Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/XVI. Pietro Aretino
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XVI
[Il mondo guicciardiniano dell’egoismo: espressione estrema, l’Aretino — Sua vita e carattere — L’audacia e il successo — I suoi appetiti e le forze per soddisfarli — La letteratura come speculazione industriale: libri osceni e vite di santi — Non malvagio per natura, ma per bisogno e calcolo: sue qualitá buone — Sua importanza come scrittore — Il meccanizzamento della cultura, della forma letteraria e della lingua: la pedanteria — L’Aretino contro l’ipocrisia e la pedanteria: sua indipendenza critica — La critica delle arti figurative: il sentimento della natura pittorica — Il suo scrivere parlato — E il suo scrivere prezioso, pur solcato da lampi geniali — I suoi imitatori — Le commedie del Cinquecento (G. M. Cecchi) é quelle dell’Aretino — Si beffano di ogni regola — Rappresentazioni del mondo furfantesco.]
Il mondo teologico-etico del medio evo tocca l’estremo della sua contraddizione in questo mondo positivo del Guicciardini, un mondo puramente umano e naturale, chiuso nell’egoismo individuale, superiore a tutt’i vincoli morali che tengono insieme gli uomini. Il ritratto vivente di questo mondo, nella sua forma piú cinica e piú depravata, è Pietro Aretino. L’immagine del secolo ha in lui l’ultima pennellata.
Pietro nacque nel i492, in uno spedale di Arezzo, da Tita, la bella cortigiana, la modella scolpita e dipinta da parecchi artisti. Senza nome, senza famiglia, senza amici e protettori, senza istruzione. «Tanto andai a la scola quanto intesi la santa croce: componendo ladramente, merito scusa, e non quegli che lambiccano l’arte dei greci e dei latini.» A tredici anni rubò la madre e fuggí a Perugia, e si allogò presso un legatore di libri. A diciannove anni, attirato dalla fama della corte di Roma e che tutti vi si facevano ricchi, vi giunse che non aveva un quattrino, e fu ricevuto domestico presso un ricco negoziante. Agostino Chigi, e poco poi presso il cardinale di San Giovanni. Cercò fortuna presso papa Giulio; e, non riuscitogli, vagando e libertineggiando per la Lombardia, da ultimo si fe’ cappuccino in Ravenna. Salito al pontificato Leone decimo e concorrendo a quella corte letterati, buffoni, istrioni, cantori, ogni specie di avventurieri, gli parve li il suo posto: smise l’abito e corse a Roma, e vesti la livrea del papa, divenne suo valletto. Spiritoso, allegro, libertino, sfacciato, mezzano, in quella scuola compí la sua educazione e la sua istruzione. Imparò a chiudere in quattordici versi le sue libidini e le sue adulazioni e le sue buffonerie, e ne fe’ traffico e ne cavò di bei quattrini. Ma era sempre un valletto, e poco gli era a sperare in una corte dove s’improvvisava in latino. Armato di lettere di raccomandazione, va a Milano, a Pisa, a Bologna, a Ferrara, a Mantova, e si presenta a principi e monsignori sfacciatamente, con aria e prosunzione di letterato. Studia come una donna l’arte di piacere, e aiuta la ciarlataneria con la compiacenza:
Io mi ritrovo in Mantova appresso il signor marchese in sua tanta grazzia, che il dormir e il mangiar lascia per ragionar meco, e dice non aver altro intero piacere, ed ha scritto al cardinale cose di me che veramente onorevolmente mi gioveranno, e son io regalato di trecento scudi... Tutta la corte m’adora, e par beato chi può avere un de’ miei versi; e quanti mai feci, il signore gli ha fatti copiare, ed ho fatto qualcuno in sua lode. E cosí sto qui, e tutto il giorno mi dona, e gran cose, che le vedrete ad Arezzo... A Bologna mi fu cominciato a essere donato; il vescovo di Pisa mi fe’ fare una casacca di raso nero ricamata in oro, che non fu mai la piú superba...
Gli danno del «messere» e del «signore»: il valletto è un gentiluomo, e torna a Roma tra paggi di taverna, e vestito come un duca, compagno e mezzano de’ piaceri signorili, e con a lato gli Estensi e i Gonzaga, che gli hanno familiarmente la mano sulla spalla. Continua il mestiere cosí bene incominciato. Una sua «laude» di Clemente settimo gli frutta la prima pensione: sono versacci:
Or queste si che saran lodi, queste lodi chiare saranno, e sole e vere, appunto come il vero e come il sole. |
Il suo spirito, il suo umore gioviale, l’estro libidinoso gli acquistarono tanta riputazione, che, fuggito di Roma per i suoi sedici sonetti illustrativi de’ disegni osceni di Giulio Romano, fu cercato come un buon compagnone da Giovanni de’ Medici, capo delle «bande nere», detto il «gran diavolo». Aveva poco piú che trent’anni. Giovanni e Francesco primo se lo disputano. Giovanni voleva fare signore di Arezzo il suo compagno di orgie e di libidini, quando una palla tedesca gli troncò il disegno e la vita. Pietro avea coscienza oramai della sua forza. E, lasciando le corti, riparò in Venezia come in una ròcca sicura, e di lá padroneggiò l’Italia con la penna. Udiamo lui stesso, come si dipinge nelle sue lettere:
Io, che nella libertá di cotanto Stato ho fornito d’ imparare a esser libero, refuto la corte in eterno, e qui [a Venezia] faccio perpetuo tabernacolo agli anni che mi avanzano, perché qui non ha luogo il tradimento, qui il favore non può far torto al diritto, qui non regna la crudeltá de le meretrici, qui non comanda l’insolenza degli effeminati, qui non si ruba, qui non si forza e qui non si ammazza... Oh patria universale! Oh libertá comune! Oh albergo de le genti disperse!... Ella t’abraccia s’altri ti schifa, ella ti regge s’altri t’abatte, ella ti pasce s’altri ti affama, ella ti riceve s’altri ti caccia, e, nel rallegrarti nelle tribulazioni, ti conserva in caritá e in amore.
Per divina grazia uomo libero...
Io mi rido dei pedanti...
