Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/XX. La nuova letteratura/V.

XX. La nuova letteratura - V.

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Fondata la repubblica cisalpina, in quel primo fervore di libertá. Monti fu censurato per la sua Basvilliana con lo stesso furore che l’avevano applaudito. Un giovane scrisse la sua apologia. L’atto ardito piacque. E il giovane entrava nella vita tra la stima e la benevolenza pubblica. Parlo di Ugo Foscolo, formatosi alla scuola di Plutarco, di Dante e di Alfieri.

L’Italia, secondo il solito, se la contendevano francesi e tedeschi. Ritornava la storia, ma con altri impulsi. Non si trattava piú di dritti territoriali. La sete del dominio e dell’influenza era dissimulata da motivi piú nobili. Venivano in nome delle idee moderne. Gli uni gridavano «libertá e indipendenza nazionale»: dietro alle loro baionette ci era Voltaire e Rousseau. Gli altri, proclamatisi prima difensori del papa e ristoratori del vecchio, finivano promettitori di vera libertá e di vera indipendenza. Le idee marciavano appresso a’ soldati e penetravano ne’ piú umili strati della societá. Propaganda a suon di cannoni, che compí in pochi anni quello che avrebbe chiesto un secolo. Il popolo italiano ne fu agitato ne’ suoi piú intimi recessi: sorsero nuovi interessi, nuovi bisogni, altri costumi. E quando, dopo il i8i5, parve tutto ritornato nel primo assetto, sotto a quella vecchia superficie fermentava un popolo profondamente trasformato da uno spirito nuovo, che ebbe, come il vulcano, le sue periodiche eruzioni, finché non fu soddisfatto.

Quei grandi avvenimenti colsero l’Italia immatura e impreparata. Non ancora vi si era formato uno spirito nazionale, non [p. 385 modifica]aveva ancora una nuova personalitá, un consapevole possesso di se stessa. Il sole irradiava appena gli alti monti. Nella stessa borghesia, ch’era la classe colta, trovavi una confusione d’ idee vecchie e nuove, niente di chiaro e ben definito, audacie ed utopie mescolate con pregiudizi e barbarie. Non erano sorti avvenimenti atti a stimolare le passioni, a formare i caratteri. Priva d’iniziativa propria, aspettavano prima tutto da’ principi, poi tutto da’ forestieri. Fatti liberi e repubblicani senza merito loro, rimasero al séguito de’ loro liberatori, come clientela messa li per batter le mani e far la corte al padrone magnanimo. E quando, passato la luna di miele, il padrone ebbe i suoi capricci e prese aria di conquistatore e d’invasore, gittarono le alte grida, e cominciò il disinganno.

I centri piú attivi di questi avvenimenti furono Napoli e Milano, colá dove le idee nuove si erano mostrate piú vive. Napoli, fatta repubblica e abbandonata poco poi a se stessa, ebbe in pochi mesi la sua epopea. Febei voi. Pagano, Cirillo, Conforti, Manthoné, cui il patibolo cinse d’immortale aureola! La loro morte valse piú che i libri, e lasciò nel regno memorie e desidèri non potuti piú sradicare. Sfuggirono alla strage alcuni patrioti, che ripararono a Milano, e tra gli altri il Cuoco, che narrò gli errori e le glorie della breve repubblica con una sagacia aguzzata dall’esperienza politica. Milano divenne il convegno de’ piú illustri patrioti. Metastasio e Goldoni, Filangieri e Beccaria erano morti da pochi anni. Bettinelli, il Nestore, sopravviveva a se stesso. Alfieri, che ne’ primi entusiasmi avea cantata la liberazione dell’America e la presa della Bastiglia, vedute le esorbitanze della Rivoluzione, sdegnoso e vendicativo sfogava nel Misogallo, nelle Satire l’acre umore; e, contraddetto dagli avvenimenti, si seppelliva, come Parini, nel mondo antico, e, studiando il greco, finiva la vita nel riso sarcastico di commedie triste. Cesarotti, addormentato sugli allori, recitava dalla cattedra lodi ufficiali e scriveva in versi panegirici insipidi. Pietro Verri, salito in ufficio, maturava con poca speranza progetti e riforme. La vecchia generazione se ne andava al suono dei poemi lirici di Vincenzo Monti, professore, cavaliere. [p. 386 modifica]poeta di corte. I repubblicani a Napoli e a Milano venivano gallonati nelle anticamere regie. E non si senti piú una voce fiera, che ricordasse i dolori e gli sdegni e le vergogne, fra tanta pompa di feste e tanto strepito di armi.

