si può dire che filosofia, legislazione, economia, politica, morale, tutto lo scibile era giá trasformato nelle loro menti con piú o meno di chiarezza e di coscienza. La letteratura non potea sfuggire a questa trasformazione, e alla solennitá classica succedeva una forma svelta e naturale, e ne’ piú briosa e sentimentale alla francese. Si rideva a spese di Alessandro Bandiera, che voleva insegnar lingua e stile al padre Segneri, da lui tenuto non abbastanza boccaccevole. e di padre Branda, che levava a cielo l’idioma toscano e scriveva vitupèri del dialetto. Il Passeroni metteva in canzone quella vecchia societá nella Vita di Cicerone e nelle Favole esopiane, e alla vuota turgidezza del Frugoni, ai lambicchi dell’Algarotti, ai lezi del Bettinelli, che erano i tre poeti alla moda, opponeva quel suo scrivere andante, alla buona, tutto buon senso e naturalezza. Bravissimo uomo, senza fiele, senza iniziativa, rideva saporitamente della societá, in mezzo alla quale viveva povero e contento. Metastasio, Goldoni e Passeroni erano della stessa pasta: idillici e puri letterati. Sono i tre poeti della transizione. Vedi in loro giá i segni di una nuova letteratura, una forma popolare, disinvolta, rapida, liquida, chiara, disposta piú alla negligenza che all’artificio. Ma è sempre un giuoco di forma, alla quale manca altezza e serietá di motivi: ci è il letterato, manca l’uomo. Senti in questi riformatori il vecchio uomo italiano, di cui era espressione letteraria l’arcade e l’accademico. Combattevano l’Arcadia, ed erano piú o meno arcadi.
In questi tempi di nuove idee e di vecchi uomini nacque Giuseppe Parini, il ventitré maggio del i729. Venuto dal contado in Milano, cominciò i soliti studi classici sotto i barnabiti: il padre Branda fu suo maestro di rettorica. Il babbo volle farne un prete, per nobilitare il casato; ma sul piú bello fu costretto per le strettezze domestiche a troncare i suoi studi e a ingegnarsi per trarre innanzi la vita. Fece il copista e il pedagogo, e ne’ dispregi e nella miseria si temprò il suo carattere. Come Metastasio e come tutt’i poeti di quel tempo, cominciò arcade, e le sue prime rime le leggi in una raccolta di poesie a cura di quegli accademici. Rivelò la sua personalitá combattendo il padre Bandiera e il padre Branda, di cui era stato un cattivo scolare. Pare che nella scuola facesse poco profitto, impaziente soprattutto di quei giuochi di memoria, che erano allora la sostanza degli studi. Padrone di sé, ne’ ritagli di tempo obliava la sua miseria, conversando con Virgilio, Orazio, Dante, Ariosto e Berni. E che cosa dovea parergli il padre Branda col suo toscano, o il padre Bandiera co’ suoi periodi? Ma, se aveva a dispetto quella pedanteria, gli rincresceva meno quel francesizzare de’ piú, divenuta moda nelle alte e basse classi. Usando per il suo mestiere in case signorili, potè studiare dappresso questa strana mescolanza di vecchio e di nuovo, che costituiva allora la societá italiana. Giá questo pigliar subito posizione, questo soprastare alla lotta e schivarne tutte le esagerazioni mostra una spiccata personalitá. Hai innanzi un carattere.
Parini era uomo piú di meditazione che di azione. Non aveva il gusto de’ piaceri, aveva pochi bisogni e nessuna cupidigia di onori e di ricchezze. La societá non avea presa su di lui: rimase indipendente e solitario, inaccessibile alle tentazioni e a’ compromessi, e, come Dante, fece parte da sé. Quel mondo nuovo, che fermentava negli spiriti, fondato sulla natura e sulla ragione e in opposizione al fattizio e al convenzionale del secolo, giuntogli attraverso Plutarco e Dante piú che per influssi francesi, rimase in lui inalterato, puro di quelle macchie e ombre che vi soprappongono le vanitá e le passioni e gl’interessi mondani, perciò puro di esagerazioni e ostentazioni. Era in lui una interna misura, quell’equilibrio delle facoltá che è la sanitá dell’anima, quella compiuta possessione di se stesso che è l’ideale del savio, quella mente rettrice che sta sopra alle passioni e alle immaginazioni e le tiene nel giusto limite. La sua forza è piú morale che intellettuale, perché la sua intelligenza si alza poco piú su del luogo comune, ed è notabile piú per giustezza e misura che per novitá e profonditá di concetti. Lo alza su’ contemporanei la sinceritá e vivacitá del suo senso morale, che gli dá un carattere quasi religioso, ed è la sua fede e la sua ispirazione. Rinasce in lui quella concordia dell’intendere e dell’atto mediante l’amore, che Dante chiamava «sapienza»: rinasce l’uomo.
E l’uomo educa l’artista. Perché Parini concepisce l’arte allo stesso modo. Non è il puro letterato, chiuso nella forma, indifferente al contenuto; anzi la sostanza dell’arte è il contenuto, e l’artista è per lui l’uomo nella sua integritá, che esprime tutto se stesso: il patriota, il credente, il filosofo, l’amante, l’amico. La poesia ripiglia il suo antico significato, ed è voce del mondo interiore; ché non è poesia dove non è coscienza, la fede in un mondo religioso, politico, morale, sociale. Perciò base del poeta è l’uomo.
