Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/XX. La nuova letteratura/III.

XX. La nuova letteratura - III.

../II. ../IV. IncludiIntestazione 28 febbraio 2024 75% Da definire

XX. La nuova letteratura - II. XX. La nuova letteratura - IV.

[p. 353 modifica]

iii


Goldoni era, come Metastasio, artista nato. Di tutti e due se ne volea fare degli avvocati. Anzi Goldoni fece l’avvocato con qualche successo. Ma alla prima occasione correva appresso agli attori, insino a che il naturai genio vinse. Tentò parecchi generi prima di trovare se stesso. Zeno e Metastasio erano le due celebritá del tempo: il dramma in musica era alla moda. Scrisse l’Amalasunta, il Gustavo, l’Oronte, piu tardi il Festino e qualche altro melodramma buffo; scrisse anche tragedie, la Rosmonda, la Griselda, l’Enrico, e tragicommedie, come il Rinaldo. Poeta stipendiato di compagnie comiche, costretto in ciascuna stagione teatrale di dare parecchie opere nuove (e in una stagione ne die’ sedici), saccheggiò, raffazzonò, tolse di qua e di lá ne’ repertori italiani e francesi e anche ne’ romanzi. Non ci era ancora il poeta, ci era il mestierante: ci [p. 354 modifica]era Chiari, non ci era ancora Goldoni. Trattava ogni maniera di argomento secondo il gusto pubblico: commedie sentimentali, commedie romanzesche, come la Pamela, Zelinda e Lindoro, la Peruviana, la Bella selvaggia, la Bella georgiana, la Dalmatina, la Scozzese, l’Incognita, l’Ircana, raffazzonamenti la piú parte e imitazioni francesi. Scrisse anche commedie a soggetto, come il Figlio di Arlecchino perduto e ritrovato, le Trentadue disgrazie di Arlecchino. Si rivelò a se stesso e al pubblico nella Vedova scaltra. Cominciarono le critiche, e cominciò lui ad avere una coscienza d’artista. La vecchia letteratura ondeggiava tra il seicentismo e l’arcadico, il gonfio e il volgare. Goldoni nelle sue Memorie dice:


I miei compatriotti erano accostumati da lungo tempo alle farse triviali e agli spettacoli giganteschi. La mia versificazione non è mai stata di stil sublime; ma ecco appunto quel che bisognava per ridurre a poco a poco nella ragione un pubblico accostumato alle iperboli, alle antitesi ed al ridicolo gigantesco e romanzesco.


Per sua ventura gli capitò una buona compagnia:


— Ora — diceva io a me medesimo, — ora sto bene e posso lasciare il campo libero alla mia fantasia. Ho lavorato quanto basta sopra vecchi soggetti. Avendo presentemente attori che promettono molto, convien creare, conviene inventare. Ecco forse il momento di tentare quella riforma, che ho in vista da cosí lungo tempo. Convien trattare soggetti di carattere: essi sono la sorgente della buona commedia, ed è appunto con questi che il gran Molière diede principio alla sua carriera, e pervenne a quel grado di perfezione, che gli antichi ci avevano soltanto indicato e che i moderni non hanno ancor potuto eguagliare.


Goldoni conosceva pochissimo Plauto e Terenzio; faceva di cappello a Orazio e Aristotele; rispettava per tradizione le regole; ma dice: «Non ho mai sacrificata una commedia che poteva esser buona ad un pregiudizio che la poteva render cattiva». Ciò che chiama «pregiudizio» è l’unitá di luogo. La sua scarsa coltura classica avea questo di buono: che tenea il suo spirito sgombro da ogni elemento che non fosse moderno e contemporaneo. Ciò ch’egli vagheggia non è la commedia dotta, [p. 355 modifica]regolata, letteraria, alla latina o alla toscana, di cui ultimo esempio dava il Fagiuoli; ma la buona commedia, com’egli la concepiva: «La commedia essendo stata la mia tendenza, la buona commedia dee esser la mia meta». E il suo concetto della buona commedia è questo: «Tutta l’applicazione, che ho messa nella costruzione delle mie commedie, è stata quella di non guastar la natura». Carattere idillico, superiore a’pettegolezzi e alle invidiuzze provinciali del letterato italiano, pigliandosi la buona e la cattiva fortuna con eguaglianza d’animo, quest’uomo, che visse i suoi bravi ottantasei anni e mori a Parigi pochi anni dopo il Metastasio, morto a Vienna, dice di sé:


Il morale mio è analogo al fisico; non temo né il freddo né il caldo, e non mi lascio infiammar dalla collera né ubbriacar dalla gioia.


Con questo temperamento piú di spettatore che di attore, mentre gli altri operavano, Goldoni osservava e li coglieva sul fatto. La natura bene osservata gli pareva piú ricca che tutte le combinazioni della fantasia. L’arte per lui era natura, era ritrarre dal vero. E riuscí il Galileo della nuova letteratura. Il suo telescopio fu l’intuizione netta e pronta del reale, guidata dal buon senso. Come Galileo proscrisse dalla scienza le forze occulte, l’ipotetico, il congetturale, il soprannaturale; cosí egli volea proscrivere dall’arte il fantastico, il gigantesco, il declamatorio e il rettorico. Ciò che Molière avea fatto in Francia, lui voleva tentare in Italia, la terra classica dell’accademia e della rettorica. La riforma era piú importante che non apparisse; perché, riguardando specialmente la commedia, avea a base un principio universale dell’arte, cioè il naturale nell’arte, in opposizione alla maniera e al convenzionale. Goldoni avea da natura tutte le qualitá che si richiedevano al difficile assunto: finezza di osservazione e spirito inventivo, misura e giustezza nella concezione, calore e brio nella esecuzione. La Mandragola, capitatagli ch’era giovanissimo, gli avea fatta molta impressione. Il Misantropo, l’Avaro, il Tartufo, le Preziose e simili commedie di Molière compirono la sua educazione. [p. 356 modifica]Il fondamento della commedia italiana era l’intreccio; la buona commedia, come la concepiva lui, dovea avere a fondamento il carattere. — Voi avete la commedia d’intreccio; io voglio darvi la commedia di carattere — diceva Goldoni. E commedia di carattere era tirare l’effetto non dalla moltiplicitá di avvenimenti straordinari, ma dallo svolgimento di un carattere nelle situazioni anche piú ordinarie della vita. Era tutt’un altro sistema, e non solo nella commedia, ma nello scopo e ne’ mezzi dell’arte. Il protagonista nel primo sistema è il caso o l’accidente, le cui bizzarre combinazioni generano il maraviglioso. Gli uomini ci stanno come figure o comparse, appena schizzati, avvolti nel turbine degli avvenimenti. La vita è nella superficie: l’interno è occulto. In questa superficialitá ottusa si era consunta la vecchia letteratura, ed, esaurite tutte le forme del maraviglioso, non bastava piú a conseguire l’effetto con mezzi propri, senza il sussidio del canto, della musica, del ballo, della mimica, della declamazione. La parola non era piú il principale: era l’accessorio, il semplice tema, l’occasione. Anche la commedia si credea inetta a conseguire il suo effetto senza il sussidio delle maschere, senza quell’improvviso de’ lazzi degli Arlecchini, de’ Truffaldini, de’ Brighella e de’ Pantaloni. Ora l’idea fissa di Goldoni era che la commedia potea per se sola interessare il pubblico, e che non le era necessario a ciò lo spettacoloso, il gigantesco, il maraviglioso in maschera e senza maschera. La sua riforma era in fondo la restaurazione della parola, la restituzione della letteratura nel suo posto e nella sua importanza, la nuova letteratura. E vide chiaramente che a instaurare la parola bisognava non lavorare intorno alla parola, ma intorno al suo contenuto, rifare il mondo organico o interiore dell’espressione. Questo vide nella commedia, e mirò a instaurarvi non gli elementi formali e meccanici, ma l’interno organismo, sopra questo concetto: che la vita non è il gioco del caso o di un potere occulto, ma è quale ce la facciamo noi, l’opera della nostra mente e della nostra volontá. Concetto del Machiavelli, dal quale usciva la Mandragola. Perciò il protagonista è l’uomo, con le sue virtú e le sue debolezze, che crea o regola gli [p. 357 modifica]avvenimenti o cede in balia di quelli. Manca a Goldoni non la chiarezza, ma l’audacia della riforma, obbligato spesso a concessioni e a mezzi termini per contentare il pubblico, la compagnia e gli avversari. E, come era il suo carattere, vinse talora piú con la pazienza o la destrezza che con la risoluta tenacitá dei propositi. Di queste concessioni trovi i vestigi nelle sue migliori commedie, dove non rifiuta