Io non mi son tolto dagli andari del Petrarca né del Boccaccio per ignoranza, ché pur so ciò che essi sono, ma per non perder il tempo, la pacienza e ’l nome nella pazzia del volermi trasformar in loro, non essendo possibile. Piú prò fa il pane asciutto in casa sua che l’accompagnato con molte vivande a l’altrui tavola. Io me ne vado passo passo per il giardino de le muse, non mai cadendomi parola che sappia di lezzo vecchino. Io porto il viso de l’ingegno smascarato, e il mio non saper un’acca insegna a quegli che sanno che le «elle» e le «emme»; talché oggimai doverebbe acquetarsi chi non crede che il cielo abbia migliore scola che i Dottrinale novellis...
Circa le cose di Fiorenza... me ne do pochissima cura, avenga che i fondamenti de le mie speranze son posti in Dio e in Cesare, e, grazia de le Lor Maestá, aggiugnendoci cento scudi di pensione che mi dá il marchese del Vasto e altretanti che me ne paga il principe di Salerno, ne ho seicento di rendita, con mille appresso che me ne procaccio l’anno con un quaterno di fogli e con una ampolla d’ inchiostro: onde vivo come si sa per questa cittá serenissima...
Oltra le medaglie di conio, di getto, in oro, in ariento, in rame, in piombo e in istucco, io tengo il naturale de la effigie nelle facciate dei palazzi; io l’ho improntata ne le casse dei pettini, negli ornamenti degli specchi, nei piatti di maiolica, al par d’Alessandro, di Cesare e di Scipio. E piú vi affermo che a Murano alcune sorti di vasi di cristallo si chiamano gli «aretini». E l’«aretina» nominasi la razza degli ubini, in memoria d’una che a me Clemente papa ed io a Federigo duca diedi. Il «rio dell’Aretino» è battezzato quel che bagna un dei lati della casa ch’io abito sul gran Canale. E per piú crepaggine dei pedagoghi, oltra il dirsi lo «stile aretino», tre mie cameriere o massare, da me partite e signore diventate, si fanno chiamare l’«aretine». Si che ci è dei guai circa il voler arrivare a tal segno per mezzo del «ianua sum rudibus».
E non erano ciarle. L’Ariosto dice di lui : «il flagello De’ principi, il divin Pietro Aretino». Un pedante, parlando delle lettere dell’Aretino e del Bembo, diceva al Bembo: — Chiameremo voi il nostro Cicerone, e lui il nostro Plinio. — Purché Pietro se ne contenti — rispose il Bembo. E non se ne contentava. A Bernardo Tasso, che vantava le sue lettere, scrive:
Egli è certo che il troppo amore che portate alle cose vostre e il non punto che tenete dell’altrui vi hanno messo in compromessa il giudizio... Oltra il confrontarvi con l’openione di chi sa, venivansi confermando ancora i modi del proceder vostro in le pistole, nel cui necessario essercizio supplite al mancamento del non mi potere contrafare in le sentenzie né in le comparazioni (che in me nascono e in voi moiono) coi lisci e coi belletti delle fertili corrispondenzie, ch’io uso nell’ordine... Invero che nel contesto di simili andari mi venite drieto a piè saldi. Né potreste però fare altrimenti, essendo il vostro gusto inclinato piú all’ardore dei fiori che al sapore dei frutti; onde con grazia di stile angelico e con maniera d’armonia celeste risonate in gli epitalami e negli inni; le cui soavitá di dolcezze non si convengono in lettere, ché a loro bisogna il rilievo della invenzione e non la miniatura dell’artifizio... Or perché non è errore il laudarsi all’uomo di qualche merito in presenzia di chi noi conosce, a ciò sappiate chi sono, massime nello scrivere lettere, vengo a dirvi... Ma, da che il presumersi è un fumo di grandezze in ombra, il quale acceca m modo chi gli pare essere e non è, che si rimane assai da meno ch’ei non si teneva da piú, io, per non simigliarmi alla spezie di tali, non dico che i vertuosi dovrebbono farsi il di, che ci nacqui, festivo, da che io, senza correr poste, senza servir corti e senza mover passo, ho fatto alla vertú tributario qualunche duce, qualunche principe e qualunche monarca si sia, e perché in tutto il mondo per me negozia la Fama. In la Persia e nell’ India il mio ritratto si pregia e il mio nome si stima... In ultimo vi saluto, con assicurarvi che nessuno in compor lettere vi biasima per invidia, ma ben molte in averle composte vi laudano per compassione.
Tale si teneva e tale lo teneva il mondo. Fu creduto un grand’uomo sulla sua fede. Non mirava alla gloria: dell’avvenire se ne infischiava; voleva il presente. E l’ebbe, piú che nessun mortale. Medaglie, corone, titoli, pensioni, gratificazioni, stoffe d’oro e d’argento, catene e anella d’oro, statue e dipinti, vasi e gemme preziose: tutto ebbe che la cupiditá di un uomo potesse ottenere. Giulio terzo lo nominò cavaliere di San Pietro. E per poco non fu fatto cardinale. Avea di sole pensioni ottocento venti scudi. Di gratificazioni ebbe in di ciotto anni venti cinquemila scudi. Spese durante la sua vita piu di un milione di franchi. Gli vennero regali fino dal corsaro Barbarossa e dal sultano Solimano. La sua casa principesca è affollata di artisti, donne, preti, musici, monaci, valletti, paggi; e molti gli portano i loro presenti : chi un vaso d’oro, chi un quadro, chi una borsa piena di ducati, e chi abiti e stoffe. Sull’ingresso vedi un busto di marmo bianco coronato di alloro: è Pietro Aretino. Aretino a dritta. Aretino a manca: guardate nelle medaglie, d’ogni grandezza e d’ogni metallo, sospese alla tappezzeria di velluto rosso: sempre l’immagine di Pietro Aretino. Morí a sessantacinque anni, il i557; e di tanto nome non rimase nulla. Le sue opere poco poi furono dimenticate; la sua memoria è infame: un uomo ben educato non pronunzierebbe il suo nome innanzi a una donna.