La poesia riacquista la serietá di un contenuto vivente nella coscienza. E la forma si rimpolpa, si realizza, diviene essa medesima l’idea, armonia tra l’idea e l’espressione.
La base del contenuto è morale e politica: è la libertá, l’uguaglianza, la patria, la dignitá, cioè la corrispondenza tra il pensiero e l’azione. È il vecchio programma di Machiavelli, divenuto europeo e tornato in Italia. La base della forma è la veritá dell’espressione, la sua comunione diretta col contenuto, risecata ogni mediazione. È la forma di Dante e di Machiavelli, riverginata con esso il contenuto.
Il contenuto è lirico e satirico. È l’uomo nuovo in vecchia societá.
L’uomo nuovo non è un concetto o un tipo d’immaginazione: ha tutte le condizioni della realtá, è esso medesimo il poeta. Protagonista di questo mondo lirico è Giuseppe Parini, che canta se stesso, esprime le sue impressioni, si effonde, cosí com’è, nella ingenuitá della sua natura. Spariscono i temi astratti e fattizi di religione, di amore, di moralitá. Tutto è contemporaneo e vivo e concreto, prodotto in mezzo al movimento de’ fatti e delle impressioni. Il poeta, ritirato nella pace della natura e nella calma della mente, sta al di sopra del suo mondo, e sente le sue agitazioni, i suoi piaceri e le sue punture, ma non si che giungano a turbare l’eguaglianza e la serenitá del suo animo. Ci è in questo uomo nuovo una vena d’idillio e di filosofia, come di uomo solitario, piú spettatore che attore, avvezzo a vivere tranquillo con sé, a conservare l’occhio puro e spassionato nel giudizio delle cose. Ci è nel poeta un po’ del pedagogo, ammaestrando, librando con giusta misura i fatti umani. Ma il pedagogo è trasfigurato nel poeta, e vi perde ogni lato pedantesco e pretensioso. Il suo amore per la vita campestre non è misantropia, anzi è accompagnato con la piú tenera sollecitudine per l’umanitá. La sua rigiditá pel decoro e l’onestá femminile è raddolcita da un vivo sentimento della bellezza. La sua dignitá è scevra di orgoglio, la sua severitá è amabile, la sua virtú è pudica, piena di grazia e di modestia. Ne’ suoi concetti e ne’ suoi sentimenti ci è sempre il limite, un’armonica temperanza, dov’ è la sua perfezione intellettuale e morale di uomo e di poeta. Quando leggi la Vita rustica, la Salubritá dell’aria, il Pericolo, la Musa, la Caduta e la sua Nice e la sua Silvia, provi una soddisfazione piú che estetica, senti in te appagate tutte le tue facoltá.
La vecchia societá è còlta non nelle sue generalitá rettoriche, come nel Rosa, nel Menzini e in altri satirici, ma nella forma sostanziale della sua vecchiezza, che è la pompa delle forme nella insipidezza del contenuto. Quelle forme cosí magnifiche, alle quali si dá una importanza cosí capitale, sono un’ironia, messe allato al contenuto. La Batracomiomachia è l’ironia dell’Iliade, la Moscheide è l’ironia dell’Orlando: sono forme epiche applicate a un mondo plebeo. L’ironia è la forma delle vecchie societá, non ancora conscie della loro dissoluzione. È il vecchio che vuol farla da giovine, con tanta piú ostentazione nelle apparenze quanto piú meschina è la sostanza. Questo è il concetto fondamentale del Giorno, fondato su di un’ ironia che è nelle cose stesse, perciò profonda e trista. Parini non vi aggiunge di suo che il rilievo, una solennitá di esposizione che fa piú vivo il contrasto. E perché sente in quelle mentite forme negato se stesso, la sua semplicitá, la sua serietá, il suo senso morale, non ha forza di riderne e non gli esce dalla penna uno scherzo o un capriccio. Ride di mala grazia, e sotto ci senti il disgusto e il disprezzo. L’Italia avea riso abbastanza, e rideva ancora ne’ versi di Passeroni e di Goldoni. Qui il riso è alla superficie, sotto alla quale giace repressa e contenuta l’indignazione dell’uomo offeso. La sua interna misura e pacatezza, la sua mente rettrice gli dá la forza della repressione, si che il sentimento di rado erompe sulla superficie e l’ironia di rado piglia la forma del sarcasmo. L’ironia de’ nostri padri del Risorgimento era allegra e scettica, come nel Boccaccio e nell’Ariosto, perché era rivendicazione intellettuale dirimpetto alle assurditá teologiche e feudali, rivendicazione accompagnata con la dissoluzione morale: era l’ironia della scienza a spese dell’ignoranza, e l’ignoranza fa ridere. Ma qui l’ironia è il risveglio della coscienza dirimpetto a una societá destituita di ogni vita interiore: li era l’ironia del buon senso, qui è l’ironia del senso morale. Senti che rinasce l’uomo, e con esso la vita interiore.
La parola di quella vecchia societá era a sua immagine, cascante, leziosa, vuota sonoritá, travolta e seppellita sotto la musica. Qui risuscita la parola. E vien fuori faticosa, martellata, ardua, pregna di sensi e di sottintesi. La parola scopre l’ironia, perché è in antitesi con quella societá molle ed evirata che il poeta finge di celebrare.