certi mezzi volgari e grossolani di ottenere gli applausi della platea. E mi spiego come insino all’ultimo continuò nel romanzesco, nel sentimentale e nell’arlecchinesco: le necessitá del mestiere contrastavano alle aspirazioni dell’artista. D’altra parte, intento all’interno organismo della commedia, neglesse troppo l’espressione e, per volerla naturale, la fece volgare, si che le sue concezioni si staccano vigorose da una forma piú simile a pietra grezza che a marmo. Ciò che in lui rimane è quel mondo interno della commedia, tolto dal vero e perfettamente sviluppato nelle situazioni e nel dialogo. Il centro del suo mondo comico è il carattere. E questo non è concepito da lui come un aggregato di qualitá astratte, ma è còlto nella pienezza della vita reale, con tutti gli accessori. Base è la societá veneziana nella sua mezzanitá, piú vicina al popolo che alle classi elevate: ciò che dá piú presa al comico per quei moti improvvisi, ineducati, indisciplinati, che son propri della classe popolana, alla quale si accostava molto la borghesia veneta, non giunta ancora a quel raffinamento e delicatezza di forme, che sono come l’aria della civiltá. I caratteri, come il maldicente, il bugiardo, l’avaro, l’adulatore, il cavalier servente, inviluppati in quest’atmosfera, escono fuori vivi, coloriti, originali, nuovi: vi contraggono la forma della loro esistenza. Ci è nel loro impasto del grossolano e dell’improvviso; anzi qui è la fonte del comico. Cadendo in nature di uomini non disciplinate dall’educazione, paion fuori in modo subitaneo e senza freno o ritegno o riguardo, in tutta la loro forza primigenia, e producono con quella loro improvvisa grossolanitá la piú schietta allegria, tipo il Burbero benefico. Non essendo concezioni subbiettive e astratte, ma studiate dal vero e còlte nel movimento della vita, il comico non si sviluppa per [p. 358 modifica]via di motti, riflessioni e descrizioni (ciò che dicesi propriamente «spirito» e appartiene a una societá piú colta e raffinata), ma erompe nella brusca vivacitá delle situazioni e dei contrasti. Il Goldoni è felicissimo a trovare situazioni tali che il carattere vi possa sviluppare tutte le sue forze. La situazione è per lo piú unica, semplice, naturalissima, sobriamente variata, messa in rilievo da qualche contrasto, di rado complicata o inviluppata, graduata con un crescendo di movimenti drammatici, e ti porta rapidamente alla fine tra la piú viva allegria. Indi viene la superioritá del suo dialogo, che è azione parlata, di rado interrotta o raffreddata per soverchio uso di riflessioni e di sentenze. La situazione non è mai perduta di vista: non digressioni, non deviazioni, rari intermezzi o episodi, nessuna parte troppo accarezzata o rilevata; onde è che l’interesse è nell’insieme, e di rado se ne stacca un personaggio, una scena, un motto. Tutto è collegato saldamente con tutto: la situazione è il carattere stesso in posizione, nelle sue determinazioni; l’azione è la stessa situazione nel suo sviluppo; il dialogo è la stess’azione ne’ suoi movimenti. Questo mondo poetico ha il difetto delle sue qualitá: nella sua grossolanitá è superficiale, e nella sua naturalezza è volgare. In quel suo correre diritto e rapido, il poeta non medita, non si raccoglie, non approfondisce; sta tutto al di fuori, gioioso e spensierato, indifferente al suo contenuto, e intento a caricarlo quasi per suo passatempo e con l’aria piú ingenua, senza ombra di malizia e di mordacitá: onde la forma del suo comico è caricatura allegra e smaliziata, che di rado giunge all’ironia. Nel suo studio del naturale e del vero, trascura troppo il rilievo, e, se ha il brio del linguaggio parlato, ne ha pure la negligenza: per fuggire la rettorica, casca nel volgare. Gli manca quella divina malinconia, che è l’idealitá del poeta comico e lo tiene al di sopra del suo mondo, come fosse la sua creatura, che accarezza con lo sguardo e non la lascia che non le abbia data l’ultima finitezza. Attribuiscono il difetto alla sua ignoranza della lingua ed alla soverchia fretta: il che, se vale a scusare le sue scorrezioni, non è bastante a spiegare il crudo e lo sciacquo del suo colorito [p. 359 modifica]