Comparve Iacopo Ortis. Era il primo grido del disinganno, uscito dal fondo della laguna veneta, come funebre preludio di piú vasta tragedia. Il giovane autore aveva cominciato come Alfieri: si era abbandonato al lirismo di una insperata libertá. Ma, quasi nel tempo stesso, lui cantava l’eroe liberatore di Venezia, e l’eroe, mutatosi in traditore, vendeva Venezia all’Austria. Da un di all’altro Ugo Foscolo si trovò senza patria, senza famiglia, senza le sue illusioni, ramingo. Sfogò il pieno dell’anima nel suo Iacopo Ortis. La sostanza del libro è il grido di Bruto: «O virtú, tu non sei che un nome vano!». Le sue illusioni, come foglie di autunno, cadono ad una ad una, e la loro morte è la sua morte, è il suicidio. A breve distanza hai l’ideale illimitato di Alfieri con tanta fede, e l’ideale morto di Foscolo con tanta disperazione. Siamo ancora nella gioventú : non ci è il limite. Illimitate le speranze, illimitate le disperazioni. Patria, libertá, Italia, virtú, giustizia, gloria, scienza, amore, tutto questo mondo interiore dopo si lunga e dolorosa gestazione appena è fiorito, e giá appassisce. La veritá è illusione, il progresso è menzogna. Al primo riso della fortuna ci era la follia delle speranze; al primo disinganno ci è la follia delle disperazioni. Questo subitaneo trapasso di sentimenti illimitati al primo urto della realtá rivela quella agitazione d’idee astratte ch’era in Italia, venuta da’ libri e rimasta nel cervello, scompagnata dall’esperienza e non giunta ancora a temprare i caratteri. Trovi in questo Iacopo un sentimento morboso, una esplosione giovanile e superficiale, piú che l’espressione matura di un mondo lungamente covato e meditato, una tendenza piú alla riflessione astratta che alla formazione artistica, una immaginazione povera e monotona in tanta esagerazione dei sentimenti.

Il grido di Iacopo rimase sperduto fra il rumore degli avvenimenti. Sorsero nuove speranze, si fabbricarono nuove illusioni. Il romanzo, uscito anonimo, mutilato e interpolato, pura [p. 387 modifica]speculazione libraria, destò curiositá, fu il libro delle donne e de’ giovani, che vi pescavano un frasario amoroso. Ma non vi si die’ importanza politica né letteraria; anzi molti, tratti da somiglianze superficiali, lo dissero imitazione del Werther. Il fatto è che non rispondeva allo stato della pubblica opinione, distratta da cosi rapida vicenda di cose e di uomini; e quelle disperazioni erano contraddette dalle nuove speranze.

Foscolo si mescolò alla vita italiana e si senti fiero della sua nuova patria, della patria di Dante e di Alfieri. Le necessitá della vita lo incalzavano. E ancora piú, uno spirito guerriero che gli ruggia dentro e non trovava espansione, una forza inquieta in ozio. Giovane, pieno d’illusioni, appassionato, con tanto «furore di gloria», con tanto orgoglio al di dentro, con un grande desiderio di fare, e di fare grandi cose, lui, educato da Plutarco, stimolato da Alfieri, quell’ozio forzato lo gitta violentemente in sé, gli rode l’anima. È la malattia ch’egli chiama nel suo Ortis, con una energia piena di veritá, «consunzione dell’anima». Lo vedi a Milano, vagante, scontento, fremente, ora rinselvarsi, fantasticare, scrivere se stesso in verso, ora giocare, donneare, contendere, far baccano. Gli balena innanzi il suicidio, ed ha appena venti anni:


                                              Non son chi fui; peri di noi gran parte:
questo che avanza è sol languore e pianto.
     