Chi fu dunque questo Pietro, corteggiato dalle donne, temuto dagli emuli, esaltato dagli scrittori, cosí popolare, baciato dal papa e che cavalcava a fianco di Carlo quinto? Fu la coscienza e l’immagine del suo secolo. E il suo secolo lo fece grande.
Machiavelli e Guicciardini dicono che l’appetito è la leva del mondo. Quello che essi pensarono, Pietro fu.
Ebbe da natura grandi appetiti e forze proporzionate. Vedi il suo ritratto, fatto da Tiziano. Figura di lupo che cerca la preda. L’incisore gli formò la cornice di pelle e zampe di lupo; e la testa del lupo, assai simile di struttura, sta sopra alla testa dell’uomo. Occhi scintillanti, narici aperte, denti in evidenza per il labbro inferiore abbassato, grossissima la parte posteriore del capo, sede degli appetiti sensuali, verso la quale pare che si gitti la testa, calva nella parte anteriore.— Figlio di cortigiana, anima di re, — dice lui. Legatore di libri, valletto del papa, miserie! I suoi bisogni sono infiniti. Non gli basta mangiare: vuole gustare; non gli basta il piacere: vuole la voluttá; non gli basta il vestire: vuole lo sfarzo; non gli basta arricchire: vuole arricchire gli altri, spendere e spandere. E a chi se ne maraviglia risponde: — Ebbene, che farci a questo? Se io son nato per vivere cosí, chi m’impedirá di vivere cosí? — I suoi sogni dorati sono vini squisiti, cibi delicati, ricchi palagi, belle fanciulle, belli abiti. Di ciò che appetisce, ha il gusto. E nessuno è giudice piú competente in fatto di buoni bocconi e di godimenti leciti e illeciti. È in lui non solo il senso del piacere, ma il senso dell’arte. Cerca ne’ suoi godimenti il magnifico, lo sfarzoso, il bello, il buon gusto, l’eleganza1.
Ed ha forze proporzionate a’ suoi appetiti : un corpo di ferro, una energia di volontá, la conoscenza e il disprezzo degli uomini, e quella maravigliosa facoltá che il Guicciardini chiama «discrezione», il fiuto, il da fare caso per caso. Sa quello che vuole. La sua vita non è scissa in varie direzioni : uno è lo scopo, la soddisfazione de’ suoi appetiti, o, come dice il Guicciardini, il suo «particulare». Tutti i mezzi sono eccellenti, e li adopera secondo i casi. Ora è ipocrita, ora è sfacciato, ora è strisciante, ora è insolente. Ora adula, ora calunnia. La credulitá, la paura, la vanitá, la generositá dell’uomo sono in mano sua un ariete per batterlo in breccia ed espugnarlo. Ha tutte le chiavi per tutte le porte. Oggi un uomo simile sarebbe detto un «camorrista», e molte sue lettere sarebbero chiamate «ricatti». Il maestro del genere è lui. Specula soprattutto sulla paura. Il linguaggio del secolo è officioso, adulatorio : il suo tono è sprezzante e sfrontato. Le calunnie stampate erano peggio che pugnali; cosa stampata voleva dir cosa vera: e lui mette a prezzo la calunnia, il silenzio e l’elogio. Non gli spiacea aver nome di mala lingua, anzi era una parte della sua forza. Francesco primo gl’inviò una catena d’oro, composta di
lingue incatenate e con le punte vermiglie, come intinte nel veleno, con sópra vi questo esergo: «Lingua eius loquetur mendacium». Aretino gli fa mille ringraziamenti. Quando non gli conviene dir male delle persone, dice male delle cose, tanto per conservarsi la reputazione, come sono le sue intemerate contro gli ecclesiastici, i nobili, i principi. Cosí l’uomo abbietto fu tenuto un apostolo e fu detto «flagello de’ principi». Talora trovò chi non aveva paura. Achille della Volta gli die’ una pugnalata. Nicolò Franco, suo segretario, gli scrisse carte di vitupèri. Pietro Strozzi lo minaccia di ucciderlo, se si attenta a pronunziare il suo nome. È bastonato, sputacchiato. È lui allora che ha paura, perché era vile e poltrone. L’ambasciatore d’Inghilterra lo bastona, ed egli loda il Signore che gli accorda la facoltá di perdonare le ingiurie. Giovanni, il «gran diavolo», morendo gli disse: — Ciò che piú mi fa soffrire è vedere un poltrone. — Ma in generale amavano meglio trattarlo come Cerbero, e chiudergli i latrati gittandogli un’offa. Le sue lettere sono capilavori di malizia e di sfrontatezza. Prende tutte le forme e tutti gli abiti, dal buffone e dal millantatore sino al sant’uomo calunniato e disconosciuto. Come saggio, ecco una sua lettera alla piissima e petrarchesca marchesa di Pescara, che lo aveva esortato a cangiar vita e a scrivere opere pie:
... Confesso che mi faccio men utile al mondo e men grato a Cristo, consumando lo studio in ciance bugiarde e non in opre vere. Ma d’ogni male è cagione la voluptá d’altrui e la necessitá mia. Ché se i principi fussero tanto chietini quanto io bisognoso, non ritrarei con la penna se non «misereri». Eccellente madonna, tutti non hanno la grazia della divina inspirazione. Essi ardono sempre della concupiscenzia, e voi abbrusciate ogni ora del foco angelico, e sonvi gli uffici e le prediche quel che sono a loro le musiche e le comedie. Voi non volgereste gli occhi a Ercole nelle fiamme né a Marsia senza pelle, ed essi non terrebbero in camera san Lorenzo sulla grata né lo apostolo scorticato. Ecco: il mio compar Bruciolo intitola la Bibia al re, che è pur cristianissimo, e in cinque anni non ha avuta risposta. E forse che il libro non era ben tradutto e ben legato? Onde la mia Cortigiana, che ritrasse da lui la gran catena, non si rise del suo Testamento vecchio, perché non è onesto. Si che merito scusa delle ciance, da me composte per vivere e non per malizia. Ma cosí vi spirasse Giesú a farmi contare da messer Sebastiano da Pesaro, dal quale ho ricevuto i trenta scudi che gli imponeste, il resto, ch’io debbo, come egli è il vero.