La nuova letteratura fa la sua prima apparizione nella commedia del Goldoni, annunziandosi come una ristaurazione del vero e del naturale nell’arte. Se la vecchia letteratura cercava ottenere i suoi effetti scostandosi possibilmente dal reale e correndo appresso allo straordinario o al maraviglioso nel contenuto e nella forma, la nuova cerca nel reale la sua base e studia dal vero la natura e l’uomo. La maniera, il convenzionale, il rettorico, l’accademico, l’arcadico, il meccanismo mitologico, il meccanismo classico, l’imitazione, la reminiscenza, la citazione, tutto ciò che costituiva la forma letteraria è sbandito da questo mondo poetico, il cui centro è l’uomo, studiato come un fenomeno psicologico, ridotto alle sue proporzioni naturali e calato in tutte le particolaritá della vita reale. Vero è che la realtá è appena lambita e le sue profonditá rimangono occulte. Ma la via era quella, e in capo alla via trovi Goldoni.

A Carlo Gozzi parea che quel vero e quel naturale fosse la tomba della poesia; e, quando il successo del Goldoni gl’impose rispetto, parlando pure con riguardo dell’avversario, non potè risolversi ad accettare per buona la sua riforma. Il romanzesco, il gigantesco, l’arlecchinesco, o, in altri termini, il mirabile e il fantastico, gli parevano elementi essenziali della poesia: quel ritrarre dal reale gli pareva una volgaritá. D’altra parte, non vedea senza rincrescimento assalita da ogni parte la commedia a soggetto, che gli sembrava una gloria italiana. Dicevano che l’era oramai un vecchio repertorio, che l’era ridotta a mero meccanismo, che l’era una scuola d’immoralitá, di scurrilitá, roba da trivio, «goffe bufifonate, fracidumi indecenti in un secolo illuminato». C’era esagerazione nelle accuse, ma un fondamento di veritá c’era. La commedia improvvisa, dell’arte o a soggetto, era isterilita, come tutt’i generi della vecchia letteratura, e tutti quei lazzi, che tanto divertivano, erano con poca varietá un vecchiume trasmesso da ima generazione all’altra: si viveva sul passato, i nuovi attori riproducevano gli antichi; la parte improvvisata era cosí poco nuova e improvvisa come la parte scritta. Piaceva piú che la commedia letteraria, perché ci era sempre maggior comunione col pubblico; ma oramai quel [p. 360 modifica]Dottor bolognese e Truffaldino stancavano, come un professore che ripeta ogni anno lo stesso corso. I letterati e i fautori delle commedie regolate ne pigliavano argomento per dichiarar guerra alle maschere, e volevano proscrivere addirittura quel genere di commedia, «indecente in un secolo illuminato». Gozzi, che l’avea contro quei lumi e vedea di mal occhio tutte quelle novitá che ci venivano d’oltralpe, se ne fece paladino e scese in campo co’ ragionamenti e coll’esempio, scrivendo sotto nome di «fiabe» commedie con le maschere, e perciò con una parte improvvisata, le quali ebbero successo grandissimo e oggi sono quasi dimenticate. Gozzi parea a quel tempo un retrivo, e Goldoni era il riformatore: pure avrei desiderato a Goldoni un po’ di quella fibra rivoluzionaria ch’era in quel retrivo; ché cosí sarebbe proceduto piú ardito e conseguente nella sua riforma. Il «taciturno solitario» Gozzi, come lo chiamavano, era uomo d’ingegno; e perciò penetrato della vita contemporanea e trasformato senza saperlo da quelle stesse idee nuove, che gli movevano la