In questa malattia di languore s’intenerisce, pensa alla madre, al fratello, alla sua lontana Zacinto, non senza certi ribollimenti, che annunziano la vigoria di una forza rósa, non doma. Alfieri a venti anni si sfogava correndo Europa : Foscolo si sfogava verseggiando. Le sue effusioni liriche sono la sua storia da’ sedici a’ venti anni. Ricomparisce in quei versi una intimitá dolce e malinconica, di cui l’Italia avea perduta la memoria, e gli veniva non solo dal Petrarca, ma dalla terra materna, dal suo sentire greco, dalle «corde eolie maritate alla grave itala cetra». Ecco versi, preludio di Giacomo Leopardi:


                                              Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra: a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.
     
[p. 388 modifica]L’esercizio della vita guari Foscolo. Soldato della repubblica, combattè a Cento, alla Trebbia, a Novi, a Genova. La vita militare gli ritornò il sapore della vita. Nelle odi A Luigia Pallavicini e All’amica risanata trovi un mondo musicale e voluttuoso, dove l’anima, guarita e gioiosa, si espande nella varietá della vita. La sua fama gli dá il gusto delle lettere e della poesia: traduce la Chioma di Berenice e vi appone un comento, dove fa sfoggio di una erudizione peregrina; tenta una traduzione dell’Iliade, emulo di Monti; scrive un’orazione pe’ comizi di Lione con pomposo artificio di stile e con gravitá e arditezza d’idee.

I Sepolcri stabilirono la sua riputazione e lo alzarono accanto a’ sommi. Fu chiamato per antonomasia l’«autore de’ Sepolcri». E, in veritá, questo carme è la prima voce lirica della nuova letteratura, l’affermazione della coscienza rifatta, dell’uomo nuovo.

Una legge della repubblica prescriveva l’uguaglianza de’ sepolcri, l’uguaglianza degli uomini innanzi alla morte. Quel fasto de’ sepolcri sembrava privilegio de’ nobili e de’ ricchi, e combattevano il privilegio, la distinzione delle classi anche in quella forma. — Parini dunque giacerá nella fossa comune accanto al ladro, — pensava Foscolo. Questa logica rivoluzionaria spinta fino agli ultimi corollari gli offuscava la poesia della vita, lo riconduceva nel mondo naturale e ferino, non ancora abitato dall’uomo. Né gli entrava quel trattar l’uomo come un puro animale. Sentiva in sé offeso il poeta e l’uomo. Mancava l’idea religiosa, che abbellisce la morte e mostra il paradiso sotto le oscure vòlte dell’obblio. Ma vivo era il senso dell’umanitá nel suo progresso e ne’ suoi fini, collegata con la famiglia, con la patria, con la libertá, con la gloria. Di lá cava Foscolo le sue armonie, una nuova religione de’ sepolcri : il sublime di un mondo naturale e ferino della morte è trasformato da’ sentimenti piú delicati dell’umanitá in un pantheon vivente, perché opera ancora su’ vivi, desta ricordanze e illusioni, accende a nobili fatti. Sono illusioni, senza dubbio; ma sono le illusioni dell’umanitá, eterne quanto essa, parte della sua storia. Il carme è una storia dell’umanitá da un punto di vista nuovo, una storia [p. 389 modifica]de’ vivi costruita da’ morti. Senti un’ ispirazione vichiana in questo mondo, che dagli oscuri formidabili inizi naturali e ferini la religione de’ sepolcri alza a stato umano e civile, educatrice di Grecia e d’Italia; il doppio mondo caro a Foscolo, che unisce in una sola contemplazione Ilio e Santa Croce. La storia è antica, ma il prospetto è nuovo, e ne nasce originalitá di forme e di colori. Ci è qui fuso inferno e paradiso, la vasta ombra gotica del nulla e dell’ infinito, e i sentimenti teneri e delicati di un cuore d’uomo: il tutto in una forma solenne e quasi religiosa, come di un inno alla divinitá.