All’ultimo una stoccata, come si direbbe oggi. È una lettera tirata giú di un fiato da un genio infernale. Con che bonomia si beffa della pia donna, avendo aria di farne l’elogio! Con che cinismo proclama le sue speculazioni sulla libidine e sulla oscenitá umana, come fossero la cosa piu naturale di questo mondo! Specula pure sulla divozione, e con pari indifferenza scrive libri osceni e vite di santi, il Ragionamento della Nanna e la Vita di santa Caterina da Siena, la Cortigiana errante e la Vita di Cristo. E perché no, posto che traeva guadagno di qua e di lá? Scrisse di ogni materia e in ogni forma: dialoghi, romanzi, epopee, capitoli, commedie, e anche una tragedia, l’Orazia. Immagina quali eroi possono essere gli Orazi, quale eroina l’Orazia, e che specie di popolo romano può uscire dall’ immaginazione di Pietro. Pure è il solo lavoro che abbia intenzioni artistiche, fatto ch’era giá vecchio e sazio, e cupido piú di gloria che di danari. Gli riuscí una freddura, un mondo astratto e pedestre, di cui non comprese la semplicitá e la grandezza. Negli altri suoi lavori senti lui nella veritá della sua natura, dedito a piacere al suo pubblico, a interessarlo, a guadagnarselo, a fare effetto. Ci è innanzi a lui una specie di mercato morale: conosce qual è la merce piú richiesta, piú facile a spacciare e a piú caro prezzo. Si fa una coscienza e un’arte posticcia, variabile secondo i gusti del suo padrone, il pubblico. Perciò fu lo scrittore piú alla moda, piú popolare e meglio ricompensato. I suoi libri osceni sono il modello di un genere di letteratura, che sotto nome di «racconti galanti» invase l’Europa. L’oscenitá era una salsa molto ricercata in Italia dal Boccaccio in poi: qui è essa l’intingolo. Le vite di santi sono veri romanzi, dove ne sballa di ogni sorta, solleticando la natura fantastica e sentimentale delle pinzochere. Fabbro di versi assai grossolano, senti ne’ suoi sonetti e capitoli la bile e la malignitá congiunta con la servilitá. Cosí, alludendo alla munificenza di Francesco primo, dice a Pier Luigi Farnese:
Impara tu, Pier Luigi ammorbato, impara, ducarei da tre quattrini, il costume da un re tanto onorato. Ogni signor di trenta contadini e di una bicoccazza usurpar vuole le cerimonie de’ culti divini. |
Pietro non è un malvagio per natura. È malvagio per calcolo e per bisogno. Educato fra tristi esempi, senza religione, senza patria, senza famiglia, privo di ogni senso morale, con i piú sfrenati appetiti e con molti mezzi intellettuali per soddisfarli, il centro dell’universo è lui : il mondo pare fatto a suo servizio. Su questa base, la sua logica è uguale alla sua tempra. Ha una chiara percezione de’ mezzi e nessuna esitazione o scrupolo a metterli in atto. E non lo dissimula, anzi se ne fa gloria : è li la sua forza, e vuole che tutti ne sieno persuasi. Il mondo era un po’ a sua immagine. Molti erano che avrebbero voluto imitarlo; ma non avevano il suo ingegno, la sua operositá, la sua penetrazione, la sua versatilitá, il suo spirito. Perciò l’ammiravano. Fra tanti avventurieri e condottieri, di cui l’Italia era ammorbata, gente vagabonda senza principi, senza professione e in cerca di una fortuna a qualunque costo, il principe, il modello era lui. Tiziano lo chiama il «condottiero della letteratura». E lui non se ne offende : se ne pavoneggia. Lasciato alla sua spontaneitá, quando non lo preme il bisogno e non opera per calcolo, scopre buone qualitá. È allegro, conversevole, liberale; anzi magnifico, amico a tutta prova, riconoscente, ammiratore de’ grandi artisti, come di Michelangiolo e di Tiziano. Aveva la logica del male e la vanitá del bene.
Pietro, come uomo, è un personaggio importante, il cui studio ci tira bene addentro ne’ misteri della societá italiana, della quale era immagine, in quella sua mescolanza di depravazione morale, di forza intellettuale e di sentimento artistico. Ma non è meno importante come scrittore.
La coltura tendeva a fissarsi e a meccanizzarsi. Non si discuteva piú se si aveva a scrivere in volgare o in latino. Il volgare aveva conquistato oramai il suo dritto di cittadinanza. Ma si discuteva se il volgare si avesse a chiamare «toscano» o «italiano». E non era contesa di parole, ma di cose. Perché molti scrittori pretendevano di scrivere come si parlava dall’un capo all’altro d’Italia, e non erano disposti di andare a prender lezione in Firenze. Amavano meglio latinizzare che toscaneggiare. Riconoscevano come modelli il Boccaccio e il Petrarca, ma non davano alcuna autoritá alla lingua viva. Lingua viva era per loro il linguaggio comune, che atteggiavano alla latina e alla boccaccevole. Questo meccanismo era accettato generalmente: se non che in Firenze il fondo della lingua non era il linguaggio comune, mescolato di elementi locali, siculi, lombardi, veneti; ma l’idioma toscano, cosí com’era stato maneggiato dagli scrittori. E Firenze, esaurita la produzione intellettuale, alzò le colonne di Ercole nel suo vocabolario della Crusca, e disse: — Non si va piú oltre. — Il Bembo e piú tardi il Salviati fissarono le norme grammaticali. E le regole dello scrivere in tutt’i generi furono fissate nelle «rettoriche», traduzioni o raffazzonamenti di Aristotele, Cicerone e Quintiliano. Si giunse a questo: che Giulio Camillo pretendea d’insegnare tutto il sapere mediante un suo meccanismo. Tendenza al meccanizzare, che è fenomeno costante in tutte le etá che la produzione si esaurisce, e la coltura si arresta e si raccoglie nelle sue forme e si cristallizza.