bile. Volendo instaurare il vecchio, si chiari novatore e riformatore, e, correndo dietro alla commedia a soggetto, s’incontrò nella commedia popolana e ne fissò la base. Grande confusione era nella sua testa, come si vede da’ suoi ragionamenti: indi la sua debolezza. Goldoni sa quello che vuole, ha la chiarezza dello scopo e dei mezzi, e va diritto e sicuro; perciò la sua influenza rimase grandissima. Ma Gozzi non ha chiaro lo scopo, e vuole una cosa e fa un’altra, e procede a balzi, tirato da varie correnti. Vuole favorire le maschere; vuole parodiare gli avversari; vuole rifare Pulci e Ariosto, ristaurando il fantastico; vuole toscaneggiare, e vuole insieme essere popolare e corrente; vuol ricostruire il vecchio e comparir nuovo. Fini transitori, i quali poterono interessare i contemporanei, dargli vinta la causa nella polemica e nel teatro, e che oggi sono la parte morta del suo lavoro. Queste intenzioni penetrano in tutta la composizione, come elementi perturbatori e rimasti inconciliati. Ciò che resta di lui è il concetto della commedia popolana, in opposizione alla commedia borghese. Le maschere, cioè certi caratteri o caricature tipiche del popolo, come [p. 361 modifica]Tartaglia, Pantalone, Truffaldino, Brighella, Smeraldina, rimangono nella sua composizione come elementi di obbligo e convenzionali, accessori spesso grotteschi e insipidi per rispetto al contenuto, innestati e soprapposti. Il contenuto è il mondo poetico com’è concepito dal popolo, avido del maraviglioso e del misterioso, impressionabile, facile al riso e al pianto. La sua base è il soprannaturale nelle sue forme: miracolo, stregoneria, magia. Questo mondo dell’immaginazione, tanto piú vivo quanto meno l’intelletto è sviluppato, è la base naturale della poesia popolana sotto le sue diverse forme: conti, novelle, romanzi, storie, commedie, farse. La vecchia letteratura se n’era impadronita, ma per demolirlo, per gittarvi entro il sorriso incredulo della colta borghesia. Rifare questo mondo nella sua ingenuitá, drammatizzare la fiaba o la fola, cercare ivi il sangue giovine e nuovo della commedia a soggetto: questo osò Gozzi in presenza di una borghesia scettica e nel secolo de’ lumi, nel secolo degli «spiriti forti» e de’ «belli spiriti». E riuscí a interessarvi il pubblico, perché quel mondo ha un valore assoluto e risponde a certe corde che, maneggiate da abile mano d’artista, suonano sempre nell’animo: ciascuno ha entro di sé piú o meno del fanciullo e del popolo. E poiché il pubblico s’interessava ancora alla commedia del Goldoni, se ne doveva conchiudere, se le conclusioni ragionevoli fossero possibili in mezzo alla disputa, che tutti e due i generi erano conformi al vero, l’uno rappresentando la societá borghese nella sua mezza coltura, e l’altro il popolo nelle sue credulitá e ne’ suoi stupori. E tutti e due erano una riforma della commedia ne’ due suoi aspetti, la commedia dotta e la commedia improvvisa: era l’apparizione della nuova letteratura. Ma questo, che fece Gozzi, non era precisamente quello che credeva di fare. Ci si messe per picca e per occasione, disprezzava il pubblico che l’applaudiva, non prendeva sul serio la sua opera, e, perché Goldoni imitava dal vero, s’innamorò lui del romanzesco e del fantastico. Ora l’arte non è un capriccio individuale, e, perché Shakespeare ti piace, non ne viene che tu