Togliete ora l’ironia, fate salire sulla superficie in modo scoperto e provocante l’ira, il disgusto, il disprezzo, tutti quei sentimenti che Parini con tanto sforzo dissimula sotto il suo riso; e avete Vittorio Alfieri. È l’uomo nuovo che si pone in atto di sfida in mezzo a’ contemporanei: statua gigantesca e solitaria, col dito minaccioso.
Alfieri si rivelò tardi a se stesso, e per proprio impulso, e in opposizione alla societá. Fino a ventisei anni avea menata la vita solita di un signorotto italiano, tra dissipazioni, viaggi, amori, cavalli, che non gli empivano però la vita. De’ primi studi non gli era rimasto che l’odio allo studio. Ricco, nobile, non ambiva né onori né ricchezze né uffici: viveva senz’altro scopo che di vivere. Vita vuota de’ ricchi signori, che se ne contentano, e a cui guardano con invidia i men favoriti dalla fortuna. Ma non se ne contentava Alfieri, e spesso era tristo, e fra tanto inutile affaccendarsi sentiva la noia. Era malattia italiana, propria di tutt’ i popoli in decadenza, l’ozio interno, la vacuitá di ogni mondo interiore. Alfieri aveva il sentimento di quel vuoto, e quella sua vita puramente esteriore era per lui noia, mal dissimulata sotto il mondano rumore. Coloro, che questa vita esteriore debbono conquistarsela col sudore della fronte, possono nel loro travaglio trovare un certo lenitivo di quella noia. Ma natura e fortuna aveano data ad Alfieri tutta fatta quella vita: i suoi padri aveano lavorato per lui. Nato non a lavorare, ma a godere, le sue forze interne poderosissime, soprattutto quella tenace energia di carattere, atta a vincere ogni resistenza, rimanevano inoperose, perché tutto piegava innanzi a lui, tutto gli era facile. Corse parecchie volte tutta Europa, e non vi trovò altro piacere che il correre, simulacro dell’interna irrequietezza non soddisfatta. Questo è ciò che dicesi «dissipazione»: una vita senza scopo e a caso, dove fra tanto moto rimangono immobili le due forze proprie dell’uomo, il pensiero e l’affetto. Se Alfieri fosse stato un cavallo, quel suo correre l’avrebbe contentato, come contenta moltissimi, che pur si chiamano «uomini». Ma si sentiva uomo, e stava tristo e annoiato, e non sapeva perché. Il perché era questo: che, nato gagliardissimo di pensiero e di alletto, non aveva trovato ancora un centro intorno a cui raccogliere ed esercitare quelle sue facoltá. Una passione si piglia facilmente in quell’ozio, e Alfieri ebbe i suoi amori e i suoi disinganni, e gli parve allora di vivere. Ne’ momenti piú feroci della noia si gettò a’ libri. Di latino non intendeva piú nulla, e pochissimo d’italiano: parlava francese da dieci anni. Leggendo per passatempo, tutto natura e niente educazione, lo stile classico lo annoiava: Racine lo faceva dormire, e gittò per la finestra un Galateo del Casa, intoppato in quel primo «conciossiaché». Si die’ a’ romanzi, come i giovanetti alle Mille e una notte. Tutto il suo piacere era di seguire il racconto e vederne la fine, e gli dispiacque l’Ariosto per le sue interruzioni, e lesse Metastasio saltando le ariette, e non potè leggere l’Henriade e l’Emilio per quel rettoricume che gli toglieva la vista del racconto. Aspettando i cavalli in Savona, gli capitò un Plutarco. Qui senti qualche cosa di piú che il racconto, gli batté il cuore: quelle immagini colossali non Io sbigottivano, anzi suscitarono la sua emulazione: — Non potrei essere anch’io come loro? — E il potere c’era, perché le sue forze non erano da meno. Una notte, assistendo l’amata nella sua infermitá, sceneggiò una tragedia, la quale, rappresentata poi a Torino, ebbe grandi applausi. — Perché non potrei io essere scrittore tragico? — Venutogli questo pensiero, ci si fermò. Secondo le opinioni di quel tempo, l’Italia era innanzi a tutte le nazioni in ogni genere di scrivere, ma le mancava la tragedia. Quest’era l’idea fissa di Gravina e l’ambizione di Metastasio; a questo lavorarono il Trissino, il Tasso, il Maffei. Ma la tragedia non c’era ancora, per sentenza di tutti. E dare all’Italia la tragedia gli pareva il piú alto scopo a cui un italiano potesse tendere. Da’ suoi viaggi avea portata ingrandita l’immagine dell’Italia, non trovato nulla comparabile a Roma, a Firenze, a Venezia, a Genova. Aggiungi la maestá dell’antica Roma, le memorie di una grandezza non superata mai. E, quantunque l’Italia a quei di fosse tanto degenere, avea fermissima fede in una Italia futura, che vagheggiava nel pensiero simile all’antica. Di questa nuova Italia fondamento era il rifarvi la pianta «uomo»; e gli parea che la tragedia, rappresentazione dell’eroico, fosse acconcia a ritrarvi questo nuovo uomo, che gli fervea nella mente, ed era lui stesso. Questi concetti erano del