Pietro, di mediocrissima coltura, considera tutte queste regole come pedanteria. La sua vita interiore, cosí spontanea e piena di forza produttiva, mal vi si può adagiare. Il pedantismo è il suo nemico e lo combatte corpo a corpo. E chiama «pedantismo» quel veder le cose non in se stesse e per visione diretta, ma a traverso di preconcetti, di libri e di regole. Quegl’ inviluppi di parole e di forme gli sono cosí odiosi come l’ipocrisia, quel covrirsi della larva di un’affettata modestia, invilupparsi nella pelle della volpe e predicar l’umiltá e la decenza, senza valer meglio degli altri.
Quanto saria meglio — scrive al cardinale di Ravenna — per un gran maestro il tenere in casa uomini fedeli, gente libera e persone di buona volontá, senza inneggiarsi de la volpina modestia dei pedanti asini degli altrui libri, i quali, poi che hanno assassinato i morti e con le lor fatiche imparato a gracchiare, non riposano fino a tanto che non crocifiggano i vivi. E che sia il vero: la pedanteria avvelenò Medici, la pedanteria scannò il duca Alessandro, la pedanteria ha messo in castello Ravenna, e, quel ch’è peggio, ella ha provocata l’eresia contra la fede nostra per bocca di Lutero, pedantissimo.
Non è meno implacabile verso il pedantismo letterario. Al Dolce scrive:
Andate pur per le vie che al vostro studio mostra la natura... Il Petrarca e il Boccaccio sono imitati da chi esprime i concetti suoi con la dolcezza e con la leggiadria con cui dolcemente e leggiadramente essi andarono esprimendo i loro, e non da chi gli saccheggia, non pur dei «quinci», dei «quindi» e dei «soventi» e degli «snelli», ma dei versi interi... Il cacar sangue dei pedanti che vogliano poetare rimoreggia de l’imitazione, e, mentre ne schiamazzano negli scartabelli, la trasfigurano in locuzione, ricamandola con parole tisiche in regola. O turba errante, io ti dico e ridico che la poesia è un ghiribizzo de la natura nelle sue allegrezze; il qual si sta nel furor proprio, e, mancandone, il cantar poetico diventa un cimbalo senza sonagli e un campanil senza campane: per la qual cosa chi vuol comporre e non trae cotal grazia da le fasce è un zugo infreddato... Imparate ciò ch’io favello da quel savio dipintore, il quale, nel mostrare a colui, che il dimandò chi egli imitava, una brigata d’uomini col dito, volse inferire che dal vivo e dal vero toglieva gli esempi, come gli tolgo io parlando e scrivendo. La natura istessa, de la cui semplicitá son secretano, mi detta ciò che io compongo... È certo ch’io imito me stesso, perché la natura è una compagnona badiale che ci si sbraca, e l’arte una piattola che bisogna che si apicchi: si che attendete a esser scultor di sensi e non mmiator di vocaboli.
Parecchi scrivevano allora cosí alla naturale, e basta citare fra tutti il Cellini, tutto vita e tutto cose. Ma il Cellini si teneva un ignorante, e voleva che il Varchi riducesse la sua Vita nella forma de’ dotti; dove l’Aretino si teneva superiore a tutti gli altri, e dava facilmente del «pedante» a quelli che lambiccavano le parole. Ci è in lui una coscienza critica cosí diritta e decisa, che in quel tempo ci dee parere straordinaria. La stessa libertá e altezza di giudizio portò nelle arti, di cui aveva il sentimento.
A Michelangiolo scrive: «Sospirai il suo merito sf grande ed il mio potere sí picciolo». Il suo favorito è il suo amico e compare Tiziano, il cui realismo cosí pieno e quasi sensuale si affá alla sua natura. Preso di febbre, si appoggia alla finestra, e guarda le gondole e il Canal grande di Venezia, e rimane pensoso e contemplativo, lui, Pietro Aretino! La vista della bella natura lo purifica, Io trasforma. E scrive al Tiziano:
... Quasi uomo, che, fatto noioso a se stesso, non sa che farsi de la mente, non che dei pensieri, rivolgo gli occhi al cielo, il quale, da che Iddio lo creò, non fu mai abbellito da cosí vaga pittura di ombre e di lumi, onde l’aria era tale, quale vorrebbono esprimerla coloro che hanno invidia a voi per non poter esser voi... I casamenti,... benché sien pietre vere, parevano di materia artificiata. E dipoi scorgete l’aria, ch’io compresi in alcun luogo pura e viva, in altra parte torbida e smorta. Considerate anco la maraviglia ch’io ebbi dei nuvoloni,... i quali, in la principal veduta, mezzi si stavano vicini ai tetti degli edifici e mezzi nella penultima, peroché la diritta era tutta d’uno sfumato pendente in bigio nero. Mi stupii certo del color vario di cui essi si dimostravano: i piú vicini ardevano con le fiamme del foco solare, e i piú lontani rosseggiavano d’uno ardore di minio non cosí bene acceso. Oh, con che belle tratteggiature i pennelli naturali spingevano l’aria in lá, discostandola dai palazzi con il modo che la discosta il Vecellio nel far dei paesi! Appariva in certi lati un verde azurro, e in alcuni altri un azurro verde veramente composto da le bizzarrie de la natura, maestra dei maestri. Ella con i chiari e con gli scuri sfondava e rilevava in maniera,... che io, che so come il vostro pennello è spirito dei suoi spiriti, e tre e quattro volte esclamai: — O Tiziano, dove sète mò? — Per mia fé che, se voi aveste ritratto ciò ch’io vi conto, indurreste gli uomini nello stupore che confuse me.
È notabile che questo sentimento della natura vivente, de’ suoi colori e de’ suoi chiaroscuri, non produce nella sua anima alcuna impressione o elevatezza morale, ma solo un’ammirazione o stupore artistico, come in un italiano di quel tempo. Vede la natura a traverso il pennello di Tiziano e del paesista Vecellio, ma la vede viva, immediata, e con un sentimento dell’arte che cerchi invano nel Vasari. Fra tante opere pedantesche di quel tempo intorno all’arte e allo scrivere, le sue lettere artistiche e letterarie segnano i primi splendori di una critica indipendente, che oltrepassa i libri e le tradizioni e trova la sua base nella natura.