La Rivoluzione sotto l’orrore de’ suoi eccessi rifaceva giá la sua via. Sopravvenivano idee piú temperate : si sentiva il bisogno di una restaurazione religiosa e morale. Il carme di Foscolo facea vibrare queste nuove corde. La musa non è piú Alfieri. Si accostavano i tempi di Vico.

Declamare contro i preti e contro la superstizione era il tono del secolo. Aggiungi i tiranni, i nobili, i privilegi, i monopoli. Si combatteva in nome della filosofia, della libertá, dell’economia pubblica. Qui il tono è altro.

Non può credere il poeta all’immortalitá dell’anima; pure, vorrebbe crederci. Sará una illusione, ma è crudeltá togliere illusioni che ci rendono febei, che ci abbelliscono la vita. Cosi la via è aperta ad un ritorno delle idee religiose, non in nome della veritá, ma in nome dell’umanitá e della poesia. Senti giá Châteaubriand.

Ma, se «purtroppo» è vero che il tempo traveste ogni cosa, che la materia solo è immortale e le forme periscono, non è vero che la morte dell’uomo sia il nulla. Il poeta gli fabbrica una nuova immortalitá. Restano di lui gli scritti, le idee, le geste, la memoria; la Musa anima il silenzio delle urne, e i viventi vi cercano ispirazioni e conforti. La pietá de’ defunti è la religione dell’umanitá, ove non si voglia che ricaschi nello stato ferino. Non vogliamo credere a un essere superiore, dispensatore del premio e della pena : sia pure, anzi purtroppo è cosi: «vero è ben, Pindemonte!». Ma, uomini, possiamo noi rifiutar fede all’umanitá? e vogliamo proprio togliere alla vita [p. 390 modifica]tutte le sue illusioni, tutta la sua poesia? Foscolo protesta come uomo e come poeta. È in lui sempre il secolo decimottavo, ma il secolo andato troppo innanzi nel suo lavoro di demolizione e che si arretra, cercando un punto di fermata nei sentimenti umani, via a’ sentimenti religiosi.

Queste cose Foscolo non le pensa solo, le sente. Ci era giá il patriota, il liber’uomo: qui apparisce l’uomo nella sua intimitá, ne’ delicati sentimenti della sua natura civile. L’uomo nuovo s’integra, il mondo interiore della coscienza si aggiunge nuovi elementi. Ed è da questa profonditá di sentire che sono uscite le piú belle ispirazioni della lirica italiana, il lamento di Cassandra, le impressioni di Maratona, l’apoteosi di Santa Croce. Il punto di vista è cosí elevato, che lo spettacolo d’Italia caduta cosí giú, materia di tanta rettorica, lo trova rassegnato e meditativo sulle alterne vicende delle umane sorti. Ci è vista di filosofo, cuore d’uomo e ispirazione di poeta.

Quando comparvero i Sepolcri, fu come si fosse tócca una corda che vibrava in tutt’ i cuori. E non fu minore l’impressione su’ letterati.