secolo, penetrati qua e lá nelle menti e da lui bevuti insieme con gli altri. Ma divennero in lui passione, scopo unico e ultimo della vita, e vi pose tutte le sue forze. Volle essere redentore d’Italia, il grande precursore di una nuova èra, e, non potendo con l’opera, co’ versi. Cosí trovò alla vita un degno scopo, che gli prometteva gloria, lo ingrandiva nella stima degli uomini e di se stesso. Lo scopo era difficilissimo, perché tutto gli mancava ad ottenerlo. E la difficoltá gli fu sprone e glielo rese piú caro. Vi spiegò quella sua energia indomabile, esercitata fino allora ne’ cavalli e ne’ viaggi. Per «disfrancesizzarsi» e «intoscanirsi» visse il piú in Toscana, ristudiò il latino, si pose in capo i trecentisti, contento di «spensare per pensare», fece suoi compagni indivisibili Dante, Petrarca, Ariosto e Tasso. Copiò, postillò, tradusse, «s’inabissò nel vortice grammaticale», e, non guasto dalla scuola e tutto lui, si fece uno stile suo. Scrisse come viaggiava, correndo e in linea retta: stava al principio, e l’animo era giá alla fine, divorando tutto lo spazio di mezzo. La parola gli sembra non via, ma impedimento alla corsa; e sopprime, scorcia, traspone, abbrevia: una parola di piú gli è una scottatura. Fugge le frasi, le circonlocuzioni, le descrizioni, gli ornamenti, i trilli e le cantilene: fa antitesi a Metastasio. Tratta la parola come non fosse suono, e si diletta di lacerare i ben costrutti orecchi italiani; e a quelli che strillano dá la baia:
Mi trovan duro? Anch’io lo so: pensar li fo. Taccia ho d’oscuro? Mi schiarirá poi libertá. |
All’Italia del Frugoni e del Metastasio dice ironicamente:
Io canterò d’amor soavemente: molle udirete il flauticello mio l’aure agitare armoniosamente per lusingare il vostro eterno oblio. |
Ciò che parevano i suoi versi e ciò che ne pare a lui, si vede da questo epigramma contro i pedanti:
Vi paion strani? Saran toscani. Son duri duri, disaccentati... Non son cantati. Stentati, oscuri, irti, intralciati... Saran pensati. |
Pure Alfieri, discepolo di sé, non era ben sicuro del fatto suo, e consultò Cesarotti, Parini, tutti quelli che andavano per la maggiore. Voleva un modello di verso tragico, e un barlume ne vedeva nell’Ossian. Ma voleva l’impossibile, e in ultimo prese il miglior partito, fece da sé. «Osa, contendi», gli diceva in un bel sonetto Parini. E lui a sudare intorno a’ suoi versi, tormentandoli in mille guise; ma
Gira, volta, ei son francesi. |
Gira, volta, ei son versi di Alfieri, energicamente individuali, «carme piú aguzzo assai che tondo». Questo ei chiamava «stile tragico». La forma letteraria era vuota e sonora cantilena. Lui, vi oppone questo stile, «pensato e non cantato», energico sino alla durezza e pieno di senso. E non gli venne giá da un preconcetto filosofico intorno all’arte: gli venne dalla sua natura; perciò in quelle sue asprezze è vivo e originale.
I critici biasimavano lo stile e lodavano tutto il resto, quasi lo stile fosse un fenomeno arbitrario e isolato. Non vedevano l’intima connessione che è tra quello stile e tutto il congegno della composizione. Perché Alfieri, come sopprime periodi, ornamenti e frasi, con lo stesso impeto sopprime confidenti, personaggi, episodi. Nasce una forma nervosa, tesa, spesso convulsa, che risponde al suo modo di concepire e di sentire: perciò non pedantesca, anzi viva, interessante, sincera e calda espressione dell’anima. Se vogliamo conoscere il segreto di questa forma, vediamo non com’ è fatta, ma come è nata.
Alfieri cercò la tragedia non nel mondo vivo, ma nelle tragedie apparse. Trovò definizioni e regole, e le accettò per buone senza esame. Questo fu non il suo problema, ma il dato o l’antecedente. Poste quelle definizioni e quelle regole, il suo problema fu di recare a perfezione la tragedia. Conosceva poco la tragedia greca, avea letto Seneca, gli erano familiari le tragedie italiane e francesi. Ma di queste appunto facea poca stima, come prolisse e rettoriche, e confidava di far meglio. Posto che la tragedia sia rappresentazione dell’eroico, la concepí come un conflitto di forze individuali, dove l’eroe soggiace alla forza maggiore. In Metastasio la forza maggiore è essa eroica, essa clemente e benefattrice: il mondo prodotto dalla sua immaginazione musicale è un riso, un canto, un inno, il mondo della misura e dell’armonia glorificato e divinizzato. Qui la forza maggiore è la tirannide o l’oppressione, e la sua vittima è l’eroismo o la libertá: è il mondo della violenza e della barbarie condannato e marchiato a fuoco. Metastasio compiva un ciclo, Alfieri ne cominciava un altro. I contemporanei disputavano sullo stile dell’uno e dell’altro, e volevano somiglianza di stile in tanta opposizione di concetto.