Quale il critico, tale lo scrittore. Delle parole non si dá un pensiero al mondo. Le accoglie tutte, onde che vengano e quali che sieno: toscane, locali e forestiere, nobili e plebee, poetiche e prosaiche, aspre e dolci, umili e sonore. E n’esce uno scrivere che è il linguaggio parlato anche oggi comunemente in Italia dalle classi colte. Abolisce il periodo, spezza le giunture, dissolve le perifrasi, disfá ripieni ed ellissi, rompe ogni artificio di quel meccanismo che dicevasi «forma letteraria», s’accosta al parlar naturale. Nel Lasca, nel Cellini, nel Cecchi, nel Machiavelli ci è la stessa naturalezza; ma ci senti l’impronta toscana, tutta grazia. Questi è un toscano ineducato, figlio della natura, vivuto fuori del suo paese, e che parla tutte le lingue fra le quali esercita le sue speculazioni. Fugge il toscaneggiare come una pedanteria; non cerca la grazia: cerca l’espressione e il rilievo. La parola è buona quando gli renda la cosa atteggiata come è nel suo cervello, e non la cerca: gli viene innanzi cosa e parola, tanta è la sua facilita. Non sempre la parola è propria e non sempre adatta, perché spesso scarabocchia e non scrive, abusando della sua facilita. Il suo motto è: «Come viene viene», e nascono grandi ineguaglianze. Di Cicerone e del Boccaccio non si dá fastidio, anzi fa proprio l’opposto, cercando non magnificenza e larghezza di forme, nelle quali si dondola un cervello indolente, ma la forma piú rapida e piú conveniente alla velocitá delle sue percezioni. E neppure affetta brevitá, come il Davanzati, cervello ozioso, tutto alle prese con le parole e gl’ incisi; perché la sua attenzione non è al di fuori, è tutta al di dentro. Abbandona i procedimenti meccanici, non cura le finezze e le lascivie della forma. Ha tanta forza e facilitá di produzione e tanta ricchezza di concetti e d’immagini, che tutto esce fuori con impeto e per la via piú diritta. Non ci è intoppo, non ci è digressione o distrazione: pronto e deciso nello stile come nella vita. Mai non fu cosí vero il detto che «lo stile è l’uomo». Come il suo io è il centro dell’universo, è il centro del suo stile. Il mondo che rappresenta non esiste per sé, ma per lui, e lo tratta e lo maneggia come cosa sua, con quel capriccio e con quella libertá che il Folengo tratta il mondo della sua immaginazione. Se non che, nel Folengo si sviluppa l’umore, perché il suo mondo è immaginario, e lo tratta senza alcuna serietá, solo per riderne; dove il mondo di Pietro è cosa reale, e ne ha una perfetta conoscenza, e lo tratta per sfruttarlo, per cavarne il suo utile. Perciò non rispetta il suo argomento, non si cala e non si obblia in esso; ma ne fa il suo istrumento, i suoi mezzi, anche a costo di profanarlo indegnamente. Tratta Gesú Cristo come un cavaliere errante. «Le menzogne poetiche — dice a proposito della Vergine — diventano evangeli allorché rivolgonsi a cantare di Colei che è rifugio delle speranze nostre.» Della sua Vita di santa Caterina scrive che «si sostien quasi tutta in sul dosso della invenzione;... perocché, oltre che ogni cosa che risulta in gloria di Dio è ammessa l’opera, che in se stessa è poca, sarebbe nulla senza l’aiuto che io le ho dato meditando».
Talora si secca per via, il cervello è vuoto, e ammassa aggettivi con uno sfoggio di pompa oratoria che rivela il ciarlatano:
Il facile, il religioso, il chiaro, il grazioso, il nobile, il fervido, il fedele, il verace, il soave, il buono, il salutifero, il sacro e il santo dire di Caterina, vergine, santa, sacra, salutifera, buona, soave, verace, fedele, fervida, nobile, graziosa, chiara, religiosa e facile, avea in modo sequestrati gli spiriti, ecc.
Sembra una campana che ti assorda, e ti turi le orecchie. Questo dicevasi «stile fiorito», e l’Aretino te ne regala quando non ha di meglio. Talora vuol pur dire, ma non ha vena e non sentimento, ed esce nelle piú sbardellate metafore e nelle sottigliezze piú assurde, massime ne’ suoi elogi, che gli erano cosí ben pagati:
Essendo i ineriti vostri — scrive al duca d’Urbino — le stelle del ciel della gloria, una di loro, quasi pianeta de l’ingegno mio, lo inclina a ritrarvi con lo stil delle parole la imagine de lo animo, accioché la vera faccia delle sue virtú, desiderata dal mondo, possa vedersi in ogni parte; ma il poter suo, avanzato da l’altezza del subietto, non ostante che sia mosso da cotale influsso, non può esprimere in che modo la bontá, la clemenza e la fortezza di pari concordia v’abbiano concesso per fatai decreto il vero nome di principe.
È un periodo alla boccaccevole, stiracchiato ne’ concetti e nella forma. Qui non ci è il «come viene viene», ma ci è il non voler venire e il farlo venire per forza. I suoi panegirici sono tutti rettorici, metaforici, miniati, falsamente pomposi, gonfiati sino all’assurdo, e sembrano quasi caricature ironiche sotto forma di omaggi. Il dir bene non era per lui cosa tanto facile quanto il dir male, dove spiega tutto il vigore della sua natura cinica e sarcastica. Assume un tuono enfatico e cerca peregrinitá di
concetti e di modi, un linguaggio prezioso composto tutto di perle, ma di perle false : preziositá passata in Francia con Voiture e Balzac e castigata da Molière, e che in Italia dovea divenire la fisonomia della nostra letteratura. Ecco alcune di queste perle false, messe in circolazione dall’Aretino:
[La vostra eloquenza] si move dal naturai de l’intelletto con tanta facundia, che si riman confusa nella maraviglia la lingua che le proferisce, i concetti e Torecchie che l’ascoltano...
...tórre a Solimano in servigio de la cristianitá l’animo da l’anima, l’anima dal corpo e il corpo da le armi...