La nuova letteratura si era annunziata con la soppressione della rima. Alla terzina e all’ottava succedeva il verso sciolto. Era una reazione contro la cadenza e la cantilena. La nuova parola, confidente nella serietá del suo contenuto, non pur sopprimeva la musica, ma la rima: bastava ella sola a se stessa. Foscolo qui sopprime anche la strofa: e non era giá una tragedia o un poema, era una composizione lirica, alla quale egli osa togliere tutt’i mezzi cantabili e musicali della metrica. Qui è pensiero nudo, acceso nella immaginazione e prorompente, caldo di se stesso, con le sue consonanze e le sue armonie interne. Il verso, domato da tenace lavoro, rotte le forme tradizionali e meccaniche, vien fuori spezzato in sé, con nuove tessiture e nuovi suoni; e non è artificio : è voce di dentro, è la musica delle cose, la grande maniera di Dante. Anche il genere parve nuovo. Al sonetto e alla canzone succedeva il carme, forma libera di ogni esterno meccanismo. Era il poema lirico del mondo morale e religioso, l’elevazione dell’anima nelle [p. 391 modifica]alte sfere dell’umanitá e della storia, una ricostruzione della coscienza o dell’uomo interiore al di sopra delle passioni contemporanee, era l’uomo intero nella esterioritá della sua vita di patriota e di cittadino e nella intimitá de’ suoi affetti privati, era l’aurora di un nuovo secolo. Il carme preludeva all’inno. Foscolo batteva alle porte del secolo decimonono.

Entrato in questa via, mette mano ad altri carmi: l’Alceo, la Sventura, l’Oceano. Ma non trova piú la prima ispirazione: compone a freddo, letterariamente, gli escono frammenti, niente giunge a maturitá. Comparvero ultime le Grazie. Lavoro finissimo di artista, ma il poeta quasi non ci è piú.

Rimane un Foscolo in prosa. Hai innanzi la sua Prolusione, le sue lezioni, i suoi scritti critici. Non è prosa francese e non toscana, voglio dire che vi desideri la grazia e la vivezza toscana, e la logica e il brio francese. È una prosa personale, ancora in formazione, piena di reminiscenze latine e oratorie, con una tendenza alla maestá e alla forza. Mostra piú calore d’immaginazione che vigore d’intelletto.

Il concetto dominante di questa prosa è l’uomo soprapposto al letterato. Foscolo ti dá la formola della nuova letteratura. La sua forza non è al di fuori, ma al di dentro, nella coscienza dello scrittore, nel suo mondo interiore. Dante e Petrarca, visti da questo aspetto, risplendono di nuova luce. Lo stile si scioglie dall’elocuzione e da ogni artificio tecnico, e s’ interna nel pensiero e nel sentimento. Lo stesso Beccaria è oltrepassato. Ci avviciniamo all’estetica. Non ci è ancora la scienza, ma ce n’ è il gusto e la tendenza.

E ci è ancora di piú. Vi rinasce il gusto delle investigazioni filologiche e storiche, tenute in tanto disprezzo da un secolo che faceva tavola di tutto il passato. L’Italia vi ripiglia le sue tradizioni e si ricongiunge a Vico e Muratori.

Foscolo apriva la via al nuovo secolo. E non è dubbio che, se il progresso umano avvenisse non in modo tumultuario, ma in modo logico e pacifico, l’ultimo scrittore del secolo decimottavo sarebbe stato anche il primo scrittore del secolo decimonono, il capo della nuova scuola. Ma quel progresso [p. 392 modifica]vestiva aspetto di reazione, e in quella sua forma negativa e violenta offendeva le idee e le forme di un secolo, del quale Foscolo si sentiva complice. Gli spiaceva soprattutto la guerra mossa alle forme mitologiche. Sentiva in quelle negazioni negato se stesso. E quando avea giá moderate molte sue opinioni religiose e politiche, e s’era fatto della vita un concetto piú reale, e s’era spogliata gran parte delle sue illusioni, quando stava giá con l’un piè nel nuovo secolo; calunniato, disconosciuto, dimenticato, nel continuo flutto delle sue contraddizioni, fini tristo, lanciando al nuovo secolo, come una sfida, le sue Grazie, l’ultimo fiore del classicismo italiano.

Foscolo mori nel i827. E giá si erano levati sull’orizzonte Pellico, Manzoni, Grossi, Berchet. Comparsa era la scuola romantica, l’audace scuola boreale.