Ponendo la tragedia come conflitto di forze individuali. Alfieri rimaneva nel quadro delle tragedie francesi. Il secolo decimosettimo e decimottavo, come reazione al soprannaturale, cercavano di spiegare la storia con mezzi umani e naturali, e rappresentavano come azione de’ caratteri e delle passioni individuali quello, che gli antichi chiamavano il «destino» e Dante con tutto il mondo cristiano chiamava «ordine provvidenziale». Un concetto scientifico della storia era nato in Italia, dove il «destino» e l’«ordine provvidenziale» si era trasformato nella «natura delle cose» di Machiavelli, nello «spirito» di Bruno, nella «ragione» di Campanella, nel «fato» di Vico. Ma il concetto era rimasto nelle alte sfere dell’intelligenza, e appena avvertito, e fuori dell’arte. Shakespeare, con la profonda genialitá del suo spirito, aveva còlto queste forze collettive e superiori, che sono il fato della storia. Ma lo spirito di Alfieri era superficiale, piú operativo che meditativo, piú inteso alla rapiditá e al calore del racconto che a scrutarne le profonditá. Rimase dunque ne’ cancelli del secolo decimottavo. La tragedia fu per lui lotta d’individui, e il fato storico fu la forza maggiore e la tirannide, e la chiave della storia fu il tiranno. Piú tardi, ispirato dalla Bibbia, gli lampeggiò innanzi il Saul e intrawide un ordine di cose superiore. Ma il suo Dio inesorabile ci sta per figura rettorica, ed esiste piú nell’opinione e nelle parole degli attori che nel nesso degli avvenimenti, tutti spiegati naturalmente. E come un tiranno ci ha da essere, Dio è il tiranno, e tutto l’interesse è per Saul, i cui moti sono inconsci e determinati piú dalla malizia di Abner che da malizia sua propria. Il suo Saul è la Bibbia al rovescio, la riabilitazione di Saul e i sacerdoti tinti di colore oscuro.
Or questo concetto era la negazione dell’Arcadia, anzi la sua aperta ed esagerata contraddizione. Al mondo di Tasso, di Guarini, di Marino e di Metastasio succedeva la tragedia, non accademica e letteraria, com’erano le tragedie francesi e italiane, ma politica e sociale, fondata su di una idea maneggiata allora in tutti gli aspetti dagli scrittori; ed era questa: che la societá apparteneva al piú forte, e che giustizia, virtú, veritá, libertá giacevano sotto l’oppressione di un doppio potere assoluto e irresponsabile, la tirannide regia e la tirannide papale, il trono e l’altare. Piú tardi Alfieri vi aggiunse la tirannide popolare. Or questa era tragedia viva, la tragedia del secolo sotto nomi antichi, la lotta di un pensiero adulto e civile contro un assetto sociale ancor barbaro, fondato sulla forza. Ma è tragedia di puro pensiero, rimasta in regioni meramente speculative, non divenuta storia. Anzi la societá tra quelle agitazioni speculative era ancora idillica e rettorica, confidente in un progresso pacifico, concordi principi e popoli. A quello stato sociale corrispondea la tragedia filosofica e accademica, com’era quella di Voltaire. Alfieri vi aggiunse di suo se stesso. La tragedia è lo sfogo lirico de’ suoi furori, de’ suoi odii, della tempesta che gli ruggia dentro. In mezzo alla societá imparruccata e incipriata, che gioiosamente declamava tirannide e libertá, egli prende sul serio la vita e non si rassegna a vivere senza scopo, prende sul serio la morale e vi conforma rigidamente i suoi atti, prende sul serio la tirannide e freme e si dibatte sotto alle sue strette imprecando e minacciando, prende sul serio l’arte e vagheggia la perfezione. Le sue idee sono i suoi sentimenti, i suoi principi sono le sue azioni. L’uomo nuovo, che sente in sé, ha la coscienza orgogliosa della sua solitaria grandezza, e della solitudine si fa piedistallo, e vi si drizza sopra col petto e colla fronte come statua ideale del futuro italiano, come di «liber uomo esempio»:
Giorno verrá, tornerá il giorno, in cui redivivi ornai gl’Itali staranno in campo audaci . . . . Al forte fianco sproni ardenti dui, lor virtú prisca ed i miei carmi, avranno: onde in membrar eh’essi giá fur, ch’io fui, d’irresistibil fiamma avvamperanno... Gli odo giá dirmi: — O vate nostro, in pravi secoli nato, eppur create hai queste sublimi etá, che profetando andavi. |
Ci è dunque nella tragedia alfieriana uno spirito di vita, che scolpisce le situazioni, infoca i sentimenti, fonde le idee, empie del suo calore tutto il mondo circostante. Ci è li dentro l’uomo nuovo, solitario, sdegnoso verso i contemporanei, e che pure s’impone a’ contemporanei, sveglia l’attenzione e la simpatia. Gli è che, se quest’uomo nuovo non era ancora entrato ne’ costumi e ne’ caratteri, informava di sé tutta la coltura, era vivo negl’intelletti: una parentela c’era fra lo spirito di Alfieri e lo spirito del secolo. Perché dunque Alfieri si sente solo? perché guarda con occhio di nemico il suo secolo? Gli è per questo: che il nuovo uomo era in lui un modello puro, concretato nella sua potente individualitá, divenuto non solo la sua idea, ma la sua anima, tutta la vita; e che lo vede nella pratica manomesso e contraddetto da quelli stessi che pur con le parole lo glorificavano. Perciò sente uno sdegno piú vivo forse verso i democratici, «facitori di liberta», che verso re e papi e preti, e fugge la loro compagnia, «vergine di lingua, di orecchi e di occhi persino»:
Non l’opra lor, ma il dir consuona al mio. |
E muore tristo, maledicendo il secolo e confidando nella posteritá:
Ma non inulta l’ombra mia né muta starassi, no: fia de’ tiranni scempio la sempre viva mia voce temuta. Né lunge molto, al mio cessar, d’ogni empio veggio la vii possanza al suol caduta, me forse altrui di liber uomo esempio. |
Tutta la sua compassione è per Luigi decimosesto, e tutta la sua indegnazione è per l’Assemblea nazionale, per quei «profumati barbari», balbettanti «una qualche non lor libera idea», per quei «ribaldi fortunati», contro i quali gitta l’ultimo strale nel
Misogallo:
Tiene ’l Ciel dai ribaldi, Alfier dai buoni. |
Eccolo dunque quest’Alfieri solitario, che serba in sé inviolato e indiviso il suo modello, e, se il cielo gli dá torto, lui dá torto al cielo. Taciturno e malinconico per natura, risospinto dalla societá ancora piú in se stesso, solo col suo modello, rimane nel mondo vago e illimitato de’ sentimenti e de’ fantasmi, dove non ci ci è di concreto e di compiuto che il suo individuo. Perciò i suoi fantasmi sono piú simili a concetti logici che a cose effettuali, piú a generi e specie che ad individui. Non sono «astrazioni», come le chiamano. Potrebbero vuote astrazioni destare un interesse cosí vivo? Anzi sono fantasmi appassionati, ribollenti, sanguigni: non ci è vacuitá, ci è congestione di un sangue non ingenito e proprio, ma trasfuso e comunicato. Senti nella tragedia la solitudine dell’uomo, che armeggia con se stesso e produce la sua propria sostanza. Non ama ciò che gli è estrinseco, la natura, la localitá, la personalitá, e non l’intende e non la tollera, e la stupra, lasciandovi le sue orme impresse. Il calore di una potentissima individualitá non gli basta a infonder la vita, e resta impotente alla generazione, perché gli manca l’amore, quel sentirsi due e cercar l’altro e obbliarsi in quello. Impotenza per soverchio di attivitá, che gli toglie la facoltá di ricevere le impressioni e riprodurle. L’occhio torbido della passione non guarda intorno, non si assimila gli oggetti esterni. Alfieri è tutto passione, diresti quasi che voglia con un solo impeto mandar fuori il vulcano che gli arde nel petto, non ha la pazienza e il riposo dell’artista, quel divino riso col quale segue in tutti i suoi movimenti la sua creatura. Quel suo furore, del quale si vanta, è il furore di Oreste, che gl’intorbida l’occhio, si che, investendo il drudo, uccide la madre; e gli fa scambiare i colori, abbozzare le immagini, appuntare i sentimenti, dare al tutto un aspetto teso e nervoso. Indi quella sceneggiatura e quello stile, quel sopprimere gradazioni, chiaroscuri, quel soverchio rilievo, quel dir molto in poco, come si vanta, quella mutilazione e congestione, quell’abbreviazione tumultuosa della vita, quel fondo oscuro e incolore della natura, quelle situazioni strozzate, que’ personaggi in abbozzo, che piú fremono e meno li comprendi. Di che aveva Alfieri un sentore confuso, quando scriveva:
Nulla di quanto l’uom «scienza» chiama per gli orecchi mai giunto erami al core: ira, vendetta, libertade, amore sonava io sol, come chi freme ed ama. |
E cosí è. La sua tragedia freme ira, vendetta, libertá, amore. Ma non basta fremere o sonare; e l’attica dea, che gli dice: — O dormi o crea — ha torto: non chi dorme, ma chi studia e medita è buono a creare. Non vale cuore pieno e «mente ignuda». Manca a lui la scienza della vita, quello sguardo pacato e profondo, che t’inizia nelle sue ombre e ne’ suoi misteri e te ne porge tutte le armonie. Perciò dalla concitata immaginazione escon fuori punte arditissime, un certo addensamento di cose e d’immagini, che par folgore, ma in cielo scarno e povero, com’ è il «Pace» di Nerone, il celebre «— Scegliesti? — Ho scelto — », e il «Vivi, Emon, tel comando», e il «Fui padre», e il «Ribelli tutti, E ubbidiran pur tutti»: uno stile a fazione di Tacito e di Machiavelli, con una ostentazione che scopre l’artificio, una vita a lampi e salti, piú dialogo che azione, e, sotto forme brevi, spesso prolissa e stagnante. Si succedono sentimenti crudi, aguzzi, senza riposi o passaggi, e accumulati con una tensione intellettuale di poca durata e che finisce nello scarno e nell’insipido. E si comprende perché fra tanto calore la composizione riesce nel suo insieme fredda e monotona, perché in quell’esaltazione fittizia del discorso ti senti nel vuoto, e perché fra tanti motti e sentenze memorabili non ricordi un solo personaggio, uomo o donna che sia. Non uno è rimasto vivo. E il difetto è maggiore negli eroi, soprattutto ne’ rari casi che la forza è con loro e sono essi i vincitori. Le loro qualitá eroiche, religione, patria, libertá, amore, si esalano in frasi generiche, e non puoi mai coglierli nella loro intimitá e nella loro attivitá. Ci è il patriottismo, e non la patria; ci è l’amore, e non l’amante; ci è la libertá, e manca l’uomo: sembrano personificazioni piú che persone ne’ contrasti, nelle gradazioni, nella ricchezza della loro natura. Tali sono Carlo e Isabella, Davide e Gionata, Icilio e Virginio, e i Bruti, gli Agidi, i Timoleoni. Manca alla virtú ogni semplicitá e modestia, e nella concitata espressione senti la povertá del contenuto. Maggior vita è ne’ personaggi tirannici o colpevoli, dove Alfieri ha condensata tutta la sua bile, e l’odio lo rende profondo. Uno de’ personaggi da lui meno stimati e piú interessanti per ricchezza e profonditá di esecuzione è il suo Egisto nell’Agamennone; e la scena, dove l’iniquo con tanta abilitá fa sorgere nella mente di Clitennestra l’idea dell’assassinio, è degna di Shakespeare.