... Mi dono a voi, padri dei vostri popoli, fratelli dei vostri servi, figliuoli de la veritá, amici de la vertu, compagni degli strani, sostegni de la religione, osservatori de la fede, esecutori de la giustizia, erari de la caritade e subietti de la clemenza...
...raccogliete l’affezione mia in un lembo de la vostra pietá...
... la faccia de la liberalitá ha per ispecchio il cuore di coloro a cui si porge...
La Vostra Eccellenza ricerca da me qualche ciancia per farne ventaglio del caldo grande che arde questi di...
Pescare coll’amo del pensiero nel lago della memoria...
L’onestá di taluno s’ indora col mordente de l’altrui favore...
Il conio dell’affezione stampa nel cuore il nome saldo degli amici...
Seppellir la speranza nell’urna de le bugiarde promesse.
Questo stile fiorito o prezioso è traversato a quando a quando da lampi di genio: paragoni originali, immagini splendide, concetti nuovi e arditi, pennellate incisive; e trovi pure, quando è abbandonato a sé e non cerca l’effetto, veritá di sentimento e di colorito, come in questa lettera, cosí commovente nella sua semplicitá:
Le calze turchine e d’oro, che io con una di voi ho ricevuto, mi hanno tanto fatto lagrimare quanto mi son piaciute, perché la giovane che dovea goderle, la mattina che elle giunsero, si unse con l’olio santo, né vi posso scrivere altro per la compassione che io ne ho.
La dissoluzione del meccanismo letterario è una forma di scrivere piu vicina al parlare, libera da ogni preconcetto e immediata espressione di quel di dentro; uno stile ora fiorito ora prezioso, che sono le due forme della declinazione dell’arte e delle lettere: ecco ciò che significa Pietro Aretino come scrittore. La sua influenza non fu piccola. Aveva attorno secretari, allievi e imitatori della sua maniera, come il Franco, il Dolce, il Landi, il Doni e altri mestieranti. «Io vivo di kirieleison» — scrive il Doni. — «I miei libri sono scritti prima di esser composti, e letti prima di esser stampati.» La sua Libreria si legge ancora oggi per un certo brio e per curiose notizie.
Ma Pietro ha ancora una certa importanza come scrittor di commedie. C’era un mondo comico convenzionale, la cui base era Plauto e Terenzio, con accessorii cavati dalla vita plebea e volgare di quel tempo. La base erano equivoci, riconoscimenti, viluppi di accidenti, che tenessero viva la curiositá. Intorno vi si schieravano caratteri divenuti convenzionali: il parassito. il servo ghiottone, la cortigiana, la serva furba e mezzana, il figliuolo prodigo, il padre avaro e burlato, il poltrone che fa il bravo, il sensale, l’usuraio. Lo studio de’ nostri comici è interessante, chi voglia conoscer bene addentro i misteri di quella corruttela italiana. Vedrá i legami di famiglia sciolti, e figli scioperati accoccarla a’ padri, zimbello essi medesimi di usurai, cortigiani e mezzani, tra le risa del rispettabile pubblico. Codesto mondo era la commedia, con sue forme fisse alla latina, sparsa di lazzi o di lubricitá. Il piú fecondo scrittor comico fu il Cecchi, morto il i587, che in meno di dieci giorni improvvisava commedie, farse, storie e rappresentazioni sacre. Ha il brio e la grazia fiorentina comune col Lasca, ma ha meno spirito e movimento, anzi talora ti par di stare in una morta gora. Il suo mondo e i suoi caratteri sono come un repertorio giá noto e fissato, e la furia gl’ impedisce di darvi il colore e la carne. Ti riesce non di rado scarno e paludoso. Pietro dá dentro in tutto questo meccanismo e lo disfá. Non riconosce regole e non tradizioni e non usi teatrali, a Non vi maravigliate — dice nel prologo della Cortigiana — se lo stil comico non si osserva con l’ordine che si richiede, perché si vive d’un’altra maniera a Roma che non si vivea in Atene.» Fra le regole c’era questa: che i personaggi non potevano comparire piú di cinque volte in iscena. Pietro se ne burla con molto spirito. «Se voi vedessi uscire i personaggi piú di cinque volte in iscena, non ve ne ridete, perché le catene, che tengono i ruolini sul fiume, non terrebbono i pazzi d’oggidí.» Mira all’effetto; tronca gl’ indugi, sgombra gl’intoppi; evita le preparazioni, gli episodi, le descrizioni, le concioni, i soliloqui spessi; cerca in tutto l’azione e il movimento, e ti gitta fin dal principio nel bel mezzo di quel suo mondo furfantesco vivamente particolareggiato. Non ha la sintesi del Machiavelli, quell’abbracciare con sicuro occhio un vasto insieme e legarlo e svilupparlo con fatalitá logica, come fosse un’argomentazione. Non è ingegno speculativo : è uomo d’azione, e lui stesso personaggio da commedia. Perciò non ti dá un’azione bene studiata e ordita come è la Mandragola: gli fugge l’insieme; il mondo gli si presenta a pezzi e a bocconi. Ma, come il Machiavelli, egli ha una profonda esperienza del cuore umano e grande conoscenza de’ caratteri, i quali si sviluppano ben rilevati e sporgenti tra la varietá degli accidenti, e dominano la scena, e generano invenzioni e situazioni piccanti. Come ci gode questo furfante fra tante bricconate che mette in iscena! Perché infine quel mondo comico è il suo mondo, quello dove ha fatto tante prove di malizia e di ciarlataneria. 11 concetto fondamentale è che il mondo è di chi se lo piglia, e perciò è de’ furbi e degli sfacciati, e guai agli sciocchi! Tocca ad essi il danno e le beffe, perché sono loro abbandonati alle risa del pubblico, sono loro la materia comica. L’Ipocrita è l’apoteosi di un furfante, che a furia d’intrighi e di malizia diviene ricco, proprio come l’Aretino. La Talanta è una cortigiana che l’accocca a tutti i suoi amanti, e finisce ricca, stimata e maritata a un suo antico e fedele amante, alla barba degli altri. Il «filosofo», mentre studia Platone e Aristotele, se la fa fare dalla moglie; e poi il buon uomo si riconcilia con essa. Nella Cortigiana messer Maco, che vuol divenire cardinale, e Parabolano, che in grazia delle sue ricchezze crede di avere a’ suoi piedi tutte le donne, sono per tutta la commedia zimbello di cortigiane, di mezzani e di furfanti. Il «marescalco o grande scudiere», per non far dispiacere al duca di Mantova, suo signore, consente a sposarsi con una donna che non ha mai visto, lui nemico delle donne e del matrimonio. Né questo è un mondo immaginario e subbiettivo, anzi è proprio quella societá li, co’ suoi costumi, egregiamente rappresentati nel piú fino e nel piú minuto. Pietro vi gavazza entro come nel suo elemento, lanciando satire, elogi, epigrammi, bricconerie e laidezze, con un brio e un ardore di movenze, come fossero fuochi artificiali. Alcuni caratteri sono rimasti celebri, e tutti sono vivi e veri. Il suo «marescalco» ha ispirato Rabelais e Shakespeare, ed è uno scherzo originalissimo. Il suo Parabolano è rimasto l’appellativo degli uomini fatui e vani. Messer Maco è il tipo da cui usciva il Pourceaugnac. Il suo «ipocrita» è un Tartufo innocuo e messo in buona luce. Il suo «filosofo», che egli chiama Plataristotile, è una caricatura de’ platonici di quel tempo. A sentirlo sentenziare, è savissimo; ma non ha pratica del mondo, e il servo la sa piú lunga di lui; e piú lunga del servo la sa Tessa, la moglie. Questo filosofo, a cui la moglie gliela fa sul naso, pronunzia sentenze bellissime sulle donne, mentre il servo, che sa tutto, gli fa la boccaccia :
Plataristotile. La femmina è guida del male e maestra de la scelleratezza.