possa rifare Shakespeare, quando anche avessi forza da ciò. L’arte, come religione e filosofia, come [p. 362 modifica]istituzioni politiche ed amministrative, è un fatto sociale, un risultato della coltura e della vita nazionale. Gozzi volea rifare un mondo dell’immaginazione, quando egli medesimo segnava la dissoluzione di quel mondo nella Marfisa, quando la parte colta e intelligente della nazione era mossa da impulsi adatto contrari, e quando il popolo, ebete nella sua miseria, stava come una massa inerte e non dava segno di vita letteraria. Se Gozzi fosse sceso in mezzo al popolo e vi avesse attinte le sue ispirazioni, potea forse fare opera viva. Ma Gozzi era aristocratico, odiava tutte quelle novitá che sentivano troppo di democrazia, e viveva co’ suoi Granelleschi in un ambiente puramente letterario. Rimase perciò un letterato: non divenne un poeta. Oltre a ciò, un fatto letterario in quel tempo non potea sorgere di mezzo al popolo, divenuto acqua stagnante: un movimento c’era, e veniva dalla borghesia, e con quelle tendenze si sviluppava la vita nazionale in tutt’i suoi indirizzi. Creare un mondo d’immaginazione, quando la guerra era appunto contro l’immaginazione in nome della scienza e della filosofia, era un andare a ritroso. Gozzi nacque troppo presto. Venne il tempo che la borghesia, spaventata da quelle esagerazioni che stomacavano Gozzi, si riafferrò a quel mondo soprannaturale, come a tavola di salute. Quello era il tempo di Gozzi; e Gozzi ci fu, e si chiamò Manzoni. Al suo tempo Gozzi fu un elemento contraddittorio e perciò inconcludente; e la sua idea, altamente estetica in astratto, riuscí un fatto letterario e artificiale. Volea ristorare l’antico, odiava le novitá, e senza saperlo le portava nel suo seno; ond’è che tratta quel suo mondo dell’immaginazione a quello stesso modo che il forense Goldoni rappresenta la sua societá borghese. Gli manca il chiaroscuro, gli manca l’impressione e il sentimento del soprannaturale; anzi il suo studio è di rappresentarlo con tutte le apparenze della naturalezza, come fosse un fatto vulgare e ordinario, a quel modo che andava predicando Goldoni. Perciò il suo stile non ha rilievo, il suo colorito non ha trasparenza, le sue tinte non sono fuse, e, volendo esser naturale, spesso ti casca nell’insipido e nel volgare. La naturalezza di questo mondo [p. 363 modifica]è nella ingenuitá delle sue impressioni, curiositá, maraviglia, sospensione, terrore, collera, pianti, riso, com’ è ne’ racconti delle societá primitive. Questa ingenuitá è perduta: la naturalezza di Gozzi è negligenza e volgaritá. Quelle apparizioni non hanno per lui serietá, sono giochi e passatempi: perciò scherzi abborracciati e senza alcun valore proprio, che, aiutati dalla mimica, da’ lazzi, dallo scenario, potevano produrre effetto nella rappresentazione, e alla lettura piacciono, senza che ti lascino nell’animo alcun vestigio. Il Baretti predicava in lui un nuovo Shakespeare; e, quando gli falli alla prova, se la prese con lui furiosamente, come l’avesse tradito, e dovea prendersela con se medesimo, che andava sognando uno Shakespeare nel secolo decimottavo. Che avvenne? La commedia popolana ritornò nel suo pantano, con le sue maschere, le sue indecenze e le sue volgaritá; e di Gozzi rimase una bella idea, presto dimenticata. La societá prendeva altra via e seguiva Goldoni.