Alfieri è l’uomo nuovo in veste classica. Il patriottismo, la libertá, la dignitá, l’inflessibilitá, la morale, la coscienza del dritto, il sentimento del dovere, tutto questo mondo interiore, oscurato nella vita e nell’arte italiana, gli viene non da una viva coscienza del mondo moderno, ma dallo studio dell’antico, congiunto col suo ferreo carattere personale. La sua Italia futura è l’antica Italia, nella sua potenza e nella sua gloria, o, com’egli dice, «il ‘sará’ è l’‘è stato’». Risvegliare negl’italiani la «virtú prisca», rendere i suoi carmi «sproni acuti» alle nuove generazioni, si che ritornino degni di Roma, è il suo motivo lirico, che ha comune con Dante e col Petrarca. L’alto motivo che ispirò il patriottismo de’ due antichi toscani, divenuto a poco a poco un vecchiume rettorico e messo in musica da Metastasio, ripiglia la sua serietá nell’uomo nuovo che si andava formando in Italia, e di cui Alfieri era l’espressione esagerata, a proporzioni epiche. Perché Alfieri, realizzando in sé il tipo di Machiavelli, si avea formata un’anima politica: la patria era la sua legge, la nazione il suo dio, la libertá la sua virtú; ed erano idee povere di contenuto, forme Ubere e illimitate, colossali come sono tutte le aspirazioni non ancora determinate e concretate nel loro urto con la vita pratica. Se avesse rappresentato il cozzo fatalmente tragico delle aspirazioni con la realtá, ne sarebbe uscito un alto pathos, il vero motivo della tragedia moderna. Ma un concetto cosí elevato del mondo era prematuro; e, d’accordo col suo secolo. Alfieri non vede di tutta quella realtá che il fenomeno piú grossolano, la forza maggiore o il tiranno; e non lo studia e non lo comprende, ma l’odia, come la vittima il carnefice; l’odia di quell’odio feroce da giacobino, che, non potendo spiegarsi e assimilarsi l’ostacolo, taglia il nodo con la spada. Alfieri odiava i giacobini; ma egli era un Robespierre poetico, e, se i giacobini avessero lette le sue tragedie, potevano dirgli: — Maestro, da voi abbiamo imparato l’arte. — L’uomo che glorificava il primo Bruto, uccisore de’ figli, e l’altro Bruto, uccisore di Cesare padre suo; l’uomo che non avea che parole di dispregio per Carlo primo, vittima de’ repubblicani inglesi, non aveva nulla a dire a coloro che tagliarono la testa al decimosesto Luigi. Ridotte le forze collettive e sociali a forza e arbitrio di un solo individuo, era naturale che l’individuo prendesse grandezza epica e colossale sotto il nome di «tiranno», e che l’odio contro di quello fosse proporzionato a quella grandezza. Ma in questo caso, divenuta la tragedia un gioco di forze individuali, eliminato ogni elemento collettivo e superiore, essa non può avere per base che la formazione artistica dell’individuo. Se non che, il nostro tragico è piú preoccupato delle idee che mette in bocca a’ suoi eroi che della loro anima e della loro personalitá. Il contenuto politico e morale non è qui semplice stimolo e occasione alla formazione artistica, ma è la sostanza, e invade e guasta il lavoro dell’arte. Il qual fenomeno ho giá notato come caratteristico della nuova letteratura. Il contenuto esce dalla sua secolare indifferenza e si pone come esteriore e superiore all’arte, maneggiandola quasi suo istrumento, un mezzo di divulgarlo e infiammarne la coscienza, per modo che i carmi sieno «sproni acuti». Il sentimento politico è troppo violento e impedisce l’ingenua e serena contemplazione. Piú è vivo in Alfieri e meno gli concede il godimento estetico. Perciò le sue concezioni, i suoi sentimenti, i suoi colori sono crudi e disarmonici, e, per dar troppo al contenuto, toglie troppo alla forma. Egli è la nuova letteratura nella piú alta esagerazione delle sue qualitá, piú simile a violenta reazione contro il passato che a quella tranquilla affermazione di sé, paga di un’ironia senza fiele, cosí nobile in Parini. Nell’ironia pariniana senti un nuovo mondo affacciarsi nel sicuro possesso di se stesso. Nel sarcasmo alfieriano senti il ruggito di non lontane rivoluzioni. Né ci volea meno che quella esagerazione e quella violenza per colpire le torpide e vuote immaginazioni.