Servo. Chi lo sa noi dica.
Plataristotile. Il petto della femmina è corroborato d’inganni.
Servo. Tristo per chi non la intende...
Plataristotile. ... Solo quella è casta che da nessuno è pregata.
Servo. Questo si ch’io stracredo...
Plataristotile. Chi sopporta la perfidia de la moglie impara a sofferire le ingiurie dei nemici.
Servo. Bella ricetta per chi è polmone.
E il servo conchiude: — «Vostra Saviezza pigli quel che vi potria intravvenire, in buona parte, e non si lasci tanto andar dietro agli speculamenti dottrineschi, che il diavolo non vi lasciasse poi andare pei canneti».
— «Tu parli da eloquente — risponde il filosofo; — ma non ci son per considerar sopra, per lo appetito della gloria che conseguisco filosofando».
Il suo Boccaccio è uno di quei merli capitati nelle unghie di una cortigiana e scorticati vivi. La sua serva tende l’imboscata:
Boccaccio. Che causa move la tua madonna a voler parlare a me, che son forestieri?
Lisa. Forse la grazia ch’è in voi; mafie si, ch’ella ci è or via.
Boccaccio. Tu ti diletti da ben dire.
Lisa. Mi venga la morte, se non ispasima di favellarvi.
Boccaccio. Chi è gentile il dimostra.
Lisa. Nel vederla metterete a monte le bellezze d’ogni altra... State saldo, fermatevi, e mirate il sole, la luna e la stella, che si levano lá su quell’uscio.
Boccaccio. Che brava appariscenzia!
Lisa. Il vostro giudizio ha garbo.
Boccaccio. Purch’io sia l’uom ch’ella cerca... I nomi alle volte si strantendono.
Lisa. Il vostro è si dolce che si appicca a le labbra. Eccola corrervi incontra a braccia aperte.
Le cortigiane sono il suo tema favorito. La sua Angelica è il tipo di tutte le altre, e la sua Nanna è la maestra del genere.
Questa è la commedia che poteva produrre quel secolo, l’ultimo atto del Decamerone: un mondo sfacciato e cinico, i cui protagonisti sono cortigiani e cortigiane, e il cui centro è la corte di Roma, segno a’ flagelli dell’uomo che nella sua ròcca di Venezia erasi assicurata l’impunitá.
Secondo una tradizione popolare molto espressiva, Pietro morí di soverchio ridere, come morí Margutte e come moriva l’Italia.
- ↑ Ecco alcune citazioni:
«Al Boccamazza..., in quel mentre che a me contava per uomo di pecunia abondante, feci vedere ventidue persone sin con i loro figliuoletti a le poppe, concorsi d’ improviso a mangiar Tossa del mio povero inchiostro; né mai giorno trapassa che, se non piú, almen tanti mi veggo intorno affamati...— Oh!— dite voi a me — e perché ispendere senza ritegno chi non ha piú che tanto? — Perché — rispondo io — i reali animi sono in la spesa isfrenati». — «Mangiando... l’altrieri non so che lepri squarciate dai cani, che mi mandò il capitan Giovan Tiepoli, mi piacquer tanto, che giudicai il «Gloria prima lepus» un detto degno di essere posto nel coro degli ippocriti per man dei lor digiuni in cambio del «silentium», che il cicalar fratino attacca dove si dá la pietanza. E mentre le lodi loro andavano coeli coelorum, ecco i tordi portatimi da un staffier vostro, i quali nel gustarli mi fecero biscantare lo «Inter aves». Essi sono stati tali, che il nostro messer Tiziano, nel vedergli nello spedone e nel sentirgli col naso,... piantò’ una frotta di gentiluomini che gli avevano fatto un desinare. E tutti insieme demmo gran laude agli uccelli dal becco lungo, che, lessi con un poco di carne secca, due foglie di lauro e alquanto di pepe, mangiammo e per amor vostro e perché ci piacevano, come piacquero a fra Mariano, al Moro dei nobili, al Proto da Luca, a Brandino e al vescovo di Troia gli ortolani, i beccafici», i fagiani, i pavoni e le lamprede, di che si empierono il ventre con il consenso delle lor anime cuoche e delle stelle pazze e ladre, che le infusero in quei corpacci... E beato colui che è pazzo, e nella pazzia sua compiace ad altri ed a se stesso.»