Gli effetti della tragedia alfieriana furono corrispondenti alle sue intenzioni. Essa infiammò il sentimento politico e patriottico, accelerò la formazione di una coscienza nazionale, ristabili la serietá di un mondo interiore nella vita e nell’arte. I suoi epigrammi, le sue sentenze, i suoi motti, le sue tirate divennero proverbiali, fecero parte della pubblica educazione. Declamare tirannide e liberta venne in moda, spasso innocente allora, e piu tardi, quando i tempi ingrossarono, dimostrazione politica piena di allusione a’ casi presenti. I contemporanei, applaudendo in teatro alle sue tirate, non credevano che quelle massime dovessero impegnar la coscienza, e trovavano lui, che ci credeva, selvatico ed eccentrico. Né si maravigliavano della esagerazione, perché l’esagerazione era da un pezzo la malattia dello spirito italiano, smarrito il senso della realtá e della misura. Ma nelle nuove generazioni, travagliate da disinganni e impedite nella loro espansione, quegl’ideali tragici, cosí vaghi e insieme cosí appassionati, rispondevano allo stato della coscienza, e quei versi aguzzi e vibrati come un pugnale, quei motti condensati come un catechismo, ebbero non poca parte a formare la mente ed il carattere. La sua fama andò crescendo con la sua influenza, e ben presto parve all’Italia di avere infine il suo gran tragico, pari a’ sommi. Ci era la tragedia, ma non c’era ancora il verso tragico, a sentenza de’ letterati. Chiedevano qualche cosa di mezzo tra la durezza di Alfieri e la cantilena di Metastasio. E quando fu rappresentato l’Aristodemo, il problema parve sciolto. Vedevano in quella tragedia la fierezza dantesca e la dolcezza virgiliana, «di Dante il core e del suo duca il canto». E in veritá di Dante e di Virgilio qualche cosa era in Vincenzo Monti. Avea Dante nell’immaginazione e Virgilio nell’orecchio.
L’abate Monti, nato fra tanto fermento d’idee, ne ricevè l’impressione, come tutti gli uomini colti. Ma furono in lui piú il portato della moda che il frutto di ardente convinzione. Fu liberale sempre. E come non esser liberale a quel tempo, quando anche i retrivi gridavano «libertá», bene inteso la «vera libertá», come la chiamavano? E in nome della libertá glorificò tutt’i governi. Quando era moda innocente declamare contro il tiranno, gittò sul teatro l’Aristodemo, che fece furore sotto gli occhi del papa. Quando la rivoluzione francese s’insanguinò, in nome della libertá combattè la licenza, e scrisse la Basvilliana. Ma il canto gli fu troncato nella gola dalle vittorie di Napoleone, e allora in nome della libertá cantò Napoleone; e in nome anche della libertá cantò poi il governo austriaco. Le massime eran sempre quelle, applicate a tutt’ i casi dal duttile ingegno. Il poeta faceva quello che i diplomatici. Erano le idee del tempo e si torcevano a tutti gli avvenimenti. I suoi versi suonano sempre «libertá», «giustizia», «patria», «virtú» «Italia». E non è tutto ipocrisia. Dotato di una ricca immaginazione, ivi le idee pigliano calore e forma, sí che facciano illusione a lui stesso e simulino realtá. Non aveva l’indipendenza sociale di Alfieri e non la virile moralitá di Parini: era un buon uomo che avrebbe voluto conciliare insieme idee vecchie e nuove, tutte le opinioni, e, dovendo pur scegliere, si tenea stretto alla maggioranza, e non gli piacea di fare il martire. Fu dunque il segretario dell’opinione dominante, il poeta del buon successo. Benefico, tollerante, sincero, buono amico, cortigiano piú per bisogno e per fiacchezza d’animo che per malignitá o perversitá d’indole, se si fosse ritratto nella veritá della sua natura, potea da lui uscire un poeta. Orazio è interessante, perché si dipinge qual è, scettico, cinico, poltrone, patriota senza pericolo, epicureo. Monti raffredda, perché sotto la magnificenza di Achille senti la meschinitá di Tersite, e piú alza la voce e piú piglia aria dantesca, piú ti lascia freddo. Ci è quel falso eroico, tutto di frase e d’ immagine, qualitá tradizionale della letteratura e caro ad un popolo fiacco e immaginoso, che aveva grandi le idee e piccolo il carattere. Monti era la sua personificazione, e nessuno fu piú applaudito. La natura gli aveva largito le piú alte qualitá dell’artista: forza, grazia, affetto, armonia, facilitá e brio di produzione. Aggiungi la piú consumata abilitá tecnica, un’assoluta padronanza della lingua e dell’elocuzione poetica. Ma erano forze vuote, macchine potenti prive d’impulso. Mancava la serietá di un contenuto profondamente meditato e sentito, mancava il carattere, che è l’impulso morale. Pure i suoi lavori, massime l’Iliade, saranno sempre utili a studiarvi i misteri dell’arte e le finezze dell’elocuzione. E la conclusione dello studio sará che non basta l’artista, quando manchi il poeta.
Monti, come Metastasio, fu divinizzato in vita. Ebbe onori, titoli, forza, molto séguito. Un popolo cosí artistico come l’italiano ammirava quel suo magistero a freddo, quella facilitá e quella felicitá di armonie. Dopo la sua morte ebbe gli elogi di Alessandro Manzoni e di Pietro Giordani. E l’esagerazione delle accuse rese cari quegli elogi, quasi pio ufficio alla memoria di un uomo in cui era piú da compatire che da biasimare.